"Dune" - читать интересную книгу автора (Herbert Frank)

PARTE TERZA Il profeta

Nessuna donna, nessun uomo, nessun fanciullo godette mai dell’intimità di mio padre. Se l’imperatore Padiscià ebbe mai con qualcuno un rapporto che assomigliava vagamente all’amicizia, questo fu col Conte Hasimir Fenring, suo compagno d’infanzia. La misura dell’amicizia del Conte Fenring può essere valutata da un fatto positivo: calmò i sospetti del Landsraad, dopo i Fatti di Arrakis. Costò più di un miliardo di solari in spezia, così disse mia madre, e vi furono anche altri doni: schiave, onori regali, titoli nobiliari. Ma la seconda e più importante prova dell’ amicizia del Conte fu negativa: si rifiutò di uccidere un uomo, anche se questo era nelle sue capacita e mio padre l’aveva ordinato. Narrerò di questo più avanti. da «Un profilo del Conte Fenring», della Principessa Irulan

Pieno di rabbia, il Barone Vladimir Harkonnen arrivava dai suoi appartamenti, volteggiando nelle chiazze di luce che il tardo pomeriggio faceva piovere dalle finestre, contorcendosi violentemente sui sospensori.

Attraversò come un turbine la cucina privata, la biblioteca, la piccola sala dei ricevimenti e l’anticamera della servitù, dov’era già l’ora del riposo.

Il Capitano della Guardia, Jakin Nefud, era accoccolato su un divano all’altro lato della stanza, il volto torpido e assente, istupidito dalla semuta. Il miagolio lamentoso della musica della semuta lo circondava. Aveva intorno la sua corte personale, pronta a servirlo.

«Nefud!» ruggì il Barone.

Gli uomini saltarono via da ogni lato.

Nefud si alzò, pallido come un morto nonostante il narcotico. La musica della semuta si era interrotta.

«Mio Signore, Barone» disse Nefud. Soltanto la droga impediva alla sua voce di tremare.

Il Barone esaminò i volti che lo circondavano: gli occhi lo fissavano privi di emozione. Nuovamente rivolse la sua attenzione a Nefud e gli disse in tono soave: «Da quanto tempo sei il capitano delle mie guardie, Nefud?»

Nefud deglutì. «Dai tempi di Arrakis, mio Signore. Quasi due anni.»

«E hai sempre previsto i pericoli che minacciavano la mia persona?»

«È stato sempre il mio unico desiderio, mio Signore.»

«E allora, dov’è Feyd-Rautha?» ruggì il Barone.

Nefud indietreggiò. «Mio Signore?»

«Tu non consideri Feyd-Rautha un pericolo per la mia persona?» Nuovamente il tono soave.

Nefud si passò la lingua sulle labbra. L’istupidimento della semuta si dileguava dai suoi occhi. «Feyd-Rautha è nel quartiere degli schiavi, mio Signore.»

«Ancora con le donne, eh?» Il Barone tremò nello sforzo di dominare la rabbia.

«Sire, forse è…»

«Silenzio!»

Il Barone avanzò di un altro passo nella stanza, notando come gli uomini arretrassero, lasciando un certo spazio intorno a Nefud, dissociando se stessi dall’oggetto della sua ira.

«Non ti ho forse ordinato di sapere ad ogni istante dove si trova il na-Barone?» gli chiese il Barone. Fece un altro passo in avanti. «Non ti ho forse ordinato di sapere esattamente tutto quello che dice, e a chi?» (Un altro passo). «Non ti ho forse ingiunto d’informarmi di ogni sua visita al quartiere delle schiave?»

Nefud inghiottì. Gocce di sudore gl’imperlavano la fronte.

Il Barone concluse con voce piatta, impersonale: «Non ti avevo detto tutto questo?»

Nefud annuì.

«E non ti avevo detto, anche, di controllare tutti i ragazzi inviati a me, e che avresti dovuto farlo…personalmente

Ancora una volta Nefud annuì.

«E non hai visto, per caso, la macchia sulla coscia di quello che mi hai mandato questa sera?» ruggì il Barone. «È possibile che tu…»

«Zio.»

Il Barone si voltò di scatto, fulminando con lo sguardo Feyd-Rautha, immobile sulla soglia. La presenza di suo nipote, lì, in quel preciso istante, lo sguardo ansioso, il respiro ansante che a stento dissimulava, tutto questo rivelava fin troppe cose, ma soprattutto il sistema di spie che Feyd-Rautha teneva puntato contro di lui.

«C’è un cadavere nelle mie stanze. Portatelo via» disse il Barone, sfiorando con la mano l’arma a proiettili che aveva sotto la veste, felicitandosi con se stesso che il suo scudo fosse il migliore.

Feyd-Rautha lanciò un’occhiata alle due guardie, immobili contro la parete a destra, e annuì. I due si precipitarono verso la porta e lungo il corridoio che portava agli appartamenti del Barone.

Quei due. eh? pensò il Barone. Ah, questo giovane mostro ha ancora molto da imparare sulle cospirazioni!

«Presumo che tutto fosse tranquillo nel quartiere degli schiavi, quando l’hai lasciato, Feyd» disse.

«Giocavo a cheops col Maestro degli Schiavi» replicò Feyd-Rautha, e pensò: Che cos’è che non ha funzionato? Il ragazzo che gli abbiamo mandato è stato, ovviamente, ucciso. Ma era perfetto per quel lavoro. Lo stesso Hawat non avrebbe potuto sceglierlo meglio. Il ragazzo era perfetto!

«Così, giocavi agli scacchi piramide» riprese il Barone. «Molto bene. Chi ha vinto?»

«Io… eh, sì… Zio.» Feyd-Rautha si sforzò di nascondere l’inquietudine. Il Barone fece schioccare le dita: «Nefud, vuoi ritornare nelle mie buone grazie?»

«Mio Signore, che cosa ho fatto?» balbettò Nefud.

«Non ha importanza, ora» disse il Barone. «Feyd ha battuto il Maestro degli Schiavi a cheops, non hai sentito?»

«Sì, Signore.»

