"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)

Parte terza La tempesta

14

La gente è al buio, non sa cosa fare Avevo una lanterna, oh ma si è spenta anche quella. Tendo una mano. Spero che la tenderai anche tu. Come vorrei stare al buio con te. GREG BROWN, In the Dark With You

Alle cinque del mattino, nel parcheggio dell’aeroporto di Minneapolis, cambiarono vettura. Salirono fino all’ultimo piano, dove c’è un parcheggio a cielo aperto.

Shadow si liberò di manette, ceppi e uniforme arancione e infilò tutto nel sacchetto di carta marrone che aveva temporaneamente contenuto i suoi effetti personali, lo richiuse e lo gettò in un cestino dell’immondizia. Aspettavano da una decina di minuti quando un giovanotto con il tronco a botte sbucò da un’uscita dell’aeroporto e li raggiunse. Stava mangiando un sacchetto di patatine di Burger King. Shadow lo riconobbe immediatamente: aveva preso posto sul sedile posteriore della sua auto, quando erano usciti dalla House on the Rock per andare al ristorante, e il suono che aveva prodotto canticchiando era stato così profondo da far vibrare la macchina. Adesso sfoggiava una lunga barba bianca che lo faceva sembrare più vecchio.

Il giovanotto si ripulì le mani sui jeans e poi ne tese una a Shadow. «Ho saputo della morte del Padre» disse. «Pagheranno per questo, pagheranno caro.»

«Wednesday tuo padre?» domandò Shadow.

«Il Padre Universale» rispose l’altro. Aveva una voce profonda, gutturale. «Diglielo, dillo a tutti che nel momento del bisogno la mia gente ci sarà.»

Chernobog si liberò di un filo di tabacco che gli si era infilato tra i denti e lo sputò sul fango ghiacciato. «E quanti sareste in tutto? Dieci? Venti?»

La barba dell’uomo a botte scintillò. «Dieci di noi non valgono forse come cento dei loro? Chi può tenere testa alla mia gente, in battaglia? Comunque ai margini delle città viviamo numerosi. Qualcuno vive sulle montagne. Ce ne sono altri nelle Catskills, qualcuno anche nei parchi dei divertimenti in Florida. Tengono le loro asce affilate. Accorreranno a un mio richiamo.»

«Allora chiamali, Elvis» disse il signor Nancy. O perlomeno a Shadow sembrò che dicesse Elvis. Nancy si era cambiato e al posto dell’uniforme da sceriffo indossava un cardigan pesante, marrone, pantaloni di velluto a coste e mocassini di cuoio. «Chiamali. È quello che avrebbe desiderato il vecchio bastardo.»

«L’hanno tradito. L’hanno ammazzato. Ho riso dei suoi discorsi, invece mi sbagliavo. Nessuno di noi è al sicuro» disse l’uomo con un nome simile a Elvis. «Potete contare su di noi.» Diede a Shadow una pacca gentile sulla spalla che lo mandò quasi a gambe all’aria. Era come essere sfiorati delicatamente da una di quelle enormi sfere che vengono usate per le demolizioni.

Chernobog si stava guardando intorno. «Scusate la domanda, quale sarebbe il nostro nuovo mezzo di trasporto?»

L’uomo a botte indicò un pulmino. «Eccolo lì» disse.

Chernobog sbuffò incredulo. «Quello?»

Era un pulmino Volkswagen degli anni Settanta. Sul lunotto posteriore c’era la decalcomania di un arcobaleno.

«È un ottimo mezzo. Ed è l’ultima cosa che si aspettano di vedervi guidare.»

Chernobog fece il giro del pulmino. Poi cominciò a tossire, una tosse cavernosa da vecchio, da fumatore alle cinque del mattino. Si raschiò la gola, sputò, si massaggiò il petto per alleviare il dolore. «Sì. L’ultimo dei mezzi di trasporto sospettabili. Che cosa succede quando ci ferma la polizia in cerca di hippy e marijuana? Eh? Non siamo qui per un viaggio psichedelico, dobbiamo essere il più anonimi possibile.»

L’uomo con la barba aprì una portiera del pulmino. «Se vi fermano, danno un’occhiata, vedono che non siete hippy e vi lasciano andare. È un travestimento perfetto. Ed è l’unica vettura che sono riuscito a trovare con così poco preavviso.»

Chernobog sembrava intenzionato a polemizzare ancora, ma il signor Nancy intervenne con i suoi modi affabili. «Elvis, ci sei stato di grande aiuto. Te ne siamo grati. La nostra macchina però deve tornare a Chicago.»

«La lasceremo a Bloomington» rispose l’altro. «Se ne occuperanno i lupi. Non preoccupatevene.» Si rivolse a Shadow. «Ti faccio nuovamente le mie condoglianze e condivido il tuo dolore. Buona fortuna, se la veglia funebre toccherà a te, hai tutta la mia ammirazione e la mia pietà.» Gli strinse una mano con la sua, sembrava un guantone da baseball. Shadow sentì un gran male. «Diglielo al cadavere, quando lo vedi. Digli che Alviss figlio di Vindalf non cederà.»

Il pulmino odorava di patchouli, di incenso e tabacco. L’interno delle portiere e il pavimento erano rivestiti con una moquette rosa pallido.

«Chi era quello?» chiese Shadow mentre ingranava la prima per scendere dalla rampa.

«Te l’ha detto, è Alviss figlio di Vindalf. Il re dei nani. Il più grosso, il più forte e il più autorevole esponente del popolo dei nani.»

«Ma non è un nano» insistette Shadow. «E alto almeno uno e ottantacinque.»

«Il che fa di lui un gigante, per il suo popolo» disse Chernobog da dietro. «Il nano più alto d’America.»

«Cos’era quella storia della veglia?» chiese Shadow.

I due uomini non risposero. Shadow gettò un’occhiata al signor Nancy che fissava ostinatamente dal finestrino.

«Dunque? Ha parlato di una veglia. Avete sentito anche voi.»

Fu Chernobog a rompere il silenzio. «Non sei obbligato a farlo.»

«Fare cosa?»

«La veglia. Alviss parla troppo. Tutti i nani parlano troppo. Non pensarci neanche. Meglio che lasci perdere.»


Andare verso sud era come viaggiare nel tempo. C’era sempre meno neve, e il mattino dopo era scomparsa del tutto, quando entrarono in Kentucky. Lì l’inverno era finito, e stava già arrivando la primavera. Shadow cominciò a fantasticare su possibili equazioni… forse a ogni cento chilometri percorsi verso sud corrispondeva un giorno nel futuro.

Ne avrebbe parlato ai suoi compagni di viaggio, se il signor Nancy non fosse stato addormentato sul sedile accanto al suo mentre Chernobog, dietro, russava sonoramente.

Il tempo gli sembrava una costruzione mentale mutevole, in quel momento, un’illusione prodotta da lui stesso, guidando. Scoprì di essere via via sempre più consapevole, quasi dolorosamente consapevole, della presenza degli uccelli e di altri animali: vedeva i corvi sul ciglio della strada, o sul percorso del pulmino, che banchettavano con gli animali investiti; stormi di uccelli che attraversavano il cielo in formazioni che sembravano figure decifrabili, gatti che, sdraiati in un prato o appollaiati su un recinto, li guardavano passare.

Chernobog si svegliò sbuffando e si mise lentamente seduto. «Ho fatto uno strano sogno» disse. «Ho sognato di essere Bielebog, in realtà. Da sempre il mondo immagina che siamo due, il chiaro e l’oscuro, invece adesso che siamo entrambi vecchi scopro di esserci stato sempre e solo io, davo i doni alla gente e poi glieli portavo via.» Staccò il filtro da una Lucky Strike, infilò la sigaretta tra le labbra e l’accese.

Shadow abbassò il finestrino.

«Non ha paura del cancro ai polmoni?» gli chiese.

«Io sono il cancro. Non ho paura di me stesso.»

Nancy parlò. «Quelli come noi non si ammalano di cancro. Non ci viene l’arteriosclerosi né il morbo di Parkinson o la sifilide. Siamo duri da ammazzare.»

«Wednesday l’hanno ammazzato» disse Shadow.

Si fermò a fare benzina e poi, sebbene fosse molto presto, parcheggiò vicino a un ristorante per fare colazione. Non appena entrarono il telefono pubblico all’ingresso cominciò a squillare.

Fecero l’ordinazione a una signora anziana con un sorriso preoccupato che al loro arrivo stava leggendo un’edizione economica di What My Heart Meant di Jenny Kerton. La donna sospirò, andò a rispondere e disse «Sì». Poi si guardò alle spalle e aggiunse: «Sissignore. Sembra che siano arrivati. Aspetti un momento» e si avvicinò al signor Nancy.

«È per lei» disse.

«Grazie» rispose Nancy. «Signora, le mie patatine le voglio molto croccanti. Quasi bruciate.» Si avvicinò al telefono. «Sono io.»

«E cosa ti fa pensare che sia così stupido da fidarmi?» disse.

«Posso arrivarci. So dov’è.»

