"Guerra al grande nulla" - читать интересную книгу автора (Blish James)

LIBRO SECONDO

CAPITOLO DECIMO

In principio, nella matrice stranamente regolare e fredda in cui galleggiava, Egtverchi ebbe coscienza soltanto del suo nome. Lo portava in sé, ereditato, impresso in una spira di DNA, su uno dei suoi geni; un po’ più oltre, sullo stesso cromosoma, il cromosoma X, un altro gene portava il nome di suo padre, Chtexa. E questo era tutto. Nel momento in cui aveva cominciato la sua vita autonoma come zigote o uovo fertilizzato, ciò era stato scritto in lettere di cromatina: il nome era Egtverchi, la sua razza lithiana, il sesso maschile, la sua ereditarietà continua attraverso i secoli lithiani, fino al giorno in cui il mondo di Lithia aveva avuto inizio. Egli non aveva bisogno di comprendere tutto questo; era implicito.

Ma faceva buio, freddo, e c’era troppa uniformità nell’interno della matrice. Minuscolo come un grano di polline, Egtverchi andava alla deriva nel liquido che lo sosteneva, da una all’altra di quelle pareti dolcemente curve e innaturalmente lisce, non ancora conscio, ma consapevole costantemente, chimicamente, di non essere nel marsupio materno. Nessuno dei suoi geni portava il nome di sua madre, ma egli sapeva (non col cervello, perché non lo aveva ancora, ma attraversò una specie di sensazione, di repulsione, puramente chimica, di chi era figlio, a quale razza apparteneva e dove sarebbe dovuto essere: non lì.

E così cresceva, e andava alla deriva, cercando, ad ogni suo rifluire, di attaccarsi alle pareti fredde e lisce della sacca materna, che senza posa lo respingevano. Giunto allo stadio di gastrula, questo riflesso di volersi fissare scomparve, ed egli lo dimenticò del tutto. Si accontentava ora di galleggiare, e di sapere soltanto ciò che sapeva già all’inizio: la sua razza era Lithiana, il suo sesso maschile, il suo nome Egtverchi, suo padre Chtexa, la sua vita doveva cominciare; e la sua nascita sarebbe stata amara e buia come l’interno di un’anfora.

Poi si formò la sua notocorda e le sue cellule nervose si aggrovigliarono in un piccolo nodo, a una delle estremità. Ora aveva una parte anteriore e una parte posteriore, oltre che un nome. Aveva anche un cervello, ed era pesce adesso, poco più d’una larva, che girava e rigirava nel freddo seno di quel mare.

Un mare senza luce e senza onde, ma agitato comunque da un certo movimento, dal lento turbine delle correnti di convezione. E a volte, inoltre, qualcosa lo agitava che non era una corrente: qualcosa che lo forzava ad andare contro il fondo, o contro le pareti. Egli non conosceva il nome di questa forza (come pesce, non conosceva nulla: si limitava a muoversi in cerchio, con la irrimediabilità della sua fame), ma la combatteva ugualmente, come avrebbe combattuto il freddo e il caldo. Nella sua testa, immediatamente davanti alle branchie, c’era una sensibilità che lo avvertiva di dove si trovasse l’«alto». E che gli diceva che un pesce, nel suo ambiente naturale, possiede una massa e un’inerzia, ma non ha un peso. Le sporadiche onde di gravità (o di accelerazione) che lo schiacciavano in quell’acqua senza luce non facevano parte del mondo dei suoi istinti, e quando esse terminavano, egli si trovava spesso a nuotare disperatamente sulla propria schiena.

Poi venne il momento in cui non ci fu più nutrimento, in quel piccolo mare; ma il tempo e i calcoli di suo padre gli furono favorevoli. Proprio in quel momento, la forza peso ritornò, più forte di quanto non fosse mai stata prima, ed egli fu costretto a un lungo periodo di ristagno assoluto, durante il quale non fece altro che battere l’acqua sul fondo dell’urna, con movimenti lenti, esausti.

