"Guerra al grande nulla" - читать интересную книгу автора (Blish James)

LIBRO PRIMO

CAPITOLO PRIMO

Nonostante che fosse di pietra, la porta d’ingresso sbatté con violenza. Quel rumore sordo era il segno distintivo di Cleaver: non esisteva porta così pesante, così complicata da chiudere, così ben bilanciata sui cardini da impedirgli di chiuderla, ogni volta, con un fracasso apocalittico. E nell’intero universo non c’era pianeta che possedesse un’atmosfera abbastanza densa e greve di vapori da attutire quel rimbombo: neppure Lithia.

Padre Ramon Ruiz-Sanchez, già del Perù, e sempre Chierico Regolare della Compagnia di Gesù, Sacerdote professo dei quattro voti, continuò a leggere. In ogni caso, sarebbe occorso un certo periodo di tempo perché Paul Cleaver, nonostante la sua impazienza, riuscisse a sfilarsi di dosso la tuta da giungla, e il problema era tuttora aperto. Era un problema vecchio di un secolo, proposto originariamente nel lontano 1939, ma la Chiesa non lo aveva mai risolto. Ed era diabolicamente complicato (l’avverbio «diabolicamente» era ufficiale, scelto con deliberata intenzione perché venisse preso alla lettera). Quanto al romanzo che aveva posto il problema, esso era all’Index expurgatorius, e il Padre Ruiz-Sanchez vi aveva accesso spirituale soltanto in virtù del suo Ordine.

Voltò la pagina senza prestare orecchio ai brontolii e al rumore di stivali che provenivano dall’ingresso. Il testo continuava indefatigabilmente, una pagina dopo l’altra, e si faceva più intricato, più perverso, più insolubile ad ogni parola:

«… Magravius minaccia di far molestare Anita da Sulla, selvaggio ortodosso (e capo di una banda di dodici mercenari, i Sullivani), che desidera procurare Felicia a Gregorius, Leo, Vitellius e Macdugalius, quattro sterratori, se essa non si concederà a lui e se, inoltre, non ingannerà Honuphrius compiendo i suoi doveri coniugali quand’egli li esiga. Anita, che asserisce di avere scoperto tentazioni incestuose in Jeremias ed Eugenius…»

Ecco, aveva di nuovo perso il filo. Jeremias ed Eugenius erano…? Oh, certo, i «filadelfiani» o amanti fraterni (e qui, senza dubbio, doveva celarsi un altro crimine) citati all’inizio, consanguinei di infimo grado di Felicia e Honuphrius… e questi era chiaramente il principale fellone e marito di Anita. Magravius, che pareva nutrire ammirazione nei riguardi di Honuphrius, era stato indotto dallo schiavo Mauritius a far pressioni su Anita: probabilmente sotto l’egida dello stesso Honuphrius. La cosa, tuttavia, era giunta ad Anita per il tramite della sua cameriera Fortissa, che era — o un tempo era stata — sposata civilmente con Mauritius e gli aveva dato dei figli… insomma, tutta la storia doveva venire valutata con la cautela più scrupolosa. E la confessione iniziale di Honuphrius era stata resa sotto tortura: volontariamente accettata, certo, ma pur sempre tortura. Il rapporto tra Fortissa e Mauritius, poi, lasciava ancor più adito al dubbio, e in verità era soltanto una supposizione del commentatore, Padre Ware…

— Ramon, per favore, mi date una mano? — gridò a un tratto Cleaver. — Mi si è inceppata la chiusura, e poi… non mi sento bene.

Il biologo gesuita si alzò, preoccupato, e mise via il libro. Una tale richiesta, da parte di Cleaver, non aveva precedenti. Il fisico sedeva su un «puf» di vimini intrecciati, imbottito di un muschio che ricordava il comune sfagno, che faticava a reggere il suo peso. Si era già sfilato la parte superiore della tuta da giungla in fibra di vetro, ed era pallido in viso e madido di sudore, anche se si era già tolto il casco. Con le dita tozze e malsicure dava secchi strattoni a una chiusura lampo che non voleva scorrere.

— Paul, perché non avete detto subito che non vi sentivate bene? Lasciate fare a me; riuscirete soltanto a peggiorare il guaio. Che cosa è accaduto?