«Sì. Certo che lo vogliamo. Sai bene che lo vogliamo. E so anche che voi volete liberarvene. Perciò non raccontarmi stronzate.»

Riagganciò il ricevitore e tornò al tavolo.

«Chi era?» domandò Shadow.

«Non l’ha detto.»

«Che cosa volevano?»

«Propongono una tregua per consegnarci il corpo.»

«Mentono» disse Chernobog. «Ci vogliono attirare in trappola e poi ucciderci. Come hanno fatto con Wednesday. È quello che facevo anch’io, una volta» aggiunse con un tono tetramente orgoglioso.

«La consegna avverrà in campo neutrale» disse Nancy. «Completamente neutrale.»

Chernobog ridacchiò. Produsse un suono che somigliava a quello di un pallina di metallo che rimbalza in un teschio vuoto. «Anche questo dicevo una volta. Venite in un posto neutrale, dicevo, e poi durante la notte li assalivamo e li ammazzavamo tutti. Quelli sì che erano bei tempi.»

Il signor Nancy scrollò le spalle. Si dedicò alle sue patatine quasi bruciate e fece una smorfia di approvazione. «Mmm. Ottime.»

«Non ci possiamo fidare di loro» disse Shadow.

«Senti, sono più vecchio di te, più furbo e anche più bello» ribatté il signor Nancy picchiando sul fondo della bottiglia di ketchup e coprendo le patatine di salsa. «Mi posso procurare più fica in un pomeriggio di quella che tu riesci a rimediare in un anno. Ballo come un angelo, combatto come un orso braccato, sono astuto come una volpe e canto come un usignolo…»

«E…»

Nancy fissò Shadow con i suoi occhi scuri. «E loro devono disfarsi del corpo almeno quanto noi dobbiamo riprendercelo.»

«Non esiste un posto neutrale fino a questo punto» disse Chernobog.

«Esiste» ribatté il signor Nancy. «È il centro.»


Determinare quale sia il centro di qualcosa, qualunque cosa, è a dir poco problematico. Con le cose vive — gli esseri umani, per esempio, o i continenti — il problema diventa insolubile. Qual è il centro dell’uomo? E di un sogno? Nel caso degli Stati Uniti continentali, bisogna calcolare anche l’Alaska, quando si cerca il centro? Le Hawaii? Negli anni Trenta del ventesimo secolo qualcuno costruì un enorme modellino in cartone degli Stati Uniti, quarantotto stati, e per trovarne il centro lo appoggiò su uno spillo, fino a quando non riuscì a farlo stare in equilibrio.

Come più o meno chiunque avrebbe potuto immaginare, il centro esatto degli Stati Uniti continentali si trovava ad alcuni chilometri da Lebanon, Kansas, sul terreno dell’allevamento di suini di Johnny Grib. Negli anni Trenta gli abitanti di Lebanon si dichiararono pronti a piazzare un monumento in mezzo alla fattoria, ma Johnny Grib disse che non voleva milioni di turisti sul suo terreno, gli avrebbero spaventato i maiali, perciò il monumento dedicato al centro geografico degli Stati Uniti venne collocato tre chilometri a nord della cittadina. Costruirono un parco e in mezzo vi eressero un monumento di pietra con tanto di targa in ottone. Asfaltarono la strada fino alla città e, certi dell’afflusso turistico, accanto al monumento fecero costruire un motel. Poi restarono ad aspettare.

I turisti non arrivavano. Non arrivò nessuno.

Oggi il luogo è un triste parchetto con una camper-chiesetta che non sarebbe neanche in grado di ospitare una cerimonia funebre, e un desolato motel le cui finestre sembrano occhi ciechi.

«E così» concluse il signor Nancy mentre entravano a Humansville, Missouri (1084 ab.) «il centro esatto dell’America è un minuscolo parco in rovina, una chiesa vuota, un mucchio di pietre e un motel abbandonato.»

«Un allevamento di porci» disse Chernobog. «Hai appena detto che il centro vero era un allevamento di maiali.»

«Il problema non è quale sia il centro esatto» rispose il signor Nancy, «ma quale la gente pensa che sia. In ogni caso è tutto immaginario. Per questo è importante. La gente litiga soltanto su cose immaginarie.»

«La gente come me?» chiese Shadow. «O quelli come voi?»

Nancy non rispose e si sentì Chernobog ridacchiare, o forse sbuffare.

Shadow cercò di mettersi comodo, dietro. Aveva dormito troppo poco, ultimamente, e provava una brutta sensazione allo stomaco. Una sensazione peggiore di quella provata in prigione, peggiore di quella provata quando Laura gli aveva proposto di partecipare alla rapina. Peggio di qualsiasi cosa. Gli formicolava la nuca, aveva la nausea e, più volte, a ondate, paura.

Nancy uscì a Humansville, parcheggiò vicino a un supermercato. Entrò seguito da Shadow. Chernobog rimase ad aspettarli nel parcheggio fumando una sigaretta.

Un ragazzino con i capelli chiari stava riempiendo gli scaffali dei cereali.

«Ciao» lo salutò il signor Nancy.

«Ciao» rispose il ragazzo. «È vero? L’hanno ucciso davvero?»

«Sì» rispose Nancy. «L’hanno ucciso.»

Il ragazzo posò con forza sullo scaffale alcune scatole di Cap’n Crunch. «Pensano di poterci schiacciare come scarafaggi» disse. Portava intorno al polso un bracciale d’argento annerito. «Non è così facile, vero?»

«No» rispose il signor Nancy. «Non lo è.»

«Io ci sarò, signore» disse il giovane con gli occhi azzurro chiaro che fiammeggiavano.

«Lo so, Gwydion» disse Nancy.

Poi comperò alcune bottiglie grandi di Royal Crown Cola, sei rotoli di carta igienica, un pacchetto di sigaretti neri dall’aspetto pericoloso, qualche banana e una confezione di gomme da masticare Doublemint. «È un bravo ragazzo. È arrivato qui nel settimo secolo. Dal Galles.»

Il pulmino serpeggiò prima verso ovest e poi verso nord. La primavera cedette un’altra volta il posto alla fine dell’inverno. Il Kansas aveva il grigio tetro delle nuvole più solitarie, delle finestre vuote e dei cuori smarriti. Shadow era diventato esperto nella caccia alle stazioni radiofoniche, mediando tra le esigenze del signor Nancy, che apprezzava i microfoni aperti e la musica ballabile, e Chernobog, che preferiva la musica sinfonica — più tetra era e più sembrava contento — intervallata dai programmi delle stazioni evangeliche più fondamentaliste. A Shadow piacevano i pezzi classici pop.

Verso la fine del pomeriggio, su richiesta di Chernobog, si fermarono alla periferia di Cherryvale, Kansas (2464 ab.) e lì camminarono fino a un grande prato fuori città dove, tra gli alberi, c’erano ancora tracce di neve e l’erba aveva il colore della polvere.

«Aspettatemi qui» disse Chernobog.

Si avviò da solo in mezzo al prato e si fermò, nel vento di fine febbraio, per un po’. Poi rialzò la testa e cominciò a gesticolare.

«Sembra che stia parlando con qualcuno» disse Shadow.

«Sono fantasmi» rispose il signor Nancy. «In questo posto lo veneravano, un centinaio di anni fa. Facevano sacrifici di sangue, in suo onore, libagioni a colpi di martello. Dopo qualche tempo gli abitanti della cittadina cominciarono a farsi un’idea del perché tanti stranieri di passaggio non tornavano più. Qui venivano nascosti i corpi, una parte, perlomeno.»

Chernobog tornò. Sembrava che i suoi baffi fossero diventati più scuri, e tra i capelli grigi c’erano alcune ciocche nere. Sorrise, mettendo in mostra il dente di ferro. «Ah, come mi sento bene. Certe cose resistono, e il sangue resiste più a lungo di tutto.»

Tornarono tutti e tre insieme dove avevano parcheggiato il pulmino Volkswagen. Chernobog accese una sigaretta senza tossire. «Lo facevano con la mazza» spiegò. «Votan, lui parlava di forche e di lance, ma per me c’è una cosa sola…» Allungò un dito giallo di nicotina e batté con forza sulla fronte di Shadow, proprio in mezzo.

«La prego di non farlo» gli disse lui cortesemente.

«La prego di non farlo» gli rifece il verso Chernobog. «Un giorno prenderò la mia mazza e farò molto di peggio, amico mio, te lo ricordi?»

«Sì» rispose Shadow, «però se mi batte un’altra volta sulla fronte le spezzo la mano.»

Chernobog sbuffò. Poi disse: «Dovrebbero essere grati, quelli di qui. È diventato un posto molto potente. Già trent’anni dopo aver scacciato i miei, questa terra dava i natali alla più grande attrice del cinema che ci sia mai stata. La più grande».

«Judy Garland?» chiese Shadow.

Chernobog fece seccamente segno di no con la testa.

«Sta parlando di Louise Brooks» spiegò il signor Nancy.

