"Cronomoto" - читать интересную книгу автора (Shaw Bob)3Kate stava allontanandosi sul marciapiede illuminato dalle vetrine dei negozi. Con la mantella argentata strettamente avvolta sull’abito leggero, e le gambe lunghe rese ancor più slanciate dai tacchi altissimi dei sandali, pareva la versione, idealizzata per lo schermo, della pupa di un gangster. La luminosità delle vetrine la incorniciava, proiettandone l’immagine nitida nella sua mente, e lui vide, con lo stupore che desta sempre una nuova scoperta, la rete delle sottili vene azzurre nella parte posteriore delle sue ginocchia. Breton si sentì sopraffatto da un’ondata di puro affetto. “Non puoi lasciare che Kate vada da sola di notte per la città vestita cosi” gli disse una voce. Ma l’unica alternativa era strisciarle dietro, e cedere alla sua volontà. Dopo aver esitato, si voltò incamminandosi nella direzione opposta, pieno di disgusto per se stesso e imprecando tra i denti. Circa due ore dopo si fermò davanti a casa sua una macchina della polizia. Breton, affacciato da un pezzo alla finestra, si precipitò ad aprire la porta. C’erano due agenti in borghese, dagli occhi scuri e indagatori e, dietro a loro, alcune figure in uniforme blu. Uno dei due esibì un distintivo. — Il signor John Breton? Breton annuì; incapace di parlare. “Mi spiace, Kate” pensò “mi spiace… torna, e andremo al ricevimento.” — Sono il tenente Convery della Squadra Omicidi. Posso entrare? — Sì — rispose Breton intontito, e li guidò in soggiorno. Dovette fare uno sforzo per non sprimacciare i cuscini, come una massaia nervosa. — Non so come dirvelo, signor Breton — disse lentamente Convery. Aveva una faccia larga, cotta dal sole, e un naso piccolo che si distingueva appena in mezzo agli occhi azzurri molto distanziati. — Che c’è, tenente? — Si tratta di vostra moglie. Pare che fosse nel parco, stanotte, sola, ed è stata assalita. — Assalita? — Breton si sentì tremare le ginocchia. — Ma dov’è adesso? Sta bene? Convery scosse la testa. — Mi spiace, signor Breton. È morta. Breton sprofondò nella poltrona mentre l’universo si restringeva e si espandeva intorno a lui come le cavità di un enorme cuore improvvisamente messo a nudo. “Sono stato io” pensò. “Io ho ucciso mia moglie.” Notò appena l’altro agente in borghese, che stava dicendo qualcosa sottovoce a Convery. — Il mio collega — disse Convery dopo qualche istante — mi rimprovera per esser stato troppo esplicito, signor Breton. Ufficialmente, avrei dovuto dire che è stato trovato il cadavere di una donna che da alcuni particolari potrebbe risultare vostra moglie, ma in un caso chiaro come questo, è inutile tirarla per le lunghe. Comunque teniamoci alla prassi: avete ragione di credere che il cadavere di una donna sui venticinque anni, alta, coi capelli biondi, che indossava un abito da sera blu-argento, da noi trovata vicino all’ingresso della Cinquantesima Strada del parco comunale, non sia quello di vostra moglie? — Nessuna ragione. Era uscita sola, stasera, vestita come avete detto voi. — Breton chiuse gli occhi. “Sono stato io. Ho ucciso mia moglie.” — Le ho permesso di andarsene da sola. — Dobbiamo ancora procedere all’identificazione ufficiale. Se volete, uno degli agenti vi accompagnerà all’obitorio. — Non è necessario — disse Breton. — Posso farcela da solo. Il cassetto frigorifero uscì scorrendo sulle guide ben oliate. Breton guardò la faccia gelida, sognante di Kate, e le gemme di umidità che seguivano la curva delle sue sopracciglia. Mosse automaticamente la mano per accarezzare Kate. Ma, notando le unghie orlate di nero dell’olio di macchina, si fermò. “Non la devi sporcare.” Il tenente Convery si mosse in un angolo del suo campo visivo, vicino eppure lontano anni-luce, al di là di un universo di pulsante sfavillio. — È vostra moglie? — E chi, se no? — mormorò Breton stupito. — Chi? Più tardi seppe che Kate era stata colpita, violentata e pugnalata. Un esperto, forse il medico legale, disse di non poter affermare con sicurezza in quale ordine si fossero svolti i fatti. Breton si tenne dentro la certezza della propria colpa per alcuni giorni, senza risentirne, mentre adempiva a inutili formalità. Ma contemporaneamente si rendeva conto di essere come una bomba in cui la miccia fosse già stata accesa, e stava vivendo i pochi secondi che avrebbero preceduto la sua disintegrazione. Il momento giunse, con la falsa grazia di un’esplosione filmata, il giorno successivo a quello dei funerali di Kate. Breton camminava senza meta nella parte nord della città, in una strada fiancheggiata da case corrose dal tempo. La giornata era fredda, e, sebbene non piovesse, i marciapiedi erano umidi. Vicino a un angolo trovò una piuma intatta, pulita, e la raccolse. Aveva striature grigioperla e bianche; doveva essere caduta a un uccello. E Breton si rammentò di come Kate portasse gli abiti quasi fossero le sue piume. Cercò un davanzale su cui posarla, come un guanto perso, e vide un uomo malvestito che gli sorrideva dalla porta di una casa. Breton lasciò cadere la piuma, che scese volteggiando sul cemento sporco, e la calpestò. L’azione successiva di cui si ricordava, risaliva ad alcune settimane dopo, quando aveva aperto gli occhi in un letto d’ospedale. Quanto era successo in quell’intervallo di tempo non era andato completamente perduto, ma era monco e distorto come una scena vista attraverso lenti zigrinate. Aveva bevuto molto, per annullare la consapevolezza di sé nell’alcol, contraendo le frontiere della propria coscienza. E da qualche parte, nella nebbia di quel caleidoscopio era nata