"La rivincita dei mendicanti" - читать интересную книгу автора (Kress Nancy)

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Lizzie Francy si fermò sull’erba irregolare del campo buio in Pennsylvania e appoggiò in segno di monito una mano sul braccio di Vicki Turner. Soffiava un vento freddo. A una trentina di metri di distanza lo stabilimento che produceva coni a energia-Y della TenTech si profilava al chiaro di luna, un parallelepipedo di cemespugna privo di finestre, bianco e senza tratti caratteristici, come una prigione.

— Non andare oltre — avvertì Lizzie. — Lo scudo di sicurezza inizia un metro e mezzo più avanti. Vedi la differenza sull’erba?

— Certo che no, non riesco a vedere "niente" — rispose Vicki. — Tu come fai?

— Sono venuta qui alla luce del giorno — disse Lizzie. — Dobbiamo spostarci, un po’ a sinistra, ho lasciato un segno. Stai tremando, Vicki. Hai freddo?

— Sto gelando. Stiamo gelando tutti. È lo scopo di questa incursione notturna illegale, no? Dio, devo essere impazzita per fare una cosa simile… Quanto più a sinistra?

— Proprio qui. Non ti avvicinare oltre, i sensori a infrarossi ci capteranno.

— Non me, sono troppo fredda. Mi scambierebbero per una roccia. No, non voglio la tua mantella, ne hai bisogno.

— Io non ho freddo — ribatté Lizzie. Aprì un sacco di iuta e cominciò a tirare fuori roba.

— È l’esplosione dei tuoi ormoni. I piccoli coni a energia-Y della gravidanza. Va bene, prenderò la mantella. Come mai la tua pelle non consuma i vestiti in fretta come la mia? O è soltanto un’impressione? Lizzie, piccola, non eccitarti troppo. Non funzionerà. Nessuno, per quanto sia un bravo pirata informatico, può entrare in una fabbrica di coni a energia-Y.

— Io sì — rispose Lizzie.

Sogghignò in direzione di Vicki, Vicki non capiva. Vicki era intelligente, era colta, era un Mulo, quelli che prima gestivano il mondo. Vicki aveva regalato a Lizzie il primo terminale e le aveva insegnato a usarlo. Lizzie doveva tutto a Vicki. Ma Vicki "non sapeva". Vicki era vecchia, forse aveva quasi quarant’anni, ed era diventata adulta prima del Cambiamento, quando ogni cosa era differente. Lizzie aveva passato gli ultimi cinque anni sulle reti informatiche e sapeva quanto era brava. Non c’era nulla in cui non potesse introdursi (eccetto ovviamente il Rifugio, ma quello non contava). Quello era il mondo di Lizzie, ormai, e lei poteva fare tutto. Aveva diciassette anni.

Le due donne tirarono fuori la strumentazione di Lizzie da un’altra tela tessuta in modo grezzo. Biblioteca di cristallo, terminale, trasmettitore laser, olotute complete. Parte dell’equipaggiamento era di materiale scadente, parte era rubato, tutto era vecchio. Lizzie, con il pancione che le tendeva la tunica già consumata, montò l’equipaggiamento e lo puntò contro l’edificio. Vicki, avvolta nella mantella di Lizzie, si mise improvvisamente a ridacchiare. — Ho conosciuto Jackson Aranow, una volta.

— Chi sarebbe Jackson Aranow?

— Il proprietario della fabbrica che stai per derubare. Quanto meno lo è la sua famiglia. Io dico sempre, conosci i tuoi ignari e involontari benefattori. Gli Aranow sono una vecchia stirpe di conservatori, altezzosi e noiosi. Ricchi quanto il Rifugio.

Lizzie sollevò lo sguardo dagli schemi di decodifica sullo schermo. — Davvero?

— No, ovviamente non proprio. Dio, non prendere sempre tutto così alla lettera. Nessuno è ricco come il Rifugio.

