"Le fontane del Paradiso" - читать интересную книгу автора (Clarke Arthur C.)

7 Il palazzo del Dio-Re

 Vannevar Morgan non aveva dormito bene, il che era terribilmente insolito. Era molto orgoglioso del suo grado d'autocoscienza, della capacità di comprendere i propri impulsi ed emozioni. Se non riusciva a dormire, voleva scoprire perché.

Gradualmente, mentre osservava le primissime luci dell'alba riflettersi sul soffitto della camera e udiva le voci scampanellanti di uccelli sconosciuti, cominciò a riordinare i pensieri. Non sarebbe mai diventato ingegnere capo alla Terran Construction se non avesse pianificato la propria vita in maniera da evitare sorprese. Nessuno può essere immune ai colpi della fortuna e del fato, ma lui aveva compiuto tutti i passi necessari per salvaguardare la sua carriera e, soprattutto, la sua reputazione. Il suo futuro era a prova di bomba nei limiti delle sue possibilità. Se anche fosse morto all'improvviso, i programmi inseriti nella memoria del suo computer avrebbero protetto oltre la tomba il sogno che amava tanto.

Fino a ieri non aveva mai sentito parlare di Yakkagala; anzi, fino a poche settimane prima era solo vagamente conscio dell'esistenza di Taprobane, e poi la logica della sua ricerca lo aveva inesorabilmente indirizzato a quell'isola. A quell'ora avrebbe già dovuto essere ripartito, e invece la sua missione non era ancora iniziata. Quel lieve spostamento di programmi non lo preoccupava; quello che lo tormentava sul serio era la sensazione di essere mosso da forze al di là della sua comprensione. Eppure quel senso di meraviglia aveva echi familiari. Lo aveva già sperimentato quando, da bambino, aveva fatto volare l'aquilone nel parco Kiribilli, a fianco dei monoliti di granito che un tempo erano i piloni del ponte del porto di Sydney, demolito da anni.

Quelle torri gemelle avevano dominato la sua infanzia e controllato il suo destino. Forse sarebbe diventato comunque ingegnere; ma il fatto di essere nato lì lo aveva spinto a costruire ponti. E così lui era stato il primo uomo a passare dal Marocco alla Spagna, sospeso a tre chilometri sulle acque agitate del Mediterraneo; senza nemmeno sognare, in quel momento di trionfo, la sua sfida ancora più stupenda che lo attendeva.

Se riusciva nel compito che stava per affrontare, sarebbe rimasto famoso nei secoli. Già il suo cervello, la sua forza e la sua volontà erano tesi al massimo; non aveva tempo per distrazioni sciocche. Eppure era rimasto affascinato dal lavoro di un ingegnere-architetto morto da duemila anni, figlio di una cultura del tutto estranea. E poi c'era il mistero di Kalidas: che scopo aveva la costruzione di Yakkagala? Forse quel re era un mostro, ma nella sua personalità c'era qualcosa che entrava in sintonia coi recessi segreti del cuore di Morgan.

Il sole si sarebbe levato entro venti minuti. Mancavano ancora due ore alla colazione con l'ambasciatore Rajasinghe. Il tempo era sufficiente, e poteva darsi che non gli si presentassero altre possibilità.

Morgan non era tipo da perdere tempo. In meno di un minuto infilò calzoni e maglione, ma ci volle parecchio di più per il minuzioso controllo delle calzature. Anche se da anni non compiva più scalate impegnative, portava sempre con sé un paio di scarponi robusti e leggeri. Con la sua professione, li aveva spesso trovati indispensabili. Aveva già chiuso la porta della stanza quando fu colpito da un pensiero improvviso. Per un attimo rimase, esitante, in corridoio; poi sorrise e scrollò le spalle. Male non poteva farne, e non si sapeva mai…

Tornato nella stanza, Morgan aprì la valigia e tirò fuori una scatoletta piatta, della forma e delle dimensioni di un calcolatore tascabile. Controllò che le batterie fossero cariche, provò il meccanismo di comando manuale, poi l'allacciò alla fibbia in acciaio della sua robusta cintura sintetica. Adesso era davvero pronto a entrare nel regno maledetto di Kalidas e ad affrontare i demoni che vi abitavano.

Il sole si alzò, scaldandogli dolcemente la schiena. Morgan superò l'apertura del bastione massiccio che formava la difesa più esterna della fortezza. Davanti a lui, solcate da uno stretto ponte di pietra, si stendevano le acque immobili del grande fossato che correva, perfettamente rettilineo, per mezzo chilometro su ogni lato. Un gruppetto di cigni si avvicinò speranzoso nuotando tra le ninfee, e si disperse arruffando le penne quando fu chiaro che lui non aveva cibo da offrire. Dall'altro lato del ponte arrivò a un secondo muro, più basso, e salì la stretta scalinata che lo attraversava. Si trovò dinanzi ai Giardini del Piacere, sopra i quali si stendeva la parete liscia della Montagna.