Shadow decise di non indagare su chi fosse Louise Brooks. Invece disse: «Sentite un po’, quando Wednesday è andato a incontrarli avevano patteggiato una tregua».

«Sì.»

«E adesso noi stiamo andando a ritirare il suo corpo avendo patteggiato una tregua.»

«Sì.»

«E sappiamo che mi vogliono morto o comunque fuori gioco.»

«Ci vogliono tutti morti» disse Nancy.

«Quello che non capisco è perché riteniamo che oggi giocheranno pulito, se con Wednesday non l’hanno fatto.»

«Perché ci incontriamo al centro. È…» disse Chernobog. Aggrottò la fronte e poi continuò: «Come si dice il contrario di sacro?».

«Profano» rispose Shadow senza riflettere.

«No» disse Chernobog. «Voglio dire un posto che è meno sacro di qualsiasi altro posto al mondo. Con una sacralità negativa. Posti dove non si può costruire nessun tempio. Dove la gente non vuole andare e se ci va scappa appena può. Posti dove gli dèi mettono piede soltanto se ci sono costretti.»

«Non saprei» disse Shadow. «Non mi sembra che ci sia una parola per dirlo.»

«Tutta l’America è un po’ così» continuò Chernobog. «Per questo non siamo benvenuti. Però il centro è il punto peggiore. È come un campo minato dove tutti ci muoviamo con troppa circospezione per osare rompere la tregua.»

Avevano raggiunto il pulmino. Chernobog diede a Shadow una pacca affettuosa sul braccio. «Sta’ tranquillo» gli disse in tono cupo ma rassicurante. «Nessuno ti ucciderà. Nessuno oltre a me.»


Quella sera stessa, prima che facesse completamente buio, Shadow trovò il centro dell’America su un’insignificante collina a nordovest di Lebanon. Fece il giro della chiesetta su ruote e del monumento di pietra e alla vista del motel anni Cinquanta costruito al limitare del parco ebbe un tuffo al cuore. Davanti al motel era parcheggiata una Humvee nera, sembrava una jeep riflessa in uno specchio deformante, tarchiata e insulsa, brutta come un’autoblindo. Dentro l’edificio non c’era nemmeno una luce accesa.

Parcheggiarono anche loro e in quel momento un uomo con uniforme e berretto da autista uscì dal motel illuminato dai fari del pulmino. Si portò una mano alla visiera per salutarli, salì sulla Humvee e partì.

«Macchina grossa, cazzo piccolo» disse il signor Nancy.

«Credete che ci siano i letti, in questo posto?» chiese Shadow. «Non so da quanto non dormo in un letto. Qui sembra che aspettino solo la squadra dei demolitori.»

«Il motel appartiene ad alcuni cacciatori texani» spiegò il signor Nancy. «Ci vengono una volta all’anno non si sa a cacciare cosa. E impediscono che venga raso tutto al suolo.»

Scesero. Davanti al motel li aspettava una donna che Shadow non aveva mai visto. Era perfettamente truccata, perfettamente pettinata. Gli fece venire in mente quelle giornaliste dei programmi televisivi mattutini che passano il tempo sedute in studi che non assomigliano neanche lontanamente a un vero soggiorno.

«Lieta di conoscervi» disse. «Dunque… lei dev’essere Chernobog. Ho sentito molto parlare di lei. E lei è Anansi, sempre pronto a combinarne una, eh? Vecchio buontempone. E tu sei Shadow. Ci hai fatto fare una bella corsa, vero?» Gli strinse la mano con una presa decisa e lo guardò negli occhi. «Io sono Media. Molto piacere. Mi auguro di poter concludere la faccenda che ci attende nel modo migliore possibile.»

Le porte d’ingresso si spalancarono. «Non so perché, Toto» disse il ragazzo grasso che Shadow aveva conosciuto sulla limousine, «ma credo che questo non sia più il Kansas.»

«Invece lo è» ribatté il signor Nancy. «Anzi, oggi l’abbiamo attraversato praticamente tutto. Accidenti se è piatto.»

«Qui manca l’energia elettrica e non c’è acqua calda» disse il ragazzo grasso. «E voi tre avete bisogno di un bel bagno, senza offesa. Puzzate come se foste stati su quel pulmino per una settimana.»

«Non vedo la necessità di dire certe cose» intervenne la donna con garbo. «Siamo tra amici. Entrate, vi mostrerò dove si trovano le vostre stanze. Noi abbiamo occupato le prime quattro. Il vostro defunto amico è nella quinta. Tutte le altre sono vuote… potete scegliere quelle che preferite. Temo che non sia esattamente il Four Seasons, ma del resto che cosa lo è?»

Tenne aperta la porta per farli passare. Nell’ingresso c’era odore di muffa, polvere e decomposizione.

C’era anche un uomo, seduto nella penombra. «Avete fame?» chiese.

«Io ho sempre fame» rispose il signor Nancy.

«L’autista è andato a prendere hamburger per tutti» disse l’uomo. «Torna tra poco.» Alzò gli occhi. Faceva troppo buio per guardarsi in faccia, però disse ugualmente: «Tu sei Shadow, eh? Lo stronzo che ha ammazzato Woody e Stone?».

«No» rispose Shadow. «Li ha uccisi qualcun altro. Io ti conosco.» Era vero. Era stato dentro la sua testa. «Devi essere Town. Sei poi riuscito a scoparti la vedova di Wood?»

Town cadde dalla sedia. In un film sarebbe stata una scenetta divertente, nella vita reale fu soltanto una penosa goffaggine. Si rialzò di scatto e si avvicinò a Shadow che lo guardò dall’alto in basso. «Non cominciare niente se non sei pronto ad arrivare fino in fondo.»

Il signor Nancy gli mise una mano sul braccio. «La tregua, ricordi? Siamo nel centro.»

Town si allontanò e andò ad appoggiarsi al banco da cui prese tre chiavi. «In fondo al corridoio» disse. «Prendete.»

Consegnò le chiavi al signor Nancy e sparì tra le ombre del corridoio. Si sentì il rumore di una porta aperta e richiusa con un tonfo.

Nancy diede una chiave a Shadow e una a Chernobog. «Abbiamo una torcia, sul pulmino?» chiese Shadow.

«No» rispose Nancy. «È soltanto buio. Non devi aver paura del buio.»

«Non è il buio che mi fa paura, ma la gente che ci si nasconde.»

«Il buio è una bella cosa» disse Chernobog. Non sembrava avere alcuna difficoltà a vedere dove metteva i piedi e li condusse lungo il corridoio immerso nelle tenebre infilando le chiavi nelle toppe senza esitazioni. «Io sono alla dieci» disse. E poi aggiunse: «Media. Mi sembra di aver già sentito questo nome. Non è la donna che ha ucciso i figli?».

«La donna è un’altra» rispose il signor Nancy. «Il movente lo stesso.»

Nancy era nella stanza numero otto e Shadow di fronte, alla nove. La camera puzzava di umidità, era polverosa e abbandonata. C’era una rete e un materasso senza lenzuola. La luce dell’imbrunire che entrava dalla finestra la rischiarava debolmente. Shadow sedette sul materasso, si tolse le scarpe e si sdraiò. Aveva guidato troppo, negli ultimi giorni.

Forse dormì.


Stava camminando.

Un vento freddo gli incollava addosso i vestiti. I minuscoli fiocchi di neve erano quasi cristalli in polvere agitati dal vento.

C’erano alberi spogli, invernali. C’erano alte montagne su ogni lato. Era un tardo pomeriggio d’inverno: cielo e neve avevano raggiunto la stessa tonalità di rosso profondo. Più avanti — stabilire le distanze risultava impossibile in quella luce - guizzavano gialle e arancioni le fiamme di un falò.

Un lupo grigio lo precedeva lentamente.

Shadow si fermò. Anche il lupo sì fermò, e si voltò ad aspettarlo. Aveva un occhio che luccicava, di un verde giallastro. Shadow scrollò le spalle e ripartì in direzione delle fiamme. Il lupo riprese il suo lento incedere.

Il falò bruciava in un boschetto. Dovevano essere almeno duecento alberi, in due filari. Appese agli alberi c’erano delle sagome, e in fondo un edificio che somigliava vagamente a una barca capovolta. Era di legno, coperta di creature e facce lignee — draghi, grifi, troll e cinghiali - che danzavano al bagliore incerto delle fiamme.

Le fiamme erano talmente alte che Shadow non riusciva ad avvicinarsi al falò. Il lupo lo aggirò piano piano.

Al suo posto, sull’altro lato, spuntò un uomo che si appoggiava a un lungo bastone.

«Siamo a Uppsala, in Svezia» gli disse con una voce che gli era familiare. «Un migliaio di anni fa.»

«Wednesday?»

L’uomo continuò a parlare come se Shadow non esistesse. «Ogni anno, prima, e poi quando cominciò la decadenza e divennero indolenti ogni nove, venivano qui a fare i sacrifici. Il sacrificio dei nove. Ogni giorno, per nove giorni, appendevano nove animali agli alberi del boschetto. Uno degli animali era sempre un uomo.»

