"Il mondo delle streghe" - читать интересную книгу автора (Norton Andre)

PARTE TERZA l’avventura di Karsten

Capitolo primo La tomba di Volt

Cinque uomini giacevano sulla sabbia battuta dalle onde nella piccola conca della baia, ed uno di essi era morto, con un grande squarcio attraverso la fronte. Era una giornata calda, e i raggi del sole investivano i loro corpi seminudi. L’odore del mare ed il fetore delle alghe in putrefazione si fondevano, con il caldo, in un’esalazione tropicale.

Simon tossì, puntellando sui gomiti il corpo dolorante. Era pieno di lividi e la nausea lo tormentava. Lentamente, si trascinò un po’ in disparte: vomitò, ma il suo stomaco contratto era vuoto. Lo spasmo lo scosse, rendendogli la lucidità: appena riuscì a dominarlo, si mise a sedere.

Ricordava solo in parte il passato immediato. La fuga da Forte Sulcar era stata l’inizio dell’incubo. Quando Magnis Osberic aveva distrutto il proiettore d’energia che forniva luce e calore al porto, non solo aveva fatto saltare la piccola città, ma aveva probabilmente aggravato la furia della tempesta che s’era scatenata poco dopo. E in quella tempesta, le poche Guardie superstiti che si erano affidate alle barche di salvataggio, erano state disperse senza speranza di mantenere la rotta.

Tre dei vascelli si erano allontanati dal porto, ma erano rimasti insieme poco più a lungo del momento in cui avevano visto per l’ultima volta il chiarore della città esplosa. E poi era venuto il terrore, perché l’imbarcazione era stata travolta, sbatacchiata e infine scagliata contro le rocce della costa, durante un periodo di tempo che non corrispondeva più ad un’ordinata successione di ore e di minuti.

Simon si passò le mani sul volto. Le ciglia erano incrostate di sale, incollate, ed era difficile aprire gli occhi. C’erano quattro uomini… Poi scorse la testa sfracellata… tre uomini e il morto.

Da una parte c’era il mare, ormai abbastanza calmo, che lambiva i grovigli di alghe gettate a riva. Di fronte all’acqua c’era una parete rocciosa accidentata che doveva offrire appigli sufficienti, pensò Simon. Ma non aveva nessuna voglia di tentare quella scalata e neppure di muoversi. Era piacevole starsene lì seduto e lasciare che il tepore del sole scacciasse il gelo mordente della tempesta e dell’acqua.

«Saaa…»

Una delle figure sulla sabbia si mosse. Un lungo braccio spazzò la sabbia, scostando una massa d’alghe. L’uomo tossì, fu scosso da conati di vomito, e alzò la testa per guardarsi intorno, stordito. Poi il Capitano di Estcarp scorse Simon e lo fissò con occhi vitrei, prima di muovere la bocca in un tentativo di sorriso.

Koris si sollevò: le spalle e le braccia massicce sostennero quasi tutto il suo peso, mentre si trascinava verso uno spazio libero della sabbia spianata dalle acque.

«A Gorm dicono,» cominciò con voce arrugginita, gracchiante, «che un uomo nato per sentire sul collo la scure del carnefice non annega. E poiché mi è stato spesso preannunciato che un’ascia è il mio destino… come vedi, i detti dei vecchi hanno ragione!»

Faticosamente, si avvicinò al più vicino degli uomini ancora distesi, e fece girare il corpo inerte, scoprendo un viso biancogrigiastro. Il petto della Guardia si alzava e si abbassava in un respiro regolare: e sembrava che non avesse ferite.

«Jivin,» disse Koris. «Un eccellente cavaliere,» aggiunse pensieroso. E Simon si sorprese a ridere fiaccamente, premendosi i pugni contro i muscoli intormentiti dello stomaco.

«Naturalmente,» proruppe, tra gli scoppi d’ilarità quasi isterica, «c’è un gran bisogno della sua specializzazione, in questo momento!»

Ma Koris si era accostato a un altro corpo intatto. «Tunston!»

Simon ne fu lieto, vagamente. Durante il breve periodo trascorso nella Guardia di Estcarp, aveva incominciato a provare un autentico rispetto per l’anziano ufficiale. Si mosse, a fatica, e aiutò Koris a trascinare i due uomini ancora inconsci al di sopra della battigia invasa dalle alghe. Poi si mise in piedi, aggrappandosi alla parete di roccia.

