"Demon" - читать интересную книгу автора (Varley John)DOCUMENTARIOPiù o meno nel momento in cui, a Bellinzona, Conal il salvatore guidava alla carica la sua cavalleria, in Febe un angelo faceva visita a Cirocco Jones. Lei attendeva sul ciglio della rupe alta tre chilometri che delimitava gli altipiani settentrionali, osservando l'angelo avvicinarsi da sud. Alle spalle dell'essere alato si ergeva una scura montagna. Possedeva quattro distinte vette, ciascuna di altezza diversa. A Cirocco dava l'idea di una bottiglia rotta piantata in terra a collo in giù e attorniata da mucchietti di fango. Altri ci avevano visto un campanile diroccato, e Cirocco ammetteva trattarsi di una similitudine appropriata: c'erano persino i pipistrelli roteanti attorno. O per lo meno sembravano pipistrelli. La montagna distava venti chilometri. Per risultare visibili così da lungi, quei pipistrelli dovevano aver la stazza di aviogetti. Quel posto Cirocco lo conosceva bene. Vi aveva trascorso un po' di tempo, molti anni prima. E non era qualcosa che amasse ricordare. L'angelo le sfrecciò sopra, compì qualche evoluzione in cerchio perdendo quota, poi si librò sull'ondeggiare maestoso delle sue ali rifulgenti, evidentemente riluttante a posarsi su Febe. Cirocco sapeva bene quanto gravoso fosse per un angelo il volo statico, e non si perse in frasi inutili. — Kong? — gridò. — Morto. Due, trecento riv. — Gea? — Andata. Ci pensò un istante, quindi ringraziò agitando la mano. Lo guardò svanire in lontananza, poi sedette sull'orlo del precipizio. Si tolse gli stivali alti al ginocchio, leggiadri oggetti marroni di artigianato titanide, morbidi e impermeabili, li ripiegò in un compatto fagottino, li ripose nello zaino. Poi sistemò lo zaino in spalla, ne controllò le cinghie, diede un'occhiata ai pochi attrezzi che portava fissati alla cintura. Infine si volse, e incominciò a calarsi lungo la parete a picco del dirupo. Nessun essere umano, tranne un tuffatore delle scogliere di Acapulco, sarebbe stato in grado di precederla nel percorrere il fianco di quel precipizio. A piedi nudi e mani libere, ignorando la fune avvolta all'interno dello zaino, ella si muoveva giù per l'impervio versante semiverticale più rapidamente di quanto molti avrebbero potuto scendere una scala. E ci riusciva senza neppure dedicarvi molta attenzione. I suoi piedi e le sue mani sapevano già da sé che cosa fare. Ci aveva riflettuto, di tanto in tanto, allorché qualcuno le aveva fatto notare l'eccezionaiità di certe sue azioni. Si rendeva conto di non essere più del tutto umana. E sapeva anche d'essere ben lungi dal potersi definire sovrumana. Si trattava, essenzialmente, di veder le cose nella giusta prospettiva. Una parte del sistema consisteva nell'imparare da ogni avvenimento della propria esistenza, e in questo Cirocco era assai abile. La maggior parte dei suoi errori se li era lasciati alle spalle ormai da decine d'anni. Un'altra parte consisteva nel riconoscere i propri limiti, non importa quanto elevati. Un osservatore che avesse seguito la sua discesa lungo il dirupo, avrebbe pensato che quella donna aveva una fretta tremenda e stava correndo dei rischi pazzeschi. Ma, in realtà, lei sarebbe stata in grado di procedere molto più rapidamente. Cirocco dimostrava un'età compresa fra i trentacinque e i quarant'anni, ma dipendeva da che cosa si guardava. La pelle delle mani, del collo e del viso faceva propendere verso i trenta; le braccia robuste e le gambe da maratoneta parevano meno giovani, mentre i suoi occhi la dicevano ancora più anziana. Una donna difficile da giudicare, Cirocco Jones. Dava l'idea di essere molto forte, ma l'apparenza inganna. In effetti era molto più forte di quanto sembrava. Quando raggiunse i leggeri declivi alla base dell'altopiano roccioso si rimise gli stivali e incominciò a correre, non perché vi fosse particolare urgenza, ma solo perché non aveva alcun motivo d'indugiare e quella era la sua normale andatura. Percorse i venti chilometri in poco più di un riv. Avrebbe anche potuto impiegarci meno, ma aveva dovuto traversare tre fiumi a nuoto. Non le occorse molto per scalare la montagna di Kong. Si trattava solo di percorrere un pendio in costante ascesa sino a raggiungere la base delle multiple vette frastagliate, che non c'era poi bisogno di scalare. Un'ampia strada conduceva agevolmente alla tana di Kong. L'ultimo tratto lo affrontò lentamente. Non che non avesse fiducia nell'angelo. Se aveva detto che Kong era morto, così doveva essere. Ma l'odore di quel luogo le riportava sgradevoli ricordi. La roccia s'inarcò su di lei, e poco dopo l'oscurità avvolse il suo cammino. Due volte dovette aggirare sagome romboidali lunghe venti metri che giacevano nel mezzo del sentiero. Erano i "pipistrelli" che aveva visto in lontananza. Si trattava in realtà di una specie d'incrocio fra un rettile e un