Quella fase alla fine cessò, e poi il piccolo mare cominciò a muoversi a strappi da un lato all’altro, in su e in giù, avanti e indietro. Egtverchi ora aveva le dimensioni di una larva d’anguilla. Sotto gli ossi pettorali si svilupparono due piccole sacche, che non erano collegate a nessun altro sistema del corpo, ma rapidamente si arricchivano di capillari. Non c’era, in quelle sacche, altro che un po’ d’azoto gassoso, appena quel tanto sufficiente a uguagliare la pressione. Col tempo, si sarebbero trasformate in polmoni rudimentali.

Poi fu la luce.

Innanzi tutto, il coperchio del mondo fu tolto. Gli occhi di Egtverchi non avrebbero potuto in nessun modo mettersi a fuoco su un oggetto, in quello stadio, e, come qualsiasi creatura evoluta, egli era soggetto alla legge neo-lamarckiana che dice che anche una facoltà completamente ereditaria si svilupperà male, se si forma senza avere avuto alcuna occasione di funzionare. Dotato, come Lithiano, di una sensibilità specifica alle variazioni delle pressioni ambientali, la lunga oscurità gli aveva causato minori danni potenziali di quelli che avrebbe causato, senza dubbio, ad altre creature: a una creatura terrestre, per esempio; ciò non di meno, ne avrebbe subito a suo tempo le conseguenze. In quel momento, tutto quello che poteva sentire era il fatto che nella direzione ascendente (stabile e costante, ora) c’era della luce.

Salì verso di essa, rimescolando con le pinne pettorali i tiepidi vortici dell’acqua.


Padre Ramon Ruiz-Sanchez, già del Perù, già di Lithia, e sempre membro della Compagnia di Gesù, provava, guardando i rapidi movimenti di quella piccola creatura, un bizzarro miscuglio d’emozioni. Non poteva evitare di sentire per quella piccola lucertola serpeggiante la pietà che provava per ogni creatura vivente, insieme con un’estasi estetica davanti alla sicurezza rapida e imprevedibile dei suoi movimenti. Tuttavia, quell’animaletto era lithiano…

Aveva avuto più tempo di quanto gliene occorresse per esplorare la nera tenebra vuota su cui si trovava. Ruiz-Sanchez non aveva mai sottovalutato il potere di cui era ancora dotato il Male: potere rimastogli — e la Chiesa era concorde su questo punto — anche dopo la sua caduta da presso il Trono dell’Altissimo. Come Gesuita, Ruiz-Sanchez aveva esaminato e discusso troppi casi di coscienza per dubitare ancora della potenza e della sottigliezza del Maligno. Ma che tra i suoi poteri l’Avversario contasse anche quello del creare, questo non gli era mai venuto in mente… prima di Lithia. Era un potere che doveva essere riservato a Dio e a Dio soltanto. Pensare che potesse esservi più di un demiurgo era un’eresia totale e, per di più, un’eresia antica.

Comunque fosse, era così, eresia o no. La totalità di Lithia e, in particolar modo, l’intera sua specie dominante, quella specie razionale e meravigliosa che erano i Lithiani, era stata creata dal Maligno, allo scopo di offrire agli uomini una tentazione nuova, specificamente intellettuale, scaturita come Minerva dal cervello di Giove. A causa di quella nascita, innaturale come quella narrata dal mito, coloro che potevano ammettere, anche per un solo istante, che un altro potere, oltre a quello di Dio, potesse creare, si sarebbero portati simbolicamente la mano alla fronte; ne sarebbe seguito un acuto, lancinante dolore nel cranio della teologia; un’emicrania morale; addirittura un’esplosione cosmologica, perché Minerva richiama sempre Marte, sulla Terra come — Ruiz-Sanchez ricordò con dolore — come in cielo.

Dopotutto, egli c’era stato, e sapeva.

