"Le fontane del Paradiso" - читать интересную книгу автора (Clarke Arthur C.)PARTE PRIMA Il palazzo1 KalidasLa corona diventava ogni anno più pesante. La prima volta che il Venerabile Bodhidharma Mahanayake Thero gliel'aveva deposta sul capo con tanta riluttanza, il Principe Kalidas era rimasto sorpreso al sentirla così leggera. Ora, vent'anni dopo, Re Kalidas era ben lieto di togliersi quella fascia d'oro tempestata di gioielli ogni volta che l'etichetta di corte lo permetteva. E lì, sulla cima della fortezza battuta dai venti, c'era ben poca etichetta. Erano rari i convogli di postulanti che si spingevano a quell'altezza terribile per chiedere udienza. Molti di coloro che compivano il viaggio fino a Yakkagala si fermavano davanti all'ultima salita, non osavano passare tra le fauci del leone acquattato, che sembrava sempre sul punto di spiccare il balzo dalla parete della montagna. A un re vecchio sarebbe stato impossibile sedere su quel trono che toccava i cieli. Un giorno, forse, Kalidas sarebbe diventato troppo debole per riuscire a raggiungere il suo palazzo. Ma dubitava che quel giorno sarebbe mai venuto: i suoi molti nemici gli avrebbero risparmiato le umiliazioni della vecchiaia. Adesso quei nemici si stavano avvicinando. Lanciò un'occhiata verso nord, quasi riuscisse già a vedere l'esercito del suo fratellastro che tornava a reclamare il trono insanguinato di Taprobane. Ma la minaccia era ancora lontana, oltre i mari battuti dai monsoni; e se anche Kalidas riponeva più fiducia nelle sue spie che nei suoi astrologi, era confortante sapere che su quel punto le loro opinioni coincidevano. Malgara aveva atteso quasi vent'anni. Aveva preparato i suoi piani e raccolto l'aiuto di re stranieri. Molto più vicino c'era un nemico ancora più paziente e sottile, che lo osservava in continuazione dall'arco di cielo a sud. Quel giorno il cono perfetto di Sri Kanda, la Montagna Sacra che dominava la pianura centrale, sembrava vicinissimo. Sin dall'inizio della storia, aveva ispirato un timore reverenziale a tutti coloro che lo vedevano. E Kalidas era sempre cosciente della sua presenza minacciosa, del potere che simboleggiava. Eppure il Mahanayake Thero non possedeva eserciti, non possedeva elefanti da guerra che si lanciavano in battaglia barrendo, con le zanne protese in avanti. L'Alto Sacerdote era solo un vecchio vestito d'una tunica arancione, e le sue sole ricchezze materiali erano una ciotola per l'elemosina e una foglia di palma per proteggersi dal sole. Mentre i monaci e i prelati di rango inferiore intonavano le scritture attorno a lui, lui sedeva in silenzio, a gambe incrociate, e in chissà quale modo mutava i destini dei re. Era molto strano… Quel giorno l'aria era così tersa che Kalidas riusciva a vedere il tempio, rimpicciolito dalla distanza alle dimensioni di una punta di freccia sottile, bianca, sulla cima di Sri Kanda. Non sembrava opera dell'uomo, e al re ricordava le montagne ancora più alte che aveva visto da giovane, quando era stato per metà ospite e per metà ostaggio alla corte di Mahinda il Grande. Tutti i giganti che stavano a guardia dell'impero di Mahinda possedevano cime simili, composte di una sostanza cristallina, abbagliante, per cui non esisteva un nome nella lingua di Taprobane. Gli indù credevano che si trattasse di una specie d'acqua cristallizzata per magia, ma Kalidas aveva riso di quelle superstizioni. Quello splendore latteo distava solo tre giorni di marcia: uno lungo la strada reale, tra foreste e risaie; altri due lungo la tortuosa scalinata che lui non avrebbe mai più risalito, perché al suo termine si trovava l'unico nemico che temeva, e che non poteva conquistare. A volte invidiava i pellegrini, quando vedeva le loro torce tracciare una sottile linea di fuoco sulla parete della montagna. Al più umile dei mendicanti era concesso salutare quell'alba sacra e ricevere la benedizione degli dèi; al signore di quell'intera terra era proibito. Ma lui aveva altre consolazioni, anche se destinate a durare poco. Lì, protetti da fossati e bastioni, c'erano gli specchi d'acqua e le fontane e i Giardini del Piacere in cui aveva profuso le ricchezze del suo regno. E quando si stancava di tutto quello, c'erano le signore della montagna: quelle in carne e ossa, della cui compagnia godeva sempre meno spesso; e le duecento immortali, immutabili, con cui sovente divideva i suoi pensieri, perché non poteva fidarsi di nessun altro. A occidente risuonò il tuono. Kalidas distolse gli occhi dalla minaccia incombente della montagna, si volse verso quella lontana speranza di pioggia. I monsoni erano in ritardo. I laghi artificiali che alimentavano il complesso sistema d'irrigazione dell'isola erano quasi asciutti. A quell'epoca, avrebbe già dovuto vedere l'acqua scintillare nel più grande dei laghi, quello che, come sapeva benissimo, i suoi sudditi osavano ancora chiamare col nome di suo padre: Paravana Samudra, il Mare di Paravana. Era stato completato solo trent'anni prima, dopo generazioni e generazioni di lavoro. Allora, in giorni più felici, il giovane Principe Kalidas teneva fieramente il fianco del padre, e le grandi paratoie si erano aperte e l'acqua che dà la vita