«Acqua…» Il senso di benessere che aveva provato per qualche istante dopo il risveglio era svanito. Aveva sete, e tutto il suo corpo spasimava per il desiderio d’acqua, all’interno ed all’esterno, per bere e per lavarsi, per togliere la bruciante crosta di sale dalla pelle troppo sensibile.

Koris lo raggiunse, per esaminare la parete. C’erano solo due modi per uscire dalla conca in cui si trovavano. Tornare in acqua e cercare di superare a nuoto le lingue di roccia, oppure arrampicarsi su per quello strapiombo. E Simon si sentiva tremare per il disgusto al pensiero di nuotare o di tornare nell’acqua da cui era emerso miracolosamente.

«Non deve essere troppo difficile,» disse Koris, aggrottando la fronte. «Si direbbe quasi che un tempo vi fossero appigli qua e là.» Si alzò in punta di piedi, accostandosi alla roccia, tendendo le lunghe braccia sopra la testa, e insinuò le dita nelle piccole aperture. Sulle spalle, i muscoli si gonfiarono: Koris alzò un piede, inserì la punta dello stivale in una crepa e cominciò a salire.

Lanciando un’ultima occhiata alla spiaggia ed ai due uomini che adesso erano lontani dalle onde, Simon lo seguì. Si accorse che il Capitano aveva ragione. C’erano comodi appigli per le mani ed i piedi, naturali o artificiali che fossero: raggiunse Koris su un cornicione, circa tre metri al di sopra della spiaggia.

Era impossibile non riconoscere l’origine artificiale di quel cornicione, poiché si vedevano ancora i segni lasciati dagli utensili che l’avevano modellato. Saliva come una rampa rìpida verso la sommità della parete. Non era un cammino facile per un uomo tormentato dai capogiri e con le gambe deboli: ma era molto meglio di quanto avesse osato sperare.

Koris riprese a parlare. «Puoi farcela da solo? Vedrò se mi riesce di far muovere gli altri.»

Simon annuì, e subito si pentì di quel gesto. Si aggrappò alla parete ed attese che il mondo smettesse di girare spiacevolmente. Stringendo i denti, affrontò l’erta. Spesso dovette procedere carponi, fino a quando uscì sotto una sporgenza incavata. Stringendosi le mani doloranti, si affacciò in quella che poteva essere soltanto una grotta. L’erta non proseguiva: si poteva solo sperare che la caverna avesse un’altra uscita, più in alto.

«Simon!» Il grido che saliva dalla spiaggia era ansioso, incalzante.

Si spinse sul ciglio del cornicione e guardò giù.

Koris era là, con la testa rovesciata all’indietro nel tentativo di guardare verso l’alto. Anche Tunston era in piedi, e sorreggeva Jivin. Al cenno di Simon si mossero, e unendo i loro sforzi riuscirono ad issare Jivin fino al cornicione.

Simon restò dov’era. Non se la sentiva di entrare da solo nella grotta. E del resto, sembrava che la sua forza di volontà si fosse esaurita, così come il suo corpo non aveva più energie. Ma dovette entrare a ritroso nella cavità, quando Koris lo raggiunse e si girò per tirare su Jivin.

«C’è qualcosa di strano, in questo posto,» sentenziò il Capitano. «Non sono riuscito a vederti, dal basso, fino a quando hai agitato la mano. Qualcuno si è dato molto da fare per nascondere questa porta.»

«Vuoi dire che deve essere importante?» Simon indicò l’imboccatura della grotta. «Non m’importa, anche se è la sala del tesoro d’un re, purché ci dia la possibilità di trovare l’acqua.»

«Acqua!» gli fece eco Jivin, con un filo di voce. «Acqua, Capitano?» insistette, rivolgendosi fiduciosamente a Koris.

«Non ancora, camerata. C’è ancora un po’ di strada.»

Scoprirono che per varcare l’ingresso della caverna era necessario procedere carponi. Koris stentò a passare, scalfendosi la pelle delle spalle e delle braccia.

Più oltre c’era un corridoio, ma vi filtrava così poca luce che dovettero procedere a tentoni, aggrappandosi alle pareti. Simon tastava con il piede il terreno, prima di muovere un passo.

«È un vicolo cieco!» Le sue mani protese incontrarono la roccia compatta. Ma aveva parlato troppo presto, perché sulla sua destra c’era un vago barlume: si accorse che il corridoio svoltava bruscamente, ad angolo retto.