Ma tutto ciò poteva attendere ancora un po’. L’essenziale, per il momento, era che quella piccola creatura, inoffensiva come un’anguilla di dieci centimetri, fosse ancora in vita e, a quanto sembrava, in buona salute. Ruiz-Sanchez, preso un recipiente pieno d’acqua e formicolante di migliaia di Cladocera e ciclopi allevati in coltura, ne versò quasi la metà nell’urna dai colori sottilmente brillanti. Immediatamente, il giovane Lithiano sprofondò nell’oscurità, all’inseguimento dei microscopici crostacei. L’appetito, rifletté il sacerdote, è un universale indicatore di buona salute.

— Guardatelo, che fame ha! — disse una voce dolce dietro le sue spalle. Egli alzò lo sguardo e sorrise. Quelle parole erano state pronunciate da Liu Meid, capo del laboratorio dell’ONU, alla quale il piccolo Lithiano era stato affidato per molti mesi a venire. Piccola, bruna, con un’aria di calma quasi infantile, la donna fissava l’interno del vaso, aspettando che la piccola sagoma riapparisse.

— Siete sicuro che non gli faranno male? — domandò.

— Spero di no — rispose Ruiz-Sanchez. — Sono crostacei della Terra, d’accordo, ma il metabolismo lithiano è straordinariamente analogo al nostro. Anche il pigmento del sangue è analogo all’emoglobina, anche se il suo metallo base, ovviamente, non è il ferro. Il loro plancton include forme molto simili ai ciclopi e alle pulci d’acqua. No, se è sopravvissuto al viaggio oso dire che le nostre ulteriori attenzioni non lo uccideranno.

— Il viaggio? — disse Liu lentamente. — Come avrebbe potuto nuocergli?

— Non potrei dire esattamente. Chtexa, suo padre, ce lo ha dato chiuso in quest’anfora, già sigillata. Non abbiamo avuto modo di sapere quali precauzioni avesse preso per proteggere suo figlio dalle varie tensioni del volo spaziale. E non abbiamo osato aprire il vaso per guardare: se c’era una cosa di cui eravamo sicuri, è che Chtexa non poteva avere sigillato il vaso senza le sue buone ragioni; dopo tutto, conosce la fisiologia della sua razza meglio di ognuno di noi, compreso me e il dottor Michelis.

— È a questo che pensavo — disse Liu.

— Lo so. Ma vedete, Liu, Chtexa non conosce il volo spaziale. Oh, conosce le normali tensioni del volo in aereo: i Lithiani hanno aerei a reazione. Ma era la superpropulsione Haertel che mi preoccupava. Ricorderete i fantastici effetti temporali che Garrard dovette subire durante il primo volo ad Alpha centauri. Non avrei potuto spiegare le equazioni di Haertel a Chtexa neppure se ne avessi avuto il tempo. Sono conoscenze che per i Lithiani devono rimanere segrete; inoltre, Chtexa non avrebbe potuto capirle, perché la matematica lithiana ignora i numeri transfiniti. E il tempo è un fattore della massima importanza, nella gestazione lithiana.

— Perché? — domandò Liu, spingendo lo sguardo nell’interno del vaso, con un sorriso istintivo.

La domanda toccava un nervo che in Ruiz-Sanchez era rimasto esposto per molto tempo. — Perché — rispose scegliendo con cura le parole, — in loro la ricapitolazione fisica avviene esternamente al corpo materno. Ecco perché questa creatura è attualmente un pesce; da adulto, sarà un rettile, sebbene con sistema circolatorio pteropside e altre numerose caratteristiche non appartenenti ai rettili. Le femmine Lithiane depongono le uova in mare…

— Ma nell’anfora c’è acqua dolce!

— No, è acqua di mare. I mari di Lithia sono meno salati dei nostri. Schiudendosi, l’uovo dà alla luce una creatura pisciforme, come questa che vedete qui; poi il pesce sviluppa polmoni e le maree lo gettano sulla spiaggia. Li sentivo latrare a Xoredeshch Sfath: latravano per tutta la notte, cacciando l’aria dai polmoni e sviluppando così la muscolatura del diaframma.

Inaspettatamente, rabbrividì. Il ricordo del suono era di gran lunga più sconvolgente di quel che non fosse stato il suono medesimo. A quell’epoca, egli non sapeva di cosa si trattasse… cioè, no, sapeva di cosa si trattava, ma non ne conosceva il significato.