lumacone, creature pesanti dieci, dodici tonnellate. Con quelle loro ali da pterodattili conserte lungo il corpo, avrebbero potuto essere scambiati per tendoni da circo rovinati al suolo. A dire il vero non sembravano affatto vivi, eppure lo erano. Talvolta rimanevano in letargo per un intero miriariv. Onde spiccare il volo, strisciavano sul loro ventre di lumaca sino in cima a una delle guglie di Kong e di lassù si gettavano nel vuoto, continuando poi a librarsi per giorni interi. A quanto ne sapeva Cirocco, erano innocui. Non aveva mai capito di che cosa si nutrissero, e perché volassero. Sospettava però che fossero stati messi lì al solo scopo di contribuire a creare in quel luogo l'atmosfera adatta. Su Gea, un'ipotesi come quella risultava niente affatto irragionevole. Giunta alla fine della galleria, si sporse cautamente a guardare oltre l'orlo. Il pavimento della caverna si stendeva un centinaio di metri più in basso. Era una discreta ricostruzione della sala attraverso la quale un modellino in gomma di gorilla alto trenta centimetri si era mosso per fare il suo poderoso ingresso in un film degli anni Trenta. C'erano un lago poco profondo e diverse formazioni rocciose simili a stalattiti e stalagmiti… tutte quante molto più grandi di quel che le avrebbero potute fare i normali processi geologici durante i tre milioni d'anni dell'esistenza di Gea. Al pari di numerosi altri luoghi esistenti su Gea, si trattava di una messinscena realizzata nei minimi particolari. E ormai in rovina. Molte strutture rocciose giacevano divelte. Il lago era ridotto a una distesa di melma, le sue rive limacciose apparivano butterate d'impronte profonde tre metri. La poca acqua rimasta era una broda rossiccia. E immerso nei deboli, obliqui raggi di luce che filtravano dal soffitto a volta, ecco il divo dello spettacolo, il possente Kong, ottava meraviglia del mondo. Cirocco se lo ricordava in forma migliore. Adesso era disteso supino, attorniato da lillipuziani sciami di Fabbri Ferrai tutti affaccendati a smantellarlo. Affrontavano il compito con l'abituale precisione, rapidità ed efficienza. Attraverso il varco meridionale della montagna erano stati introdotti due binari. Cirocco sapeva che andavano a confluire in una funicolare stesa giù per il pendio, probabilmente innestata a un nuovo raccordo della ferrovia che traversava la Foresta Nera, collegata a sua volta con la linea principale Febe-Arge. Alla stazione di testa attendeva il convoglio, una supercromata vaporiera trainante venti carri-tramoggia normalmente usati per il trasporto dei minerali ferrosi estratti dalla Foresta Nera, e ora colmi di pezzi di Kong. I Fabbri Ferrai ci sapevano fare, con le ferrovie. Con un sacco di cose ci sapevano fare. Avevano già ridotto Kong a una testa, un torso, e parte di un braccio. Ossa gigantesche venivano affettate con strepitanti seghe a vapore. Raccapricciante, ma irresistibilmente affascinante. Cirocco aveva immaginato che dopo trecento riv, quasi due settimane, Kong dovesse appestare anche i cieli, col suo fetore. Non che in quel luogo non ci fosse cattivo odore: puzzava già gagliardamente ai vecchi tempi, rammentò, perché Kong non s'era mai neppure sognato di spalar fuori le tonnellate di letame che produceva ogni chiloriv. o anche solo di uscire a far due passi per liberarsi l'intestino all'aperto. Però non sembrava che il cadavere fosse in putrefazione. Il fatto la irritò. D'accordo, da nessuna parte stava scritto che dovesse decomporsi, ma quel bastardo avrebbe dovuto marcire. Eppure eccolo là, fatto ormai a pezzi fino all'altezza della sorprendentemente complessa cassa toracica, con un aspetto fresco e incorrotto come il giorno che l'avevano scannato. Le squadre di Fabbri Ferrai ne smembravano il corpo per mezzo di grandi coltelli affilatissimi fissati all'estremità di lunghe aste, staccandone tocchi di carne rosea che sollevavano quindi tramite ganci mossi da un motore ausiliario e un'alta gru a traliccio, simile a quelle che i boscaioli innalzano nel cuore delle foreste per movimentare i tronchi abbattuti. Tempo un ettoriv, non ne sarebbe rimasto nulla. Cirocco non avrebbe sentito la sua mancanza. Dubitava che qualcosa potesse mai indurla a rammaricarsi per la fine della grande, stupida bestia. Se qualcuno avesse pianto per lui, avrebbe augurato a quell'anima pietosa di poter trascorrere un anno di prigionia nella tana di Kong, a guardare il padrone di casa divorare vivi i titanidi. L'immensa testa giaceva rivolta verso Cirocco. Buffo davvero: Kong non aveva l'aspetto di un gorilla. La sua era una testa da scimpanzé, con tanto di labbroni ebeti e orecchie a sventola. Il raso pelame d'un marrone orangutan appariva incrostato di sudiciume. In cotale situazione, a parte la buona nuova del decesso, solo due cose le interessavano davvero. Chi l'aveva ucciso? E perché i Fabbri Ferrai avevano