«Voglio che tu prenda tre uomini e vada dal Maestro degli Schiavi» continuò il Barone. «Strangola il Maestro degli Schiavi. Quando hai finito, portami il suo corpo, perché io veda se il lavoro è stato fatto bene. Non possiamo avere un giocatore di scacchi così inetto al nostro servizio.»

Feyd-Rautha impallidì. Fece un passo avanti: «Ma Zio, io…»

«Più tardi, Feyd» l’interruppe il Barone, con un cenno della mano, «più tardi.»

Le due guardie che erano accorse negli appartamenti del Barone a prelevare il corpo del giovane schiavo passarono barcollando nell’anticamera col loro carico oscillante, facendo strisciare le braccia sul pavimento. Il Barone li seguì con lo sguardo finché non furono scomparsi.

Nefud scivolò accanto al Barone. «Volete che uccida subito il Maestro degli Schiavi, mio Signore?»

«Subito» replicò il Barone. «E quando avrai finito con lui, aggiungi anche quei due che sono appena passati. Non mi è piaciuto il modo con cui hanno trasportato quel corpo. Queste cose vanno fatte con cura. Voglio vedere anche i loro cadaveri.»

Nefud disse: «Mio Signore, se c’è qualcosa che io…»

«Fai come il tuo padrone ti ha ordinato» l’interruppe Feyd-Rautha. E pensò: Tutto quello che posso sperare, adesso, è di salvare la mia pelle.

Bene! pensò il Barone. Ora il ragazzo, almeno, sa come limitare le perdite. Sorrise, e disse tra sé: Il ragazzo sa anche compiacermi ed evitare che la mia ira ricada su di lui. Sa che devo preservarlo. A chi altri potrei passare quelle redini che un giorno dovrò abbandonare? Nessun altro è così capace. Ma ha ancora da imparare! E devo proteggere me stesso mentre impara.

Nefud designò gli uomini che dovevano accompagnarlo, e uscì dalla stanza.

«Ti dispiace accompagnarmi nel mio appartamento, Feyd?» disse il Barone.

«Sono a tua disposizione.» Feyd-Rautha s’inchinò, pensando: Mi ha preso!

«Dopo di te» fece il Barone, indicando la porta.

Feyd-Rautha tradì la paura con un attimo di esitazione. Ho sbagliato tutto? si chiese. Mi pianterà forse una lama avvelenata nella schiena… lentamente, attraverso lo scudo? Ha forse trovato un altro successore?

Che assapori questo istante di terrore, pensò invece il Barone, incamminandosi dietro il nipote. Sarà il mio successore, ma sceglierò io il momento. Non gli permetterò di abbattere tutto quello che ho edificato!

Feyd-Rautha si sforzò di non camminare troppo rapidamente. Sentì la pelle accapponarglisi sulla schiena, come se il suo stesso corpo si chiedesse quando sarebbe arrivato il colpo. I suoi muscoli si tendevano e si rilassavano continuamente.

«Non hai sentito le ultime novità su Arrakis?» disse il Barone.

«No, Zio.»

Feyd-Rautha lottò per non voltarsi. Scivolò in un altro corridoio, fuori dell’area di servizio.

«C’è un nuovo capo religioso, un profeta di qualche tipo tra i Fremen» continuò il Barone. «Lo chiamano Muad’Dib. È buffo. Vuol dire ’il Topo’. Ho detto a Rabban di lasciare che abbiano la loro religione. Li terrà occupati.»

«Molto interessante, Zio» disse Feyd-Rautha. Entrò nel corridoio che portava alle stanze private dello zio, chiedendosi: Perché mai parla di religione? Vuole forse insinuare qualcosa su di me?

«Già, proprio così» commentò il Barone.

Entrarono nell’appartamento del Barone e attraversarono la sala dei ricevimenti fino alla camera da letto. Vi erano impercettibili tracce di lotta: una lampada a sospensione rovesciata, un cuscino sul pavimento, e sul capezzale una bobina ipnotica completamente aperta.

«Un piano molto intelligente» disse il Barone. Mantenne il suo scudo al massimo, si voltò e fronteggiò il nipote. «Ma non abbastanza. Dimmi, Feyd, perché non mi hai mai colpito personalmente? Non hai avuto abbastanza occasioni?»

Feyd-Rautha agguantò una sedia a sospensione, scrollò mentalmente le spalle e si sedette, senza che suo zio l’avesse invitato.

Devo giocare d’audacia, adesso, pensò.

«Sei stato tu a insegnarmi che devo tenere le mani pulite» dichiarò.

«Sì» replicò il Barone. «Quando ti troverai davanti all’Imperatore, devi poter dire, in tutta sincerità, che non sei stato tu a commettere il delitto. La strega dell’Imperatore ascolterà le tue parole e saprà subito se sono vere o false. Sì. Ti ho avvertito di questo.»

«Perché non hai mai comperato una Bene Gesserit, Zio?» disse Feyd-Rautha. «Con una Veridica dalla tua parte…»

«Conosci benissimo i miei gusti!» replicò bruscamente il Barone.

Feyd-Rautha l’osservò, poi riprese: «Tuttavia, lei ti…»

«Non mi fido di loro!» ringhiò il Barone. «E non cambiare argomento!»

Feyd-Rautha annuì, umilmente: «Come vuoi tu. Zio».

«Mi ricordo di un giorno, nell’arena, qualche anno fa» riprese il Barone. «Quel giorno, sembrò che uno schiavo fosse stato preparato per ucciderti. Era vero?»

«È stato molto tempo fa, Zio. Dopotutto, io…»

«Non eludere la domanda, per favore» l’interruppe il Barone. Una rabbia crescente risuonò nella sua voce.

Feyd-Rautha lo fissò, pensando: Lo sa, altrimenti non me l’avrebbe chiesto.

«Era tutto un imbroglio, Zio. Per screditare il tuo Maestro degli Schiavi.»

«Molto astuto» disse il Barone. «E anche coraggioso. Quel gladiatore per poco non ti ha ucciso, non è vero?»

«Sì.»

