"Le fontane del Paradiso" - читать интересную книгу автора (Clarke Arthur C.)13 L'ombra dell'albaMorgan era uscito dall'hotel di Ranapur alle quattro di una notte chiara, senza luna. L'ora non lo rendeva particolarmente felice, ma il professor Sarath, che aveva preso tutti gli accordi, gli aveva promesso che ne valeva la pena. — Non potete capire niente di Sri Kanda — gli aveva detto — se non vedete l'alba dalla sommità della montagna. E Buddy, voglio dire il Maha Thero, non riceve visite a orari diversi. Dice che è un modo meraviglioso per scoraggiare le persone semplicemente curiose. — Per cui Morgan aveva accettato con tutta la buonagrazia possibile. Per peggiorare ulteriormente le cose, l'autista, un indigeno di Taprobane, si era intestardito a condurre una specie di monologo interminabile, che a quanto sembrava aveva lo scopo di tracciare un profilo completo della personalità del passeggero. L'autista dimostrò una bontà talmente sincera che era impossibile offendersi, ma Morgan avrebbe preferito il silenzio. E avrebbe anche desiderato, a volte con tutto il cuore, che l'autista facesse più attenzione alle curve a gomito che superavano al volo nella semi-oscurità. Forse era meglio che lui non vedesse tutte le sporgenze e i burroni che la macchina oltrepassava correndo verso l'alto. Quella strada era una gloria del genio militare del diciannovesimo secolo: opera dell'ultima potenza coloniale, era stata costruita durante la campagna contro i fieri montanari dell'interno. Ma non era mai stata predisposta per la guida automatica, e in certi momenti Morgan si chiese se sarebbe sopravvissuto al viaggio. E poi, d'improvviso, scordò le sue paure e l'irritazione per le ore di sonno perso. — Eccoci! — annunciò orgogliosamente l'autista, mentre la macchina girava attorno al fianco d'una collina. Sri Kanda era completamente invisibile, in un'oscurità che non lasciava ancora intuire l'alba ormai vicina. La sua presenza era rivelata da un sottile nastro di luce che correva avanti e indietro, a zig-zag, sotto le stelle, sospeso in cielo come per magia. Morgan sapeva che quelle che vedeva erano solo lampade, sistemate lì duecento anni prima per guidare i pellegrini che salivano la più lunga scalinata del mondo; ma erano talmente in contrasto con la logica e con la gravità che gli parvero quasi un'anticipazione del suo sogno. Secoli prima della sua nascita, ispirati da filosofi che poteva appena immaginare, altri uomini avevano iniziato il lavoro che lui sperava di terminare. In senso molto letterale, avevano costruito i primi, rozzi scalini della strada che portava alle stelle. Adesso Morgan non era più insonnolito. Scrutò la fila di luci che si facevano più vicine, che si trasformavano in una colonna di perle innumerevoli, brillanti. Anche la montagna cominciava a diventare visibile, era un triangolo nero che eclissava metà del cielo. Nella sua presenza silenziosa, enorme, c'era qualcosa di sinistro. A Morgan non era difficile immaginare che fosse la residenza di dèi che conoscevano la sua missione, e che raccoglievano le forze contro di lui. Quei pensieri infausti gli uscirono di mente quando arrivarono alla stazione di partenza della funivia e Morgan, sorpreso (erano appena la cinque del mattino), scoprì che almeno un centinaio di persone si trovavano già nella minuscola sala d'attesa. Ordinò un delizioso caffè caldo per sé e per l'autista loquace che, per fortuna, gli lasciò capire di non voler affatto salire in alto. — Ci sono stato almeno venti volte — gli disse con una noia forse eccessiva. — Mi metterò a dormire in macchina finché non tornate giù. Morgan acquistò il biglietto, fece rapidi calcoli, e stimò che sarebbe partito con la terza o quarta infornata di passeggeri. Era felice di aver seguito il consiglio di Sarath, infilandosi in tasca un termomantello: faceva già freddo a un'altezza di due