A partire da quel punto, si vedeva un po’ meglio; affrettarono il passo. Ma al termine del corridoio li attendeva una delusione. La luce non aumentò, e si trovarono nel crepuscolo, e non nella luce del sole.

La sorgente di quel chiarore attirò l’attenzione di Simon, facendogli dimenticare preoccupazioni e dolori. In linea retta, lungo una delle pareti, c’era una serie di finestre perfettamente rotonde, come gli oblò di una nave. Non riusciva a capire come mai non le avessero scorte dalla spiaggia, poiché evidentemente dovevano essere sulla superficie esterna della roccia. Ma la sostanza di cui erano formate lasciava filtrare la luce in raggi nebulosi.

Quella luce, tuttavia, era più che sufficiente per mostrare loro l’unico occupante di quella camera di pietra. Stava su un seggio scolpito nella stessa pietra, con le mani posate sui larghi braccioli, la testa abbandonata sul petto come se dormisse.

Solo quando Jivin trasse un profondo sospiro simile ad un singhiozzo, Simon comprese che si trovavano in una tomba. E il silenzio polveroso si chiuse intorno a loro, come se fossero prigionieri in un sarcofago, senza via di scampo.

Poiché si sentiva intimorito ed inquieto, Simon si avviò deciso verso i due blocchi su cui stava il seggio, fissando con aria di sfida colui che vi sedeva. C’era un fitto strato di polvere che copriva quella figura. Eppure Tregarth poteva vedere che quell’uomo — capotribù, sacerdote o re, o qualunque altra cosa fosse stato in vita — non apparteneva ad una razza affine a quella di Estcarp né a quella di Gorm.

La pelle incartapecorita era scura, levigata, come se l’arte dell’imbalsamatura l’avesse trasmutata in legno lucido. Il viso seminascosto era caratterizzato da un grande vigore, e dominato da un grande naso aquilino. Il mento era minuto, appuntito, e gli occhi chiusi erano profondamente incassati. Sembrava una creatura umanoide i cui remoti antenati non erano primati, bensì uccelli.

Quasi per accrescere l’illusione le vesti, sotto il velo di polvere, erano d’una stoffa che sembrava intessuta di piume. Una cintura cingeva la vita sottile, e attraverso i braccioli del seggio era posata un’ascia così lunga e massiccia da indurre Simon a dubitare che quell’essere fosse mai stato in grado di sollevarla.

I capelli erano pettinati in una cresta, tenuta ritta da un cerchietto ingemmato. Numerosi anelli brillavano sulle dita esili posate sulla lama e sul manico dell’ascia. E intorno al seggio, all’essere ed a quell’ascia da combattimento c’era un’atmosfera di vita aliena così intensa che Simon si arrestò davanti al primo gradino del podio.

«Volt!» Il grido di Jivin era quasi un urlo. Poi le sue parole divennero incomprensibili per Simon: il giovane balbettava, in un’altra lingua, qualcosa che poteva essere una preghiera.

«Quella leggenda è pura verità!» Koris si era portato a fianco di Tregarth. Gli brillavano gli occhi, come la notte in cui si erano aperti la strada combattendo per uscire da Forte Sulcar.

«Volt? Verità?» gli fece eco Simon; e l’uomo di Gorm rispose, impaziente.

«Volt dell’Ascia. Volt che scaglia i tuoni… Volt che ormai è solo uno spauracchio per spaventare i bambini cattivi! Estcarp è antica, la sua sapienza proviene da tempi anteriori alla storia dell’uomo… o alle sue leggende. Ma Volt è ancora più vecchio di Estcarp! È uno di coloro che vennero prima che l’uomo si armasse di clave e di pietre per combattere le belve. Solo Volt continuò a vivere: conobbe i primi uomini, ed essi conobbero lui… e la sua ascia. Nella sua solitudine, Volt ebbe pietà degli uomini, e con l’ascia aprì loro la strada verso la sapienza e il dominio, prima di abbandonarli.

«In alcuni luoghi ricordano Volt con gratitudine, sebbene lo temano, poiché era incomprensibile. E in altri luoghi lo odiano di un odio profondo, perché la sapienza di Volt ostacolava i loro desideri più grandi. Perciò noi rammentiamo Volt con preghiere e maledizioni, ed egli è nel contempo dio e demonio. Eppure noi quattro, ora, possiamo constatare che un tempo era un essere vivente, in questo affine a noi. Anche se, forse, possedeva altri doni in armonia con la natura della sua razza.