si era rovesciata sulla terra assetata. Nel regno intero non esisteva spettacolo più meraviglioso del dolce incresparsi di quel lago immenso, costruito dall'uomo, che rifletteva le cupole e le spirali di Ranapur, la Città d'Oro, l'antica capitale che lui aveva abbandonato per inseguire il suo sogno. Il tuono rombò di nuovo, ma Kalidas sapeva che la sua promessa era falsa. Anche lì, sulla cima della Montagna del Maligno, l'aria era immota, stagnante. Non c'era traccia delle raffiche improvvise, imprevedibili, che annunciavano l'arrivo del monsone. Prima che giungessero le piògge, forse alle sue preoccupazioni si sarebbe aggiunta anche la carestia. — Vostra Maestà — disse la voce paziente dell'Adigar di corte — i messi stanno per ripartire. Vorrebbero rendervi omaggio. Ah, sì, quei due pallidi ambasciatori giunti dall'altra parte dell'oceano occidentale! Gli dispiaceva vederli partire, perché, nel loro abominevole taprobani, gli avevano portato notizie di molte meraviglie; anche se nessuna di queste, lo ammettevano loro per primi, poteva competere con quella fortezza-palazzo in cielo. Kalidas voltò la schiena alla montagna coronata di bianco, alla terra secca e bruciata, e prese a scendere gli scalini di granito che portavano alla sala delle udienze. Dietro di lui, il ciambellano e i suoi aiutanti portavano doni d'avorio e di pietre preziose per gli uomini alti, fieri, che attendevano di salutarlo. Presto i doni di Taprobane avrebbero solcato il mare, sarebbero giunti a una città di molti secoli più giovane di Ranapur; e forse, per un po', avrebbero distolto dai suoi pensieri l'Imperatore Adriano. Il Mahanayake Thero s'incamminò lentamente verso il parapetto nord. La sua tonaca arancione spiccava, vivacissima, contro l'intonaco bianco delle pareti del tempio. Molto più in basso si stendeva la scacchiera delle risaie che correvano da un orizzonte all'altro, le forme scure dei canali d'irrigazione, lo splendore blu del Paravana Samudra; e, oltre quel mare interno, le sacre cupole di Ranapur si ergevano in cielo come spettri, smisurate fino all'incredibile quando ci si rendeva conto della loro distanza. Aveva osservato quel panorama sempre diverso per trent'anni, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito ad afferrare ogni dettaglio della sua sfuggente complessità. Colori e linee di confine mutavano ad ognf stagione, anzi, al passare di ogni nube. "E quando anch'io sarò passato" pensò il Bodhidharma "vedrò qualcosa di nuovo". C'era un solo elemento fuori posto in quel paesaggio dalle linee squisite. Per quanto minuscola apparisse da quell'altitudine, la massa grigia della Montagna del Maligno sembrava precipitata da un altro mondo. E infatti la leggenda raccontava che Yakkagala era un frammento di una montagna dell'Himalaya, ricca di erbe medicinali, caduta dalle mani del dio scimmia Hanuman che correva in soccorso dei suoi compagni feriti, al termine delle battaglie del "Ramayana". Da quella distanza, ovviamente, era impossibile scorgere il minimo particolare della follia di Kalidas, tranne una linea sottile che indicava i bastioni esterni dei Giardini del Piacere. Eppure, bastava sperimentare una volta sola l'impatto della Montagna del Maligno, ed era impossibile dimenticarla. Con gli occhi dell'immaginazione, come se davvero si trovasse lì, il Mahanayake Thero vedeva le immense fauci del leone che sporgevano oltre l'orlo a strapiombo del dirupo; e più in alto incombevano i bastioni su cui (non era difficile crederlo) passeggiava ancora il Re maledetto… Sopra di lui scoppiò il tuono, arrivò subito a un'intensità tale che l'intera montagna ne parve scossa. Riempì d'un rombo continuo, altissimo, il cielo, e poi svanì in direzione est. Per molti secondi gli echi si rincorsero ai limiti dell'orizzonte. Nessuno poteva pensare che "quello" fosse l'annuncio di piogge imminenti: le piogge non erano previste per altre tre settimane, e il Controllo Monsoni sbagliava al massimo di ventiquattro ore. Quando si spensero anche gli ultimi echi, il Mahanayake rivolse la parola al suo compagno. — Ecco a cosa servono i nostri cari corridoi di rientro — disse. La sua voce era leggermente irritata, più di quanto non sia concesso a un profeta del Dharma. — Abbiamo dei rilevamenti? Il monaco più giovane parlò un attimo nel microfono da polso, attese risposta. — Sì. È arrivato a centoventi. Siamo di cinque decibel al di sopra dei massimi precedenti. — Inviate la solita protesta alla stazione Kennedy o Gagarin, secondo il caso. Ora che ci ripenso, mandatela a tutte e due. In ogni modo, non farà nessuna differenza. Mentre il suo occhio seguiva, lungo il cielo, la scia di vapori che si dissolveva lentamente, il Bodhidharma Mahanayake Thero (ottantacinquesimo della dinastia) fu travolto da una fantasia improvvisa, tutt'altro che monacale. Kalidas, senza dubbio, avrebbe saputo come trattare i tecnici delle linee spaziali che ragionavano solo in termini di dollari e di chilogrammi di materiale in orbita… Forse sarebbe ricorso all'impalamento, oppure a elefanti di metallo, oppure all'olio bollente. Ma la vita era molto più semplice duemila anni addietro. |
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