Si allontanò dal fuoco e Shadow lo seguì in direzione degli alberi. Avvicinandosi vide che le sagome appese ai rami si delineavano: gambe, occhi, lingue sporgenti e teste. Shadow scosse il capo: c’era qualcosa di minacciosamente triste in un toro appeso per il collo, uno spettacolo talmente surreale da risultare ridicolo. Passò davanti a un cervo, un cane lupo, un orso bruno e un baio con la criniera bianca, poco più grande di un pony. Il cane era ancora vivo: a intervalli di pochi secondi scalciava spasmodicamente e, con la corda intorno al collo, emetteva un fievole guaito.

L’uomo che Shadow stava seguendo impugnò il lungo bastone, che in realtà era una lancia, ma se ne rese conto solo quando la vide in movimento, e aprì la pancia del cane con un colpo secco, dall’alto in basso. I visceri fumanti si rovesciarono sulla neve. «Dedico questa morte a Odino» disse l’uomo formalmente.

«Non è che un gesto» spiegò voltandosi verso Shadow. «Ma i gesti significano tutto. La morte di un cane simboleggia la morte di tutti i cani. Mi davano nove uomini, però rappresentavano tutta l’umanità, tutto il sangue, tutto il potere. Non durò. Un giorno il sangue smise di scorrere. La fede senza il sacrificio basta fino a un certo punto. Deve scorrere il sangue.»

«Ti ho visto morire» disse Shadow.

«Quando si tratta di dèi» rispose la figura — adesso Shadow era proprio sicuro che si trattasse di Wednesday, nessun’altro metteva nelle parole quella gioia cinica e irritante — «non è la morte, ciò che conta. Conta la possibilità di risorgere. E quando il sangue scorre…» Indicò gli animali, gli uomini impiccati agli alberi.

Shadow non riusciva a capire se gli esseri umani gli sembravano più spaventosi degli animali: perlomeno gli uomini avevano capito a cosa stavano andando incontro. Puzzavano di alcol, come se fossero stati autorizzati ad anestetizzarsi, prima di pendere dalla forca, mentre gli animali erano stati semplicemente spinti a frustate fino all’albero, appesi ancora vivi e terrorizzati. Gli uomini sembravano giovani: nessuno aveva più di vent’anni.

«Chi sono, io?» domandò Shadow.

«Tu? Tu eri una possibilità. Parte di una grande tradizione. Anche se siamo entrambi troppo coinvolti per non morire, se necessario. Giusto?»

«Tu chi sei?» domandò ancora Shadow.

«La parte più difficile è la mera sopravvivenza» disse l’altro. Con uno strano orrore Shadow si rese conto che le fiamme del falò erano alimentate da ossa: costole e teschi con le orbite svuotate dal fuoco spuntavano qui e là tracciando nella notte scie colorate, verdi, gialle e blu, che crepitavano e si arroventavano. «Tre giorni appeso all’albero, tre nell’aldilà, tre per ritrovare la strada del ritorno.»

Le fiamme bruciavano troppo alte e luminose perché Shadow riuscisse a guardarle. Abbassò gli occhi tra il buio degli alberi.

Un colpo alla porta: adesso era la luce della luna a entrare dalla finestra. Shadow si mise a sedere con un sobbalzo. La voce di Media disse: «La cena è servita».

Si infilò le scarpe e uscì in corridoio. Qualcuno aveva trovato delle candele e la hall era rischiarata da una luce fioca. L’autista della Humvee entrò con un vassoio di cartone e un grosso sacchetto di carta. Indossava una lunga giacca e il berretto con visiera della divisa.

«Scusate per l’attesa» disse con voce roca. «Ho preso lo stesso menu per tutti: due hamburger, un sacchetto grande di patatine, Coca-Cola e apple pie. Io vado a mangiare in macchina.» Appoggiò i contenitori e uscì. La hall si riempì dell’odore di fast food. Shadow prese il sacchetto e distribuì i panini, i tovaglioli, le bustine di ketchup.

Mangiarono in silenzio mentre le fiamme delle candele tremolavano e la cera si consumava sibilando.

Shadow vide che Town lo guardava storto e sistemò la sedia in modo da dare le spalle al muro. Media mangiava il suo hamburger tenendo affettatamente il tovagliolo vicino alla bocca per non sporcarsi.

«Oh, fantastico» disse il ragazzo grasso. «Sono praticamente freddi.» Portava ancora gli occhiali da sole, una cosa inutile e sciocca, pensò Shadow, data l’oscurità.

«Mi dispiace» disse Town, «il McDonald’s più vicino è in Nebraska.»

Finirono i panini e le patatine tiepidi. Il ragazzo grasso addentò l’apple pie e il ripieno gli colò sul mento. Sorprendentemente era ancora caldo. «Ahi» esclamò. Si pulì con una mano leccandosi le dita. «Brucia! Bisognerebbe fargli una mega causa, per questo ripieno.»

Shadow gli avrebbe dato volentieri un pugno. Ne aveva voglia fin da quando l’altro l’aveva fatto colpire dal suo scagnozzo sulla limousine, dopo il funerale di Laura. Cercò di non pensarci. «Perché non prendiamo il corpo di Wednesday e ce ne andiamo?» chiese.

«A mezzanotte» risposero insieme il signor Nancy e il ragazzo grasso.

«Bisogna fare le cose secondo le regole» aggiunse Chernobog.

«Già» ribatté Shadow. «Peccato che nessuno me le spieghi. Non fate che parlarmi di queste cazzo di regole ma io non so neanche a che gioco state giocando.»

«Così abbiamo un asso nella manica» disse Media in tono brioso, «un vantaggio.»

«Secondo me è tutta una stronzata» disse Town. «Però se le regole li fanno contenti, bene, allora il mio dipartimento è contento e siamo contenti tutti.» Trangugiò rumorosamente la sua Coca-Cola. «Aspettiamo mezzanotte. Voi vi prendete il corpo e ve ne andate. Siamo tutti pappa e ciccia e vi facciamo anche ciao con la manina. Poi ricominciamo a darvi la caccia come ai topi, perché altro non siete.»

«Ehi» disse il ragazzo grasso rivolgendosi a Shadow, «mi è venuta in mente una cosa. Ti avevo detto di dire al tuo capo che ormai era superato, che apparteneva al passato. L’hai fatto?»

«Sì» disse Shadow. «E sai che cosa mi ha risposto? Mi ha risposto di dire a quel moccioso, se l’avessi rivisto, di ricordarsi che il futuro di oggi è il passato di domani.» Wednesday non aveva mai detto niente del genere, però a quella gente piacevano i cliché. Le lenti scure degli occhiali riflettevano i bagliori delle candele, come sguardi.

Il ragazzo grasso disse: «Questo posto è una vera fogna. Non c’è nessun potere. Non c’è campo. Voglio dire che se ti devi ricaricare, qui è come essere all’età della pietra». Finì di bere la bibita con la cannuccia, lasciò cadere il bicchiere sul tavolo e se ne andò.

Shadow si protese a raccogliere i rifiuti del ragazzo grasso per metterli nel sacchetto di carta. «Vado a vedere il centro dell’America» annunciò. Si alzò e uscì nella notte. Il signor Nancy lo seguì. Passeggiarono insieme senza parlare nel piccolo parco fino al monumento di pietra. Il vento soffiava a raffiche discontinue in tutte le direzioni. «Allora» disse Shadow, «adesso cosa succede?»

Una mezzaluna pallida li osservava sospesa nel cielo.

«Adesso faresti meglio a tornare in camera tua» rispose Nancy. «Chiudi la porta a chiave e cerca di dormire un po’. A mezzanotte ci consegnano il corpo. Poi leviamo le tende. Il centro non è stabile per nessuno.»

«Se lo dice lei.»

Nancy prese una boccata del suo sigaretto. «Non doveva andare così. Non doveva succedere niente di tutto ciò. Quelli come noi, sono…» Gesticolò con il sigaretto, come se gli servisse per trovare la parola giusta, poi lo usò per colpirla con un affondo «… elitari. Non siamo esseri socievoli. Neanch’io. Nemmeno Bacco. Non a lungo. Stiamo bene da soli, o nei nostri circoli esclusivi. Non ci troviamo bene con gli altri. Ci piace essere rispettati e venerati, a me piace che raccontino storie sul mio conto, storie in cui risalti la mia intelligenza. E una debolezza, lo so, sono fatto così. Ci piace essere importanti. In questi tempi bui invece non contiamo niente. Si assisterà alla nascita e alla caduta di altri dèi. Comunque questo rimane un paese che non tollera a lungo il divino. Brahma crea, Vishnu conserva, Shiva distrugge, e il terreno è sgombro perché Brahma possa ricominciare daccapo.»

«Che cosa sta cercando di dire?» domandò Shadow. «Che la lotta è finita? Basta con la guerra?»

Il signor Nancy sbuffò. «Ma sei fuori di testa? Hanno ucciso Wednesday. Lo hanno ammazzato e se ne vantano. Lo stanno raccontando in giro. Hanno trasmesso la scena su tutti i canali per chiunque avesse gli occhi per vedere. No, Shadow. La guerra è appena cominciata.»