assicurato con spessi canapi l'unico braccio superstite? Udendo quel suono, Cirocco si volse lentamente, e scorse il piccolo bolex appollaiato, dieci metri più su, in una nicchia della roccia. L'aggeggio, ora cheto, occhieggiava in basso verso di lei. — Vieqquì, ciccì — cantilenò, e prese ad arrampicarglisi incontro. — Ovvia, bibi, vieni, che 'n ti faccio nulla… — Si esibì nell'intero repertorio di schiocchi e zufolìi che s'usano in genere per chiamare un cucciolo, ma il bolex indietreggiò squittendo addentro alla sua nicchia, la quale era più profonda di quanto Cirocco avesse creduto. Cercò di acchiapparlo sdilungando un braccio, ma l'altro si limitò a ritrarsi ancora. Preso atto dell'imprevista difficoltà, Cirocco tirò fuori il braccio e sostò un attimo a riflettere. Pensò di chiedere aiuto ai Fabbri Ferrai. Loro non ci avrebbero messo nulla a stanare quel bricconcello. Poi le venne un'idea migliore. Ricalò sulla cornice di roccia da cui s'era mossa e incominciò a danzare e cantare. Come cantante se la cavava in modo egregio, ma d'altra parte non avrebbe mai potuto impensierire Isadora Duncan. Però ci si mise d'impegno, facendo tanto di quel baccano che alcuni Fabbri Ferrai si distolsero un attimo dal lavoro… per subito rimettersi all'opera, limitandosi senza dubbio ad archiviare nelle loro fredde menti di latta quell'ulteriore manifestazione dell'indecifrabile comportamento umano. Dopo un poco ecco il bolex fare capolino. Cirocco danzò più veloce ancora. Scintillìo d'occhio vitreo di lassù. Lei si accorse che il bolex spasimava per un primo piano, e infatti non passò un minuto che lo vide venir giù ratto ratto con l'occhiobiettivo irremovibilmente puntato. Nessun bolex era mai stato capace di rinunziare a una scena d'azione. Quando fu giunto a portata di mano lo acchiappò. Il bolex, inerme com'era, dovette limitarsi a squittire la sua protesta. Ma continuò a riprendere. Cirocco sapeva che se il bolex era arrivato lì al seguito del Festival Pandemonio, doveva essere rimasto da un bel pezzo a corto di pellicola. E l'aiutoregista che portava sul dorso era senza dubbio morto. Lo tirò via (si attaccavano come sanguisughe, e da parecchio tempo erano divenuti nient'altro che contenitori di pellicola) e lasciò libero il bolex. Quello continuò a filmare indietreggiando, indietreggiando, evidentemente estasiato per la scena che stava riprendendo, finché non precipitò oltre il ciglio e andò a fracassarsi sulle rocce sottostanti. Cirocco estrasse un coltello e tagliò l'aiuto a metà. Dentro era assolutamente asciutto, e cinquecento metri di pellicola superotto se ne stavano avvolti attorno a una bobina fragile come una conchiglia. Ne svolse qualche metro tenendola controluce, e la osservò socchiudendo gli occhi. Naturalmente riusciva a cogliere pochi particolari, ma non ebbe alcuna difficoltà a individuare due figure in lotta. Una marrone e una bianca. Quella bianca era nuda, e femmina. Potevano sussistere pochi dubbi sulla sua identità. Doveva essere stato uno spettacolo grandioso, circostanza questa niente affatto sorprendente. Gea non era soggetta a molte limitazioni di bilancio. Cirocco riusciva a immaginare la scena: Kong, incontrastato sovrano di tutto quanto gli stava attorno, immobile in torpida perplessità mentre l'oscena compagnia si accampava, con forse appena un'occhiata guardinga a quella donna alta quindici metri. Kong era programmato per uccidere titanidi e maschi umani, e per catturare femmine umane. Ma Gea non aveva l'odore giusto. E nessuna delle stravaganti creature che facevano parte di Pandemonio aveva l'aspetto di cibo o di donzelle aspiranti prigioniere. Al di fuori delle sue indotte propensioni, Kong risultava fondamentalmente innocuo come un gattino. Egli era un gigante sciocco e infingardo. La maggiore difficoltà incontrata da Gea doveva essere probabilmente consistita nell'indurlo a battersi. Cirocco provò quasi un moto di solidarietà, nei confronti di Kong. — Gea ha ceduto a noi la carcassa. Si volse a fronteggiare il Fabbro Ferraio che era salito a raggiungerla sullo sperone di roccia. — Ottimo — commentò. — Allora è vostro. — Gea ha detto che potevi disporre di una percentuale, se capitavi da queste parti. Osservò il Fabbro attentamente. Dalla quantità di scintillanti rifiniture in metallo polito che ne variegavano il corpo, lo riconobbe per un pezzo grosso, piuttosto in alto nella gerarchia dell'alveare. Poteva vedere la propria immagine riflessa nel carapace placcato in cromo. Si trattava di un metallo raro, su Gea. I Fabbri Ferrai lavoravano ininterottamente ad asportare tutto quello che potevano estrarre da profondi pozzi scavati nella Foresta Nera di Febe. Per qualche tempo avevano intrattenuto un fiorente commercio in paraurti di auto d'epoca, interrotto poi dallo scoppio della guerra. Cirocco nutriva un atteggiamento di profonda ambivalenza, nei