l’idea che, per la sua mente febbricitante, aveva tutta la semplicità del lampo di genio. La polizia gli aveva detto che era difficile scoprire gli assassini psicopatici. In un caso come quello, poi, non avevano molta speranza di trovarlo. Pareva dicessero: “Se una donna se ne va di notte da sola nel parco, che cosa può aspettarsi?". Breton si sentiva a disagio con loro. La cosa che lo sgomentava di più, pensava, nella mentalità dei poliziotti, era il fatto che, stando sempre a contatto coi criminali, avevano scoperto una morale diversa. Anche se non l’approvavano, almeno fino a un certo punto la capivano, e l’ago della loro bussola morale ne risultava deviato. In questa situazione lui si sentiva come un giocatore che non capisse le regole del gioco, e per lo stesso motivo i poliziotti lo guardavano con astio, quando chiedeva quali risultati avessero ottenuto. Alla fine, a un dato momento, nelle ultime settimane, aveva deciso di inventare delle nuove regole. L’assassino di Kate non era stato visto da nessuno, e poiché non aveva avuto un motivo personale, specifico, per commettere il delitto, non c’era nulla che lo collegasse fisicamente a esso. Ma, pensava Breton, esisteva anche un altro tipo di legame. Lui non conosceva l’assassino, ma “l’assassino doveva conoscere lui". Il caso era stato ampiamente diffuso dai giornali e dalla TV locale, ed erano apparse numerose fotografie di Breton. Sarebbe stato assurdo se l’assassino non si fosse interessato all’uomo di cui aveva cosi selvaggiamente sconvolto l’esistenza. E ci fu un periodo in cui Breton si convinse che, se avesse incontrato l’assassino per strada, nel parco, in un bar, l’avrebbe riconosciuto dagli occhi. La città non era grande, ed era possibile che, nel corso della sua vita, riuscisse a incontrare tutti gli abitanti. Evidentemente doveva uscire, girare di continuo per le strade, andare nei posti dove va la gente… e prima o poi lo avrebbe visto. Avrebbe guardato negli occhi di uno sconosciuto, e “avrebbe capito". E allora… Il miraggio di quella speranza brillò davanti agli occhi di Breton per cinque settimane, finché non fu spento dalla denutrizione e dall’intossicazione alcolica. Apri gli occhi, e, dalla tonalità della luce che si rifletteva sul soffitto dell’ospedale, capì che fuori aveva nevicato. Un insolito senso di vuoto gli attanagliava lo stomaco e provò il desiderio, sano, pratico, di un bel piatto di minestrone campagnolo. Si mise a sedere sul letto, si guardò intorno e si rese conto di trovarsi in una stanza privata che solo alcuni mazzi di rose rosse salvavano dall’anonimato. Riconobbe in quelle rose i fiori preferiti della sua segretaria, Hetty Calder, e gli passò per la mente il vago ricordo della sua faccia lunga, cosi nota, china su di lui con espressione preoccupata. Breton ebbe un breve sorriso. In passato, Hetty era letteralmente dimagrita tutte le volte che lui si pigliava un raffreddore… ora non riusciva a pensare quali fossero stati su di lei gli effetti del suo modo di vivere nelle recenti settimane. Di nuovo sentì più forte il desiderio di mangiare, e allungò la mano verso il campanello. Cinque giorni dopo, quando venne dimesso dall’ospedale, fu Hetty ad accompagnarlo a casa, con la sua macchina. — Ascoltatemi, Jack — disse con un tono disperato nella voce. — Dovete proprio venire a stare un po’ da noi. Harry e io saremo felicissimi di avervi, e poiché siete rimasto solo… — Starò bene a casa mia, Hetty — l’interruppe Breton. — Grazie per l’offerta, ma è arrivato il momento che torni a casa e incominci a raccogliere i cocci. — Ma starete bene? — Hetty guidava con sicurezza nelle strade fiancheggiate da cumuli di neve sporca, manovrando la grossa vettura con piglio mascolino, aspirando a tratti dalla sigaretta, da cui cadeva ogni tanto un piccolo cilindro di cenere grigia. La sua faccia era segnata dall’ansia. — Starò bene — ripeté lui, con gratitudine. — Adesso sono in grado di pensare a Kate. Mi fa un male d’inferno, naturalmente, ma almeno riesco ad accettare la realtà. Prima non ne ero capace. È difficile spiegarlo, ma avevo la sensazione che esistesse qualche ufficio statale, una specie di ministero della Morte, dove avrei potuto spiegare che c’era stato uno sbaglio, che Kate “non poteva” morire. Sto dicendo delle sciocchezze, Hetty. Hetty lo guardò con la coda dell’occhio. — Parlate come un normale essere umano. Non c’è niente di strano in ciò che dite. — Di solito, come parlo? — Gli affari sono andati a gonfie vele, la settimana scorsa — disse la donna, cambiando tono e argomento. — Dovrete assumere altro personale. Si mise a fargli un resoconto dei nuovi affari e dei nuovi contratti stipulati dall’azienda di consulenza tecnica di Breton. Mentre Hetty parlava, lui si rese conto che non gliene importava niente del lavoro e degli affari. Tecnico nato, aveva preso un paio di diplomi senza grande sforzo, s’era dedicato alle consulenze geologiche entrando come socio in una ditta specializzata, e, quando il socio si era ritirato, era rimasto solo a dirigere l’ufficio. Era sempre andato tutto facile, liscio, sicuro, eppure, in un certo senso, senza molta soddisfazione. Lui si era sempre divertito a fare, a creare, sotto l’estro dell’abilità innata delle sue mani, ma non aveva mai avuto il tempo di dedicarsi completamente al lavoro. Breton si strinse nel soprabito, fissando con nostalgia i solchi neri lasciati dal passaggio delle ruote nella neve. Quando la macchina acquistava velocità, piccoli blocchi di neve fresca, sollevati dalle ruote anteriori, andavano silenziosamente a