— D’accordo, siamo pronti — disse Lizzie. Sogghignò, un lampo di denti bianchi nell’oscurità. — Hai il tuo sacco? Ricorda che lo scudo si abbasserà soltanto per dieci secondi prima che il sistema si riprogrammi. Sei armata?

— Se è questo, essere "armati" — commentò Vicki, sollevando il tubo di metallo nella mano destra. — Dovevi proprio farlo così pesante? Se devo morire, preferisco farlo un po’ più leggera.

— Non morirai. E sei quasi completamente nuda, non ti sembra di essere abbastanza leggera? — Lizzie scoppiò a ridere, un profondo ghigno impudente, e le sue dita presero a volare sopra la tastiera. — Va bene… "ora"!

Un raggio laser trafisse l’oscurità, diritto e inflessibile come un bastone di filamenti in diamante. Sfrecciò attraverso lo scudo invisibile a energia verso un punto preciso, virtualmente indistinguibile, posto in alto, sull’edificio. Lo seguì un secondo raggio. Molti siti di dati, eccitate le loro molecole bioelettriche dalla prima scarica del laser, assorbirono l’energia aggiuntiva della seconda in una diversa zona dello spettro. L’energia assorbita attivò una reazione ramificata, un’architettura sequenziale a un fotone. Una serie di chiavi a lunghezza d’onda si inserirono, attraverso l’oscurità, in una serratura cromoforica autoriparante costituita da proteine batteriche. La notte si riempì di informazioni invisibili, alcune inviate a nuovi siti di ricezione, a ulteriori relais, a terminali posti in altri stati. Lizzie non poteva farci nulla: i sistemi di sicurezza, per loro natura, allertavano altri sistemi. Tuttavia, l’aria sfrigolò brevemente e lo scudo di sicurezza a energia-Y si dissolse.

Nel giro di dieci secondi si era già resettato con altri codici, altri schemi. Lizzie e Vicki, portando i loro sacchi, avevano già attraversato l’erba alta, sfruttando l’interruzione nel campo energetico.

Avvenne tutto in silenzio. Non si accesero riflettori e non suonarono allarmi. Le industrie erano integralmente automatizzate, gestite da sistemi che avevano base in enclavi distanti, che i proprietari potevano consultare e dirigere. Oppure no.

Il primo robot della sicurezza passò accanto alle due donne quasi immediatamente, a una velocità terrificante, una sagoma di metallo silenzioso che sfrecciava nel prato. Vicki vi puntò contro il disgregatore EMF e il robot si fermò, cadde a terra e si ribaltò. Vicki scoppiò a ridere, con una foga eccessiva. — Muori, essere impudente venuto dal nulla!

— "Sbrigati!" — la incalzò Lizzie. Disattivò un secondo robot della sicurezza e corse verso le porte dello stabilimento.

Ovviamente si erano bloccate quando lo scudo a energia-Y si era abbassato. Lizzie digitò qualcosa sui terminali a codici di sovrapposizione manuali e trattenne il respiro. Le erano occorsi mesi per intrufolarsi nei dati della sicurezza della TenTech e, anche se poteva fare tutto, non era mai riuscita a trovare i resettaggi per i codici di sovrapposizione manuale nel caso la violazione dello scudo di sicurezza li avesse reimpostati automaticamente. Sperava che non esistessero reimpostazioni, che i progettisti fossero stati così arroganti o così maldestri da aver avuto fiducia che il complesso sistema a energia-Y fosse sufficiente, che nessuno sarebbe mai riuscito a violarlo. Eccetto, forse, quelli del Rifugio, che non avevano alcun motivo per provarci.

Quelli del Rifugio e Lizzie Francy.

Le porte si aprirono, e Lizzie si prese un istante prezioso per chiudere gli occhi e rivolgere una breve preghiera di ringraziamento a un Dio nel quale non credeva. Il Dio di Billy, il Dio di sua madre. Lizzie non aveva bisogno di Lui. Lei ce l’aveva fatta.