— Finalmente i dipnoi sviluppano le gambe e perdono la coda, come i girini, ed entrano nelle foreste lithiane come veri anfibi. Dopo qualche tempo, il sistema respiratorio cessa di dipendere parzialmente dalla pelle, così che essi non hanno più bisogno di restare in prossimità dell’acqua. Infine divengono veri adulti, vale a dire un tipo di rettile molto progredito, marsupiale, bipede, omeostatico e dotato di grande intelligenza. I nuovi adulti escono dalla giungla e sono pronti a ricevere la loro educazione nelle città.

Liu respirò profondamente. — Meraviglioso — mormorò.

— Proprio così — rispose il sacerdote, cupo. — Anche i nostri figli passano per gli stessi stadi, o quasi, nel seno materno, ma sono protetti dall’inizio alla fine del processo; i figli dei Lithiani devono invece accettare la sfida dell’ecologia posseduta dal pianeta. Ecco perché temevo l’iperpropulsione Haertel. Abbiamo isolato il vaso nei riguardi dei campi di forza, come meglio siamo stati capaci, ma in un processo di maturazione così legato alle apparenze dell’evoluzione, un rallentamento dei tempi potrebbe essere nocivo. Nel caso di Garrard, il suo tempo si rallentò a un’ora al secondo, poi accelerò a un secondo all’ora, poi tornò a rallentare e così via, secondo un andamento sinusoidale. Se ci fosse stata una perdita di isolamento, al figlio di Chtexa sarebbe potuto succedere qualcosa di simile, con conseguenze imprevedibili. Evidentemente non c’è stata nessuna perdita di isolamento, ma io ero preoccupato.

La ragazza pensò alle parole di Ruiz-Sanchez. Egli stesso, per evitare di pensarci (poiché, a forza di pensarci sopra, era caduto a spirale in una completa, insuperabile impasse) la guardò mentre meditava. Era sempre riposante osservarla, e Ruiz aveva bisogno di riposo. Gli sembrava di non aver più avuto tregua dall’istante in cui era svenuto tra le braccia di Agronski, sulla soglia della casa di Xoredeshch Sfath.

Liu era nata e cresciuta nello stato della Più Grande New York. Il complimento più cordiale che Sanchez potesse farle era dirle che nessuno avrebbe potuto indovinarlo. Da buon peruviano, il Gesuita detestava quella megalopoli popolata da diciannove milioni di abitanti con una veemenza che egli sarebbe stato il primo a definire non cristiana. Liu non aveva nulla in sé di trepidante o di frenetico. Era calma, posata, serena, dolce; il suo riserbo era impenetrabile, senza che per questo ella fosse fredda o inibita; le sue reazioni a qualsiasi cosa che entrasse in contatto con lei dirette e semplici come quelle di un gattino; il suo atteggiamento davanti agli uomini, virtualmente fiducioso, e non per ingenuità, ma per la sua certezza che la propria essenza era tanto inviolabile da impedire a chicchessia di volerla violare.

Questi furono i termini astratti che si presentarono per primi alla mente di Ruiz-Sanchez, ma subito un altro pensiero lo rattristò. Esattamente come nessuno avrebbe potuto crederla newyorkese (il suo accento non tradiva nessuno degli otto dialetti, ormai reciprocamente incomprensibili, che si parlavano nella città, e nessuno, in particolare, avrebbe indovinato che i suoi genitori parlavano soltanto bronxiano), così nessuno avrebbe mai detto a prima vista che era un tecnico di laboratorio.

Sebbene non fosse un ordine di idee che Ruiz-Sanchez amasse seguire, si trattava di un fatto troppo evidente per ignorarlo. Liu era delicata e intensamente femminile come una geisha. Si vestiva sempre con una modestia squisita, non quel genere di modestia che vuol nascondere, ma quello che consiste nel portare abiti femminili che non hanno vergogna di quel che mostrano, senza tuttavia mettere nulla in evidenza. Sotto quei colori delicati, Liu era una Venere Callipigia con un lento, distratto sorriso, inesplicabilmente inconsapevole del fatto che ci si aspettava che lei (né tantomeno altri), in ossequio alla leggenda e alla propria natura, tributasse incessantemente onori alla solida curva dei lombi.