«Se la tua astuzia fosse pari al coraggio, saresti veramente formidabile.» Il Barone scosse ostentatamente la testa. E come aveva fatto molte volte da quel terribile giorno su Arrakis, rimpianse la perdita di Piter, il Mentat. Era stato un uomo dall’astuzia diabolica e sottile. Tuttavia questo non era bastato a salvarlo. Ancora una volta il Barone scosse la testa: il destino, a volte, era imperscrutabile.

Feyd-Rautha esaminò la stanza, studiando i segni della lotta, e si chiese come suo zio fosse riuscito a sopraffare lo schiavo che avevano preparato con tanta cura.

«Come sono riuscito a vincerlo?» disse il Barone. «Ahhh, Feyd… lasciami almeno qualche arma per difendere la mia vecchiaia. È meglio che approfittiamo di questi pochi istanti per concludere un patto.»

Feyd-Rautha lo fissò. Un patto! Allora sono sempre il suo erede. Altrimenti, perché mai parlerebbe di un patto? Ci si accorda soltanto coi propri pari, o quasi.

«Un patto, Zio?» E Feyd-Rautha provò un certo orgoglio per la sua voce calma e ragionevole, che non tradiva l’interna esultanza.

Anche il Barone apprezzò il suo controllo e annuì. «Tu sei un’ottima materia prima, Feyd. E io non la spreco mai. Ma insisti, tuttavia, a non voler riconoscere il valore che io rappresento per te. Sei ostinato, non vuoi capire perché ti convenga risparmiarmi. Questa…» (fece un ampio gesto verso i segni della lotta) «… è stata una follia. E io non premio la follia.»

Arriva al punto, vecchio pazzo! pensò Feyd-Rautha.

«Tu mi consideri un vecchio pazzo» disse il Barone. «Ti sbagli.»

«Mi hai parlato di un patto.»

«Ah, l’impazienza dei giovani» sospirò il Barone. «Bene, ecco il patto, allora: tu cesserai questi folli attentati alla mia vita. E io, quando sarai pronto, abdicherò in tuo favore. Mi ritirerò in una posizione di semplice consigliere, e ti lascerò il trono.»

«Ritirarti, Zio?»

«Pensi sempre a me come a un vecchio pazzo» ribatté il Barone, «e questo lo conferma, non è vero? Sei convinto che ti stia implorando! Stai attento a dove metti i piedi, Feyd. Questo vecchio pazzo ha visto l’ago che avevi piantato nella coscia del ragazzo. Proprio dove avrei appoggiato la mano, eh? La più piccola pressione e… Zac! Un ago avvelenato nel palmo del vecchio pazzo! Ahhh, Feyd…»

Il Barone scosse la testa, pensando: E avrebbe anche funzionato, se Hawat non mi avesse avvertito. Bene, lascia pure che il ragazzo si convinca che mi sia accorto del complotto tutto da solo. In un certo senso è vero. Io ho salvato Hawat dalle rovine di Arrakis. E questo ragazzo deve avere più rispetto per me.

Feyd-Rautha lottò in silenzio con se stesso: Ha detto la verità? Vuole davvero ritirarsi? E perché no? Sono certo di potergli succedere, un giorno, se mi muovo con prudenza. Non può vivere per sempre. Forse è stato stupido da parte mia cercar di affrettare il processo.

«Hai parlato di un patto» disse Feyd-Rautha. «Che garanzie offri?»

«Come possiamo fidarci l’uno dell’altro, eh?» sogghignò il Barone. «Bene, Feyd, per quanto ti concerne, Thufir Hawat ti sorveglierà: ho piena fiducia nei suoi poteri di Mentat, capisci? Per quanto mi riguarda, invece, dovrai prendermi sulla parola. Ma non posso vivere eternamente, Feyd, non è vero? E forse cominci soltanto adesso a sospettare che esistono cose che io so e che anche tu dovresti sapere.»

«Se io ti do la mia parola» insistette Feyd-Rautha, «che cosa mi offri in cambio?»

«Ti offro di continuare a vivere.»

E di nuovo Feyd-Rautha studiò suo zio: Mi fa sorvegliare da Hawat! Che cosa direbbe se gli rivelassi che è stato Hawat in persona a ideare lo scherzo del gladiatore che gli è costato il Maestro degli Schiavi? Probabilmente direbbe che è una menzogna per screditare Hawat. No, il bravo Thufir è un Mentat e ha previsto tutto questo.

«Ebbene, che cosa ne dici?» chiese il Barone.

«Che cosa posso dire? Accetto, naturalmente.»

E Feyd-Rautha pensò ancora: Hawat! Gioca al centro, e mette le estreme l’una contro l’altra… È così, dunque? È forse passato dalla parte di mio zio perché non mi sono consigliato con lui per la faccenda del ragazzo?

«Non hai fatto commenti sulla sorveglianza da parte di Hawat» disse il Barone.

Feyd-Rautha tradì la sua rabbia dilatando le narici. Il nome di Hawat era stato per troppi anni un segnale di pericolo per la famiglia degli Harkonnen… e ora aveva un altro significato. Sempre mortale.

«Hawat è un giocattolo pericoloso» dichiarò.

«Giocattolo! Non essere sciocco. Io so come controllarlo. Hawat è soggetto a profonde emozioni, Feyd. È l’uomo senza emozioni che dobbiamo temere. Ma le emozioni… ah… chi ha profonde emozioni può essere sempre piegato ai nostri desideri!»

«Zio, non ti capisco.»

«Ma è evidente!»

Solo un battito di palpebre tradì l’ondata di risentimento di Feyd-Rautha.

«E quando mai hai capito Hawat?» insisté il Barone.

E tu, allora? pensò Feyd-Rautha.

«Su chi riversa il suo odio, Hawat, per ciò che è diventato?» chiese il Barone. «Su di me? Certamente. Ma lui era uno strumento degli Atreides, e mi ha tenuto a bada per molti anni finché non ho avuto l’Impero al mio fianco. Così lui vede le cose. Il suo odio per me, oggi, è una cosa senza importanza. Crede di potermi vincere in ogni momento. E così, è lui il vinto. Perché dirigo la sua attenzione dove desidero… contro l’Impero.»

Feyd-Rautha corrugò la fronte, in un lampo di comprensione. La sua bocca si restrinse in una linea sottile. «Contro l’Imperatore?»