Si piegò e spense il sigaretto configgendolo nella terra ai piedi del monumento come un’offerta votiva.

«Faceva sempre battute» disse Shadow. «Ora non ne fa più.»

«È difficile trovare la voglia di scherzare, adesso. Wednesday è morto. Vieni dentro?»

«Tra poco.»

Nancy si avviò verso il motel. Shadow allungò una mano per sfiorare il monumento. Passò le dita sulla targa di ottone freddo, poi si voltò incamminandosi verso la chiesetta bianca, ed entrò dalla porta spalancata. Nel buio sedette sulla panca più vicina all’ingresso, chiuse gli occhi e chinò la testa pensando a Laura, a Wednesday, al fatto di essere vivo.

Sentì un rumore secco alle spalle, uno stropiccio di piedi. Si voltò. Sulla soglia c’era una sagoma scura contro il cielo stellato. Un raggio di luna colpì il metallo della canna.

«Vuoi spararmi?» chiese.

«Cazzo… mi piacerebbe» disse Town. «E per autodifesa. Stavi pregando? Ti hanno convinto di essere dèi? Be’, non lo sono.»

«Non stavo pregando. Pensavo.»

«Secondo me» proseguì Town «sono mutazioni. Esperimenti evolutivi. Con un po’ di abilità ipnotica e qualche trucco riescono a far credere qualsiasi cosa. In verità non è niente di strabiliante. Robetta. E in fondo muoiono come tutti.»

«È sempre successo» rispose Shadow. Si alzò e Town fece un passo indietro. Shadow uscì dalla chiesetta distanziandolo. «Ehi» disse, «conosci Louise Brooks?»

«È un’amica tua?»

«No. Era un’attrice nata da queste parti.»

Town si fermò. «Forse ha cambiato nome e adesso si chiama Liz Taylor o Sharon Stone» suggerì volonteroso.

«Può darsi.» Shadow si incamminò in direzione del motel. Town gli stava alle calcagna.

«Tu dovresti essere in galera» gli disse. «Dovresti essere nel braccio della morte.»

«Non ho ucciso io i tuoi colleghi» rispose Shadow. «Però voglio dirti una cosa che mi hanno raccontato quand’ero dentro. Una cosa che non ho mai dimenticato.»

«Cioè?»

«In tutto il Vangelo c’è un solo uomo al quale Gesù promette personalmente un posto in Paradiso. Non a Pietro e Paolo né a nessuno degli altri ma a un ladrone inchiodato sulla croce. Perciò non disprezzare quelli che stanno nel braccio della morte. Magari sono al corrente di qualcosa che tu non sai.»

L’autista era in piedi vicino alla Humvee. «Buonanotte, signori» disse al loro passaggio.

«’notte» rispose Town. E poi, a Shadow: «Per quanto mi riguarda, io me ne sbatto di tutta questa storia. Faccio quello che mi ordina il signor World. E più facile».

Shadow percorse il corridoio fino alla camera numero nove.

Aprì la porta, entrò. «Scusi. Credevo che fosse la mia stanza.»

«Infatti» rispose Media. «Stavo aspettando te.» Al chiaro di luna della stanza intravedeva i capelli della donna, il viso pallido. Sedeva composta sul bordo del letto.

«Mi cercherò un’altra stanza.»

«Me ne vado subito» disse lei, «pensavo di cogliere l’occasione per farti un’offerta.»

«Va bene. Faccia la sua offerta.»

«Rilassati» disse lei con un tono suadente. «Sei così rigido, come se avessi inghiottito un manico di scopa. Senti, Wednesday è morto. Tu non devi niente a nessuno. Vieni con noi. Unisciti alla Squadra Vincente, è giunto il momento.»

Shadow rimase in silenzio.

«Possiamo renderti famoso, Shadow. Possiamo darti il controllo di ciò che la gente crede e dice, di quello che indossa e sogna. Vuoi diventare il prossimo Cary Grant? Noi siamo in grado di realizzare il tuo desiderio. Siamo in grado di farti diventare i futuri Beatles.»

«Come offerta, preferivo quella di vedere le tette di Lucy» disse Shadow. «Sempre che fosse lei.»

«Ah.»

«Adesso vorrei disporre della mia camera. Buonanotte.»

«Ovviamente» riprese la donna senza fare il minimo cenno di volersene andare, come se lui non avesse parlato, «possiamo anche agire al contrario. Possiamo farti andare tutto male e trasformarti per sempre in un tristo figuro. Potresti passare alla storia come un mostro, ricordato per sempre, sì, ma come Charles Manson, Hitler… cosa ne dici?»

«Senta signora, sono un po’ stanco, le sarei grato se se ne andasse.»

«Ti ho offerto il mondo» disse lei, «ricordatene, quando ti ritroverai a finire i tuoi giorni in una fogna.»

«Stia tranquilla, me ne ricorderò.»

La donna se ne andò lasciando una scia di profumo nell’aria. Shadow si sdraiò sul nudo materasso pensando a Laura, ma ogni immagine — Laura che gioca a frisbee, Laura che mangia una pallina di gelato senza cucchiaino, Laura che ridacchia sfilandogli davanti con la biancheria esotica comperata ad Anheim dov’era andata per un convegno sul futuro delle agenzie di viaggio — si trasformava sempre, nella sua mente, nell’immagine di Laura che succhia il cazzo a Robbie mentre un camion li travolge consegnandoli all’oblio. Poi gli sembrò di risentire le sue parole, e facevano ancora male.

Non sei morto, disse nel ricordo la voce pacata di Laura, però non sono così sicura che tu sia davvero vivo.

Bussarono alla porta. Shadow si alzò ad aprire. Era il ragazzo grasso. «Quegli hamburger» disse «erano schifosi. «Ma ci credi? Ottanta chilometri per il più vicino McDonald’s. Non avevo mai pensato che al mondo ci fosse un posto a ottanta chilometri dal più vicino McDonald’s.»

«Questa stanza sta diventando la Grand Central Station» disse Shadow. «Va bene, d’accordo, immagino che sarai venuto a offrirmi la libertà di Internet se passo dall’altra parte della barricata, o sbaglio?»

Il ragazzo grasso tremava. «No. Tu sei già spacciato. Tu… sei un manoscritto miniato in un gotico del cazzo. Non ti si potrebbe trovare un ipertesto nemmeno volendo. Io sono… sinaptico, tu sei sinottico…» Aveva uno strano odore, il ragazzo grasso. A Shadow tornò in mente il detenuto di cui non aveva mai saputo il nome nella cella di fronte alla sua che un giorno si era denudato completamente e aveva annunciato a tutti che era stato inviato a liberare i buoni come lui, per portarli su un’astronave d’argento fino a un pianeta perfetto. Dopo di che Shadow non lo aveva più visto. Il ragazzo grasso aveva lo stesso odore.

«Perché sei venuto nella mia camera?»

«Volevo parlare.» C’era un tono lamentoso nella sua voce. «E raccapricciante, la mia stanza. Solo per questo sono venuto. Ottanta chilometri per arrivare al più vicino McDonald’s, te l’immagini? Magari potrei restare qui da te.»

«E i tuoi amici della limousine? Quello che mi ha preso a pugni, per esempio? Perché non chiedi a lui di tenerti compagnia?»

«Qui i ragazzi non sono operativi. Siamo in una zona morta.»

«Manca ancora tempo a mezzanotte, e ancora di più all’alba. Forse è meglio se ti riposi un po’. Io ne ho bisogno.»

Il ragazzo grasso si limitò ad annuire e se ne andò.

Shadow chiuse la porta a chiave e tornò a sdraiarsi sul materasso.

Dopo qualche minuto cominciò il rumore. Gli ci volle un po’ per capire cos’era, aprì la porta e uscì in corridoio a verificare. Era il ragazzo grasso, nella sua stanza. Sembrava che stesse lanciando un oggetto enorme contro le pareti, e dal suono Shadow dedusse che l’oggetto doveva essere il suo corpo. «Sono poco!» singhiozzava, o forse «Sono porco». Shadow non riusciva a capire.

«Silenzio» sbraitò Chernobog dalla sua stanza in fondo al corridoio.

Shadow attraversò la hall e uscì dal motel. Era stanchissimo.

L’autista, in piedi accanto alla Humvee, era un’ombra scura con un berretto.

«Non riesce a dormire, signore?» chiese.

«No.»

«Vuole fumare una sigaretta?»

«No, grazie.»

«Le dispiace se fumo io?»

«Assolutamente no.»

L’autista accese con un Bic usa e getta e fu alla luce gialla della fiammella che Shadow lo vide in faccia, per la prima volta, in effetti e, riconoscendolo, cominciò a capire.

Conosceva quella faccia scarna. Sapeva che sotto il berretto con visiera c’erano i capelli color carota, tagliati a spazzola. Sapeva che se avesse sorriso, intorno alle labbra sarebbe apparso un reticolo di profonde cicatrici.

«Sembri in forma, ragazzo» disse.