E a questo punto era meglio smettere. La piccola anguilla, che dava la caccia ai crostacei d’acqua dolce nell’urna di porcellana poneva già abbastanza problemi, alcuni dei quali sarebbero divenuti anche problemi di Liu. Era meglio non complicare il compito di Liu con delle speculazioni non belle, anche se queste non venivano comunicate con altro che uno sguardo incuriosito. Ruiz-Sanchez era abbastanza sicuro di sapersi tenere entro il cammino a lui ordinato, ma non era corretto gravare questa dolce, gentile ragazza con un sospetto che essa non avrebbe saputo come affrontare.

Il Gesuita si girò con un movimento brusco, dirigendosi verso la grande parete trasparente del laboratorio che, dall’alto dei suoi trentaquattro piani, dominava la città. Non si trattava di un’altezza eccezionale, ma per Ruiz-Sanchez era più che sufficiente. La rombante, torrida megalopoli coi suoi diciannove milioni di anime lo disgustava, come sempre, o forse anche più del solito, dopo la lunga permanenza nelle calme vie di Xoredeshch Sfath. Ma almeno egli poteva consolarsi pensando che non avrebbe dovuto trascorrervi tutto il resto della sua vita.

In un certo senso, lo Stato di Manhattan non era che un relitto, non solo politicamente, ma anche fisicamente. Quel che se ne vedeva di lassù sembrava un enorme fantasma dalle molte teste. I grattacieli in rovina erano praticamente vuoti ventiquattr’ore su ventiquattro. In ogni istante del giorno e della notte, la quasi totalità della popolazione dello stato (e di ogni altra città-stato del globo) era nel sottosuolo.

La zona sotterranea era autosufficiente. Aveva le sue proprie fonti di energia termonucleare, le sue colture idroponiche, le sue migliaia di chilometri di tubature illuminate, di plastica, nelle quali alghe in sospensione correvano in abbondanza e proliferavano senza posa; scorte alimentari e farmaceutiche per decine di anni erano ammassate in frigoriferi; e inoltre, la città sotterranea aveva un impianto idrico del tutto indipendente, capace di recuperare l’umidità atmosferica e perfino l’acqua delle fognature, e prese d’aria capaci di distruggere gas venefici, virus, pulviscolo radioattivo. Le città-stato erano ugualmente indipendenti da ogni governo centrale, ognuna essendo posta sotto l’egemonia di un’Autorità Strategica, modellata sulle antiche autorità portuali del secolo precedente, dalle quali infatti discendevano in linea diretta.

La frammentazione della Terra era stata il risultato finale della corsa internazionale al cosiddetto Rifugio degli anni compresi tra il 1960 e il 1985. La corsa alle bombe a fissione, cominciata nel 1945, era praticamente finita cinque anni dopo; la corsa alle bombe a fusione e quella ai missili balistici intercontinentali avevano chiesto ognuna altri cinque anni.

La corsa ai Rifugi aveva richiesto di più, non perché fosse stato necessario, per condurla a buon fine, acquisire nuove cognizioni tecniche o scientifiche, ma per l’ampiezza del programma di costruzioni che essa implicava. Per difensiva che fosse potuta apparire a prima vista, la corsa ai Rifugi aveva assunto tutte le caratteristiche di una classica corsa agli armamenti: ogni nazione rimasta indietro rappresentava un invito all’aggressione. C’era stata una differenza, tuttavia. La corsa ai Rifugi era stata intrapresa perché ci si rendeva conto che la minaccia d’una guerra nucleare era non solo imminente, ma trascendente; la guerra poteva scatenarsi in qualunque momento; il fatto che non avvenisse significava che si sarebbe dovuti vivere con quella minaccia sul capo per almeno un secolo, se non per cinque. Così che questa corsa era stata non soltanto frenetica, ma a lunga scadenza…