Lascia che tuo nipote lo assapori, pensò il Barone. Lascia che dica a se stesso: «L’Imperatore Feyd-Rautha Harkonnen!» Che si domandi quanto valga tutto questo… Certamente la vita di un vecchio zio capace di realizzarlo!

Lentamente, Feyd-Rautha si passò la lingua sulle labbra. Possibile che il vecchio pazzo dicesse il vero? C’era molto di più di quanto sembrava a prima vista.

«E Hawat… qual è la sua parte in tutto questo?» domandò.

«Crede di usarci come strumenti della sua vendetta contro l’Imperatore.»

«E quando sarà compiuta?»

«Il suo pensiero non va oltre. Hawat è uno di quegli uomini che devono servire gli altri, anche se non lo sa.»

«Ho imparato molto da lui» disse Feyd-Rautha, e sentì la verità di queste parole. «Ma più imparo, più mi convinco che dovremmo eliminarlo… e subito.»

«Non ti piace l’idea che ti sorvegli?»

«Hawat sorveglia tutti.»

«E potrebbe metterti sul trono. Hawat è astuto. Ma è anche pericoloso, tortuoso. Eppure, non gli toglierò ancora l’antidoto. Anche una spada è pericolosa, Feyd. Ma per questa spada, per Hawat… abbiamo un fodero, il veleno che è in lui. Basterà togliergli l’antidoto e la morte lo inghiottirà.»

«In un certo senso, è come l’arena» commentò Feyd-Rautha. «Finte nelle finte, e ancora finte. Bisogna osservare il gladiatore, i suoi muscoli, i suoi occhi, il modo in cui impugna il coltello.»

Annuì, quando vide che queste parole piacevano a suo zio. Sì! pensò. Come nell’arena! Ma qui è la mente che cala i fendenti!

«Vedi, ora, quanto hai bisogno di me?» disse il Barone. «Sono ancora utile, Feyd.»

Come una spada che s’impugna finché non è del tutto spuntata, pensò Feyd-Rautha.

«Sì, Zio.»

«Ora» continuò il Barone, «andremo giù nel quartiere degli schiavi. E io ti guarderò mentre, con le tue mani, ucciderai tutte le donne nelle stanze del piacere.»

«Zio!»

«Ci saranno altre donne, Feyd. Ma voglio che tu non commetta mai un errore, con me, senza pagarlo.»

Il volto di Feyd-Rautha s’incupì: «Zio, tu…»

«Accetterai la tua punizione e ne farai tesoro» ribatté il Barone.

Feyd-Rautha incontrò lo sguardo pieno di cupidigia dello zio: Devo ricordarmi di questa notte, pensò. E insieme a questa, di molte altre notti.

«Non ti rifiuterai» disse il Barone.

Cosa potresti fare, se rifiutassi, vecchio? si domandò Feyd-Rautha. Ma ci sarebbe stato qualche altro castigo, ancora più sottile. Qualche altro modo, più doloroso, di piegarlo al suo volere.

«Ti conosco, Feyd. Non ti rifiuterai.»

D’accordo, pensò Feyd-Rautha. Ho bisogno di te, adesso. L’ho capito. Il patto è concluso. Ma non avrò sempre bisogno di te. E… un giorno…

Nelle profondità del nostro inconscio c’è un bisogno ossessivo di un universo logico e coerente. Ma il vero universo è sempre un passo al di là della logica. dalla «Raccolta dei detti di Muad’Dib», della Principessa Irulan

Molti capi di Grandi Case si sono seduti davanti a me, disse tra sé Thufir Hawat, ma non ho mai visto un maiale più osceno e pericoloso di questo!

«Puoi parlare francamente con me, Hawat» tuonò il Barone. Era sprofondato nella sua sedia a sospensione; gli occhi, sepolti tra le pieghe di grasso, sembravano voler trapassare il Mentat.

Il vecchio Mentat fece scivolare lo sguardo sul tavolo fra sé e il Barone Vladimir Harkonnen, e ammirò la grana del legno. Anche questo andava considerato, quando si giudicava il Barone, insieme con le pareti rosse dello studio privato e col debole odore dolciastro delle erbe che aleggiava nell’aria, mascherando il cupo sentore di muschio.

«Non è stato per un semplice capriccio che mi hai fatto inviare quell’avvertimento a Rabban» continuò il Barone.

Il volto coriaceo di Hawat restò impassibile, senza rivelare la minima traccia del suo disgusto. «Sospetto molte cose, mio Signore» disse.

«Sì? Ebbene, voglio sapere cosa ha a che fare Arrakis con i tuoi sospetti su Salusa Secundus. Non basta che tu mi abbia detto che l’Imperatore si agita a causa di una certa relazione tra Arrakis e il suo misterioso pianeta prigione. Io mi sono affrettato a inviare quell’avvertimento a Rabban soltanto perché il corriere partiva con la prima astronave. Tu mi avevi detto che non era urgente. Benissimo. Ma ora esigo una spiegazione.»

Chiacchiera troppo, pensò Hawat. Il Duca Leto poteva dirmi una cosa con un semplice gesto della mano, o alzando un sopracciglio. E al Vecchio Duca bastava una sola parola a esprimere un’intera frase. Questo è uno zotico villano. Distruggerlo sarà rendere un servizio all’umanità intera.

«Non te ne andrai di qui finché non mi avrai dato una completa spiegazione» disse il Barone.

«Voi parlate troppo alla leggera di Salusa Secundus» replicò Hawat.

«È una colonia penale» dichiarò il Barone. «La peggiore feccia della Galassia viene scaraventata su Salusa Secundus. Che cos’altro c’è da sapere?»

«Le condizioni che regnano sul pianeta prigione sono spaventose» disse Hawat. «Le peggiori dell’intera Galassia. La mortalità fra i nuovi prigionieri, si afferma, supera il sessanta per cento. L’Imperatore esercita lassù tutte le forme possibili di oppressione. E voi, che sapete tutto questo, non vi siete mai posto alcuna domanda?»

«L’Imperatore non consente alle Grandi Case d’ispezionare la sua prigione» grugnì il Barone. «D’altra parte, neppure lui ha mai visto le mie segrete.»