confronti dei Ferrai. Da un lato era praticamente impossibile amare creature che usavano mantenere in incubazione i loro nascituri nel corpo di bambini umani. D'altra parte, a differenza di moltissimi umani, lei non li odiava. Forse si poteva definirli "mostri", ma solo a patto di essere disposti a riconoscere che divorar braciole di vitelli e agnellini rendeva mostri gli umani a loro volta. E poi non costituivano affatto, per i cuccioli d'uomo, una minaccia pari a quella rappresentata invece dagli stessi genitori e dal prossimo in genere. Il furto di bambini era un'attività di minime proporzioni, a Bellinzona. I Fabbri Ferrai non rapivano mai nessuno; ciò che ottenevano lo pagavano subito e bene, e inoltre acquistavano in modeste quantità. Paragonati a qualsivoglia generale, da Cesare fino a quelli attualmente dediti a cambiare i connotati alla madre Terra, i Fabbri Ferrai erano dei santi. Si trattava comunque di creature raccapriccianti, la più aliena fra le razze senzienti di Gea. Il loro maggior pregio consisteva in un'assoluta affidabilità. — Per quale motivo dovrei avere diritto a una percentuale? — chiese Cirocco all'alto papavero. — A Gea non si domanda mai perché. — E invece dovreste provare, qualche volta. — Vana osservazione. Cirocco non sarebbe mai riuscita a suscitare in mezzo ai Ferrai un moto di rivolta. L'altro continuava a guardarla impassibile… ammesso che abbia senso parlare di vista in relazione a un essere sprovvisto d'un qualche riconoscibile apparato ottico. Quell'essere le ricordava un'illustrazione di un vecchio libro, qualcosa che riemergeva dalle ombre remote della sua infanzia. Il gufo di Winnie-the-Pooh. Era alto e cilindrico, con in cima piccole creste che avrebbero potuto essere orecchie. Vicino a terra il suo corpo di metallo si svasava in una specie di balza, dietro cui s'intravedevano strane appendici deambulatorie. La creatura disponeva di un'enorme quantità di braccia (Cirocco non era mai arrivata a sapere quante), corrispondenti ad altrettante nicchie cui si adattavano con la stessa infallibile precisione di una lama in un coltello a serramanico. — Come percentuale, accetterò un passaggio per tornare a Ofione. — Accordato. — L'essere si volse, e prese ad allontanarsi con l'andatura dondolante di un pinguino. — Ma che ne farete di lui? Il Fabbro Ferraio si fermò, rigirandosi a risponderle. — Troveremo come utilizzarlo. — Il che era un modo come un altro per replicare "fatti i fatti tuoi", pensò Cirocco. In un secolo di rapporti con quel popolo d'ingegneri e commercianti, aveva appreso assai poco, su di loro. Non sapeva neppure se da qualche parte, dentro i loro corpi di metallo, esistesse davvero qualcosa di assimilabile alla materia vivente. Per un certo periodo aveva supposto che quelli che si vedevano in giro fossero tutti robot, e che i veri Ferrai non abbandonassero mai la loro munitissima isola al centro del Mare di Febe. Sapeva per certo che quando un Fabbro Ferraio perdeva un braccio, non se lo faceva ricrescere, ma ne costruiva un altro e lo montava al posto di quello precedente. — Perché l'avete legato? Pausa di silenzio. Il dirigente si girò pian piano a guardare Kong, poi riportò la sua attenzione su Cirocco. Era divertito? Chissà perché, lei avvertiva proprio quella sensazione. — È ancora vivo. Cirocco diede uno sguardo, e sentì che i capelli le si rizzavano sulla nuca. Gli occhi di Kong si erano aperti. La stava guardando, la grande fronte profondamente aggrottata. L'unico braccio che gli rimaneva, interrotto al gomito, si era sollevato, tendendo il viluppo di funi. Gli occhi rotearono nelle orbite, e parve ch'egli stesse cercando di girare la testa, ma era troppo debole. Tornò a guardarla fissamente, scordandosi il problema del braccio immobilizzato. Curvò le labbra in un esitante sorriso da scimpanzé, che a lei parve quasi malinconico. Più tardi, sedendo in fondo al treno e guardando rimpicciolire in lontananza la montagna di Kong, Cirocco non poté fare a meno di porsi delle domande. Quando sarebbe morto? Li aveva veduti estrarre quello che doveva essere il suo cuore, e l'organo le era apparso totalmente immoto. Riflessi, allora? Come gli spasmi involontari che continuano a percorrere la zampa di una rana anche dopo che è stata recisa dal corpo? Ne dubitava. C'era stata consapevolezza, in quello sguardo. Gea costruiva per la durata. Non aveva progettato Kong perché fosse destinato a invecchiare, riprodursi… o morire. E così, solo quando quei bravi ragazzi gli avessero finalmente fatto a pezzi il cervello egli avrebbe potuto forse riposare in pace. O forse no. Si accorse di essere davvero dispiaciuta per lui. Cirocco giunse alla linea principale est-ovest nella zona in cui lambiva le coste settentrionali del Mare di Febe. Salì poi su un merci diretto a oriente, pensando che l'avrebbe portata fino al fiume Arge, ma