Ce l’aveva "proprio fatta": si era introdotta in una fabbrica di coni a energia, per rubarne a sufficienza perché la sua tribù superasse l’inverno. Avevano tutto il resto di cui necessitavano, dopo il Cambiamento: una tela cerata polimerizzata per il campo di alimentazione; acqua che non aveva più bisogno di essere potabile; una fabbrica abbandonata per la lavorazione dei prodotti della soia che forniva uno spazio più che sufficiente per la tribù; un robot tessitore che poteva produrre con facilità abbastanza vestiti e coperte per tutti, anche per i giovani che consumavano in fretta gli abiti. Tuttavia non avevano coni a energia-Y e l’inverno sulle colline della Pennsylvania era freddo. Dato che i Muli non inviavano più materiale, coni e coperte, in cambio di voti, le tribù dovevano prendersi cura da sole di se stesse. Non lo avrebbe fatto nessun altro.

Lizzie riaprì gli occhi. Un altro robot della sicurezza sfrecciò fuori da una alcova e lei lo bloccò col disgregatore. Monitor nascosti stavano filmando l’incursione, ovviamente, ma sia lei sia Vicki erano avvolte dalla testa ai piedi in olotute. Ai monitor, Lizzie appariva una bambinetta bionda di dodici anni, all’ottavo mese di gravidanza. Vicki, invece, era un Mulo maschio dai capelli rossi con un abito elegante. Tutti i sensori a infrarossi avrebbero seguito due fonti di calore di forma umana, genere femminile, di una certa dimensione, massa e metabolismo; ma senza identità sicura.

Era così facile! Sfrecciare dentro, razziare sette o otto coni dalla fine della catena di produzione e infilarli nei sacchi, tornare di nuovo all’esterno e aspettare che la strumentazione sparasse una seconda scarica di laser per far abbassare lo scudo per altri dieci secondi, quindi scappare. Niente male per una marmocchia Viva! Corse lungo il breve corridoio verso il fondo dello stabilimento, col ventre che le ondeggiava da una parte all’altra in un ritmo da bonga.

E si immobilizzò, trovandosi davanti a un luogo impazzito.

Due muletti giravano per tutto il piano. Uno sollevava, ammassava, separava e spostava… nulla. Carichi di aria fina. L’altro portava una singola cassa fino alla fine della catena di montaggio robotizzata, la piazzava lì, riceveva coni a energia vuoti, riportava la stessa cassa al centro dello stabilimento e scaricava i coni; quindi vi passava in mezzo, facendoli schizzare per tutto il pavimento, mentre portava nuovamente la cassa vuota alla fine della catena. La cassa era intaccata in un centinaio di punti, ammaccata su un angolo, mancante delle due alette di chiusura. Sembrava essere passata attraverso una guerra. Sulla catena di montaggio, bracci robotici sollevavano i delicati meccanismi interni dei coni, forniti dalla unità di fusione a freddo sigillata… e sbagliavano a infilare le batterie nei coni, mancandoli di venti centimetri. Le batterie cadevano dalla catena di montaggio, rompendosi. I coni vuoti proseguivano nel loro cammino, verso il muletto demente che li aspettava al fondo, li impacchettava, li trasportava e li scaricava prima di tornare a prenderne altri.

Vicki sbottò: — Che…

— Gli algoritmi spaziali sono tutti incasinati — commentò Lizzie con estremo disgusto. — Dio, che "spreco". I tuoi amici proprietari controllano soltanto i tabulati della produzione, non i rapporti di qualità e nemmeno… Vicki, non è divertente!