«E ogni curiosità a proposito di Salusa Secundus» continuò Hawat, portando l’indice magro e ossuto alle labbra, «è… ah… scoraggiata.»

«Perché l’Imperatore non è affatto fiero di alcune cose che è costretto a fare lassù!»

Hawat consentì che l’ombra di un sorriso gli sfiorasse le labbra macchiate. I suoi occhi scintillarono alla luce della lampada, mentre fissava il Barone.

«E voi, non vi siete mai chiesto dove l’Imperatore trova i suoi Sardaukar?»

Il Barone strinse le labbra grassocce. Così, assomigliò a un bambino che tenesse il broncio. Replicò, in tono petulante: «Perché mai? Li recluta… Voglio dire, il servizio di leva, gli arruolamenti…»

«Uh!» l’interruppe Hawat. «Le storie che si sentono sulle prodezze dei Sardaukar non sono voci, vero? Sono rapporti di prima mano dei pochi sopravvissuti che li hanno affrontati, non è così?»

«I Sardaukar sono eccellenti soldati, non c’è dubbio» disse il Barone. «Ma io sono convinto che anche le mie legioni…»

«Una massa di escursionisti spensierati, al confronto!» ringhiò Hawat. «Credete che io non sappia per quale ragione l’Imperatore si è scagliato contro la Casa degli Atreides?»

«Questo non è un argomento per le tue speculazioni!» esclamò il Barone.

È possibile che neppure lui conosca i veri motivi dell’Imperatore? si chiese Hawat.

«Qualsiasi argomento è aperto alle mie speculazioni» ribatté, «se ha una relazione anche minima con l’incarico che voi mi avete affidato. Io sono un Mentat. Non si nasconde alcuna informazione, alcun dato a un Mentat.»

Per un lungo minuto, il Barone lo fissò in silenzio, poi annuì: «Di’ quello che devi dire, Mentat…»

«L’Imperatore Padiscià si è scagliato contro la Casa degli Atreides perché i Maestri di Guerra del Duca, Gurney Halleck e Duncan Idaho, avevano addestrato una unità di combattimento… una piccola unità… il cui valore sfiorava quello dei Sardaukar. Alcuni uomini erano perfino migliori. E il Duca stava per accrescere questa unità, rendendola potente quanto le forze dell’Imperatore.

Il Barone soppesò la rivelazione, e poi: «Qual è la parte di Arrakis in tutto questo?»

«Il pianeta è una fonte di reclute già condizionate e addestrate a sopravvivere nelle condizioni più difficili.»

Il Barone scosse la testa: «È possibile che tu intenda… i Fremen?»

«Intendo proprio i Fremen.»

«Ah! E allora, perché avvertire Rabban? Dopo il pogrom dei Sardaukar e la repressione di Rabban, è rimasto soltanto un pugno di Fremen!»

Hawat lo fissò in silenzio.

«Soltanto un pugno!» ripeté il Barone. «Solo l’anno scorso Rabban ne ha uccisi seimila!»

E tuttavia, Hawat continuava a fissarlo.

«E l’anno prima novemila. E i Sarduakar, prima di andarsene, devono averne massacrati almeno ventimila.»

«Quali sono state le perdite di Rabban negli ultimi due anni?» chiese Hawat.

Il Barone si sfregò una guancia. «Beh, ha la mano piuttosto pesante nel reclutare, a dire il vero. I suoi agenti fanno promesse stravaganti, e…»

«Trentamila?» disse Hawat.

«Questo mi sembra un po’ troppo…» cominciò il Barone.

«Al contrario!» esclamò Hawat. «So leggere tra le righe dei rapporti di Rabban quanto voi. E voi avrete certamente capito quelli dei miei agenti.»

«Arrakis è un pianeta crudele» disse il Barone. «Le sole perdite dovute alle tempeste…»

«Sappiamo entrambi le perdite dovute alle tempeste» l’interruppe Hawat.

«E allora, anche se avesse perduto trentamila uomini?» chiese il Barone, mentre il sangue gli incupiva il volto.

«In base ai suoi stessi calcoli» replicò Hawat, «Rabban ne ha uccisi quindicimila in due anni, perdendo un numero doppio dei suoi uomini. Voi avete detto che i Sardaukar ne hanno massacrati altri ventimila, probabilmente un po’ di più. Io ho visto le lettere di carico delle astronavi che li hanno portati via da Arrakis. Se ne hanno uccisi ventimila, le loro perdite sono state almeno di cinque contro uno. Perché non accettate queste cifre, Barone, e non cercate di capire ciò che significano?»

Il Barone rispose in tono freddamente misurato: «Questo è il tuo lavoro, Mentat Che cosa significano?»

«Vi ho riferito la valutazione compiuta da Duncan Idaho sul numero di quelli che abitavano il sietch da lui visitato» disse Hawat. «Il conto torna. Con duecentocinquanta sietch della stessa grandezza, la loro popolazione dovrebbe elevarsi a cinque milioni. Ma una mia stima personale mi ha convinto che i sietch sono almeno il doppio. Su un simile pianeta, la popolazione è molto dispersa.»

«Dieci milioni?»

Le guance del Barone fremettero per lo stupore.

«Come minimo.»

Il Barone si morse le labbra carnose. I suoi occhi piccoli e brillanti fissavano Hawat come succhielli. È veramente una deduzione da Mentat? si chiese. Possibile che nessuno l’abbia mai sospettato?

«Non siamo neppure riusciti a intaccare il tasso delle nascite» riprese Hawat. «Tutt’al più, abbiamo eliminato gli esemplari più scadenti, lasciando che i più forti diventassero ancora più forti… proprio come su Salusa Secundus.»

«Salusa Secundus!» abbaiò il Barone. «Che rapporto può esserci tra Arrakis e il pianeta prigione dell’Imperatore?»

«Un uomo che sopravvive su Salusa Secundus è senz’altro più duro degli altri» spiegò Hawat. «E quando voi vi aggiungete un buon addestramento militare…»

«Che assurdità! Stando ai tuoi ragionamenti, io dovrei reclutare tra i Fremen, visto il modo in cui mio nipote li ha oppressi.»