scoprì che dal tempo della sua ultima visita, non più di sei chiloriv prima, i laboriosi Fabbri Ferrai avevano esteso la linea di altri cinquanta chilometri. Attualmente stavano lavorando alla stazione terminale. Senza dubbio avrebbero ben presto raggiunto Teti. C'era da chiedersi come se la sarebbero cavata con la sabbia. Anche per Cirocco, ovviamente, la sabbia sarebbe stata un problema, ma lei sapeva già come affrontarlo. Lasciandosi alle spalle i Ferrai e tutte le loro opere, partì di corsa in direzione dell'estremità nordorientale di Febe. Innanzi a sé, emergente in lontananza dalla curvatura di Gea, già vedeva delinearsi Teti, gialla, desolata e implacabile. Non cessò un attimo di correre, tranne quando le capitava d'imbattersi in vegetali particolarmente gustosi. Cirocco conosceva su Gea diecimila piante commestibili, oltre un migliaio di animali, e persino alcuni luoghi dove lo stesso terreno poteva essere mangiato. Esisteva un egual numero di piante velenose, alcune delle quali assai simili alle varietà innocue. Febe non era un territorio accogliente, ammesso che un luogo del genere esistesse ancora. Tuttavia, quando incominciò a sentire la stanchezza, Cirocco prese in considerazione l'opportunità di riposarsi prima d'intraprendere l'attraversamento di Teti. Era sveglia da quasi novanta riv, e gran parte di quel periodo l'aveva passato correndo. Scelse uno stagno profondo nella zona crepuscolare tra Febe e Teti. Si trattava d'un territorio montagnoso e roccioso, pieno di sorgenti e laghi azzurri dalle acque temperate. Guardandosi attorno individuò un giacimento di argilla turchina. Sedette e si tolse gli stivali, poi la camicetta, che infilò in una delle calzature, e i pantaloni, che stipò nell'altra. Tirò fuori dallo zaino un sottile rotolo di corda, poi vi ripose gli stivali insieme a una decina di chili di sassi, e lo richiuse ermeticamente. S'inginocchiò sull'argilla e incominciò a spremere e strizzare certe grandi foglie. La linfa vischiosa che ne stillava la incorporò nell'argilla, che ben presto si fece malleabile. Allora ci si rotolò in mezzo, se la spalmò frizionando accuratamente su ogni centimetro del corpo e tra i capelli. Quando si rialzò, aveva l'aspetto di un demone azzurro con gli occhi bianchi. Lo strato di fango era spesso circa tre millimetri, e si adattava ai suoi movimenti senza fessurarsi né sfaldarsi. Immerse la corda nello stagno, e quella incominciò a dilatarsi. Ne legò un'estremità a un cespuglio che cresceva sulla riva. Poi entrò nell'acqua e si lasciò affondare, svolgendosi dietro quella fune ch'era adesso divenuta un robusto condotto di respirazione. A neanche quattro metri di profondità la fievole luce della zona crepuscolare era scomparsa. Cirocco si scavò a tentoni una nicchia nel fondo melmoso, sistemandovisi supina e piazzandosi sullo stomaco lo zaino zavorrato. S'infilò in bocca l'altro capo del tubo e rallentò il respiro. Dopo un solo minuto d'induzione autoipnotica, dormiva profondamente. Tre ore di sonno le erano più che sufficienti. Aprì gli occhi nella fredda oscurità. Qualcosa le scivolò accanto; l'afferrò e la tenne stretta, poi si spinse verso la superficie. Interruppe la risalita appena prima di riemergere, scrutando in cerca d'eventuali pericoli all'esterno dell'acqua. Niente. Soddisfatta, si arrampicò fuori e guardò la sua preda. Un'anguilla degli altipiani, molto a sud rispetto al suo habitat normale. Pensò di accendere un fuoco, poi scartò l'idea, e ributtò l'animale nel laghetto. Una volta cotte, le anguille degli altipiani divenivano un ottimo cibo, ma a mangiarle crude risultavano amare e stoppacciose. Il fango azzurro venne via come una buccia gommosa. Era un coibente eccezionale. Nel corso della sua lunga esistenza, Cirocco aveva imparato molte cose. Una di esse consisteva nel rimanere a proprio agio il più possibile in ogni circostanza. E ciò voleva dire poter disporre di stivali asciutti anche se c'era da dormire sott'acqua. Aprì compiaciuta lo zaino e li tirò fuori. Era uno zaino straordinario, e quelli erano stivali altrettanto straordinari. Nella sua graduatoria delle cose essenziali, gli stivali asciutti precedevano di gran lunga il cibo, e venivano appena dopo l'acqua. Si rivestì, calzò gli stivali, e riprese la sua corsa. Nei limiti del possibile, Cirocco si teneva accuratamente lontana da Teti. Questa volta avrebbe dovuto attraversarne l'intero territorio. Si acquattò nell'estrema macchia di stentata boscaglia, impugnò il suo minuscolo binocolo e scrutò con attenzione il territorio antistante cercandovi tracce di fantasmi della sabbia. Non si aspettava di trovarli tanto a nord; l'umidità di condensazione proveniente dal fronte settentrionale, sebbene difficile da rilevare, ricopriva nondimeno il suolo, mortale per quegli esseri dal metabolismo siliceo. Ma Cirocco non era sopravvissuta sino allora