— Non saprei dire esattamente — rispose Paul Cleaver, col fiato grosso e staccando le dita dalla lampo. Ruiz-Sanchez, inginocchiato accanto a lui, tentò di inserire di nuovo la linguetta metallica nella scanalatura dentellata. — Sono andato a fare un giro esplorativo nella giungla, per vedere se fosse possibile trovare qualche giacimento di pegmatite. È da un pezzo che sto pensando che un impianto pilota, qui, per la produzione di tritio, potrebbe dare un rendimento colossale.

— Dio non voglia — mormorò Ruiz-Sanchez.

— Eh? Ad ogni modo, non ho trovato nulla. Qualche lucertolone, delle cavallette, come al solito. Poi, improvvisamente, ho urtato una pianta, che assomigliava un po’ a un ananasso, e una delle spine mi ha perforato la tuta, pungendomi. Per il momento non m’è parsa una cosa grave, ma ora…

— Non per nulla portiamo queste tute. Vediamo un po’. Ecco, alzate le gambe e vi aiuterò a togliere gli stivali. Dove vi siete… Oh, certo, non ha un bell’aspetto, ve lo concedo. Altri sintomi?

— Mi sento la bocca secca — si lagnò Cleaver.

— Apritela — ordinò il Gesuita. Quando Cleaver obbedì, risultò che l’aver parlato di bocca secca era stato da parte sua un deliberato tentativo di minimizzare la situazione. La mucosa della bocca era quasi interamente coperta di ulcere poco belle a vedersi e senza dubbio quanto mai dolorose, dai contorni così precisi da sembrare che fossero state ritagliate con un coltellino.

Ma Ruiz-Sanchez non fece commenti, e atteggiò il volto a un’espressione di disinteresse. Se il fisico desiderava minimizzare la gravità delle sue condizioni, Ruiz-Sanchez non ci trovava nulla da ridire. Un pianeta straniero non è il luogo più indicato per privare un uomo delle sue difese psicologiche.

— Andiamo al laboratorio — disse. — Avete la bocca un po’ infiammata.

Cleaver si alzò, malfermo sulle gambe, e seguì il Gesuita nel laboratorio. Ruiz-Sanchez fece prelievi su parecchie ulcere, li mise su un vetrino da microscopio e li sottopose alla colorazione Gram. La colorazione richiedeva un certo tempo, ed egli lo occupò eseguendo il complicato rituale di disporre lo specchietto del microscopio in modo che ricevesse luce, dalla finestra, da una brillante nube bianca. Quando il timer dell’apparecchio emise un ronzio per avvisarlo che il processo di colorazione era terminato, egli sciacquò il vetrino, lo asciugò alla fiamma e lo dispose sotto la lente.

Come in parte temeva, non vide quasi nessuno dei diversi bacilli e spirocheti della normale, terrestre angina di Vincent, che il quadro clinico suggeriva e che egli avrebbe potuto guarire in ventiquattr’ore con una pastiglia di spettrosigmina. La flora buccale di Cleaver era normale, anche se troppo abbondante a causa dell’estensione del tessuto esposto: la «carne viva» delle ulcerazioni.

— Ora vi farò un’iniezione — disse Ruiz-Sanchez. — Dopo farete bene ad andarvene a letto.

— Ma neanche per sogno — protestò Cleaver. — Il lavoro che mi resta da fare è dieci volte superiore a quello che posso sperare di fare senza ulteriori intralci.

— Certo — ammise Ruiz-Sanchez. — Le malattie sono sempre un fastidio. Comunque, perché preoccuparvi se perdete un giorno o due, visto che, in qualsiasi caso, non riuscirete mai a finire?

— Che cosa mi sono buscato? — chiese Cleaver, con aria allarmata.

— Non vi siete buscato nulla — rispose Ruiz-Sanchez, quasi con rincrescimento. — Vale a dire che non avete infezioni. Ma il vostro «ananas» vi ha fatto un brutto tiro. In massima parte, le piante di questa famiglia, su Lithia, hanno spini o foglie ricoperte di polisaccaridi che per noi sono veleni. Il particolare glucoside in cui vi siete imbattuto oggi era probabilmente il veleno della scilla, o qualcosa di analogo. I sintomi assomigliano a quelli dell’angina di Vincent, ma sono più difficili a curarsi.