Le fontane disposte lungo l'asse dei giardini lasciavano ricadere e salire l'acqua all'unisono, in un ritmo languido, come se stessero respirando tutte assieme. In giro non c'erano altri esseri umani; Yakkagala era tutta sua. La città-fortezza non doveva essere stata più deserta nemmeno nei millesettecento anni in cui la foresta l'aveva invasa, fra la morte di Kalidas e la sua riscoperta a opera degli archeologi del diciannovesimo secolo.

Morgan oltrepassò la linea di fontane, e qualche spruzzo gli arrivò addosso. Si fermò ad ammirare il condotto di pietra riccamente scolpito, senza dubbio d'epoca, in cui defluiva l'acqua in eccesso. Si chiese come avessero fatto gli esperti d'idraulica di un tempo così lontano a sollevare l'acqua che alimentava le fontane, e quali differenze di pressione fossero in grado di creare. Quei getti potenti, verticali, dovevano essere parsi terribilmente stupefacenti ai primi spettatori.

E ora aveva davanti una scalinata di granito, dagli scalini così stretti che i suoi scarponi vi entravano a stento. Morgan si chiese se gli uomini che avevano costruito quel posto straordinario avessero piedi così piccoli. Oppure si trattava di un'astuzia dell'architetto per scoraggiare i visitatori animati da cattive intenzioni? Certo non sarebbe stato molto facile, per dei soldati, caricare su quella salita inclinata a sessanta gradi, su scalini che parevano costruiti a misura di nano.

Una piccola piattaforma, poi un'altra scalinata identica alla precedente, e Morgan si trovò in una galleria lunga, in leggera salita, scavata nella parte più bassa della Montagna. Adesso era a più di cinquanta metri al di sopra della pianura sottostante, ma la visuale era completamente bloccata da un muro ricoperto di gesso giallo e liscio. La Montagna sopra di lui sporgeva talmente in fuori che gli sembrava quasi di camminare in un tunnel. Era visibile solo una minuscola fetta di cielo.

Il gesso sulla parete sembrava nuovissimo e intatto. Era quasi impossibile credere che i muratori avessero abbandonato il lavoro duemila anni prima. Qui e là, però, la superficie tersa e liscia come uno specchio era sfregiata da messaggi incisi da visitatori che avevano cercato, come al solito, di ottenere l'immortalità. Pochissime iscrizioni appartenevano ad alfabeti che Morgan era in grado di riconoscere, e la data più recente che vide era il 1931; in seguito, presumibilmente, il Dipartimento di Archeologia era intervenuto a prevenire simili vandalismi. La maggior parte dei graffiti erano in taprobani, tracciati a lettere rotonde e fiorite. Morgan ricordava, dallo spettacolo della sera prima, che molte iscrizioni erano poemi, risalenti al secondo e terzo secolo. Dopo la morte di Kalidas, per un breve periodo Yakkagala era diventata un'attrazione turistica, grazie alla leggenda ancora viva del re maledetto.

A metà della galleria Morgan raggiunse la parte chiusa dell'ascensore che portava ai celebri affreschi, venti metri sopra di lui. Piegò la testa per vederli, ma erano nascosti dalla piattaforma panoramica per turisti che pendeva, come un nido d'uccelli, dalla sporgenza della Montagna. Alcuni turisti, gli aveva raccontato Rajasinghe, davano un'occhiata alla pazzesca posizione degli affreschi e decidevano che era meglio accontentarsi delle fotografie.

Adesso, per la prima volta, Morgan poteva apprezzare uno dei misteri maggiori di Yakkagala. Non si trattava di capire "come" fossero stati dipinti gli affreschi (per risolvere il problema era sufficiente un'impalcatura di bambù), ma "perché". Una volta finiti, nessuno avrebbe potuto ammirarli nella loro completezza: dalla galleria che correva sotto se ne vedeva solo una minima parte; e dalla base della Montagna sarebbero stati solo leggere macchie di colore, irriconoscibili. Forse, come aveva suggerito qualcuno, avevano solo un significato religioso o magico, come quei dipinti dell'età della pietra scoperti nelle profondità di caverne quasi inaccessibili.

Per gli affreschi bisognava attendere che arrivasse il guardiano ad aprire l'ascensore. C'erano moltissime altre cose da vedere: si trovava appena a un terzo del cammino che portava alla cima, e la galleria scavata nella parete della Montagna continuava a salire.