— Sì che lo è! — ribatté Vicki. Era piegata in due dalle risate, a mala pena in grado di pronunciare le parole. — È… un’isteria. Il mondo ad alta tecnologia dei Muli… sembra una specie di Guerra Santa robotica all’Endorbacio… e quel pallone gonfiato di Jackson Aranow…

— Abbiamo soltanto pochi minuti ancora e abbiamo bisogno dei coni! Aiutami a trovare quelli imballati prima che impazzisse lo stabilimento, non può andare avanti così da molto tempo.

— No? Guarda, c’è polvere dappertutto! — E Vicki riprese a sghignazzare, tenendosi la pancia, ridendo come l’ologramma di un pazzo in un manicomio. A volte Lizzie aveva l’impressione di essere "lei" l’adulta e Vicki, col suo bizzarro senso dell’umorismo da Mulo, la bambina. Poi, in altre occasioni, Vicki diventava la donna che Lizzie ricordava dalla sua infanzia: terrorizzante, consapevole, posata, un essere che veniva da quell’altro mondo che gestiva il mondo. Ma perché non era facile entrare nella mente delle persone come nei programmi informatici? Lizzie pungolò Vicki sulla spalla.

— Vieni! Aiutami a cercare!

Vicki la seguì. Le due donne corsero verso le cassette confezionate ammassate presso uno dei muletti prima (quando?) che quelli impazzissero. Per fortuna anche il robot addetto alla sigillatura funzionava male: nessuna delle alette delle casse era fissata bene e questo rese più facile aprirle. La prima cassa in cima era vuota. Anche la seconda. La terza era stipata di batterie rotte, schiacciate contro e attorno agli alloggiamenti a cono come tuorli spalmati contro gusci d’uovo incorruttibili. Lizzie si chiese che cosa potesse avere ingarbugliato in quel modo la programmazione.

— Vicki… il tempo sta per esaurirsi! La scarica laser partirà soltanto un’altra volta, i resettaggi sono accoppiati ma la prossima coppia sarà generata a caso, non sono stata in grado di prepararmi per quella…

— Ecco! — disse Vicki, che aveva smesso di ridere. — Questa cassa è buona. Prendi tre o quattro coni… vai! Vai!

Infilarono i coni nei sacchi, quindi corsero verso il corridoio, schivando i coni vuoti che rotolavano giù dai muletti. Alla fine del corridoio, trovarono le porte dello stabilimento chiuse.

— Come… Lizzie! Si sono bloccate automaticamente!

Lizzie digitò furiosamente codici di sovrapposizione manuali, inserendo svariate sequenze per "aprire le porte". Non accadde nulla. Il sistema di sicurezza aveva riprogrammato la chiusura delle porte, non le aperture. Era una cosa sensata. Se lo scudo fosse stato disattivato, che entrasse pure chi era voluto entrare, ma che non uscisse.

Vicki chiese: — Puoi entrare nel sistema e rubare il codice?

— Non prima che sia abbassato lo scudo. E questo accadrà… ora.

Lizzie si appoggiò alla porta. Il suo corpo si accasciò al suolo lentamente, come una bambola di pezza, col sacco di preziosi coni a energia-Y stretto sotto il braccio. Non ce l’aveva fatta. Aveva fallito, lei, Lizzie Francy, e ormai lei e Vicki erano intrappolate all’interno della fabbrica di coni, un edificio impenetrabile in cemespugna. Anche se fossero uscite dallo stabilimento, poi, sarebbero rimaste bloccate, in un passaggio sterrato di tre metri attorno all’edificio, da uno scudo a energia-Y attraverso cui non sarebbe passata una molecola più grossa di quelle dell’aria. Erano in trappola.

— Vicki — sussurrò, e non era più la geniale ragazzina che si intrufolava nelle banche dati, era una diciassettenne impaurita che si aggrappava a un adulto. — Vicki, cosa potremo "fare", noi?

— Aspetteremo — rispose Vicki con espressione risoluta. Si accomodò vicino a Lizzie, appoggiando anche lei la schiena contro la porta. — Finché non comparirà qualcuno.