«Ah, Volt!» Koris levò il lungo braccio in un gesto di saluto. «Io, Koris, che sono Capitano di Estcarp e delle sue Guardie, ti reco il mio omaggio, e l’annuncio che il mondo non è cambiato molto dal giorno in cui lo abbandonasti. Combattiamo ancora, e la pace dura solo per poco tempo: ma forse ora, da Kolder, sta giungendo per noi la notte. E poiché sono stato disarmato dal mare, ti chiedo le tue armi! Se per tuo volere potremo fronteggiare ancora Kolder, mi sia concesso di brandire la tua ascia!»

Salì sul primo gradino e tese la mano, con sicurezza. Simon udì il grido soffocato di Jivin, il respiro sibilante di Tunston. Ma Koris sorrideva, mentre tirava delicatamente l’arma verso di sé. La figura assisa sembrava così viva che Simon quasi si aspettava che le mani cariche di anelli si stringessero, per strappare l’arma gigantesca all’uomo che l’aveva chiesta. Ma l’arma si liberò senza difficoltà, cedendo alla stretta di Koris, come se colui che l’aveva impugnata per tante generazioni non soltanto la lasciasse volontariamente, ma la spingesse verso il Capitano.

Simon si aspettava che il manico si sgretolasse, putrefatto, quando Koris la liberò. Ma il Capitano la brandì, levandola alta, e l’avventò in un colpo discendente, arrestandola a pochi centimetri dalla pietra del gradino. Nelle sue mani l’arma era una cosa viva, bellissima.

«Ti sarò grato per tutta la vita, Volt!» gridò. «Con questa conquisterò la vittoria, perché mai ho avuto nelle mani una simile arma. Io sono Koris, già di Gorm, Koris il Deforme. Eppure, grazie ai tuoi auspici, oh, Volt, sarò Koris il Conquistatore, ed il tuo nome sarà di nuovo grande in questa terra!»

Forse fu il timbro della sua voce a smuovere antiche correnti d’aria; Simon cercò di aggrapparsi a quella spiegazione razionale, di fronte a ciò che seguì. L’uomo seduto — o la figura antropomorfa — parve annuire, una volta, due volte, accettando le promesse esultanti di Koris. Poi il corpo che fino a pochi secondi prima era apparso tanto solido, cambiò sotto il loro sguardo, ripiegandosi su se stesso.

Jivin si nascose il volto tra le mani e Simon soffocò un’esclamazione. Volt — se pure era veramente Volt — era scomparso. Sul seggio era rimasta solo la polvere, null’altro… e l’ascia nella stretta di Koris. Tunston, che era un uomo privo d’immaginazione, si rivolse al suo ufficiale.

«Il suo turno di servizio era terminato, Capitano. Ora incomincia il tuo. Hai fatto bene a rivendicare l’arma. E credo che ci porterà fortuna.»

Koris stava facendo roteare di nuovo l’ascia; la lama curva passò sibilando nell’aria. Simon volse le spalle al seggio vuoto. Da quando era entrato in quel mondo aveva assistito alle magie delle streghe e le aveva accettate come parte della sua nuova vita: e adesso accettava anche questo. Ma neppure l’acquisizione della favolosa Ascia di Volt avrebbe portato loro l’acqua ed il cibo necessari alla loro sopravvivenza, e lo disse.

«Anche questo è vero,» riconobbe Tunston. «Se non ci sono altre vie d’uscita, dovremo ritornare sulla spiaggia e cercare altrove.»

Ma un’altra via c’era, perché la parete dietro il grande seggio mostrava un’arcata chiusa da terriccio e detriti. Cominciarono a scavare con le mani ed i coltelli. Era un lavoro sfibrante, e lo sarebbe stato anche per uomini che si fossero accinti a compierlo perfettamente riposati. E solo il nuovo orrore per il mare induceva Simon ad insistere. Alla fine, sgombrarono un corto corridoio e si trovarono di fronte ad una porta.

Un tempo doveva essere stata saldissima, intagliata com’era in un forte legno locale. La putredine non l’aveva erosa: ma la chimica naturale del suolo l’aveva trasformata in una sostanza dura come selce. Koris accennò agli altri di tirarsi indietro.