— E quanto durerà questa storia? — domandò Cleaver. Aveva sempre l’aria polemica, ma stava sulla difensiva, ora.

— Parecchi giorni almeno, il tempo necessario al vostro organismo a elaborare la sua stessa immunità. L’iniezione che sto per farvi è una globulina gamma, specifica contro la scilla, e modererà i sintomi fino a quando avrete acquisito una quantità sufficiente di anticorpi di vostra propria creazione. Ma nel processo, vi si svilupperà un febbrone da cavallo, Paul, e io dovrò imbottirvi di antipiretici, dato che anche poche linee di febbre sono molto pericolose in questo clima.

— Lo so — disse Cleaver, raddolcito. — Più cose imparo di questo maledetto pianeta e meno sono disposto a votare «sì» quando verrà il momento. Bene, portate dunque la vostra siringa… e la vostra aspirina. Immagino che dovrei essere contento che non si tratti d’infezione, diversamente i Serpenti mi riempirebbero di antibiotici.

— Poco probabile. Non dubito che i Lithiani abbiano un centinaio almeno di farmaci che, in futuro, potranno servirci… ecco fatto, potete rilassarvi… ma prima dovremo studiare la loro farmacologia bene a fondo. Bene, Paul, distendetevi sulla vostra amaca, ora. Fra una decina di minuti, vi augurerete di non essere mai esistito, ve lo garantisco.

Cleaver sorrise. La sua faccia grondante sudore, sotto la massa paglierina di capelli biondi, esprimeva, nonostante la malattia, forza e potenza. Si levò ritto e cominciò a rimboccarsi la manica.

— E non ci sono dubbi su quale sarà il vostro voto, vero? — disse. — Voi amate questo pianeta, non è vero, Ramon? Da quel che ne so io, è un vero paradiso per un biologo — osservò.

— Sì, l’amo — disse il prete, sorridendo a sua volta. Seguì l’altro nella stanzetta che serviva a entrambi da camera da letto. Finestra a parte, assomigliava in tutto e per tutto all’interno di una brocca. I muri, incurvati e continui, erano fatti d’una specie di ceramica, che non trasudava mai l’umidità, ma non sembrava mai nemmeno asciutta del tutto. Le amache pendevano da uncini che sporgevano dalla parete e che parevano farne parte integrante, come se fossero stati messi in forno insieme con il resto della casa. — Mi piacerebbe che la dottoressa Meid potesse vederlo. Ne sarebbe ancor più deliziata di me.

— Non ho molta fiducia nelle donne scienziate — disse Cleaver in tono irritato. — Mescolano e confondono le emozioni con le ipotesi. Meid… che specie di donna è, comunque?

— Giapponese. Il primo nome della dottoressa è Liu… la sua famiglia segue l’uso occidentale di mettere per ultimo il nome di famiglia.

— Ah — fece Cleaver, perdendo interesse alla cosa. — Stavamo parlando di Lithia.

— Sì, ma non dovete dimenticare che Lithia è il mio primo pianeta extra-solare — disse Ruiz-Sanchez. — Credo che troverei affascinante qualsiasi nuovo mondo abitabile. L’infinita varietà e mutevolezza delle forme di vita e la particolare intelligenza implicita di ognuna di esse… Tutto ciò è sbalorditivo e affascinante nello stesso tempo.

— E perché questo non dovrebbe essere sufficiente? Che bisogno avete di unire un’idea di Dio a tutto ciò? È assurdo.

— Anzi, è proprio ciò che dà un senso a tutto il resto. Scienza e religione non si escludono a vicenda. Se ponete in primo piano il pensiero scientifico, escludendo la fede, se ammettete solo ciò che è provato, allora vi resta appena una serie di gesti vuoti. Per me, la biologia è un atto di fede, perché so che tutte le creature sono opera di Dio, so che ogni nuovo pianeta, con tutte le sue manifestazioni, è un’affermazione della potenza di Dio.

— Siete un uomo che ha dedicato la sua vita a una causa — disse Cleaver. — Benissimo. Lo sono anch’io. Ma io, invece, dico: «Alla maggior gloria dell’uomo.»