Lizzie allungò una mano verso un tratto di pavimento appena davanti alla porta. Passò le dita sulla cemespugna. Divennero nere di polvere. — E quanto tempo pensi che è passato, tu, dall’ultima volta che qualcuno è venuto qui? — Si accorse che era tornata al linguaggio tipico dei Vivi, quello che usava sempre quando era agitata. Lo odiava.

— Qualcuno verrà a controllare la causa dell’interruzione nel sistema di sicurezza. — disse Vicki.

— Qualche supervisore tecnico mandato dalla TenTech. La polvere non significa che non viene mai nessuno. L’intero sistema di riciclo dell’aria potrebbe essere saltato nello stesso momento in cui sono impazziti gli altri robot, risputando tutta la polvere accumulata all’interno.

Lizzie corrugò la fronte. Discutere la faceva sentire meno impotente. — Ma i robot ormai non funzionano bene da molto tempo, loro. Guarda quanti coni rovinati…

— Non da così tanto tempo. Abbiamo trovato dei coni funzionanti nello strato più alto di casse, ricordi?

— E come facciamo a sapere, noi, che questi coni funzionano davvero? — chiese Lizzie. Si sedette in posizione eretta, ne tirò fuori uno dal sacco e lo accese. Il cono irradiò immediatamente calore. Lo portò nella posizione per ottenere luce, quindi in quella intermedia che forniva luce e calore insieme. — Funziona.

— Benissimo.

— Forse chi arriverà ci permetterà di tenere questi pochi coni.

Vicki si limitò a guardarla. La sensazione di impotenza si impadronì nuovamente di Lizzie. No, era ovvio che non avrebbero permesso loro di tenere i coni. Erano Muli. Avrebbero arrestato lei e Vicki per effrazione, furto e qualsiasi altra cosa avessero deciso e lei e Vicki sarebbero finite in prigione. Il suo bambino sarebbe nato in prigione. La tribù non avrebbe avuto di che scaldarsi in inverno, e così sarebbe migrata a sud, come aveva già fatto la maggior parte delle altre tribù. Be’, non sarebbe stato così grave: a sud il clima era caldo e non erano rimaste moltissime persone dopo le terribili Guerre del Cambiamento, quindi non è che non ci fosse posto. Ma Billy e la madre di Lizzie non sarebbero partiti. Non se Lizzie si trovava in galera lì a nord. L’avrebbero richiusa lì? A volte mandavano la gente in prigioni lontane. I poliziotti Muli potevano spedirla ovunque.

— Ci controllano ancora, loro, non è vero? — disse in preda alla depressione. — A dispetto del Cambiamento, del Depuratore Cellulare e… di tutto.

Vicki non rispose. Restò semplicemente seduta lì, un Mulo rinnegato lei stessa, che viveva con i Vivi, a guardare il muletto impazzito che sollevava, trasportava e ammassava aria fina mentre i coni danneggiati rotolavano a terra, finendo sbattuti negli angoli.


Aspettarono tutta la notte, dormendo qualche ora sul pavimento della fabbrica. Verso l’alba, un cono rotolò fino a Lizzie facendola passare dai sogni frammentati a un frammentato stato di veglia. Lei scansò il cono e prese in considerazione l’ipotesi di disattivare il muletto. Ma perché darsi tanta pena? Si accucciò attorno alla massa ancora poco familiare del pancione. Il pavimento della fabbrica era freddo. Al suo fianco, Vicki russava delicatamente, ma Lizzie non riuscì a riprendere sonno.