«Low Key?» Shadow fissava circospetto il vecchio compagno di cella.

Le amicizie nate in prigione sono una bella cosa: ti aiutano a sopravvivere a luoghi atroci e a tempi bui. Però, davanti ai cancelli chiusi del penitenziario finiscono, e un vecchio compagno di cella che ricompare all’improvviso è, nel migliore dei casi, una fortuna con il rovescio della medaglia.

«Cazzo. Low Key Lyesmith» disse Shadow, e sentendo quello che aveva appena detto capì. «Loki» disse. «Loki Lie-Smith, fabbro di menzogne.»

«Sei lento» ribatté Loki, «però alla fine ci arrivi.» E mentre la bocca si piegava in un sorriso sfregiato, il suo sguardo ombroso sprigionava scintille.

Sedevano nella stanza di Shadow nel motel abbandonato, alle due estremità del letto. Dalla camera del ragazzo non arrivava più nessun rumore.

«Hai avuto fortuna a incontrarmi dentro» disse Loki. «Non ce l’avresti mai fatta a sopravvivere al primo anno, senza di me.»

«Perché non te ne sei andato quando ti pareva?»

«È più semplice scontare tutta la pena.» Dopo una pausa aggiunse: «Tu devi capire questa faccenda degli dèi. Non ha niente a che vedere con la magia. Riguarda te, ma nel senso di quello che la gente crede che tu sia. Riguarda il fatto di diventare l’essenza concentrata e ingigantita di te stesso. È come diventare tuono, o la potenza di un cavallo lanciato al galoppo, o la saggezza. Assorbì tutta la fede e diventi più grande, più forte, sovrumano. Ti cristallizzi». Si interruppe. «E poi un giorno si dimenticano di te, non credono più in te, non ti offrono sacrifici, se ne fregano, e in men che non si dica ti ritrovi a fare il gioco delle tre carte all’angolo tra Broadway e la Quarantatreesima.»

«Perché eri in cella con me?»

«Pura e semplice coincidenza.»

«E adesso fai l’autista per gli avversari.»

«Se vuoi definirli così. Dipende dal punto di vista. Per come la vedo io, faccio l’autista per la squadra vincente.»

«Però tu e Wednesday siete tutti e due… appartenete tutti e due al…»

«Al pantheon norreno? Apparteniamo entrambi al pantheon scandinavo. È questo che volevi dire?»

«Sì.»

«E dunque?»

Shadow esitò. «Dovevate essere amici, un tempo.»

«No? Mai stati amici. Non mi dispiace che sia morto. Ci impediva di andare avanti. Con la sua morte gli altri dovranno guardare in faccia la realtà: cambiare o soccombere, evolversi o perire. Lui non c’è più. La guerra è finita.»

Shadow lo guardò con aria perplessa. «Non puoi dire una stupidaggine simile» disse. «Sei sempre stato intelligente. La morte di Wednesday non metterà fine proprio a niente, anzi, spingerà tutti gli indecisi a saltare il fosso.»

«Mai mescolare metafore, Shadow. È una brutta abitudine.»

«Comunque è la verità. Cazzo. Con la sua morte, in un istante ha ottenuto quello che stava cercando di fare da mesi. Li ha fatti sentire tutti uniti. Ha dato loro qualcosa in cui credere.»

«Può darsi.» Loki scrollò le spalle. «Per quanto ne so io, dalla mia parte pensano tutti che con la scomparsa del piantagrane siano finite le grane. Comunque non sono affari miei. Io faccio l’autista.»

«Allora dimmi» riprese Shadow, «perché tutti si interessano a me? Si comportano come se fossi importante. Perché quello che faccio io deve avere qualche importanza?»

«Che sia dannato se ti posso rispondere. Per noi eri importante perché eri importante per Wednesday. In quanto alla ragione… credo che sia un altro dei piccoli misteri dell’esistenza.»

«Sono stufo di misteri.»

«Ah sì? A me pare che aggiungano qualcosa al mondo. Come un pizzico di sale nello stufato.»

«Così tu sei l’autista. Lavori per tutti?»

«Per chiunque abbia bisogno di me» disse Loki. «È un modo per guadagnarsi da vivere.»

Avvicinò il quadrante dell’orologio da polso agli occhi e premette un pulsante: una delicata luce azzurrognola gli illuminò il viso dandogli un aspetto stregato, stregonesco. «Mancano cinque minuti a mezzanotte» disse. «Vieni?»

Shadow fece un respiro profondo. «Vengo» rispose.

Percorsero il corridoio fino alla camera numero cinque.

Loki prese una scatola di fiammiferi dal taschino e ne accese uno usando l’unghia del pollice. Il bagliore improvvisò ferì gli occhi di Shadow. Lo stoppino di una candela si accese con un tremito. Poi un’altra. Loki ripeté l’operazione con un nuovo fiammifero continuando ad accendere i mozziconi di candela appoggiati sui davanzali, sulla testiera del letto e sul lavandino nell’angolo.

Il letto era stato spostato nel mezzo della stanza in modo che tutt’intorno ci fosse un po’ di spazio, tra il materasso e il muro. Era stato coperto con vecchie lenzuola del motel, piene di buchi e di macchie, e sopra le lenzuola giaceva Wednesday, perfettamente immobile.

Indossava il vestito chiaro che portava quando gli avevano sparato. Il lato destro della faccia, intatto, non era deturpato. La parte sinistra era uno sfigurato ammasso di carne, e sulla spalla e sul davanti della giacca c’erano macchie scure. Aveva le braccia distese lungo i fianchi. La sua espressione era tutt’altro che pacifica: sembrava ferito, ferito nell’anima; una ferita tremenda, profonda, piena di rabbia, odio e follia. E, a un certo livello, era un’espressione soddisfatta.

Shadow immaginò le abili mani del signor Jacquel che cancellavano quell’odio e quel dolore e ricostruivano il volto di Wednesday con cerone e cosmetici da impresario di pompe funebri, dandogli la pace e la dignità finali che perfino la morte gli aveva negato.

Comunque il corpo senza vita non sembrava più piccolo. E puzzava ancora leggermente di Jack Daniel’s.

Il vento delle pianure cominciava a soffiare: lo si sentiva ululare intorno al vecchio motel nel centro immaginario dell’America. Le fiammelle delle candele sul davanzale tremolarono.

Si sentirono dei passi lungo il corridoio. Qualcuno bussò a una porta dicendo «Facciamo in fretta, per favore. È arrivato il momento» e cominciarono a entrare tutti, a testa bassa.

Per primo Town, seguito da Media, dal signor Nancy e da Chernobog. Per ultimo il ragazzo grasso con ecchimosi recenti sulla faccia e le labbra in perenne movimento, come se stesse recitando qualcosa tra sé senza emettere suono. Shadow provò pena per lui.

Si disposero informalmente intorno al corpo, a distanza di un braccio uno dall’altro. L’atmosfera nella stanza era religiosa — religiosa in una maniera profonda e per Shadow completamente nuova. Gli unici suoni erano il vento e il crepitio delle candele.

«Siamo qui riuniti in un luogo senza dèi» cominciò Loki «per affidare il corpo di quest’individuo a coloro che ne disporranno in modo appropriato secondo il rito. Se qualcuno vuole dire qualcosa parli ora.»

«Io no di certo» disse Town. «Non l’ho mai incontrato, si può dire. E tutta questa storia non mi piace.»

Parlò Chernobog: «Le azioni hanno conseguenze. Lo sapete, vero? È soltanto l’inizio».

Il ragazzo grasso ridacchiò con una vocetta stridula, femminile. Disse: «D’accordo, d’accordo, ho capito». E tutto d’un fiato recitò:


Girando e girando nella spirale che si allarga

Il falco non può udire il falconiere;

Le cose crollano; il centro non può reggere…


Si interruppe di colpo, aggrottando la fronte. «Merda. Una volta la sapevo tutta.» Si sfregò le tempie con una smorfia e rimase in silenzio.

A quel punto tutti guardavano Shadow. Adesso il vento era un urlo e lui non sapeva cosa dire. Parlò: «È un ben misero momento. Metà dei presenti l’hanno ucciso o sono coinvolti nella sua morte. Ci consegnate il suo corpo. Benissimo. Era un irascibile vecchiaccio ma ho bevuto il suo idromele e lavoro ancora per lui. Nient’altro».

Media disse: «In un mondo dove si muore ogni giorno ritengo che sia importante ricordare che per ogni attimo di dolore che proviamo quando qualcuno ci lascia c’è un momento di gioia per un bimbo che nasce. Quel primo vagito è… magico, non trovate? Forse è difficile ammetterlo, ma gioia e dolore sono come il latte con i biscotti. Stanno bene insieme. Credo che dovremmo meditare tutti un attimino su queste parole».

Il signor Nancy si schiarì la gola e disse: «A quanto pare lo devo dire io, visto che nessun altro lo farà. Ci troviamo al centro di una terra che non ha tempo per gli dèi, e qui nel suo centro ne ha meno che mai. È una terra di nessuno, un luogo dove si osserva una tregua d’armi, e noi la rispettiamo. Non abbiamo scelta. Quindi voi ci consegnate il corpo del nostro amico. Noi lo accettiamo. Pagherete per questo, morte con morte, sangue per il sangue versato».