soli chilometri. In cima, tre chilometri più su, probabilmente si congelava. Mentre avanzava lungo la fila di turisti, tutti piuttosto tranquilli e addormentati, Morgan notò, divertito, di essere l'unico a non avere una cinepresa. Dove saranno i veri pellegrini?, si chiese. Poi ricordò: non li avrebbe trovati lì. Non esistevano scorciatoie per il paradiso, o per il Nirvana, o per quello che cercavano i fedeli. I meriti si conquistavano grazie ai propri sforzi, non con l'aiuto delle macchine. Una dottrina interessante, piena di verità; ma esistevano anche momenti in cui solo le macchine potevano servire. Finalmente riuscì a sedere sulla funivia, che partì fra un notevole scricchiolio di cavi. Morgan si sentì di nuovo trascinato da quello strano senso d'eccitazione. L'elevatore che lui aveva in mente avrebbe trasportato più di mille volte il carico di quell'impianto primitivo, che probabilmente risaliva al ventesimo secolo. Eppure, tutto considerato, i princìpi basilari erano praticamente gli stessi. All'esterno della funivia traballante si stendeva l'oscurità più totale, tranne quando diventava visibile una parte della scalinata illuminata. Che era completamente deserta, come se gli innumerevoli milioni di persone che l'avevano risalita durante gli ultimi tremila anni non avessero lasciato eredi. Ma poi Morgan capì che quelli che salivano a piedi dovevano già essere molto più in alto, pronti all'appuntamento con l'alba. Dovevano aver superato i primi contrafforti della montagna già da ore. A quattro chilometri d'altezza i passeggeri dovettero scendere e percorrere il breve tratto che li divideva dalla stazione successiva, ma quel cambio di mezzi fece perdere poco tempo. Morgan era adesso felicissimo del mantello, e si avvolse stretto attorno al corpo il tessuto metallizzato. Il terreno era gelato, e l'atmosfera rarefatta gli rendeva più difficile del solito la respirazione. Non fu sorpreso di vedere file di bombole d'ossigeno nella piccola stazione, con le istruzioni per l'uso bene in vista. E finalmente, mentre affrontavano l'ultima parte della salita, giunsero i primi segni dell'avvicinarsi del giorno. Le stelle a est risplendevano ancora in tutta la loro gloria, e Venere era la più brillante di tutte; ma all'approssimarsi dell'alba nuvole sottili, alte, cominciarono a splendere debolmente. Morgan osservò ansioso l'orologio e si chiese se sarebbe arrivato in tempo. Notò, con sollievo, che allo spuntare del giorno mancavano ancora trenta minuti. D'improvviso uno dei passeggeri indicò l'immensa scalinata, di cui adesso poteva intravedere di tanto in tanto, sotto la funivia, qualche tratto che s'arrampicava a zig-zag lungo la montagna sempre più ripida. La scalinata non era più deserta: a una lentezza come di sogno, dozzine di uomini e donne salivano faticosamente lungo gli scalini interminabili. Ogni minuto il loro numero aumentava. Morgan si chiese da quante ore stessero salendo. Certo da tutta la notte, e forse da molto prima: parecchi dei pellegrini erano anziani, e in un giorno solo non ce l'avrebbero fatta. Lo sorprendeva scoprire quanta gente credesse ancora. Un attimo dopo vide il primo monaco: una figura alta, in una tunica color zafferano, che si muoveva quasi con la stessa regolarità di un metronomo, senza guardare né a destra né a sinistra e ignorando completamente la funivia sospesa sopra il suo cranio rasato. Sembrava capace di ignorare anche gli elementi, perché il braccio e la spalla destra erano esposti, nudi, al vento gelido. La funivia rallentò nei pressi della stazione d'arrivo, si fermò qualche minuto, scaricò i numerosi passeggeri, e s'incamminò verso la lunga discesa. Morgan si unì alla folla di due o trecento persone radunate in un piccolo anfiteatro, scavato nella parete ovest della montagna. Tenevano tutti lo sguardo puntato nel buio, anche se non c'era altro da vedere