E come tutte le corse agli armamenti, alla fine, s’era distrutta da sé, questa volta, perché quelli che l’avevano pianificata, l’avevano pianificata per un tempo troppo lungo. L’economia Rifugio era diffusa per tutto il mondo ora, ma la corsa non s’era ancora conclusa quando avevano cominciato ad apparire segni palesi che la gente non si sarebbe affatto rassegnata a vivere a lungo sotto quel regime: non per cinque secoli, ma nemmeno per uno. Donde i Tumulti di Corridoio del 1993, primi sintomi significativi, a cui molti altri ne dovevano seguire.

I tumulti avevano offerto alle Nazioni Unite la scusa che occorreva loro per creare finalmente un autentico governo sovranazionale: uno stato planetario retto da una mano di ferro. I tumulti avevano offerto la scusa, e l’economia Rifugio, con la sua frammentazione neo-ellenica del potere politico, aveva dato all’ONU i mezzi.

Teoricamente, ciò avrebbe dovuto risolvere ogni cosa. Una guerra nucleare non era più concepibile fra gli Stati membri; la minaccia era stata stornata… ma come smantellare un’economia Rifugio? Un’economia la cui costruzione era costata venticinque miliardi di dollari all’anno, per venticinque anni? Un’economia sprofondata ora nel seno della Terra, in miliardi di tonnellate di cemento e acciaio, alla profondità di quasi due chilometri? Questo non poteva essere disfatto; il pianeta sarebbe stato ormai un mausoleo per i vivi fino a quando la Terra stessa fosse perita: tombe, tombe, tombe…

La parola risuonò confusamente nelle orecchie di Ruiz-Sanchez, lontana. Il basso rombare infrasonico della città sepolta faceva tremare i vetri davanti a lui. Mescolato con esso c’era un allarmante rumore di macina, che non posava mai e gli pareva più forte di quanto non fosse mai stato in precedenza: come il rumore di una palla di cannone che gira su una pista di legno.

— Spaventevole, non è vero? — disse la voce di Michelis alle sue spalle. Il Gesuita lanciò un’occhiata stupita alla massiccia figura del chimico: stupita non perché non l’avesse udito entrare, ma perché Michelis gli rivolgeva nuovamente la parola.

— Infatti — rispose. — E mi fa piacere che lo abbiate notato anche voi. Temevo che potesse essere una forma d’ipersensibilità da parte mia, dopo una così lunga assenza…

— Può darsi benissimo che la vera ragione sia questa — commentò Michelis in tono grave. — Sono stato assente anch’io per molto tempo.

Il prete scosse il capo.

— No, non si tratta d’ipersensibilità — disse — ma di un disagio reale. Queste sono condizioni intollerabili in cui far vivere la gente. E non si tratta soltanto di costringere le popolazioni a vivere novanta giorni su cento in fondo a un pozzo, ma del fatto, in realtà, che non c’è giorno in cui non si viva nella certezza di essere sull’orlo dell’annientamento. Abbiamo abituato i loro genitori a pensare in questi termini, a vivere nella paura, diversamente non si sarebbero mai trovate imposte sufficienti per pagare la costruzione dei rifugi, e naturalmente i figli sono stati allevati in questa paura. È inumano.

— Lo è poi davvero? — disse Michelis, dubbioso. — Per non so quanti secoli, l’umanità ha vissuto ossessionata dalla paura… fino a Pasteur, per esempio. Quanto tempo è passato da allora?

— È stato intorno al 1860 — rispose Ruiz-Sanchez. — Ma è molto diverso ora. Le pestilenze erano capricciose, v’era sempre una certa quantità di gente che aveva probabilità di sopravvivere; ma le bombe a fusione non risparmiano nessuno, sono universali. — Rabbrividì involontariamente. — E le abbiamo davanti a noi. Poco fa, mi sono colto a pensare che la minaccia sotto cui viviamo è non soltanto imminente, ma trascendente; la morte, nell’èra prescientifica, era imminente e immanente insieme, incombeva ed era implicita in ognuno, ma non era mai trascendente. In quel tempo, Dio solo era interno, esterno e trascendente insieme, e questa era la speranza della gente, allora. Oggi, invece di questa speranza, abbiamo dato al mondo la Morte.