Town disse: «In ogni caso se ve ne andaste a casa a spararvi un colpo in testa risparmiereste tempo e fatica. Potreste fare a meno del mediatore».

«Vaffanculo» gli rispose Chernobog. «Vaffanculo tu e tua madre e il cavallo con cui sei arrivato. Tu non morirai nemmeno in battaglia. Nessun guerriero berrà il tuo sangue. Non sarà una creatura vivente a prendere la tua vita. Farai una fine miserabile. Creperai con un bacio sulla bocca e una menzogna nel cuore.»

«Piantala, vecchio» disse Town.

«La torbida corrente di sangue è scatenata, ovunque» intervenne il ragazzo grasso. «Credo che continui così.»

Il vento continuava a ululare.

«Prendetevelo» disse Loki. «È vostro. Abbiamo finito. Portate via il vecchio bastardo.»

Fece un gesto e Town, Media e il ragazzo grasso uscirono. Sorrise a Shadow: «Nessun uomo può dirsi felice, vero, ragazzo…?». Poi se ne andò anche lui.

«Adesso cosa succede?» chiese Shadow.

«Adesso lo prendiamo e ce lo portiamo via.».

Avvolsero il corpo in un lenzuolo del motel, lo avvolsero bene nel sudario improvvisato perché non si vedesse e per poterlo trasportare. I due uomini anziani si avvicinarono uno alla testa e uno ai piedi del cadavere, ma Shadow disse: «Lasciatemi provare». Si piegò sulle ginocchia, infilò le braccia sotto la sagoma e se la caricò sulle spalle. Si raddrizzò e trovò l’equilibrio. «Va bene» disse. «Ce l’ho. Mettiamolo dietro, nel pulmino.»

Chernobog sembrava sul punto di obiettare, invece tacque. Si sputò sul pollice e sull’indice e spense le candele. Shadow le sentì sibilare nella stanza sempre più buia.

Wednesday era pesante, ma camminando a un’andatura lenta e regolare Shadow riusciva a trasportarlo. Non aveva alternative. Le parole di Wednesday gli riecheggiavano in testa a ogni passo lungo il corridoio, e risentiva nella gola il sapore agrodolce dell’idromele. Mi proteggi. Mi trasporti da un posto all’altro. Fai le commissioni. In caso di emergenza, ma solo in caso di vera emergenza, fai del male a quelli a cui devi fare del male. Nell’improbabile ipotesi della mia morte farai la mia veglia funebre…

Il signor Nancy gli aprì le porte del motel, poi si affrettò a precederlo per aprire il portellone del pulmino. Gli altri quattro erano già in piedi accanto alla Humvee e li guardavano come se non vedessero l’ora di andarsene. Loki si era rimesso il berretto da autista. Il vento freddo strattonava Shadow e faceva sbattere il lenzuolo.

Lo adagiò il più delicatamente possibile.

Qualcuno gli batté un colpo sulla spalla. Si voltò. Era Town che tendeva una mano con qualcosa dentro.

«Tieni» disse. «Il signor World voleva che lo prendessi tu.»

Era un occhio di vetro attraversato da una crepa finissima e con una minuscola scheggia mancante.

«L’abbiamo trovato nella Masonic Hall quando abbiamo ripulito. Tienilo come portafortuna. Dio sa se non ne avrai bisogno.»

Shadow strinse l’occhio nella mano. Gli sarebbe piaciuto ribattere con una frase arguta ma Town era già tornato vicino alla Humvee e ci stava salendo e a lui non era venuto in mente niente di intelligente da dire.


Si diressero verso oriente e l’alba li sorprese a Princeton, nel Missouri. Shadow non aveva ancora dormito un minuto.

«Dove vuoi che ti lasciamo?» gli domandò Nancy. «Se fossi in te rimedierei un documento di identità e me ne andrei in Canada o in Messico.»

«Io rimango con voi» rispose Shadow. «È quello che avrebbe voluto lui.»

«Non lavori più per lui. È morto. Non appena avremo sistemato il suo corpo sarai libero di andartene.»

«E cosa dovrei fare?»

«Tieniti lontano dai guai, mentre la guerra è in corso» disse Nancy. Mise la freccia e svoltò a sinistra.

«Rimani nascosto per un po’» intervenne Chernobog. «Poi, quando la guerra sarà conclusa, vieni da me che portiamo a termine quella faccenda in sospeso.»

«Dove stiamo portando il corpo?»

«In Virginia. C’è un albero» disse Nancy.

«L’albero del mondo» disse Chernobog con cupa soddisfazione. «Ne avevamo uno anche dalle mie parti. Ma i nostri crescevano sottoterra, non sopra.»

«Lo mettiamo ai piedi dell’albero» continuò Nancy «e ce lo lasciamo. Tu sei libero e noi andiamo a sud. C’è una battaglia. Scorrerà il sangue. Molti moriranno. Il mondo cambierà, un pochino.»

«Non mi volete a combattere al vostro fianco? Sono forte. Mi difendo bene.»

Nancy si voltò verso di lui e sorrise, il primo vero sorriso che Shadow vedeva sulla sua faccia da quando era stato tirato fuori dalla Lumber County Jail. «Questa battaglia verrà combattuta quasi sempre in luoghi dove tu non puoi andare, che non puoi nemmeno sfiorare.»

«Nel cuore e nella mente della gente» spiegò Chernobog. «Come al grande carosello.»

«Dove?»

«La giostra» disse il signor Nancy.

«Oh. Capisco. Dietro le quinte. Come il deserto con le ossa.»

Il signor Nancy alzò la testa. «Ogni volta che decido che non hai il cervello neanche per fare due più due, riesci sempre a sorprendermi. Sì, infatti, è lì che si combatte la vera battaglia. Il resto saranno soltanto fulmini e saette.»

«Ditemi della veglia» insistette Shadow.

«Qualcuno deve rimanere con il corpo. È la tradizione. Troveremo qualcuno.»

«Lui voleva che lo facessi io.»

«No» disse Chernobog. «Ti ucciderebbe. Pessima, pessima idea.»

«Ah sì? In che modo mi ucciderebbe? Il fatto di restare con il cadavere?»

«Non è una cosa che vorrei per il mio funerale» disse il signor Nancy. «Quando muoio, vorrei essere lasciato in un posto caldo. E poi, quando qualche bella ragazza passerà vicino alla mia tomba, io l’afferrerò per le caviglie, come in quel film.»

«Non l’ho visto» disse Chernobog.

«Certo che l’hai visto. È alla fine. Il film con i liceali che vanno al ballo di fine anno.»

Chernobog scosse la testa.

Shadow disse: «Il film si intitola Carrie-Lo sguardo di Satana, signor Chernobog. Va bene, allora uno di voi mi parli della veglia».

«Spiegaglielo tu» disse Nancy, «io sto guidando.»

«Non ho mai sentito parlare di nessun film con un titolo simile. Diglielo tu.»

Nancy cominciò: «La persona che fa la veglia viene legata all’albero. Proprio come era stato legato Wednesday. E lì deve rimanere per nove giorni e nove notti. Senza cibo, senz’acqua. Completamente solo. Alla fine lo tirano giù, e se è sopravvissuto… be’, può capitare. Insomma così Wednesday avrà avuto la sua veglia».

Chernobog disse: «Magari Alviss ci potrebbe mandare uno dei suoi. Un nano è capace di farcela».

«Lo farò io» disse Shadow.

«No» rispose il signor Nancy.

«Sì.»

I due vecchi rimasero in silenzio. Poi Nancy domandò: «Perché?».

«Perché è il genere di cosa che farebbe una persona viva» rispose Shadow.

«Tu sei matto» disse Chernobog.

«Può darsi. Comunque la veglia di Wednesday è compito mio.»

Quando si fermarono a fare benzina Chernobog annunciò che si sentiva poco bene e voleva viaggiare davanti. A Shadow non dispiaceva spostarsi dietro, anzi, così poteva allungare meglio le gambe e magari dormire.

Proseguirono in silenzio. Shadow aveva preso una decisione, ed era una sensazione forte, strana.

«Ehi, Chernobog» disse il signor Nancy dopo un po’, «hai notato il ragazzo tecnologico, al motel? Non stava tanto bene. Deve aver giocato con qualcosa che gli si è ritorto contro. Questo è il problema più grosso con i nuovi ragazzi, credono di sapere tutto e poi si ritrovano con un guaio più forte di loro.»

«Bene» disse Chernobog.

Shadow si era completamente sdraiato sul sedile. Aveva l’impressione di essere diventato due persone, se non di più. C’era una parte di lui che si sentiva leggermente esilarata: aveva fatto qualcosa. Si era mosso. La cosa non avrebbe avuto valore, se lui non avesse avuto voglia di vivere, invece lui voleva vivere, e questo faceva una grande differenza. Sperava di sopravvivere all’esperienza, ma era disposto a morire, se necessario, per essere vivo. Per un momento pensò che era tutto molto buffo, anzi, che era la cosa più buffa del mondo e si chiese se Laura avrebbe apprezzato l’ironia della situazione.