Hawat replicò a bassa voce: «Voi non opprimete mai le vostre truppe?»

«Ebbene… io… sì…»

«L’oppressione è una cosa relativa» continuò Hawat. «I vostri soldati stanno molto meglio della gente che li circonda. Hanno sotto gli occhi alternative assai meno piacevoli per chi non è soldato del Barone, non è vero?»

Il Barone rifletté in silenzio, lo sguardo vacuo. Le possibilità… Era possibile che Rabban, senza volerlo, avesse dato alla Casa degli Harkonnen la sua arma finale?

Disse, infine: «E com’è possibile esser certi della lealtà di queste reclute?»

«Io li dividerei in piccoli gruppi, non più grandi di un plotone» disse Hawat. «Li toglierei dalla loro condizione di oppressi e li isolerei insieme con un gruppo d’istruttori che capiscano il loro ambiente, gente come loro, che sia appena uscita dallo stesso tipo di oppressione. Poi li impregnerei di un misticismo secondo il quale il loro pianeta è in realtà un campo segreto di addestramento destinato a produrre gli esseri superiori che sono diventati. E mostrerei loro tutto quello che un essere superiore ha il diritto di possedere: ricchezza, donne bellissime, dimore sontuose… qualsiasi cosa essi desiderino.»

Il Barone annuì. «Tutto quello che hanno i Sardaukar.»

«Le reclute col tempo si convincono che un pianeta come Salusa Secundus è perfettamente giustificato perché ha creato l’élite… loro stessi. Sotto molti aspetti, anche il minore in grado dei Sardaukar ha un’esistenza esaltante quanto quella di un membro delle Grandi Case.»

«Che idea!» mormorò il Barone.

«Voi cominciate a condividere i miei sospetti» disse Hawat.

«Come una cosa simile ha potuto avere inizio?»

«Volete dire in realtà: Qual è l’origine della Casa di Corrino? C’era forse qualcuno su Salusa Secundus prima che llmperatore v’inviasse il primo contingente di prigionieri? Perfino il Duca Leto, un cugino del ramo femminile, non lo seppe mai con certezza. Queste domande non sono mai incoraggiate.»

Gli occhi del Barone scintillarono, mentre rifletteva. «Sì, un segreto molto ben nascosto. Hanno usato ogni mezzo per…»

«E poi» riprese Hawat, «che cosa c’è da nascondere? Che l’Imperatore Padiscià ha un pianeta prigione? Tutti lo sanno. Che ci sia…»

«Il Conte Fenring!» eruttò il Barone.

Hawat s’interruppe accigliandosi, e fissò il Barone, perplesso. «Che cosa c’è a proposito del Conte Fenring?»

«Per il compleanno di mio nipote, qualche anno fa» disse il Barone, «questo lacché dell’Imperatore, il Conte Fenring, era venuto come osservatore ufficiale e per… sì, per concludere un accordo tra l’Imperatore e me.»

«E con questo?»

«Io… durante una delle nostre conversazioni, credo di aver detto qualcosa sulla possibilità di trasformare Arrakis in un pianeta prigione. Fenring…»

«Che cosa ha detto esattamente?» chiese Hawat.

«Esattamente! È stato molto tempo fa, e…»

«Mio Signore, Barone, se volete servirvi di me nel miglior modo possibile, dovete darmi informazioni precise. La conversazione non è stata registrata?»

Il Barone diventò paonazzo per la rabbia. «Sei perfido come Piter! Non mi piacciono questi…»

«Piter non è più al vostro fianco, mio Signore» disse Hawat. «A proposito, che cosa è successo a Piter?»

«Era diventato troppo sfacciato, esigente» replicò il Barone.

«Voi mi avete garantito che non avete mai sciupato un uomo che vi fosse utile» continuò Hawat. «Volete sciuparmi con minacce e inganni? Stavamo parlando di quello che voi avete detto al Conte Fenring.»

Lentamente il Barone si ricompose. Quando verrà il momento, si disse, mi ricorderò della tua villania. Oh, stai pur sicuro che mi ricorderò.

«Un momento» disse, e ripensò all’incontro nel grande atrio. Cercò di visualizzare il cono di silenzio nel quale si erano trovati. «Ho detto all’incirca questo: ’L’Imperatore sa che un certo numero di morti ha sempre fatto parte degli affari’. Mi riferivo alle perdite tra le nostre squadre di lavoro. Poi ho parlato di un’altra soluzione al problema di Arrakis, dicendo che il pianeta prigione dell’Imperatore mi aveva fatto venire l’idea di imitarlo.»

«Sangue di strega!» imprecò Hawat. «E Fenring, che cosa ha risposto?»

«A questo punto ha cominciato a chiedermi informazioni su di te.»

Hawat sprofondò nella sedia, chiudendo gli occhi. «Così, è per questo che hanno incominciato a interessarsi di Arrakis. Ebbene, la cosa è fatta.» Aprì gli occhi. «Devono avere spie su tutto Arrakis, ormai. Due anni!»

«Ma non è certo stato il mio innocente suggerimento a…»

«Niente è innocente agli occhi dell’Imperatore! Quali istruzioni avete impartito a Rabban?»

«Doveva semplicemente insegnare ad Arrakis a tremare davanti a noi.»

Hawat scosse la testa: «Ora, Barone, vi restano soltanto due soluzioni. Potete sterminare i nativi, spazzarli via completamente dalla faccia del pianeta, oppure…»

«Distruggere tutta la manodopera?»

«Preferite che l’Imperatore e le Grandi Case di cui gode ancora l’appoggio sbarchino su Giedi Primo per una pulizia generale, mettano a ferro e a fuoco l’intero pianeta e lascino al suo posto una zucca vuota?»

Il Barone studiò il suo Mentat, poi disse: «Non oserebbe!»

«Davvero?»

Le labbra del Barone tremarono. «Qual è l’altra soluzione?»

«Abbandonate il vostro caro nipote, Rabban.»

«Abbandonare…» Il Barone s’interruppe, fissando Hawat.

«Non mandategli più truppe né aiuti di nessun genere. Non rispondete ai suoi messaggi se non per dirgli che vi ha sconvolto il modo orribile in cui ha amministrato Arrakis, e che avete intenzione di prendere misure correttive il più presto possibile. Io farò in modo che alcuni di questi messaggi siano intercettati dalle spie imperiali.»