Si sedette. Durante la notte un’altra parte della tunica si era consumata. La cintura che indossava legata sotto e che le correva sulla pancia, era fatta di una sostanza sintetica non organica in uso prima del Cambiamento. Da quella pendeva una sacca dello stesso materiale, che conteneva i suoi attrezzi. Se soltanto avesse avuto una sega laser! Le avrebbe fatte uscire da lì in un istante. Ma soltanto i Muli possedevano seghe al laser. Era così già ai tempi delle Guerre del Cambiamento, quando c’erano stati pesanti saccheggi ai depositi, combattimenti e quella che Vicki chiamava "la monumentale rivolta civile di un ordine morente". I Muli erano rimasti nelle loro impenetrabili enclavi e le seghe laser erano restate esattamente lì con loro. Inoltre, una sega laser non le avrebbe fatte passare attraverso lo scudo di sicurezza esterno. Nulla, a parte un’arma nucleare, era in grado di infrangere uno scudo a energia-Y.

Le luci dello stabilimento erano rimaste accese tutta la notte. Probabilmente erano programmate in quel modo qualora l’edificio evidenziasse la presenza di esseri umani. Nel debole bagliore, i robot continuavano ad affaccendarsi, sbagliando tutto. Stupide macchine.

Ma non più stupide di quanto non fosse stata Lizzie, lei.

Per quello che ricordava, Lizzie si era sempre sentita come due persone separate. Una aveva sempre posto domande, asfissiando sua madre, Billy e poi Vicki, saccheggiando il patetico software educativo a scuola, smontando robot tutte le volte che ne aveva l’occasione, ascoltando, ascoltando, ascoltando. C’erano così tante cose che voleva "sapere". Fino all’arrivo di Vicki e del Cambiamento, non aveva avuto modo di scoprire niente. Così, quando Vicki aveva lasciato le enclavi ed era andata ad abitare con i Vivi, fornendo a Lizzie un buon terminale e una biblioteca di cristallo, lei aveva avuto tutto da imparare. Lizzie, una delle due Lizzie, era diventata quasi frenetica, lavorando al terminale ogni minuto in cui era sveglia, cercando di recuperare il tempo perduto. E quando aveva imparato a usare la Rete, poi a dominarla e alla fine a saccheggiare tutte le informazioni di cui aveva bisogno, da qualunque parte, si era sentita quasi ubriaca: ubriaca di potere, di cose da fare. Lei aveva progettato il robot tessitore per la tribù e saccheggiato tutti i depositi non protetti da scudi alla ricerca delle parti necessarie per costruirlo; lei aveva localizzato la fabbrica abbandonata che sarebbe servita come casa per l’inverno ed era rimasta incinta di un ragazzo che non aveva più visto e di cui non aveva alcun bisogno. Lizzie Francy aveva deciso che voleva un bambino, proprio come aveva deciso che voleva un robot tessitore, quindi lo aveva avuto. Lei poteva farlo, poteva fare qualsiasi cosa, ed era meglio che nessuno glielo impedisse!

Ma in ogni istante, sotto sotto, c’era una Lizzie completamente diversa che nessuno vedeva, che era perennemente impaurita, che sapeva che, alla fine, avrebbe combinato solo dei gran casini: era soltanto questione di tempo. A quel punto tutti avrebbero saputo che lei era soltanto un inganno, che non sapeva fare nulla in modo corretto e che non era adeguata. Quella seconda Lizzie era terrorizzata dal trafugare dati da importanti multinazionali come la TenTech e impaurita, una volta nato il suo bambino, di non essere in grado di prendersene cura, ossessionata dall’idea che Vicki, Billy e sua madre potessero andare via, lasciandola da sola. Da sola con un bambino, cosa che altre due ragazze della sua età nella tribù, Tasha e Sharon, gestivano alla perfezione ma che Lizzie Francy non avrebbe saputo fare. Perché Lizzie, quest’altra Lizzie, voleva soltanto rannicchiarsi, smettere di essere la persona a cui tutta la tribù si riferiva per ottenere risposte rubate da quella Rete che lei, dopo tutto, non possedeva affatto. La possedevano i Muli, come sempre.