colpire il parabrezza e si frantumavano scivolando all’indietro, fino a scomparire disintegrandosi. Breton cercò di concentrarsi in quello che Hetty stava dicendo, ma si accorse con sgomento che un puntino di luce colorata, scintillante, era comparso a mezz’aria davanti a lui. “Oh, non adesso!” pensò, fregandosi gli occhi; ma la farfallina di luce cominciava già a crescere. Nel giro di un minuto aveva assunto le dimensioni di un soldo nuovo di zecca, che ruotava scintillando e rimaneva sempre al centro del campo visivo del suo occhio destro, da qualunque parte lui voltasse la testa. — Stamattina sono andata a casa vostra e ho acceso la caldaia del termosifone — disse Hetty. — Se non altro, starete al caldo. — Grazie — rispose lui, intontito. — Vi siete disturbata anche troppo per me. Lo scintillio furtivo cresceva con sempre maggior rapidità, ora, occupando quasi tutto il campo visivo, e già cominciava a svilupparsi secondo ben noti schemi: prismi geometrici che variavano in continuazione, si muovevano, si deformavano, aprivano finestre su dimensioni sconosciute. “Non adesso!” supplicava lui in silenzio. “Non voglio fare un viaggio adesso…” Quei fenomeni ottici gli erano noti fin dall’infanzia. Si presentavano a intervalli irregolari, da un minimo di pochi giorni a un massimo di tre mesi, a seconda dello stato di tensione mentale, ed erano generalmente preceduti da una sensazione di insolito benessere. Una volta passata l’euforia, si presentava il bagliore zig-zag davanti all’occhio destro, cui sarebbe seguito uno dei viaggi inesplicabili e spaventosi nel passato. Sapere che ogni viaggio durava solo una frazione di secondo di tempo reale e che doveva essere legato a una manifestazione non comune della memoria, non serviva a rendere più sopportabili i fenomeni che lo precedevano, perché le scene non erano mai piacevoli. Erano sempre frammenti della sua vita che avrebbe preferito dimenticare, momenti critici. E non era difficile indovinare quale sarebbe stato l’incubo che gli si sarebbe presentato con maggiore frequenza per l’avvenire. Quando arrivarono davanti a casa sua, Breton era praticamente cieco dall’occhio destro, la cui vista era coperta da una ridda smagliante di forme colorate, geometriche, tremule, prismatiche, che gli impedivano di calcolare bene le distanze. Riuscì a persuadere Hetty a non scendere dalla macchina, la salutò con la mano quando lei si allontanò lungo il vialetto coperto di neve, e finalmente aprì tentoni la porta. La luce scintillante aveva raggiunto il punto massimo, il che significava che, fra pochissimo, sarebbe improvvisamente scomparsa, e avrebbe avuto inizio il viaggio per chissà dove. Breton aspettava. La visuale dell’occhio destro comincio a schiarirsi, la tensione interiore aumentò, la stanza si allontanò, distorcendosi, mostrando strane prospettive. Con passo deciso, ineluttabilmente, varchiamo il limite… Kate stava allontanandosi sul marciapiede illuminato dalle vetrine dei negozi. Con la mantella argentea strettamente avvolta sull’abito leggero, e le gambe lunghe rese ancora più slanciate dai tacchi altissimi dei sandali, pareva la versione, idealizzata per lo schermo, della pupa di un gangster. La luminosità delle vetrine la incorniciava proiettandone l’immagine nitida nella mente di lui; e fu allora che Breton vide, con la certezza che la scena fosse sbagliata, tre alberi crescere in mezzo alla strada, proprio tra le corsie del traffico dove non c’erano mai stati alberi. Erano olmi, ormai quasi privi di foglie, e un certo non so che nella disposizione dei rami nudi provocò in lui il desiderio di allontanarsi in preda a un senso di repulsione. Si accorse poi che i tronchi erano immateriali e che la luce dei fari delle auto li passava da parte a parte. Quel gruppo di alberi continuava a incutergli un senso di timore; eppure, nello stesso tempo, se ne sentiva attratto. E intanto, Kate continuava ad allontanarsi, e una voce gli diceva che non poteva lasciarla girare sola di notte per la città vestita cosi. Combatté la stessa battaglia col suo orgoglio, poi si voltò per incamminarsi nella direzione opposta, pieno di disgusto verso se stesso, imprecando… …un senso di dolorante vastità, un mutamento di prospettiva e parallasse, inimmaginabili transizioni in cui le curve dello spazio-tempo ondeggiano tra il positivo e il negativo, e l’infinito si apre al centro, minaccioso, illusorio, pungente… Breton si aggrappò ai braccioli della poltrona e li strinse con forza finché l’ansito del suo respiro non si attenuò fino a spegnersi nel silenzio della stanza. Allora si alzò e si diresse al camino per caricare la vecchia pendola di quercia. Fuori, la neve aveva ricominciato a cadere a fiocchi piccoli, asciutti, simili a minuscoli spettri alla luce dei fari delle auto, oltre lo schermo degli alberi. La casa era piena di pazienti ombre scure. Breton andò in cucina a preparare un po’ di caffè, e intanto la sua mente andava piano piano liberandosi dall’intontimento provocato dal viaggio. La perdita di energia nervosa che seguiva ogni viaggio era un altro degli aspetti caratteristici comuni alle escursioni nel passato; ma questa volta il consumo di energia era stato maggiore del solito. Mentre aspettava che l’acqua bollisse, si accorse, in ritardo, che il viaggio era stato diverso dagli altri, anche perché vi si era introdotto un elemento fantastico. Quegli olmi che spuntavano nel bel mezzo della Quattordicesima Strada lo avevano sorpreso, ma oltre all’assurdità della loro presenza lì, avevano qualche altra cosa che lo aveva colpito. Erano