solo facendo affidamento sulle proprie congetture. L'abitudine di viaggiare con ridottissimo bagaglio era ormai radicata in lei da una ventina d'anni. Almeno per altrettanto tempo aveva studiato l'arte di mimetizzarsi. Quando Dio guarda davvero dall'alto dei cieli, e cerca proprio te, pronto a uccidere, è fondamentale esser veloce sulle gambe e difficile da individuare. Il suo zaino conteneva dieci chili del minimo essenziale. Grazie agli oggetti in esso racchiusi, e alle conoscenze accumulate nel proprio cervello, lei poteva amalgamarsi con qualunque ambiente. Cirocco valutò che sulle sabbie avrebbe incontrato una temperatura di trentanove gradi. Nessun problema. Sapeva cosa fare. Si spogliò di nuovo, ripose gli abiti nello zaino, e incominciò a scavare alla base di uno di quei cespugli all'apparenza secchi. I rami inariditi costituivano la parte esterna e meno interessante della pianta. Servivano solo a disperdere nell'aria l'umidità superflua. Quando raggiunse le turgide radici, uno zampillo d'acqua scaturì a bagnarle i piedi nudi. S'inginocchiò, raccolse le mani a coppa, e bevve. Alcalina, ma corroborante. Da una delle radici recise con il coltello un'escrescenza, e la tagliò in due. Ne stillò una viscida linfa gialla, che Cirocco si strizzò fra le mani e prese poi a strofinarsi sul corpo. La sua pelle aveva quel colore che gli opuscoli turistici definiscono "bronzeo". Un bel colore davvero, ma di parecchie gradazioni troppo scuro per le sabbie di Teti. Continuò a strofinarsi finché non ebbe assunto l'adatta tinta giallobruna. La linfa odorava di ginepro. Era anche un buon medicamento per l'acne, virtù che su Cirocco risultava sprecata. Nello zaino c'erano fra l'altro una dozzina di fazzoletti multicolori. Ne scelse un paio provvisti dell'adeguata sfumatura, richiuse lo zaino, e se ne avvolse uno attorno alla sua nera chioma, mentre con l'altro coprì lo stesso zaino. Ciò fatto, era divenuta pressoché invisibile. Discese a piedi nudi giù per l'ultimo affioramento roccioso di Febe, immergendosi fra le dune ondulate. E poi di corsa. Duecento chilometri dopo, già oltre la metà di Teti, vide qualcuno. Agì come prudenza consigliava: scavò nella sabbia affondandovi sino a ricoprirsene quasi totalmente, simile a una pastinaca rimpiattata sul fondo oceanico, e attese. Era abbastanza certa di chi doveva trattarsi. Si sentì come al solito venire la pelle d'oca, poi la sensazione scomparve. Pensò che forse stava impazzendo. Gaby era morta un centinaio di chilometri a sud di quella zona, vent'anni prima. Decise di reagire, e si rialzò. Un manto di sabbia l'avvolgeva. Il sudore che tanto efficacemente l'aveva raffreddata durante la corsa, e che adesso l'inzuppava, prese a ruscellarle indosso, tracciandole lungo il corpo lucide striature. Gaby scintillava frammezzo al caliginoso alone che la vampa spietata le suscitava attorno, scendendo lungo il fianco anteriore di una duna distante quattrocento metri. Era nuda, come sempre quando appariva a Cirocco. E perché no? Per quale motivo uno spettro dovrebbe entrare vestito nel mondo degli spiriti? Si presentava di color bianco latte. Ciò aveva inizialmente turbato Cirocco, perché le dava l'impressione che l'amica fosse rimasta dissanguata. Poi le era tornato in mente che Gaby aveva sempre avuto un incarnato pallido, prima dell'arrivo su Gea. Lei e Cirocco erano state le uniche persone abbronzate, in quel mondo di fievole luce solare. Poi Gaby era morta. E, al momento del trapasso, la pelle del suo povero corpo ustionato doveva essere apparsa quasi nera, sebbene Cirocco non l'avesse veduta e sempre si fosse ben guardata dal chiedere a chi le era stato accanto. — Sei al sicuro! — gridò Gaby continuando ad avvicinarsi. — Grazie! Fin quando? — Per tutto Teti. Cirocco attese mentre Gaby scompariva dietro l'ultima duna, risalendone quindi il fianco posteriore. La vide sostare un momento sulla cima, poi discendere. I suoi piedi imprimevano nella sabbia tracce profonde. Era tremendamente bella. Cirocco si udì singhiozzare. Cadde in ginocchio, poi a sedere sulle caviglie. Curvò le spalle stancamente. Giunta a cinquanta metri, Gaby si fermò. Cirocco non poteva parlare; aveva la gola chiusa, e un respiro pesante le opprimeva il petto. — Stanno tutti bene? — riuscì finalmente a dire. — Sì — rispose Gaby. — Conal li ha trovati. Gli ha salvato la vita. — Lo sapevo che quel ragazzo si sarebbe reso utile. Dove li sta portando? — Dove vai anche tu. Ci arriverai prima di loro. — Bene. — Rovistò fra i suoi pensieri, incontrando argomenti proibiti. — Ma… c'è… sono… — Sì, entrano ancora nel piano. In parte. — Il piano per cosa? — Ora non posso dirtelo. Hai ancora fiducia in me? — Sì. — Senza esitazioni. C'erano stati momenti difficili, ma… — Sì, ho fiducia. — Bene. Volevo… — Gaby, ti amo. L'immagine cominciò a vacillare. Cirocco proruppe in un alto