«Questo è un lavoro per me.»

Ancora una volta, l’Ascia di Volt si sollevò. Simon si lasciò quasi sfuggire un grido, temendo che la splendida lama si danneggiasse. Vi fu un clangore, e l’ascia si levò di nuovo, si abbatté, spinta dalle spalle poderose del Capitano.

La porta si schiantò: una parte s’inclinò verso l’esterno. Koris si scostò: e tutti e tre cominciarono ad allargare il varco. Il fulgore del sole li investì, e la frescura della brezza scacciò l’odore muffito del sepolcro.

Tolsero di mezzo ciò che restava della porta e irruppero attraverso uno schermo di rampicanti secchi e di arbusti; si trovarono sul fianco d’una collina, dove l’erba tenera della primavera spiccava a chiazze vive e i piccoli fiori gialli brillavano come monete d’oro. Erano sulla sommità della parete rocciosa e il pendio, da questa parte, scendeva verso un ruscello. Senza pronunciare una parola, Simon scese barcollando verso l’acqua che prometteva di togliergli la polvere dalla gola e di alleviare la tortura delle incrostazioni di sale sulla pelle.

Alzò la testa sgocciolante dal ruscello, qualche minuto dopo, e vide che Koris non c’era. Eppure era certo che il Capitano fosse uscito con loro dalla Tomba di Volt.

«Koris?» chiese a Tunston. L’altro si massaggiava il volto con manciate d’erba bagnata, sospirando di soddisfazione, mentre Jivin giaceva sul dorso accanto al ruscello, ad occhi chiusi.

«È andato a fare ciò che si deve fare per quell’uomo laggiù,» rispose Tunston in tono distaccato. «Nessuna Guardia deve restare abbandonata al vento e alle onde, se il suo ufficiale può provvedere diversamente.»

Simon arrossì. Aveva dimenticato il cadavere sulla spiaggia. Sebbene fosse entrato spontaneamente nella Guardia di Estcarp, non aveva mai sentito di farne veramente parte. Estcarp era troppo antica, ed i suoi uomini — e le sue streghe — gli erano alieni. Eppure, cosa gli aveva promesso Petronius, quando gli aveva offerto una via di scampo? L’uomo che si serviva del Seggio Periglioso trovava il mondo desiderato dal suo spirito. Lui era un soldato ed era giunto in un mondo in guerra: tuttavia quello non era il suo modo di combattere, e si sentiva ancora uno straniero senza patria.

Ricordò la donna con cui era fuggito attraverso la brughiera, senza sapere, allora, che era una strega di Estcarp. In certi momenti, durante la fuga, li aveva uniti un tacito cameratismo. Ma poi anche quello era svanito.

Lei era salita a bordo d’una delle altre barche, quando avevano lasciato Forte Sulcar. Aveva incontrato una sorte eguale, sul mare spietato? Si scosse, turbato da una sensazione che non voleva riconoscere, aggrappandosi disperatamente al suo ruolo di spettatore. Si girò sull’erba, appoggiò la testa sul braccio piegato, rilassandosi con uno sforzo di volontà come aveva imparato a fare molto tempo prima, e si addormentò.

Simon si svegliò altrettanto rapidamente, con i sensi vigili. Non poteva aver dormito molto, poiché il sole era ancora alto. Nell’aria c’era odore di cibi che cuocevano. Al riparo d’una roccia ardeva un piccolo fuoco, e Tunston vi arrostiva alcuni pesci infilati su fuscelli appuntiti. Koris dormiva accanto all’ascia; il suo volto fanciullesco appariva più tirato e logorato dalla stanchezza di quando era sveglio. Jivin stava disteso bocconi in riva al ruscello, e dimostrava di essere qualcosa di più d’un esperto cavaliere: la sua mano emerse dall’acqua stringendo un pesce appena catturato.

Quando Simon si avvicinò, Tunston inarcò un sopracciglio. «Scegli pure,» disse, indicando il pesce. «Non è il vitto della mensa, ma per ora può andare.»

Simon aveva allungato la mano quando l’improvvisa tensione di Tunston lo indusse a seguire Io sguardo dell’ufficiale. Sopra le loro teste volteggiava un uccello dal piumaggio nero, segnato da una grande V bianca sul petto.

«Un falcone!» Tunston mormorò quella parola come se riassumesse un pericolo non meno grande di un’imboscata dei Kolder.