trasparenti come immagini proiettate su uno schermo luminoso. Tuttavia, l’arco irregolare formato dai rami era vero. Lo aveva visto da qualche parte, e aveva un significato… quale? Quando il caffè fu pronto, aprì il frigo, ma non trovò né panna né latte. Il pensiero di bere solo caffè gli rivoltava lo stomaco, ma un’accurata ricerca nella cucina vuota gli rivelò che l’unico altro liquido disponibile era quello di un vasetto di sottaceti, dove alcuni cetriolini galleggiavano come reperti anatomici. Breton si versò una tazza di brodaglia nera, da cui si levavano spirali di vapore grigio, e tornò in soggiorno. Si accomodò in poltrona, bevve qualche sorso e pensò vagamente che doveva ricominciare a occuparsi del suo lavoro. Ma la penombra aveva ormai invaso la stanza, e lui era stanco. Una settimana di cure e di riposo non erano stati sufficienti a cancellare i postumi di una sbornia prolungata. Breton si svegliò qualche ora dopo, quando ormai si era fatto buio. Una luce tenue, venata di viola, filtrava nella stanza da un lampione stradale, e le ombre degli alberi si agitavano sulla parete di fronte. Breton decise di uscire a mangiare. Mentre si alzava dalla poltrona, notò le ombre vacillanti dei rami sullo schermo grigio della televisione… e allora si ricordò dove aveva visto i tre olmi. Nel corso di un servizio televisivo avevano trasmesso una diapositiva del luogo dove era stato trovato il cadavere di Kate… vicino a tre olmi. L’unica diversità era che gli olmi visti nel viaggio non erano immobili come quelli della foto. Si muovevano, i loro rami assumevano di continuo posizioni diverse a seconda dei capricci del vento. Breton esitò prima di definirli “reali", ma lo erano! Questo significava, probabilmente, che c’era qualcosa di cambiato nei suoi viaggi, che una parte della sua mente aveva ritenuto necessario credere di avere veramente visto Kate, quel giorno. Era possibile, si domandò freddamente Breton, che la sua coscienza solitaria, colpevole, avesse sfidato le leggi della natura facendo un viaggio reale nel tempo? E se l’antico desiderio umano di compiere l’impossibile, di tornare nel passato per correggere gli errori, fosse stato la forza psichica che aveva reso possibili tutti i suoi viaggi? Questo avrebbe spiegato perché le scene rivissute erano sempre momenti cruciali che avevano determinato una svolta disastrosa nel corso della sua esistenza, Non poteva darsi che lui fosse un viaggiatore nel tempo, ostacolato, deluso, ancorato al presente dalla realtà inamovibile del suo corpo, ma che si sforzava, con la forza della mente, di proiettare un aspetto immateriale della sua identità attraverso il tempo e di bussare alle porte invisibili del passato? Se le cose stavano così, allora avrebbe continuato a rivivere fino alla morte quell’ultima, tremenda scena con Kate. E c’erano anche i tre olmi… “Devo uscire, devo trovare un piccolo ristorante rumoroso” pensò Breton “con un juke-box, tovaglie a quadretti, grossi e volgari pomodori di plastica in mezzo ai tavoli, e normali esseri umani che parlano del più e del meno.” Accese le luci in tutta la casa, si rinfrescò e si cambiò. Stava uscendo quando vide un’auto che risaliva lungo il vialetto. Lo sportello di destra si aprì e ne scese Hetty Calder, che guardò con disgusto la neve e vi fece cadere un po’ di cenere della sigaretta come per rappresaglia. — Uscite? Harry e io eravamo venuti a vedere se vi occorreva qualche cosa. Breton rimase sorpreso di constatare quanta serenità gli procurasse la vista di quella figura tozza, vestita di tweed. — Vi invito a cena — disse. — Mi farà molto piacere stare con voi. Salì in macchina, e scambiò qualche parola con Harry Calder, un tipo di intellettuale calvo, sulla cinquantina. Il mucchio disordinato di pacchetti, sciarpe e giornali, sul sedile accanto a lui, gli ispirò un consolante senso di sicurezza, la sensazione di essere tornato nel mondo semplice e normale di tutti i giorni. Mentre attraversavano la città osservò gli addobbi natalizi, concentrandosi sui particolari, per non lasciar posto al pensiero di Kate. — Come vi sentite, Jack? — Hetty si volse a guardare Breton, seduto in mezzo a quella confusione familiare. — Quando vi ho accompagnato a casa, oggi, avevate una brutta cera. — Ecco, non mi sentivo molto bene. Però adesso sto meglio. — Cos’avevate? — insisté Hetty. Dopo un attimo di esitazione, Breton decise di provare a dire la verità. — In realtà, non ci vedo molto bene. Mi compaiono delle luci colorate davanti all’occhio destro. E allora, inaspettatamente, Harry Calder si voltò a dire in tono comprensivo: — Prismi, disegni a zigzag? Allora siete dei nostri. — Non capisco… — Anch’io ho gli stessi disturbi… e poi comincia il dolore — spiegò Harry Calder. — Sono sintomi preliminari comuni a chi soffre di emicrania. — Emicrania! — Breton sussultò. — Ma io non ho mai avuto mal di testa. — No? Allora siete uno dei pochi fortunati… Quello che provo io dopo che tutte le luci colorate hanno smesso di ballare è davvero spiacevole, ve l’assicuro. — Non avevo mai saputo che ci fosse un rapporto tra quei fenomeni visivi e l’emicrania — osservò Breton. — Ma, come dite voi, devo appartenere alla categoria dei fortunati. Tuttavia il tono della sua voce suonò poco convincente anche alle sue orecchie. Nel suo intimo, Breton si convinse della possibilità dei viaggi nel tempo attraverso un lungo travaglio doloroso che durò alcuni mesi. Tornò al lavoro, ma scoprì che non era più in grado di formulare giudizi validi, anche nelle questioni di ordinaria amministrazione, per non parlare