lamento, subito soffocato mordendosi le dita. Attraverso il corpo di Gaby, vedeva la duna. — Anch'io ti amo, Rocky. O adesso devo chiamarti Capitano? — Chiamami come preferisci. — Non posso trattenermi. Gea è in Iperione. Si sposta a occidente. — Ma non andrà in Oceano. — No. …Ma poi chissà dov'era, chissà se c'era Gaby, quella piccola donna fatta di nulla… null'altro che una sagoma impalpabile, un desiderio, un'allucinazione… un'assenza. Cirocco se ne rimase lì seduta per quasi un riv a raccattare i frammenti del suo cuore, e a fissare le impronte lasciate da Gaby sulla duna. Alla fine, come già in passato, non osò avvicinarsi a toccarle. La terrorizzava il pensiero di poter scoprire che esse non esistevano affatto. Lo strato di ghiaccio esteso sulla parte settentrionale di Tea iniziava nella zona crepuscolare e s'incurvava verso sud e verso est. Cirocco lo costeggiò in corsa, godendosi l'alito freddo che ne emanava. Attraversare Tea a nord era fuori discussione. Non che le montagne fossero invalicabili — a esperienza di Cirocco, nulla esisteva d'invalicabile; e quelle montagne le aveva già varcate una volta impiegandoci due chiloriv — ma le mancava il tempo. La via più rapida per superare Tea passava sulle acque ghiacciate dell'Ofione, che dirigeva il suo corso in mezzo alla regione dell'eterna notte. Quando fece sosta, affondava già nella neve sino al ginocchio, ed era ancora nuda. Fu per lei questione di pochi attimi aprire lo zaino, rovesciare abiti e stivali in modo che mostrassero il lato bianco, e mimetizzare zaino e capelli con due fazzoletti bianchi. Riprese a correre, ma a un certo punto si sentì di nuovo stanca. Avere così presto necessità di dormire era chiaro sintomo che stava abusando delle proprie forze. Ne prese mentalmente nota, poi si cercò un rifugio sicuro. Aveva esigenze spartane. Scavò una buca in un cumulo di neve, ci strisciò dentro e riabbarcò la neve dietro di sé. Mentre si addormentava, le venne in mente che circa cinquanta chilometri più innanzi c'èra il luogo dove una certa Robin della Congrega, esausta, spaventata e inconsapevole del pericolo, si era abbandonata sulla bianca coltre, risvegliandosi con in corpo una brutta polmonite. Robin era quasi morta, in Tea. Cirocco si limitò a dormire tranquillamente. Tre ore dopo si svegliò, si scrollò la neve di dosso, e riprese a correre. Percorse seicento chilometri e giunse quasi a traversare Meti, prima di avvertire il bisogno di dormire. C'era su Gea chi non l'avrebbe creduto, ma Cirocco Jones — della quale si diceva che fosse capace di farsi ricrescere una gamba amputata, di trasformarsi in serpente, avvoltoio, ghepardo e squalo, di lottare con una dozzina di titanidi alla volta, nonché di attraversare inosservata una stanza vivamente illuminata — aveva anche lei le sue limitazioni. Erano storie piene di esagerazioni. Certo, possedeva sul serio alcuni poteri sovrumani, poteva davvero ammaliare la gente al punto da far passare inavvertita la propria presenza, e quando settant'anni prima aveva perduto il piede sinistro, era davvero riuscita a farselo ricrescere… ma dubitava di poter fare altrettanto con un'intera gamba. E poi non era in grado di rimanere sempre sveglia come i titanidi. A pensarci bene, il sonno rappresentava proprio un'orribile necessità. Rimanere inermi, starsene a giacere come se niente fosse mentre un essere assetato di sangue ti si avvicinava furtivamente… Si trovava nella parte meridionale di Meti, la regione a valle del gran mare di Poseidone, oltre la palude chiamata Sterope che di Meti costituiva la principale caratteristica. Là il terreno ospitava una savana: pianeggiante, ricco d'erba, costellato d'alberi strapazzati dal vento. In Africa, grandi gatti se ne sarebbero stati appollaiati sugli alberi; o così per lo meno Cirocco aveva sempre immaginato che fosse, ma c'è da dire che l'Africa, lei, la conosceva poco. Su Gea, però, gli alberi erano di un bel colore rosso acceso e senza foglie. Assomigliavano a raffigurazioni del sistema circolatorio, col gran tronco centrale diramantesi in migliaia di capillari sempre più sottili. Cirocco decise di dormire come un gatto sopra uno di quegli alberi. Si spogliò ancora una volta, e avvolse lo zaino in un fazzoletto rosso. Praticò per mezzo del coltello alcune profonde incisioni nel tronco di un albero. Cominciò a colarne una linfa rossa. Se la spalmò sulla pelle, trasformandosi pian piano in una donna purpurea. Quando si fu colorata dalla testa ai piedi si arrampicò sull'albero, spingendosi lungo un ramo orizzontale a trenta metri dal suolo. Vi si distese prona, agganciando i piedi superiormente e lasciando le ginocchia libere di scendere sui lati, improvvisò un cuscino a mani intrecciate e vi appoggiò la testa. Dopo un attimo già dormiva. Giunta in Dione, rallentò finalmente la sua corsa. Là era al sicuro… da Gea, se non dagli umani. Passò