C’era un’altra parte di lui — forse Mike Ainsel, pensò, scomparso nel nulla quando qualcuno aveva premuto un pulsante nella prigione di Lakeside — che stava ancora cercando di raccapezzarsi, di capire il disegno complessivo.

«Gli indiani nascosti» disse a voce alta.

«Cosa?» rispose la voce irritata e gracchiante di Chernobog dal sedile anteriore.

«Quei disegni che bisognava colorare da bambini. "Riuscite a trovare gli indiani nascosti nel disegno? In questo disegno ci sono dieci indiani, siete capaci di trovarli tutti?" A una prima occhiata si vedono soltanto la cascata, le rocce e gli alberi, poi se inclini un pochino il foglio vedi che quell’ombra è un indiano…» Sbadigliò.

«Dormi» suggerì Chernobog.

«Ma il disegno complessivo…» disse Shadow, e si addormentò sognando gli indiani nascosti.


L’albero si trovava in Virginia. Lontano da tutto, in un campo dietro una vecchia fattoria. Per arrivare guidarono per quasi un’ora oltre Blacksburg, in direzione sud, lungo strade che avevano nomi come Pennywinkle Branch e Rooster Spur. Si persero girando due volte in tondo; il signor Nancy e Chernobog si innervosirono con Shadow, e bisticciarono anche tra loro.

Si fermarono a chiedere indicazioni nel piccolo emporio a fondovalle, dove si biforcava la strada. Un vecchio uscì dal retrobottega e li fissò: indossava una tuta Oshkosh B’Gosh e nient’altro, nemmeno le scarpe. Chernobog si comprò un piedino di maiale in salamoia e andò a mangiarselo sul portico, mentre il vecchio con la tuta disegnava una cartina per il signor Nancy su un tovagliolo, indicandogli bene i punti in cui svoltare e le pietre miliari.

Ripartirono, sempre con il signor Nancy al volante, e arrivarono in dieci minuti. Sul cartello appeso al cancello c’era scritto FRASSINO.

Shadow scese per aprire il cancello. Il pulmino avanzò sobbalzando sui prati. Shadow richiuse il cancello. Camminò per sgranchirsi le gambe, mettendosi a correre quando vide che il pulmino si allontanava troppo, godendosi il piacere del movimento.

Durante il viaggio dal Kansas aveva perso la nozione del tempo. Avevano guidato per due giorni? O tre? Non lo sapeva.

Il corpo che avevano a bordo non era ancora entrato in fase di decomposizione. Si sentiva un leggero odore di Jack Daniel’s e di miele acido. Non era sgradevole. Di tanto in tanto Shadow tirava fuori l’occhio di vetro dalla tasca e lo guardava: la frattura era profonda, probabilmente provocata dall’impatto del proiettile, ma a parte la minuscola scheggia mancante su una zona dell’iride, la superficie era intatta. Lo faceva scorrere tra le dita, nascondendolo nel palmo, spingendolo. Sebbene fosse un macabro souvenir in qualche modo lo confortava, e sospettava che Wednesday avrebbe trovato divertente sapere che era finito nella sua tasca.

La fattoria era immersa nel buio, con porte e finestre chiuse. I prati erano incolti, con l’erba alta. Il tetto dell’edificio si stava sgretolando, era coperto di fogli di plastica neri. Superato un dosso Shadow vide l’albero.

Era grigio argenteo, più alto della fattoria. Era l’albero più bello che avesse mai visto: spettrale e insieme reale e quasi perfettamente simmetrico. Gli sembrò subito familiare: si chiese se l’avesse sognato, poi capì che no, lo aveva già visto molte volte, ne aveva visto una copia: il fermacravatta d’argento di Wednesday.

Il pulmino proseguì a balzelloni per fermarsi a circa sette metri dal tronco.

In piedi accanto all’albero c’erano tre donne. Dapprima Shadow pensò che fossero le Zarja, invece no, erano tre donne che non conosceva. Avevano l’aria stanca e annoiata, come se fossero lì ad aspettare da tempo immemorabile. Ciascuna teneva una scala di legno a pioli. La più robusta delle tre aveva anche un grosso sacco marrone. Sembravano bambole russe: una grande — come Shadow, forse più alta ancora — una media, e una talmente piccola e gobba che a una prima occhiata Shadow l’aveva scambiata per una bambina. Si somigliavano talmente che dovevano per forza essere sorelle.

La più piccola fece un inchino. Le altre due rimasero a guardare. Stavano fumando una sigaretta in tre e la finirono, poi una di loro spense il mozzicone su una radice.

Chernobog aprì il portellone del pulmino, la più alta delle tre donne lo raggiunse e sollevò il corpo di Wednesday come se fosse un sacco di farina, con grande disinvoltura, e lo portò fino all’albero. Lo adagiò a circa tre metri dal tronco, poi lo liberò del sudario insieme alle sorelle. Alla luce del sole l’aspetto di Wednesday era molto peggiore di quello che era sembrato al fioco bagliore delle candele nella camera del motel, e Shadow distolse subito gli occhi. Le donne gli rassettarono l’abito e poi lo appoggiarono su un angolo del lenzuolo per avvolgercelo di nuovo.

Si avvicinarono a Shadow.

Sei tu il prescelto? chiese la più grande.

Colui che piangerà il Padre Universale? chiese quella di altezza media.

Hai deciso di fare la veglia? chiese la più piccola.

Shadow annuì. In seguito non sarebbe riuscito a ricordare se aveva davvero sentito la voce delle tre donne. Forse aveva semplicemente capito cosa gli stavano chiedendo dall’espressione, dagli sguardi.

Il signor Nancy, che era entrato nella fattoria per usare il bagno, tornò verso l’albero. Stava fumando uno dei suoi sigaretti. Aveva un’aria pensierosa. «Shadow, non sei obbligato. Possiamo trovare qualcuno di più adatto.»

«La faccio io» si limitò a rispondere Shadow.

«E se tu morissi?» chiese il signor Nancy. «Se la veglia ti ammazzasse?»

«Allora mi avrà ammazzato.»

Il signor Nancy gettò il sigaretto nell’erba, arrabbiato. «Ti avevo detto che hai la segatura al posto del cervello, e te lo ripeto adesso. Non capisci che sto cercando di offrirti una via d’uscita?»

«Mi dispiace» disse Shadow, e non aggiunse altro. Nancy se ne tornò verso il pulmino.

Toccò a Chernobog avvicinarsi. Non aveva un’aria contenta. «Devi uscire vivo di qui. Fallo per me.» Poi gli picchiò delicatamente con le nocche sulla fronte dicendo: «Pum!». Gli diede una stretta a una spalla, gli batté una pacca su un braccio e andò a raggiungere il signor Nancy.

La donna grande, che sembrava rispondere al nome di Urtha o Urdar — Shadow non riusciva a pronunciarlo in modo per lei soddisfacente — gli spiegò a gesti che si doveva spogliare.

«Completamente?»

La donna grande scrollò le spalle. Shadow rimase in mutande e maglietta. Insieme le tre sorelle appoggiarono le scale all’albero. Gli indicarono una delle tre scale, dipinta a mano con fiori e foglie attorcigliati intorno ai due montanti.

Shadow salì i nove pioli e sollecitato dalle donne sedette su un ramo basso.

La donna media rovesciò sull’erba il contenuto del sacco: un groviglio di corde sottili e scure perché vecchie e sporche, e cominciò a separarle in base alla lunghezza, disponendole con cura accanto al corpo di Wednesday.

Adesso salirono sulle scale e cominciarono a far passare le corde, fermandole con nodi intricati ed eleganti, prima all’albero e poi intorno a Shadow. Senza alcun imbarazzo, come levatrici o infermiere o quelle pie donne che si prendono cura dei cadaveri, gli sfilarono maglietta e mutande, lo legarono, non troppo stretto, ma in modo sicuro e definitivo. Shadow si stupì di come le funi e i nodi sostenessero perfettamente il suo peso. Gli passavano sotto le braccia, tra le gambe, intorno alla vita, alle caviglie, al petto, fissandolo saldamente all’albero.

L’ultima corda venne passata, non stretta, intorno al collo. All’inizio si sentì scomodo, ma siccome il peso era ben distribuito, nessuna fune gli tagliava la carne.

Era sospeso con i piedi a un metro e mezzo da terra. L’albero, spoglio ed enorme, tendeva i suoi rami verso il cielo grigio, e la corteccia era levigata, argentea.

Le donne allontanarono le scale. Ci fu un momento di panico quando tutto il peso si appoggiò alle corde e il corpo si abbassò di qualche centimetro. Tuttavia Shadow non fiatò.

Le donne adagiarono il corpo di Wednesday avvolto nel lenzuolo del motel proprio ai piedi dell’albero e ve lo lasciarono.

Lo lasciarono lì solo.