poi di quelle tecniche, che esulavano addirittura dalla sua comprensione. Hetty, aiutata dai tre tecnici che costituivano tutto il personale, riuscì a mantenere l’azienda sui binari della normalità. Da parte sua, specialmente nei primi tempi, si limitava a star seduto per ore alla scrivania, a fissare disegni incomprensibili, capace solo di pensare a Kate e alle sue responsabilità per la morte della moglie. A volte tentava di scrivere versi, per cristallizzare e magari spersonalizzare i suoi sentimenti per Kate. La pesante coltre di neve dell’inverno del Montana aveva sepolto il mondo nel silenzio e Breton la guardava ridursi in fanghiglia, oltre le file di macchine parcheggiate sotto la sua finestra. Pareva che il silenzio della neve avesse pervaso tutto il suo corpo, tanto che gli sembrava di sentirne il cieco lavorio, lo scorrere costante dei fluidi, l’assorbimento dell’aria, la paziente pioggia di colesterolo nelle arterie. A intervalli di sei o sette giorni, faceva un viaggio, in cui riviveva invariabilmente quell’ultima scena con Kate. Talora gli olmi erano così trasparenti da sembrare inesistenti; altre volte, invece, erano solidi e reali, e lui aveva l’impressione di scorgere anche due figure che si muovevano sotto gli alberi, ma la luce delle vetrine e dei fari delle macchine gli impediva di distinguerle bene. Con il continuo sviluppo interiore delle sue percezioni, riuscì a distinguere meglio i fenomeni che aveva imparato a identificare come sintomi premonitori dei viaggi. C’era una graduale intensificazione dell’attività nervosa, culminante in un senso di diffuso benessere che lo faceva illudere di essere sfuggito alla disperazione. Seguivano a breve distanza, le prime turbe visive, che iniziavano con un luccichio furtivo e poi si estendevano alla visuale di tutto l’occhio destro. E appena cominciavano a scomparire, la realtà “cambiava” e lui tornava nel passato. La scoperta che anche altri conoscevano i fenomeni ottici aveva sorpreso Breton. Da ragazzo, aveva tentato di descriverli a qualche amico, ma aveva suscitato solo indifferenza. Anche i suoi genitori non avevano dimostrato niente più che un indulgente quanto falso interesse, e lui non era mai stato capace di convincerli che non si trattava delle stesse immagini che appaiono dopo aver chiuso gli occhi, quando si è fissato un punto luminoso. Alla fine era arrivato alla conclusione di non far cenno né dei viaggi né dei fenomeni, e, col passar degli anni, si era persuaso che quella era un’esperienza unica, destinata solo a Jack Breton. Ma la fortuita conversazione con Harry Calder aveva cambiato tutto, e l’interesse che era riuscito a suscitare in lui era l’unica cosa positiva di quei giorni tetri e amari. Breton cominciò a passare i pomeriggi alla biblioteca pubblica, consapevole di seguire un’idea in confronto a cui la sua precedente illusione di trovare l’assassino di Kate era un progetto semplice e realistico, ma ormai incapace di sfuggire a quell’ossessione. Prima lesse articoli e trattati sull’emicrania, poi passò a testi di medicina generale, biografie di famosi sofferenti di emicrania, qualunque cosa il suo istinto gli suggerisse che potesse portarlo al punto dove voleva arrivare. Non avendo mai associato prima all’emicrania i fenomeni da cui era affetto, Breton si era fatto la vaga idea che il mal di testa fosse da imputare alla convulsa civiltà attuale. Le letture gli insegnarono invece che era un disturbo noto fin dai tempi più antichi; la conoscevano anche i Greci che l’avevano chiamato “il male di metà testa". Nella maggior parte dei casi, i disturbi visivi erano seguiti da fortissimi dolori che colpivano una metà della testa, e da nausea. Alcuni avevano la fortuna di sfuggire all’uno o all’altro dei sintomi, e c’era perfino una rara categoria di individui che li evitava entrambi. La loro malattia veniva chiamata “hemicrania sine dolore". Una delle cose più interessanti, per quel che riguardava Breton, era la stupefacente precisione con cui le sue esperienze visive erano state descritte da altri uomini, in altre epoche. I termini medici spaziavano dalla teicopsia alla scotoma scintillante, ma quello da lui preferito per la sua precisione era “forme di fortificazione". Se n’era servito per la prima volta un medico del XVIII secolo, John Fothergill, il quale aveva scritto: …una strana specie di scintillio nella vista, oggetti che mutano con rapidità la loro posizione apparente, circondati da angoli luminosi come quelli di una fortificazione. Fothergill aveva attribuito il disturbo all’eccessivo uso di pane tostato e burro, a colazione; spiegazione che Breton aveva trovato ancora meno soddisfacente delle più recenti teorie, secondo cui si trattava di irritazioni temporanee della corteccia visiva. Un tetro pomeriggio, quando lui e gli altri lettori sedevano nel vecchio edificio della biblioteca, immobili come oggetti pietrificati in fondo a un pozzo, sfogliò le pagine di una pubblicazione medica sconosciuta e rimase colpito nel trovarvi disegni precisi — non delle forme di fortificazione, che nessun artista sarebbe riuscito a riprodurre — ma della stella nera che talora le sostituiva. Uno dei disegni era opera del filosofo francese Blaise Pascal, e un altro, risalente addirittura al XII secolo, era stato eseguito dalla Badessa Hildegarde von Bingen. “Vidi una grande stella” aveva scritto la Badessa “molto splendente e bellissima, e circondata da una miriade di scintille cadenti, mentre declinava verso sud… E, d’improvviso, ecco che scompaiono tutte e si trasformano in carboni neri