«Ma la spezia, il profitto, il…»

«Esigete i profitti della vostra baronia, ma state bene attento al modo in cui formulerete le vostre richieste. Chiedete una somma fissa a Rabban. Noi possiamo…»

Il Barone alzò le braccia: «Ma come posso esser certo che quella volpe di mio nipote non sia…»

«Abbiamo ancora le nostre spie su Arrakis. Dite a Rabban che deve rispettare la sua quota di spezia, o sarà esautorato.»

«Conosco mio nipote» replicò il Barone. «Questo lo spingerà a opprimere ancora di più la popolazione.»

«Ma certamente!» esclamò Hawat. «Voi non potete volere che si fermi adesso! Voi volete soltanto una cosa: le mani pulite. Lasciate dunque che sia Rabban a creare per voi questo nuovo Salusa Secundus. Non c’è neppure bisogno di mandargli i prigionieri. Ha a sua disposizione tutto il popolo di Arrakis. Se Rabban spremerà la sua gente per rispettare la quota di spezia, l’Imperatore non avrà più alcuna ragione di sospettare altri motivi. La spezia è più che sufficiente per mettere alla tortura un intero pianeta. Quanto a voi, Barone, non una sola parola o un solo atto che smentiscano questa convinzione.»

Il Barone non riuscì a cancellare una nota di ammirazione nella propria voce: «Hawat, quanto sei tortuoso! Ma come potremo penetrare in Arrakis e impadronirci di quello che Rabban ci sta preparando?»

«È la cosa più semplice, Barone. Se ogni anno voi aumenterete la quota rispetto all’anno precedente, le cose raggiungeranno presto il limite. La produzione precipiterà a zero. Voi potrete esautorare Rabban e prendere il suo posto… per rimediare al disastro.»

«Tutto quadra» disse il Barone. «Ma io sono stanco di tutto questo. Sto preparando un altro che si occuperà di Arrakis… al mio posto.»

Hawat studiò il volto grasso e flaccido davanti a lui. Lentamente il vecchio soldato spia annuì. «Feyd-Rautha» mormorò. «Così, questo è il vero motivo della selvaggia oppressione di Arrakis. Anche voi siete tortuoso, Barone. Forse possiamo fondere insieme i due piani. Sì. Il vostro Feyd-Rautha può presentarsi come il salvatore di Arrakis. Può guadagnarsi il favore delle masse. Sì…»

Il Barone sorrise. E dietro il suo sorriso, si domandò: E fino a qual punto questo coincide col piano personale di Hawat?

Hawat capì che il colloquio era finito. Si alzò e lasciò la camera dalle rosse pareti. Allontanandosi, non riusciva a dimenticare le inquietanti incognite che sembravano spuntare da ogni parte in ogni sua speculazione su Arrakis… Il nuovo capo religioso, al quale Gurney Halleck aveva accennato dal suo nascondiglio tra i contrabbandieri, questo Muad’Dib.

Forse non avrei dovuto dire al Barone che lasci fiorire liberamente questa religione tra le genti del pan e del graben, pensò. È noto che la repressione favorisce l’espandersi delle religioni.

E ripensò ai rapporti di Halleck sulle tattiche di guerriglia dei Fremen. Esse puzzavano dello stesso Halleck… di Idaho… e perfino di Hawat.

Idaho è riuscito a sopravvivere? si chiese.

Ma era una domanda futile. Non si era ancora chiesto se era possibile che Paul fosse sopravvissuto. Sapeva che il Barone era convinto che tutti gli Atreides fossero morti. La strega Bene Gesserit era stata la sua arma, il Barone l’aveva riconosciuto. E questo poteva significare soltanto che erano tutti morti… perfino il figlio di quella donna.

Quale odio velenoso deve avere avuto quella donna per gli Atreides! pensò. Un odio simile a quello che io provo per questo Barone. Il mio colpo finale sarà definitivo come il suo?

In tutte le cose c’è un ritmo che è parte del nostro universo. Ha simmetria, eleganza e grazia: le qualità in cui si coglie il vero artista. È il ritmo delle stagioni, il modo in cui la sabbia modella una cresta, sono i rovi creosoto e il profilo delle foglie. Noi cerchiamo di copiare questi disegni, di trasferirli nelle nostre vite e nella nostra società, di farne rivivere il ritmo, la danza che ci riconfortano. E tuttavia, un pericolo si nasconde nella perfezione finale. È chiaro che lo schema ultimo contiene la sua propria fissità. In questa perfezione ogni cosa procede verso la morte. dalla «Raccolta dei detti di Muad’Dib», della Principessa Irulan

Paul Muad’Dib ricordò un pasto, carico di spezia. Si afferrò a quel ricordo, che era l’unico ancoraggio sicuro. In base ad esso poteva dirsi che il momento presente doveva essere un sogno.

Io sono la scena degli eventi, pensò. Io sono vittima di una visione imperfetta, della coscienza razziale e del suo terribile scopo.

E tuttavia non poteva sfuggire alla paura di essersi in qualche modo superato, di aver perduto la sua posizione nel tempo: il passato, il presente e il futuro si mescolavano confusamente. Era una specie di affaticamento visivo, il quale era dovuto, lo sapeva, alla necessità costante di mantenere la sua prescienza del futuro come una sorta di ricordo, qualcosa di intrinsecamente legato al passato.

Chani mi ha preparato la cena, si disse.

E tuttavia Chani era nel profondo Sud, nel gelido paese dove il sole bruciava, nascosta in una delle nuove roccaforti sietch, al sicuro con suo figlio, Leto II.

O forse era una cosa non ancora accaduta?

No, si rassicurò, poiché Alia la Strana, sua sorella, era anche lei laggiù, con sua madre e con Chani: un viaggio di venti martellatori verso sud, in un palanchino da Reverenda Madre, fissato al dorso di un creatore selvaggio.

Scacciò il pensiero di cavalcare il verme gigante e si chiese: O forse Alia non è ancora nata?