a sud del lungo lago conosciuto col nome di Iride, superò una zona montagnosa e attraversò la foresta circostante il lago Eris, per giungere infine al fiume Briareo, uno dei più estesi corsi d'acqua di Gea. A un gomito del fiume, più di cento chilometri a sud del lago Moira, della baia Piperita e della città di Bellinzona, incontrò una casalbero che avrebbe fatto crepare d'invidia la famiglia Robinson. Essa era costruita fra le accoglienti braccia di un albero della stessa specie di quello che in Iperione ospitava Titantown. Sebbene quanto a dimensioni ne fosse appena la centesima parte, l'albero dominava quel tratto di foresta come una cattedrale domina i tetti di una cittadina europea. Il corpo principale dell'edificio si sviluppava su un'altezza di tre piani. Parte di esso era costruita in mattoni rossi o rivestita in pietra. Le finestre avevano pannelli di vetro scorrevoli e tendine multicolori. Altre strutture tutte diverse fra loro si annidavano disseminate fra i rami a vari livelli. C'erano alveari di paglia dai tetti a punta, un gazebo riccamente decorato, qualcosa che sembrava ispirato alle cupole a cipolla del Kremlino. Tutte le costruzioni risultavano interconnesse da ampi sentieri provvisti di parapetti e poggiati sui rami, o da ponti sospesi su funi. L'albero cresceva dalla nuda roccia, circondato su tre lati da impetuosi corsi d'acqua e lambito sul quarto da un profondo laghetto. Cinquanta metri a monte scrosciava una cascata alta dieci metri. Cirocco percorse il ponte principale, che reagì al suo passaggio oscillando leggermente. Ricordava però d'averlo visto ballonzolare follemente sotto il peso di una dozzina di titanidi. Giunta a un'ampia veranda coperta con vista sul lago, si fermò come d'abitudine a togliersi gli stivali, che poggiò fuori della porta d'ingresso. La porta non era chiusa a chiave. Entrò, già consapevole — ma non avrebbe saputo spiegarne il motivo — che in casa non c'era nessuno. In soggiorno trovò fresco e penombra. Attraverso la finestra le giungeva il chiacchiericcio d'acque trascorrenti. Un suono che dava sollievo. Cirocco sentì la tensione dileguare. Si tolse la camicetta, che in certi punti le si era tenacemente appiccicata alla pelle. Quando si sfilò i calzoni deponendoli sul pavimento, quelli rimasero rigidi come se li avesse avuti ancora indosso. Non riusciva più a sentire il proprio odore, ma concluse che doveva essere spaventoso, a giudicare da com'erano incrostati i pantaloni. Bisognerà che faccia un bagno, pensò. E, così riflettendo, si lasciò cadere su un basso divano, addormentandosi all'istante. Si tirò su a sedere e si stropicciò gli occhi con le nocche. Sbadigliò sino a far scrocchiare la mascella, poi fiutò a naso l'aria. C'era odore di pancetta fritta. Ai suoi piedi vide i vestiti, lavati e ordinatamente ripiegati. Accanto a essi attendevano una tazza fumante di caffè nero e una gigantesca orchidea gialla. L'orchidea stava annusando il caffè. Poi alzò la testa… Si trattava di uno scoiattolo eremita, un mammifero bipede provvisto d'una lunga e folta coda che aveva l'abitudine d'installarsi nelle conchiglie vuote delle chiocciole geane, trasformandole in casemobili. L'orchidea faceva parte della conchiglia. Quando Cirocco allungò una mano a prendere il caffè, la creatura si ritrasse fulminea all'interno sbattendole la porta in faccia. Cirocco si alzò, e sorseggiando il caffè traversò la sala della musica, dove un centinaio di strumenti stavano appesi alle pareti o riposavano su appositi supporti, e poi la sala per gli esercizi vocali, con le sue cabine insonorizzate. La stanza successiva era la cucina. In piedi davanti alla stufa, intento a punzecchiare la pancetta sfrigolante, svettava un uomo alto più di due metri. Non indossava abiti, ma era forse l'unico umano di Gea che proprio non ne avesse bisogno. Egli non dava mai l'impressione di essere nudo. Cirocco poggiò sul tavolo la tazza vuota e lo abbracciò da dietro. Non gli arrivava più al collo, e allora in cambio gli schioccò un bacio sull'ampia schiena. — Ciao, Chris — lo salutò. — Giorno. Capitano. Colazione pronta fra un minuto. Già in piedi? — Svegliata ora. — Prima la doccia o la pappa? — Pappa, poi doccia. Chris annuì, quindi si avvicinò alla finestra. — Vieni. Voglio mostrarti qualcosa. Andò da lui, cercando di tenersi pronta a ogni evenienza. Si sporse a guardar fuori della finestra. — Che c'è? Vedo solo acqua. — Appunto. — La sollevò e la buttò fuori della finestra. Lei strillò durante tutto il suo volo a capofitto, e colpì l'acqua con un tonfo spettacolare. Lui aspettò di veder riaffiorare la testa. Quando Cirocco riemerse sputacchiando, le gridò: — Ci vediamo fra cinque minuti! Poi, continuando a sogghignare, tornò alla stufa, e ruppe dieci uova dal guscio verdognolo sulla pancetta rosolata. |
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