Seduta con la schiena appoggiata contro la fredda parete in cemespugna, guardando i robot che distruggevano i coni a energia-Y, improvvisamente lei non fu più in grado di accettare le due Lizzie che aveva dentro. Le stavano serrando la gola e premendo sul cuore. "So fare tutto! Non so fare bene niente!" Le stringevano il petto. Doveva alzarsi, scappare da tutt’e due.

Lasciò Vicki che dormiva. Vicki era bellissima quando dormiva, era sempre bellissima. Modificata geneticamente. Lizzie non sarebbe mai stata così bella: era troppo bassa, aveva un buffo mento e i capelli neri e crespi le sparavano in tutte le direzioni perché lei li tirava sempre quando era intenta a consultare banche dati. Ma Vicki stava dormendo e Lizzie no, quindi stava a lei "fare" qualcosa per la loro situazione. Qualcosa, qualsiasi cosa.

Irrequieta, misurò il perimetro della stanza immensa, dove c’erano meno coni a rotolarle davanti ai piedi. Superò le porte principali, davanti alle quali, la sera prima, aveva sprecato un’intera futile ora tentando di aprirle. Superò il pannello sopra i piccoli condotti dei filtri dell’aria, che Vicki era riuscita ad aprire: il sistema di filtraggio dell’aria era effettivamente saltato insieme al resto della programmazione. I piedi nudi di Lizzie lasciavano impronte sporche sul pavimento.

Sulla parete opposta, notò qualcosa che, in preda alla stanchezza e allo scoraggiamento, le era sfuggito la sera prima. A due metri e mezzo circa dal pavimento c’era un pannello di metallo quadrato, dello stesso identico colore delle pareti in cemespugna.

Non si trattava di uno sgabuzzino, non posto così in alto. Non era nemmeno l’alloggiamento sigillato per la produzione dell’energia-Y: quello era chiaramente etichettato e comunque impenetrabile. Quel pannello non appariva affatto impenetrabile, quanto meno non da lì sotto. Piccole viti assicuravano ogni angolo.

Lizzie seguì il secondo muletto, affaccendato a sollevare, separare e impacchettare aria fina. Quando si fermò alla fine della catena di assemblaggio per prendere un altro carico inesistente, lei salì a bordo sullo squadrato alloggiamento del motore. Le occorsero tre minuti per riprogrammare la macchina in modo che la portasse alla parete, la sollevasse di due metri e restasse immobile mentre lei apriva il pannello quasi invisibile, infilandosi in tasca le viti. Il pannello, in lega leggera, venne appoggiato con grande cura sulla pedana in metallo.

Dietro il pannello si trovava una rientranza di cemespugna a forma di imbuto. Profonda circa un metro e venti, si restringeva sul fondo in un quadrato di soli trenta centimetri. Quella rientranza non era presente sulle piantine dell’edificio che Lizzie aveva saccheggiato mentre pianificava l’incursione. Alla fine dell’imbuto c’era un altro pannello chiuso con altre viti.

Si sporse nella nicchia. Tuttavia non fu in grado di raggiungere il pannello più piccolo, in particolare per la prominenza del suo pancione. Si issò direttamente nell’apertura e cominciò a strisciare in avanti.

Quelle viti non vollero svitarsi. Se soltanto avesse avuto una sega laser! Cocciutamente, continuò a insistere sui fermi, ma quelli non cedettero. Però non erano nanoinseriti: l’edificio aveva sedici anni, troppo vecchio per gran parte della nanotecnologia.

Finalmente, in un impeto di frustrazione, Lizzie colpì il pannello con il manico del cacciavite. — Maledetto inferno puzzolente! — L’imprecazione preferita di Billy.

— Attendo istruzioni — disse il pannello.

Lei sgranò gli occhi. Non aveva nemmeno preso in considerazione che quello fosse uno schermo o qualcosa di attivabile a voce. Stupida, stupida. E se lo avesse danneggiato picchiandoci contro?

— Attendo istruzioni — ripeté il pannello.