Il muro alto, coperto di gesso giallo, fu sostituito da un parapetto basso, e Morgan riuscì di nuovo a scorgere la campagna attorno. Sotto di lui si stendevano i Giardini del Piacere, e per la prima volta poté apprezzarne non solo le dimensioni notevolissime (Versailles era più grande?) ma anche l'ingegnosa topografia, e capire con quanta intelligenza fossero stati studiati il fossato e i bastioni che li proteggevano dalla foresta.

Nessuno sapeva quali alberi e arbusti e fiori crescessero lì ai tempi di Kalidas, ma la disposizione dei laghi artificiali, dei canali, dei sentieri e delle fontane era esattamente la stessa. Ammirando i getti d'acqua che danzavano sotto di lui, Morgan ricordò all'improvviso una frase udita durante lo spettacolo della sera precedente:

"Da Taprobane al Paradiso corrono quaranta leghe. Lì si può udire il suono delle fontane del paradiso."

Assaporò quella frase dentro di sé: le "fontane del paradiso". Kalidas aveva cercato di costruire, qui sulla terra, un giardino degno degli dèi, per poter sostenere la propria divinità? Se le cose stavano così, non c'era da meravigliarsi che i monaci lo avessero accusato di empietà e avessero maledetto la sua opera.

La lunga galleria, che occupava l'intera facciata ovest della Montagna, terminava in un'altra scalinata che saliva ripida, però questa volta gli scalini erano di dimensioni molto più generose. Il palazzo, comunque, era ancora irraggiungibile: la scalinata finiva su un'ampia spianata senza dubbio artificiale. Lì si trovava tutto quello che rimaneva del gigantesco mostro leonino che un tempo dominava l'intero paesaggio, e ispirava terrore ai cuori di tutti quelli che lo guardavano. Perché dalla faccia della montagna si protendevano le zampe di un animale gigantesco, acquattato; solo gli artigli erano alti la metà d'un uomo.

Non ne restava nient'altro, tranne una scalinata di granito che si alzava dal cumulo di pietrisco che un tempo doveva formare la testa della creatura. Bastavano quelle rovine a ispirare un senso di timore reverenziale: chiunque avesse osato raggiungere il palazzo del re doveva passare tra le mascelle spalancate.

L'ultima salita lungo la facciata perpendicolare (anzi, leggermente inclinata in avanti) della Montagna si compiva lungo una serie di scalini di ferro, protetti da un parapetto per rassicurare i turisti più nervosi. Ma Morgan era stato avvertito che il vero pericolo, lì, erano le vertigini. Sciami di vespe normalmente tranquille occupavano piccole cavità nella roccia, e a volte visitatori troppo rumorosi le avevano disturbate, con conseguenze fatali.

Duemila anni prima, quella parete di Yakkagala, la parete nord, era ricoperta di fortificazioni e bastioni che creavano l'ambiente adatto per la sfinge, e dietro quei muri dovevano trovarsi scale che conducevano senza problemi alla cima. Ora i secoli, le intemperie e la mano vendicatrice dell'uomo avevano cancellato tutto. C'era solo la nuda roccia, solcata da miriadi di scanalature orrizzontali e di strette prominenze che un tempo costituivano la base delle costruzioni scomparse.

La salita terminò all'improvviso. Morgan si trovò su un'isoletta sospesa a duecento metri d'altezza su un paesaggio di alberi e campi, pianeggiante in ogni direzione tranne che a sud, dove la catena centrale di montagne tagliava l'orizzonte. Era completamente isolato dal resto del mondo, eppure si sentiva padrone di tutto quello che vedeva. Era da quando veleggiava fra le nubi sospese tra l'Europa e l'Africa che non provava un'estasi aerea così intensa. Sì, quella doveva essere la residenza di un Dio-Re, e le rovine del palazzo gli stavano attorno.

Uno strano labirinto di mura infrante, non più alte di un metro, mucchi di mattoni scoloriti e sentieri pavimentati in granito coprivano l'intera superficie della spianata, fino al precipizio che la chiudeva. Morgan vide anche una grande cisterna incassata a fondo nella roccia, probabilmente un serbatoio per l'acqua. Dando per scontata la disponibilità di approvvigionamenti, un pugno di uomini coraggiosi poteva difendere quel posto all'infinito; ma se Kalidas aveva davvero voluto costruire una fortezza, non l'aveva mai messa alla prova. Il suo ultimo incontro col fratello si era svolto ben oltre i bastioni esterni.