che le scie di luce che scendevano giù lungo l'abisso. Alcuni pellegrini in ritardo compivano l'ultimo sforzo sulla fine della scalinata, cercando di sconfiggere la fatica con la fede. Morgan controllò di nuovo l'orologio: ancora dieci minuti. Non si era mai trovato fra così tanta gente silenziosa. Ormai, i turisti con le cineprese e i pellegrini più devoti erano uniti dalla stessa speranza. Il tempo era perfetto; presto avrebbero saputo se quel viaggio si era compiuto invano. Dal tempio, ancora invisibile nelle tenebre a un centinaio di metri sopra di loro, venne un delicato tintinnio di campane; e contemporaneamente si spensero tutte le luci su quell'incredibile scalinata. Adesso, rivolti verso il sorgere del sole, potevano vedere i primi, deboli bagliori del giorno riflessi dalle nubi molto più in basso; ma la mole immensa della montagna frenava ancora l'alba. Secondo per secondo la luce aumentava su tutti i lati di Sri Kanda, mentre il sole respingeva le ultime difese della notte. Poi, dalla folla in paziente attesa, uscì un mormorio basso di sorpresa. Un attimo prima non c'era niente. Poi, d'improvviso, "era lì", si stendeva per metà della superficie di Taprobane: un triangolo perfettamente simmetrico, netto, di blu intensissimo. La montagna non aveva dimenticato i suoi adoratori; la sua ombra famosa si stagliava contro le nubi, un simbolo che ogni pellegrino poteva interpretare come desiderava. In tanta perfezione di linee sembrava quasi solida, pareva una piramide capovolta, non un semplice disegno tracciato da luci e ombre. Mentre attorno all'ombra aumentava il chiarore, e i primi raggi del sole superavano i fianchi della montagna, il triangolo sembrò, per contrasto, farsi più scuro e più denso. Eppure, oltre il sottile strato di nubi responsabili della sua breve esistenza, Morgan intravedeva appena i laghi e le colline e le foreste della terra che si risvegliava. Il vertice di quel triangolo etereo doveva corrergli incontro a una velocità spaventosa, mentre il sole si alzava verticalmente dietro le montagne, ma Morgan non si accorgeva di alcun movimento. Sembrava che il tempo si fosse fermato; era uno dei rari momenti della sua vita in cui non pensava allo scorrere dei minuti. Sul suo spirito incombeva l'ombra dell'eternità, esattamente come l'ombra della montagna incombeva sulle nubi. Adesso tutto scompariva in fretta. Le tenebre si scioglievano in cielo come una macchia di colore assorbita dall'acqua. Il paesaggio spettrale e scintillante in basso diventava reale; a metà dell'orizzonte ci fu un'esplosione di luce, e i raggi del sole si rifletterono sulle finestre di un edificio. E più volte, a meno che gli occhi non lo ingannassero, Morgan vedeva il contorno scuro, indecifrabile, del mare che circondava l'isola. A Taprobane era nato un nuovo giorno. I visitatori si dispersero lentamente. Qualcuno tornò alla funivia mentre altri, più energici, si diressero alla scalinata, credendo erroneamente che la discesa fosse più facile della salita. Quasi tutti sarebbero stati ben lieti di montare sulla funivia alla stazione successiva; pochissimi avrebbero disceso l'intera scalinata. Solo Morgan continuò a salire, seguito da molti sguardi curiosi, lungo i pochi scalini che conducevano al monastero e alla cima vera e propria della montagna. Quando raggiunse la parete esterna dell'edificio, liscia e debolmente illuminata dai primi raggi del sole, gli mancava il respiro. Fu lieto di appoggiarsi un po' al massiccio portone in legno. Qualcuno doveva averlo osservato. Prima che lui riuscisse a trovare un campanello, o a segnalare in qualche modo la sua presenza, il portone si spalancò silenziosamente. Gli venne incontro un monaco vestito di giallo, che lo salutò a mani giunte. — Ayu bowan, dottor Morgan. Il Mahanayake Thero sarà lieto di vedervi. |
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