— Esegui sequenza test. — Doveva scoprire con che cosa aveva a che fare.

— Eseguo sequenza test.

Le luci dello stabilimento si spensero. Cinque secondi, dieci, quindi si riaccesero. Poi si interruppe il rumore della catena di assemblaggio robotica: un silenzio scioccante come un’esplosione. Prima che il fragore ricominciasse, lei sentì Vicki gridare: — Ehi! Lizzie?

Lizzie, che stava studiando intensamente il piccolo schermo, non rispose. Si sentiva gonfia di entusiasmo. Veniva eseguita l’intera sequenza, compresa quella dello scudo di sicurezza esterno. Lei sapeva di che cosa si trattava. Era una parte del sistema di backup, poco accessibile dall’esterno dell’edificio perché risultasse sicuro ma fisicamente irraggiungibile da qualsiasi robot della catena di assemblaggio… che, come Lizzie aveva appena dimostrato, erano anche troppo facili da riprogrammare. Alcuni dei sistemi di fabbrica vecchio stile avevano studiato ogni genere di bizzarra ridondanza per recuperare fisicamente il controllo alla presenza di disgregatori dispettosi. Se fosse riuscita a entrare in quel sistema ausiliario, avrebbe controllato da lì lo scudo a energia-Y.

E lei "sarebbe riuscita" a entrare nel sistema. Lei era l’imbattibile Lizzie Francy.

— Ripeti sequenza test — ordinò, intenzionata a chiamare Vicki durante il successivo momento di silenzio. Ma proprio alla fine del controllo sulle luci, il piccolo pannello a parete si oscurò. Prese quindi a lampeggiare, senza dare informazioni vocali: SEQUENZA TEST ABORTITA: 65-B.

65-B. Un codice industriale standard per indicare un segnale master a microonde proveniente da una fonte di controllo fisicamente presente, esterna a tutti i sistemi. Era un codice di sicurezza per qualsiasi procedimento che prevedeva radiazioni. L’intera operazione si poteva fermare con il segnale giusto emesso da un telecomando manuale che si trovasse nelle vicinanze. Erano arrivati i Muli allo stabilimento.

Lizzie indietreggiò nella nicchia stipata, due metri e mezzo al di sopra del suolo. Cercò coi piedi la piattaforma in metallo del muletto. Non c’era più.

In preda al panico, ruotò il corpo col pancione finché non si trovò a guardare verso l’esterno. Il muletto si era allontanato di un metro dalla parete, probabilmente a causa dell’attivazione della sequenza test del macchinario. Tenendosi precariamente in equilibrio, Lizzie allungò le braccia. Era appena in grado di afferrare il bordo del pannello di lega appoggiato sulla piattaforma sollevata del muletto. Il pannello, tuttavia, non era fissato alla struttura e lei non poteva usarlo per tirare in avanti il macchinario. Poi, improvvisamente, il muletto si riattivò e cominciò a muoversi verso la catena di assemblaggio, tornando al normale lavoro, e Lizzie restò col pannello di lega che le pendeva dalle mani a due metri e mezzo di altezza dal suolo.

Sotto, il folle non-lavoro continuava: i robot assemblavano meccanismi interni a energia-Y e poi li schiacciavano contro i coni male allineati; i gusci dei coni rotolavano sul pavimento; i muletti ammassavano aria. Da dietro una montagna di cassette da imballaggio arrivò Vicki, strillando qualcosa al di sopra del frastuono. Probabilmente il nome di Lizzie. Quindi, le porte principali, sulla parete adiacente dello stabilimento si spalancarono ed entrarono due Muli, un uomo e una donna, a pistole spianate.

Immediatamente, senza nemmeno pensarci, Lizzie rimise al suo posto il pannello di lega, trattenendolo dall’interno con le unghie. Col cuore che le martellava in petto, si nascose all’interno della parete di cemespugna.