Quasi dimentico dello scorrere del tempo, Morgan passeggiò tra le fondamenta del palazzo che anticamente dominava la Montagna. Cercò, da quello che sopravviveva del suo lavoro, di entrare nella mente dell'architetto: perché c'era una sentiero lì? Quella scalinata interrotta conduceva a un altro piano? Se quella nicchia a forma di bara nella roccia era una vasca da bagno, come faceva l'acqua a entrare e a uscire? La ricerca era talmente affascinante che non si accorgeva nemmeno del sole sempre più caldo, sospeso in un cielo senza nubi.

Sotto di lui, il paesaggio verde smeraldo tornava in vita. Come scarabei dai colori sgargianti, uno sciame di piccoli robotrattori si dirigeva verso le risaie. Per quanto potesse sembrare incredibile, un elefante stava riportando sulla strada un autobus che doveva essersi rovesciato affrontando una curva a velocità troppo alta. Morgan udiva la voce squillante del suo portatore, piegato sopra le orecchie enormi. E un rivolo di turisti, che parevano formiche guerriere, stava scorrendo attraverso i Giardini del Piacere; provenivano tutti dalla direzione dell'hotel Yakkagala. Tra un po' non avrebbe potuto più godersi quella solitudine.

Comunque, grosso modo aveva finito di esplorare le rovine; anche se si poteva passare un'intera vita a studiarle nei dettagli. Non gli dispiaceva affatto riposarsi un poco, su una panchina di granito riccamente istoriata che sorgeva proprio sull'orlo del precipizio di duecento metri. Da lì poteva scrutare tutta la parte sud dell'orizzonte.

Morgan lasciò vagare gli occhi lungo le montagne lontane, nascoste, in parte, da una foschia bluastra che il sole non aveva ancora disperso. Osservandola pigramente, si accorse all'improvviso che non si trattava affatto di formazioni nuvolose. Quel cono di foschia non era il risultato effimero di venti e vapori. La sua simmetria perfetta, alta sopra le montagne più basse, era inconfondibile.

Per un attimo, scosso e sorpreso, si sentì invadere dalla meraviglia più assoluta, da uno stupore quasi superstizioso. Non si era reso conto che da Yakkagala si potesse vedere così perfettamente la Montagna Sacra. Eppure eccola lì che riemergeva lentamente dall'ombra della notte, preparandosi ad affrontare un nuovo giorno; e, se lui riusciva nei suoi intenti, un nuovo futuro.

Ne conosceva perfettamente le dimensioni, la geologia; ne aveva tracciato una mappa basata su stereo-fotografie e l'aveva studiata attraverso i satelliti. Ma vederla, per la prima volta, coi propri occhi, la rendeva d'improvviso reale. Fino a quel momento si era trattato solo di teoria. E a volte nemmeno di teoria. Più di una volta, nelle ore grigie prima dell'alba, Morgan si era risvegliato da incubi in cui l'intero progetto diventava una fantasia folle, che oltre a non dargli la gloria l'avrebbe reso lo zimbello del mondo. Una volta un suo collega aveva soprannominato il Ponte "La follia di Morgan": come avrebbero chiamato quel suo nuovo sogno?

Ma gli ostacoli costruiti dall'uomo non l'avevano mai fermato. La natura era il suo vero antagonista, il nemico cordiale che non barava mai e stava sempre alle regole, eppure non mancava mai di approfittare del minimo sbaglio o della minima dimenticanza. E adesso, per lui tutte le forze della natura si concentravano nel lontano cono blu che conosceva tanto bene ma su cui non aveva ancora posato i piedi.

Come Kalidas, in quello stesso punto, aveva fatto tante volte, Morgan scrutò la fertile pianura verdeggiante, soppesando la sfida e valutando la propria strategia. Per Kalidas, Sri Kanda rappresentava sia il potere della casta sacerdotale che il potere degli dèi, che assieme cospiravano contro di lui. Ora gli dèi erano scomparsi, ma i monaci restavano. Rappresentavano qualcosa che Morgan non comprendeva, e che quindi avrebbe trattato con ogni rispetto.

Era ora di scendere. Non doveva fare tardi, specie dal momento che i suoi programmi erano già saltati. Alzandosi dalla lastra di pietra su cui era seduto, un pensiero che lo tormentava da diversi minuti si affacciò finalmente alla sua coscienza. Era strano che avessero sistemato un sedile così ben decorato, con quegli elefanti magnificamente scolpiti, proprio sull'orlo d'un precipizio…

Morgan non poteva resistere a una simile sfida intellettuale. Sporgendosi oltre l'orlo dell'abisso, tentò ancora una volta di far entrare in sintonia la propria mente con quella di un collega morto da duemila anni.