Si distese pesantemente sull’amaca. In capo a un certo intervallo, Ruiz-Sanchez si prese la libertà di alzargli e sistemargli sull’amaca l’altro piede, che Cleaver sembrava aver completamente dimenticato. Cleaver non se ne accorse. La reazione era già in atto.

— Esattamente così — disse Ruiz-Sanchez. — Solo che avete detto la prima metà soltanto: la seconda metà continua: «… e a maggior gloria di Dio.»

— Oh, Padre, risparmiatemi i vostri sermoni — sbuffò Cleaver, ma si riprese subito: — Scusatemi, Padre, ma il fatto è che per un fisico questo pianeta è un vero inferno… Dovreste darmi quell’aspirina, ho un gran freddo.

— Certo, Paul.

Ruiz-Sanchez si diresse in laboratorio, dove preparò una pasta di barbiturato salicilico in uno dei superbi mortai lithiani; compresse poi la pasta in modo da formare una serie di pillole. (Non era possibile conservare quelle compresse nell’umida atmosfera di Lithia, erano troppo igroscopiche.) Peccato non poter stampigliare su ciascuna compressa la scritta «Bayer» prima che si indurisse… se Cleaver riteneva che l’aspirina fosse la sua panacea universale, sarebbe stato meglio lasciargli credere che fossero davvero compresse di aspirina… ma, ovviamente, non aveva uno stampo a disposizione. Portò infine a Cleaver due di quelle pillole, con un bicchiere e una caraffa d’acqua filtrata secondo il metodo Berkefeld.

Il massiccio corpo di Cleaver era già annientato dal sonno; ma il Gesuita lo svegliò, più o meno. In grazia di questa lieve seccatura, Cleaver avrebbe dormito più a lungo e si sarebbe svegliato più avanti sulla via della guarigione. In realtà, il fisico quasi non si accorse di ingollare le due pillole, e in breve riprese a respirare in modo pesante e irregolare.

Allora Ruiz-Sanchez ritornò nella stanza principale, sedette e si mise a esaminare la tuta da giungla. Non fu difficile trovare la lacerazione prodotta dallo spino e constatare che la riparazione sarebbe stata cosa di poco conto. Molto più difficile sarebbe stato correggere la convinzione di Cleaver che le difese biologiche di un terrestre su Lithia fossero invulnerabili, e che si poteva andare a sbattere senza danno sulle piante spinose. Ruiz-Sanchez si chiese se gli altri due membri del Comitato d’Indagine su Lithia l’avessero già capito.

Cleaver, parlando del vegetale che l’aveva messo a letto, l’aveva definito un «ananasso». Qualsiasi biologo avrebbe potuto dirgli che anche sulla Terra l’ananasso è una pianta assai prolifica e pericolosa, e che il fatto che sia commestibile è soltanto un caso accidentale: fortunato, certo, ma irrilevante. Nelle Hawaii, come Ruiz-Sanchez ricordava bene, la foresta tropicale era insuperabile per chi non indossasse calzoni robusti e stivali. E anche nelle piantagioni, gli ananassi, strettamente vicini tra loro e molto robusti, potevano fare a pezzi le gambe di un uomo che non fosse adeguatamente difeso.

Ruiz-Sanchez rivoltò la tuta. La chiusura lampo che Cleaver aveva inceppato era fatta di una sostanza plastica, nelle molecole della quale erano incorporati radicali di diverse sostanze terrestri fungicide, in particolare il veleno protoplasmico detto thiolutina. I microrganismi lithiani non la aggredivano, certo, ma le complesse molecole dalla plastica stessa avevano la tendenza, a causa dell’umidità e del calore lithiani, a subire una polimerizzazione più o meno spontanea. E così quel giorno un dente della chiusura si era trasformato in qualcosa che assomigliava a un grano di «pop-corn».

L’aria si era fatta oscura. A un tratto s’udì un lievo scoppio soffocato, e la stanza s’illuminò di fiammelle d’un giallo tenue, provenienti da recessi posti in tutte le pareti. Il combustibile era un gas naturale, di cui Lithia possedeva riserve inesauribili, costantemente rinnovate. Le fiamme si accendevano al contatto di un catalizzatore, a misura che il gas usciva dal sistema. Una reticella di calce, montata su un semplice dispositivo a ruota e cremagliera di vetro refrattario, poteva essere introdotta nella fiamma per produrre una luce più intensa e brillante; ma al Gesuita non dispiaceva quella luce gialla, che del resto gli stessi Lithiani preferivano, e usava la luce alla calce soltanto in laboratorio.