che precipitano nell’abisso, cosicché non posso più vederli.” Breton lesse in fretta ma, come aveva potuto constatare anche per altri casi, non si accennava a visite nel passato successive a quei fenomeni. Sotto questo aspetto, lui probabilmente era davvero unico. Un anno più tardi, Breton scrisse pedantemente nel suo taccuino: Ora propendo più che mai per la teoria secondo cui tutti i sofferenti di emicrania sono dei potenziali viaggiatori nel tempo, frustrati nei loro impulsi. La forza che produce lo stimolo temporale è il desiderio di tornare nel passato, possibilmente per rivivere periodi di intensa felicità, ma più probabilmente per correggere errori che, visti in retrospettiva, hanno avuto un effetto deleterio sul corso degli eventi. Prima della morte di Kate, il mio caso personale era un singolare esempio di uno che “avrebbe potuto” quasi tornare nel passato, non perché spinto da una ragione particolarmente forte, ma per il fatto di avere una soglia psichica particolarmente bassa, una conformazione anomala del sistema nervoso. (Le turbe visive potevano essere provocate da un graduale spostamento temporale della retina che, in fin dei conti, è un’estensione del cervello, e quindi è anche l’organo di senso più intimamente associato all’attività del sistema nervoso centrale). Ma, dalla morte di Kate, le mie potenziali capacità di andare nel passato hanno raggiunto un livello anomalamente elevato, dando come risultato frequenti viaggi. Tralasciando il problema di formulare delle ipotesi filosofiche capaci di conciliare le implicazioni fisiche, resta la questione di come mettere in pratica la teoria. Ergotamine, metisergide, diuretici… tutti questi medicamenti vengono usati per ridurre gli effetti dell’emicrania, ma non è a questo che penso… E dopo cinque anni: L’assegno mensile di Hetty è arrivato oggi. Era superiore al solito, il che mi ha permesso di saldare il conto con la Società Scientifica Clermont, con mio grande sollievo. A questo punto, non intendo compromettere il mio credito con dei pagamenti a rate, sebbene mi rimanga sempre di riserva la casa, il cui valore è notevolmente aumentato. (Che buona idea ho avuto quando ho concesso il controllo formale dei miei affari a Hetty e a quel nuovo tecnico, Tougher. Mi preoccupa solo il pensiero che, questa volta, lei arrotondi di tasca sua l’assegno che mi manda.) Ho un motivo per essere eccitato, oggi. Il mio lavoro è passato dallo stadio di ricerca a quello costruttivo sperimentale. Avrei potuto arrivarci prima, se non avessi imboccato delle strade sbagliate. Tutta colpa dei suggerimenti del dottor Garnet, della clinica per l’emicrania; sono contento di aver troncato i rapporti con quell’organizzazione. I sintomi preliminari, l’afflusso di sangue al cervello, la reazione ai diversi medicinali, il metabolismo delle amine… tutte cose inutili. (Almeno per quanto concerne il mio lavoro. Non devo denigrare il dottor Garnet.) E pensare che devo la mia grande scoperta all’uso di un cacciavite malfatto! Ignoro cosa mi abbia spinto ad aspirare il siero da quella grossa bolla che si era prodotta sul palmo della mia destra, a meno che non l’abbia fatto perché pensavo continuamente al possibile uso dei dolori causati dall’emicrania come meccanismo deterrente per aumentare gli impulsi cronomotori. I lavori eseguiti alla clinica hanno stabilito che una sostanza chiamata “kinina” si produce nelle arterie craniche durante gli attacchi di emicrania, nelle persone non abbastanza fortunate da essere affette da “hemicrania sine dolore". Il siero di una vescica non provoca dolore, ma io ho provato che, quando lo si aspira dalla vescica e lo si mette a contatto col vetro, produce kinina, la quale, se il liquido viene reimmesso nella vescica, sicuramente provoca dolore. Iniettando kinina ai primi sintomi di ticopsia che precedevano i miei tre ultimi viaggi, fui in grado di soffrire di veri attacchi di emicrania, e per la prima volta, sentii quei tre olmi stormire al vento. Finalmente ho concluso la prima fase del mio lavoro e ora mi trovo a dover affrontare il problema di effettuare lo spostamento temporale di una notevole massa fisica, e cioè del mio corpo. Prevedo che sia necessario un enorme potenziamento degli impulsi nervosi, e ho la sgradevole sensazione di dover cercare una qualche scappatoia alle Leggi di Kirchoff. Tuttavia sono pieno di fiducia. Devo cercare però di mantenervi calmo per non provocare un altro viaggio. L’eccitazione infatti è tradizionalmente uno dei fattori che provocano l’emicrania. Ho letto da qualche parte un appunto del patriota francese, dottor Edward Liveing, che, nel 1873, diceva: “…È convinzione comune che non è da tutti poter godere impunemente del piacere di assistere a certe rappresentazioni teatrali dove la gloria della Francia viene quotidianamente celebrata con rumori e fumo…". E dopo altri tre anni: Il superamento delle Leggi di Kirchoff è stato in fondo più facile del previsto (se si prende in considerazione la quarta dimensione diventano possibili tante cose), ma avevo sottovalutato molto le spese. La vendita della casa e dei mobili mi ha fruttato solo una piccola parte della somma necessaria. Per fortuna sono riuscito a persuadere Hetty e Tougher a modificare l’accordo stipulato quasi otto anni fa e a rilevare la mia compartecipazione nell’azienda. Sono preoccupati per me, specialmente Hetty, ma credo di essere riuscito a convincerli che sono sano tanto di mente che di corpo. Hetty è invecchiata molto e fuma troppo. Kate, mia adorata, questa è l’ultima volta che mi rivolgo a te