— Scusatemi — disse il chimico, la cui faccia ossuta s’era fatta più dura del marmo. — Sapete che non posso discutere con voi in questo campo, Ramon. Sono già stato battuto una volta. E una volta mi basta.

Si voltò: Liu, che stava facendo un esperimento e offriva alla luce tutta una serie di provette, osservava Michelis di sotto le palpebre abbassate. Quando lo sguardo di Ruiz-Sanchez si posò su di lei, ella distolse prontamente gli occhi. Il Gesuita non capì se Liu si fosse accorta di essere stata sorpresa; ma le provette tintinnarono più del solito, quando lei le rimise nella rastrelliera.

— Scusatemi — disse. — Liu, vi presento il dottor Michelis, uno dei miei compagni su Lithia. Mike, vi presento la dottoressa Liu Meid, che si prenderà cura del figlio di Chtexa per un periodo indefinito, più o meno sotto la mia supervisione. Liu è uno dei migliori xenobiologi del mondo.

— Molto lieto — disse Michelis gravemente. — Dunque sarete voi e il Padre a fungere da genitori adottivi del nostro piccolo ospite lithiano. È una responsabilità molto pesante per una giovane donna, oso dire.

Il Gesuita provò la tentazione (assolutamente non cristiana) di dare all’allampanato chimico un calcio negli stinchi; ma nella voce di Michelis non pareva esserci coscientemente alcuna malizia.

La ragazza si limitò ad abbassare gli occhi e a trarre profondamente il respiro, mormorando con voce quasi inaudibile: — Ah-so-deska.

Michelis alzò le sopracciglia, ma dopo un attimo fu chiaro che Liu non intendeva dire altro, almeno questa volta. Un po’ imbarazzato, Michelis si rivolse al prete e si accorse che aveva ancora sulle labbra l’ombra di un sorriso.

— Dunque, sono «tutto piedi» — disse Michelis con un sorriso colpevole. — Ma temo di non avere il tempo di migliorare la mia educazione, almeno per qualche tempo. Ci sono numerose cose da concludere. Ramon, fra quanto tempo potrete affidare il figlio di Chtexa alle cure della dottoressa Meid? Ci è stato chiesto di redigere una versione ufficiale non segreta, del nostro rapporto su Lithia…

— Noi?

— Sì, voi e io.

— E Cleaver e Agronski?

— Cleaver non c’è — spiegò Michelis. — Non so nemmeno dove sia andato a finire. E per qualche ragione misteriosa non sembra che Agronski sia desiderato; forse, non ha sufficienti titoli accademici che accompagnano il suo nome. Si tratta del «Journal of Interstellar Research», e sapete quanto siano schizzinosi… sono dei parvenu in fatto di prestigio scientifico, cosa questa che li rende più accademici degli stessi accademici. Ma credo che valga la pena di fare questo lavoro, non fosse altro che per divulgare qualcuno dei nostri dati. Potrete trovare il tempo di farlo?

— Credo di sì — rispose il Gesuita. — Purché mi sia consentito di inserire questo lavoro fra la nascita definitiva del figlio di Chtexa e il mio pellegrinaggio.

Michelis inarcò nuovamente le sopracciglia: — Già, questo è un Anno Santo, no?

— Appunto — disse Ruiz-Sanchez.

— Oh, credo proprio che riusciremo a farcela — disse Michelis. — Ma… scusate la mia indiscrezione, Ramon, ma non mi sembrate un uomo che abbia urgente bisogno del grande perdono. Ciò forse significa che avete cambiato idea nei riguardi di Lithia?

— No, non ho cambiato idea — rispose Ruiz-Sanchez a bassa voce. — Abbiamo tutti bisogno del grande perdono, Mike. Ma non è per questo che vado a Roma.

— Allora…?

— Prevedo che dovrò esservi giudicato per eresia.