Per certi usi, naturalmente, i Terrestri avevano bisogno dell’elettricità, e a questo scopo s’erano dovuti portare il loro generatore. I Lithiani erano molto più progrediti nell’elettrostatica dei Terrestri, ma in compenso ignoravano quasi tutto dell’elettrodinamica. Avevano scoperto il magnetismo soltanto pochi anni avanti l’arrivo del Comitato, dato che le calamite naturali erano sconosciute sul pianeta. Avevano osservato questo fenomeno per la prima volta non nel ferro, non possedendone quasi, ma nell’ossigeno liquido, sostanza molto difficile a utilizzarsi nella costruzione di un generatore!

I risultati, nelle applicazioni della civiltà lithiana, erano peculiari, agli occhi di un Terrestre. Quegli esseri simili a rettili alti quattro metri, o quasi, avevano costruito numerosi generatori elettrostatici di grandi dimensioni, e miriadi di piccoli, ma non avevano nulla che assomigliasse da vicino o da lontano a un telefono. Sapevano molte cose, dal punto di vista pratico, sull’elettrolisi, ma trasportare una corrente a grande distanza (anche un chilometro e mezzo) sembrava loro un vero prodigio tecnico. Non avevano motori elettrici, secondo l’accezione terrestre, ma erano capaci di eseguire voli intercontinentali con apparecchi a reazione azionati dall’elettricità statica. Cleaver sosteneva di capire come fosse possibile realizzare na simile impresa, ma Ruiz-Sanchez non lo capiva davvero, e dopo la descrizione fattagli da Cleaver (plasma elettroionici riscaldati da induzione a radio-frequenza) si era accorto di essere più all’oscuro di prima.

Possedevano una rete meravigliosa di radiotrasmittenti, che, tra l’altro, forniva al pianeta intero un sistema di navigazione «viva» imperniato (e qui stava forse la prova più impressionante del genio lithiano per il paradosso) su di un albero. Tuttavia, non erano mai riusciti a produrre una normale valvola termoionica, e la loro teoria atomica non andava più in là di quel che fosse stata la teoria atomica di Democrito!

Questi paradossi naturalmente si spiegavano in parte con la mancanza su Lithia di certe materie. Come ogni altra grande massa in rotazione, Lithia aveva un suo campo magnetico, ma un pianeta quasi del tutto privo di ferro non offre ai suoi abitanti le migliori condizioni per giungere alla scoperta del magnetismo. La radioattività era praticamente sconosciuta su Lithia fino all’arrivo dei terrestri, cosa che spiegava la pochezza delle sue teorie atomiche. Come i Greci, i Lithiani avevano scoperto che la frizione di un pezzo di seta contro un altro di vetro produce una specie di energia o carica, e la frizione della seta con l’ambra un’altra. A partire da questo punto, erano arrivati ai generatori Van de Graaf, all’elettrochimica e al motore a reazione basato sull’elettricità statica, ma senza materiali adatti erano stati incapaci di creare accumulatori al piombo, o di far più che studiare l’elettricità in movimento.

Nei campi in cui avevano beneficiato di indizi sufficienti avevano compiuto enormi progressi. Malgrado la costante nebulosità del cielo e la continua acquerugiola, la loro astronomia descrittiva era notevole, grazie alla presenza di una piccola luna che aveva attirato la loro attenzione verso lo spazio. Ciò a sua volta aveva permesso di fare progressi considerevoli nel campo dell’ottica e, per conseguenza, di acquistare una prodigiosa specializzazione nell’arte di lavorare il vetro. La loro chimica aveva tratto pieno vantaggio tanto dagli oceani quanto dalle giungle. Dagli oceani estraevano prodotti vari, come l’agar, lo iodio, sali metallici e numerose forme di sostanze commestibili. Le giungle, poi, fornivano quasi ogni altra cosa di cui abbisognassero: resine, caucciù, legname d’ogni grado di durezza, oli commestibili e industriali, grassi vegetali, corde e altre fibre, noci e frutti d’ogni genere, tannino, tinture, medicamenti, sughero, carta. Il solo prodotto della foresta che essi non utilizzassero era la selvaggina, e per ragioni difficili a comprendersi. A Padre Ruiz-Sanchez, il motivo era parso essere religioso, ma i Lithiani non avevano religione alcuna e si nutrivano di numerose creature marine senza il minimo scrupolo di coscienza.