scrivendo su questo taccuino. Ormai non è molto lontano il tempo, in cui ne sfogheremo insieme le pagine se, fino a quel momento, cara, fino a quel momento… Breton aspettò che calasse la sera, prima di recarsi nel parco. Parcheggiò la vecchia Buick a qualche centinaio di metri dall’ingresso della Cinquantesima Strada e passa qualche minuto a controllare l’equipaggiamento. Prima di tutto, il cappello. L’aveva messo sul sedile posteriore, e pareva un qualunque vecchio cappello un po’ sformato, se non ci fossero stati i lampi di luce arancione che di tanto in tanto saettavano al suo interno. Lo prese, se lo sistemò in testa con cura, e impiegò qualche istante a collegare i cavi che scendevano dalla fascia interna, con gli altri che sporgevano dal colletto della camicia. Quando ebbe terminato di collegarli, sollevò il bavero dell’impermeabile e provò a muoversi. L’intrico di cavi sfregava sulla pelle, graffiandogliela, ma gli permetteva una completa libertà di movimento. Poi si occupò del fucile. Quando aveva svuotato la casa, al momento di venderla, aveva ritrovato l’arma nell’armadio dello scantinato e l’aveva portata nell’appartamento preso in affitto. Dopo averlo spolverato, aveva scoperto che il percussore si era incastrato (non ricordava più come fosse successo) e l’aveva portato da un armaiolo perché lo rimettesse in sesto. La linea snella del fucile era rovinata dal grosso mirino a raggi infrarossi che vi aveva aggiunto, per poter vedere al buio. Breton tirò fuori dalla tasca le munizioni e caricò l’arma con gesti misurati. Mise il proiettile in canna per non rischiare di perder tempo all’ultimo momento. Rimase seduto immobile alcuni minuti finché fu sicuro che non ci fosse nessuno nei paraggi. Era passata quasi una settimana dall’ultimo viaggio, e lui aveva la sensazione che quello fosse il momento giusto. Le vene gli pulsavano per l’eccitazione (uno dei fattori determinanti degli attacchi di emicrania) e l’attività elettrica del suo cervello era superiore al normale, provocando un senso di esultante tensione. Il cambiamento quasi psichedelico delle percezioni, ben noto a chi soffre di emicrania e che compare ai primi sintomi di un attacco, influenzava la sua coscienza, circondando gli oggetti intorno a lui di un alone di… tristezza, pericolo incombente, intossicazione. Appena fu sicuro che non c’era nessuno nei paraggi, Breton scese dall’auto, nascose il fucile sotto l’impermeabile e lo tenne fermo, reggendolo attraverso l’apertura della tasca interna. La brezza notturna lo assalì da tutte le parti, esplorando il suo corpo come le dita di un cieco, mentre camminava goffamente a causa del fucile nascosto. I primi disturbi visivi si manifestarono mentre si avvicinava all’ingresso della Cinquantesima Strada. Un fuggevole baluginio di luce tremolò nel campo visivo dell’occhio destro, allargandosi via via fino a trasformarsi nelle forme geometriche. Breton era contento che non fosse comparsa la stella nera: infatti, le forme di fortificazione si sviluppavano più lentamente, concedendogli più tempo. Breton entrò nel parco dirigendosi verso la parte centrale lungo i vialetti, su cui le foglie cadute si arrotolavano con scricchiolii metallici. Poca gente, coppiette per lo più, era seduta sulle panchine nelle vicinanze dei viali illuminati, ma lui si allontanò dai prati della zona centrale e fu inghiottito dal buio anonimo in pochi secondi. Sfilò il fucile da sotto l’impermeabile e lo sollevò all’altezza del viso, per controllare l’efficienza del congegno a raggi infrarossi; ma l’occhio destro era reso inservibile dal luccichio di forme colorate e lui ricordò che non gli restava che fidarsi dell’esito delle prove fatte in precedenza. Le abbaglianti luci colorate avevano raggiunto il massimo dello splendore, quando arrivò ai tre olmi. Si fermò a una trentina di metri dal triangolo formato dagli alberi, sfilò il braccio sinistro dalla cinghia del fucile, e si mise in ginocchio nella posizione classica del tiratore. La terra umida formava una chiazza ovale di gelo sulla sua gamba. “Sono pazzo” pensò, ma intanto sentiva la sua voce sussurrare continuamente il nome di Kate. Toccò la tesa del cappello e un sordo ronzio si levò mentre le batterie ad alto potenziale legate al suo corpo cominciavano a emettere energia. Contemporaneamente, la siringa automatica collegata al circuito iniettò una scarica di kinina nella zona rasata sopra la tempia destra. Sentì chiaramente la puntura fredda dell’ago, poi il dolore si diffuse languidamente nella testa, mentre la sostanza entrava in circolo nelle arterie cerebrali. Breton notò vagamente che non c’era nessuno in giro e che tutte le sue precauzioni per non esser visto erano state inutili… Poi la girandola di prismi colorati cominciò a ritrarsi, a rimpicciolire. Era venuto il momento. “Kate” gridò “Kate!” …lei avanzava incerta nel buio, con l’abito azzurro e la mantella argentata che parevano fosforescenti. Una forma nera si muoveva dietro l’arco irregolare formato dagli olmi, tenendosi curva, simile a un orribile uccello da preda. Si avvicinò a Kate, con le braccia alzate, e lei gemette di paura. Breton inquadrò nel mirino la sagoma nera, ma le sue dita indugiarono sul grilletto. I due corpi erano vicinissimi… e se il proiettile li avesse trapassati tutti e due? Sollevò leggermente il braccio e sparò istintivamente quando comparve all’incrocio del reticolo la testa dell’assalitore. Il fucile rinculò contro la sua spalla e la testa nera non era più una testa… Breton rimase a lungo con la faccia schiacciata contro un microcosmo di