Con un sospiro, il Gesuita si lasciò cadere la tuta sulle ginocchia, sebbene il dente dalla forma di pop-corn non avesse ancora ritrovato, dopo un certo lavoro di forbici, il suo aspetto primitivo. Fuori, nell’oscurità densa di umidità, Lithia dava il suo concerto notturno. Era un brusio vivo, fresco, insolito, che occupava quasi tutto lo spettro sonoro che un Terrestre potesse udire. Proveniva dalle miriadi d’insetti del pianeta. Molti di questi emettevano suoni trillanti, armoniosi, un po’ come il cinguettio degli uccelli. Cosa fortunata, in un certo senso, dato che su Lithia non esistevano uccelli.

Ruiz-Sanchez si chiese se il Paradiso Terrestre non avesse echeggiato di suoni come quelli, prima che lo spirito del male si diffondesse sul mondo. In verità, il suo Perù natio non cantava una simile canzone…

I dubbi di coscienza: questo era, in definitiva, il suo vero lavoro, più che non i labirinti della biologia sistematica, che già erano intricati in modo quasi insolubile sulla Terra, ancor prima che fosse giunto il volo interstellare ad aggiungere con ogni nuovo pianeta un nuovo strato di labirinti, e una nuova dimensione di labirinti con ogni nuova stella. Sì, era interessante sapere che i Lithiani erano bipedi discendenti da una specie affine ai rettili terrestri, muniti di marsupi e di un sistema circolatorio pteropside; ma era vitale che avessero dubbi di coscienza, sempre che ne avessero.

Il suo sguardo cadde sul calendario. Era un calendario «artistico» che Cleaver aveva tratto dal suo bagaglio appena arrivato su Lithia; e la ragazza seminuda che lo illustrava era divenuta pudica senza averne l’intenzione, sotto le grandi macchie di umidità arancione. Segnava la data del 19 aprile 2049. Quasi Pasqua… e ciò costituiva il modo più adatto per ricordargli come, rispetto alla vita interiore, il corpo fosse soltanto un abito. Ma per Ruiz-Sanchez, personalmente, anche l’anno era altrettanto importante perché l’anno successivo, il 2050, sarebbe stato un Anno Santo.

La Chiesa aveva ristabilito l’antico costume (riconosciuto per la prima volta ufficialmente nel 1300 dal pontefice Bonifacio III) di proclamare il Grande Perdono una volta ogni mezzo secolo. Se Ruiz-Sanchez non avesse potuto trovarsi a Roma l’anno seguente, quando si fosse aperta la Sacra Porta, non l’avrebbe vista aprirsi mai più in vita sua.

Sbrigati, sbrigati! gli mormorava all’orecchio un suo demonietto personale. O si trattava della voce della sua coscienza? Erano dunque così pesanti i suoi peccati (peccati ch’egli ancora non conosceva) da condurlo al mortale bisogno del pellegrinaggio? O si trattava, viceversa, di una tentazione, veniale, a peccare d’orgoglio?

Fosse come fosse, non poteva affrettare troppo il suo lavoro. Era venuto con gli altri tre uomini su Lithia per stabilire se il pianeta fosse adatto come scalo della Terra, senza il rischio di effetti dannosi tanto per i terrestri quanto per i Lithiani. Gli altri tre membri della Commissione erano fondamentalmente degli scienziati, come lo era Ruiz-Sanchez; ma lui sapeva che in definitiva la sua decisione sarebbe dipesa più dalla sua coscienza che dalle classificazioni biologiche.

E, come la creazione, la coscienza non può fare le cose in fretta.

Non la si può nemmeno pianificare in base a orari e progetti.

Abbassò lo sguardo sulla tuta ancora da riparare, con aria turbata, e rimase così fino al momento in cui udì Cleaver gemere fioco. Poi si alzò e lasciò la stanza alle fiammelle sulla parete, che sibilavano piano.