radici d’erba. La canna del fucile, sotto la sua mano, emanava il calore dell’unico colpo sparato; poi si raffreddò. Ma lui non era ancora in grado di muoversi. Era in preda a una spossatezza talmente intensa che gli occorreva uno sforzo immane per riuscire a formulare un pensiero. “Da quanto tempo sono qui?” si domandò. Era tormentato dalla paura che sopraggiungesse qualcuno e lo trovasse, ma si sentiva come intrappolato in un corpo morto. Anche la sua mente era diversa. Il fantastico orgasmo cerebrale di quel viaggio aveva scaricato potenziali e allentato pressioni. “Il grande viaggio!” Ce l’aveva fatta, pensò, con un lampo di soddisfazione… Otto anni di lavoro indefesso avevano avuto il loro attimo di ricompensa. Era riuscito a valicare l’implacabile fiume del tempo e… “Kate!” L’incredibile consapevolezza si riversò in lui provocando il primo movimento involontario dei suoi arti. Sollevò le mani al di sopra delle spalle, e le riabbassò a terra. L’atto di rialzarsi fu un procedimento lungo e complesso, e le sue gambe, alla fine, faticarono a reggere il peso del corpo. Tornò a nascondere il fucile sotto l’impermeabile, e si allontanò. Non c’era nessuno vicino ai tre olmi, ma non se ne stupì. L’uomo a cui aveva sparato era stato trovato e portato via otto anni prima, e cosi pure Kate, che ora doveva essere a casa. “Il posto adatto a una donna è la casa” pensò Breton mettendosi a correre, barcollando sulle ginocchia molli. Quel folle stato di esaltazione durò finché non fu arrivato all’ingresso del parco e non vide le coppie di globi bianchi dei lampioni. Fu un pensiero a farlo cessare. “Ma” gli sussurrò all’improvviso una voce “se Kate è a casa, cosa ci fai tu nel parco col fucile? “Se è viva, come puoi ricordare il suo funerale?” Più tardi, quando era ancora sull’orlo della follia, guidò fino al retro della sua vecchia casa. I nuovi proprietari non vi erano ancora andati ad abitare, e il cartello IN VENDITA non era stato tolto dal giardino, illuminato dai lampioni stradali. Breton provò l’impulso irresistibile di entrare in casa, ma poi premette il pedale dell’acceleratore e la vecchia Buick si slanciò con un sobbalzo lungo il viale deserto. Tutte le altre case erano illuminate. Breton andò in un bar all’estrema periferia a nord della città, proprio dove cominciava la prateria e le erbe si strusciavano contro le porte come cani affamati. Seduto davanti al lungo banco, ordinò un whisky, il primo dopo l’ubriacatura d’incubo di otto anni prima, e fissò le profondità ambrate del liquido. Perché non aveva previsto quello che sarebbe dovuto accadere? Perché la sua mente si era spinta così lontano sulla sua strada solitaria, per fermarsi all’ultimo passo? Lui era tornato indietro nel tempo, aveva sparato a un uomo, ma niente di tutto questo aveva mutato la realtà della morte di Kate. Breton immerse un dito nel liquore e disegnò una retta sul rivestimento di plastica del banco. Rimase un momento a fissarla, poi ne disegnò una seconda, che si biforcava dalla prima. Se la prima linea rappresentava la corrente di tempo in cui lui viveva e in cui nulla era cambiato, allora i pochi secondi che aveva rubato al passato erano trascorsi sulla linea divergente. Quando era passato l’attimo in cui aveva ucciso, era tornato al presente, nella sua corrente temporale. Invece di portare Kate in questa corrente ne aveva evitato la morte nella corrente divergente. Breton beve un sorso, sforzandosi di assimilare la convinzione che sua moglie era viva, “da qualche parte". Guardò l’ora. Quasi mezzanotte. Kate doveva essere a letto, o forse stava bevendo una tazza di caffè insieme a suo marito, l’altro Jack Breton. Il suo viaggio nel passato aveva costituito una nuova corrente temporale e creato un nuovo universo nella sua interezza, in cui non mancava neppure il duplicato di se stesso. Quest’altro universo aveva le sue città, i suoi continenti, i suoi oceani, i pianeti, le stelle, le galassie che si allontanavano, ma niente di tutto ciò aveva importanza per lui. Contava solo il fatto di aver dato a Kate un’altra vita… unicamente per doverla dividere con un altro uomo. Ed era sbagliato dire che quell’altro uomo era lui stesso, perché la personalità di un individuo è formata dalla somma delle sue esperienze, e l’altro Breton non aveva guardato la faccia di Kate morta, non aveva dovuto sopportare il rimorso della colpa, o dedicare otto anni della sua vita all’idea fissa che aveva portato alla ricreazione di Kate Breton. Le linee tracciate sul banco stavano asciugandosi, e Breton le guardava immerso nei suoi pensieri. Aveva la sensazione di aver logorato qualcosa, dentro di sé, per cui non sarebbe stato mai più in grado di chiamare a raccolta la quantità di potenziale cronomotorio capace di proiettarlo indietro attraverso la barriera del tempo. Ma se… Inumidì ancora il dito e disegnò un cerchietto per indicare il presente sulla linea che rappresentava la principale corrente di tempo; poi ne tracciò uno uguale sulla linea divergente. Dopo averci pensato un momento, segnò una linea diagonale che univa i due punti. E allora capì all’improvviso perché la parte più profonda e nascosta, ma sempre attenta, della sua mente, quella parte da cui dipendevano i fenomeni e da cui scaturivano i progetti, gli aveva permesso di continuare lungo la strada che aveva scelto otto anni prima. Aveva sfidato il tempo per creare un’altra Kate, ma questo non era stato che il primo passo verso il compito più arduo che lo attendeva. Adesso doveva raggiungerla. |
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