Una razzia, ricordò Paul. Ci siamo precipitati a recuperare l’acqua dei nostri morti ad Arrakeen. E io ho trovato i resti di mio padre sulla pira funeraria. Ho edificato un tempio per il teschio di mio padre nella rocca dei Fremen che guarda il Passo di Harg.

O forse non è ancora accaduto?

Le mie ferite sono reali. Le mie cicatrici sono reali. E anche l’altare col teschio di mio padre è reale.

Ancora immerso nel sogno, Paul si ricordò che Harah, la donna di Jamis, un giorno si era precipitata da lui per annunciargli che vi era stato uno scontro nel corridoio del sietch. Questo era stato nel primo sietch, quando le donne e i fanciulli non erano ancora stati inviati nel profondo Sud.

Harah era comparsa sulla soglia della stanza interna, le ali nere dei suoi capelli corvini spinte all’indietro e legate da una catena di anelli d’acqua. Aveva scostato violentemente i tendaggi per dirgli che Chani aveva appena ucciso qualcuno.

Questo è realmente accaduto, si disse Paul. Non è fatto del mio tempo. Non sarà più cambiato.

Paul ricordò di essersi precipitato fuori: aveva incontrato Chani sotto i globi gialli del corridoio, avvolta in una tunica azzurra, il cappuccio gettato all’indietro, ansante, il suo viso da elfo rosso per lo sforzo sostenuto. Stava infilando il cryss nel fodero. Un gruppo d’uomini si allontanava in fretta, accalcandosi nel corridoio, con un fardello.

Si ricordò di aver pensato: Si capisce subito, quando c’è un corpo da trasportare.

Gli anelli d’acqua di Chani tintinnarono quando la fanciulla si voltò verso di lui: li portava liberamente nel sietch, intorno al collo.

«Chani, che cosa è accaduto?»

«Ho eliminato qualcuno che era venuto a sfidarti, Usul.»

«Tu lo hai ucciso?»

«Sì, ma… forse avrei dovuto lasciarlo ad Harah.»

(E Paul si ricordò della gente intorno a lui, che aveva mostrato di apprezzare queste parole. Perfino Harah era scoppiata a ridere.)

«Ma era venuto a sfidare me!»

«Tu mi hai insegnato l’arte magica, Usul.»

«Certo! Ma tu non…»

«Sono nata nel deserto, Usul. So usare un cryss.»

Paul dominò la collera e si sforzò di parlare con calma: «Tutto questo è senz’altro vero, Chani, ma…»

«Non sono più una bambina che dà la caccia agli scorpioni nel sietch, alla luce di un globo portatile, Usul. Non gioco più.»

Paul la fissò, corrucciato, colpito dall’improvvisa ferocia rivelata con tanta disinvoltura.

«Non meritava di sfidarti, Usul» disse Chani. «Non avrei disturbato la tua meditazione per uno come lui.» Gli si avvicinò, lo guardò di sfuggita e la sua voce divenne un mormorio: «E poi, mio amato, quando si saprà che un uomo ha incontrato me e ha fatto una fine ignominiosa per mano della donna di Muad’Dib, saranno ben pochi quelli che oseranno sfidarti».

Sì, pensò Paul, questo è certamente accaduto. È il passato autentico. E il numero di quelli che volevano sfidare la nuova lama di Muad’Dib è diminuito drasticamente.

In qualche luogo, in un mondo che non apparteneva al sogno, ci fu un movimento: il grido di un uccello notturno.

Io sto sognando, si disse Paul. È il cibo a base di spezia.

Tuttavia, provava ancora questa sensazione di abbandono. Si chiese se non fosse possibile che il suo spirito ruh fosse in qualche modo scivolato nel mondo in cui, secondo i Fremen, egli aveva la sua vera esistenza l’Alam al-Mithal, il mondo delle similitudini, quel reame trascendente in cui ogni limitazione fisica era annullata. Al pensiero di quel mondo ebbe paura, perché la mancanza di ogni limitazione significava la scomparsa di tutti i punti di riferimento. In questo mitico universo era impossibile orientarsi e dire: «Io sono io perché io sono qui».

Sua madre gli aveva detto, una volta: «Il popolo è diviso. Almeno una parte, non sa cosa pensare di te».

Devo essere sul punto di svegliarmi, pensò Paul. Poiché questo era accaduto: erano le precise parole di sua madre, Lady Jessica, ora Reverenda Madre dei Fremen. Queste parole appartenevano alla realtà.

Jessica temeva i legami religiosi che si erano instaurati tra lui e i Fremen, Paul lo sapeva. Non le piaceva sentire che il popolo dei sietch e quello del graben si riferivano a Muad’Dib come a Lui. Lei stessa non cessava d’interrogare le tribù, disseminando le sue Sayyadina, raccogliendo le loro risposte e meditando malinconicamente su di esse.

Gli aveva citato un proverbio Bene Gesserit: «Quando religione e politica viaggiano sullo stesso carro, i viaggiatori pensano che niente li possa fermare. Vanno sempre più rapidi, rapidi, rapidi. Non pensano agli ostacoli e si dimenticano che un precipizio si rivela sempre troppo tardi».

Paul ricordò di essersi seduto nell’appartamento di sua madre, nella stanza più interna tappezzata di cupi tendaggi ricamati con disegni ispirati alla mitologia Fremen. L’aveva ascoltata a lungo, notando il modo in cui lei osservava instancabilmente, anche quando abbassava gli occhi. Il suo volto ovale aveva nuove pieghe agli angoli della bocca, ma i suoi capelli risplendevano ancora come il bronzo. I suoi grandi occhi verdi, tuttavia, erano velati dalla sfumatura azzurra della spezia.

«I Fremen hanno una religione semplice e pratica» lui aveva replicato.

«Nessuna religione è semplice» lei l’aveva avvertito.

Ma Paul, considerando il futuro denso di nubi tempestose che incombevano su di loro, fu travolto dall’ira. Riuscì a dire soltanto: «La religione unifica le nostre forze. È la nostra mistica».

«Tu coltivi deliberatamente questa atmosfera» lo accusò lei. «Non smetti mai d’indottrinarli.»

«È quello che mi hai insegnato.»

Ma quel giorno Jessica era piena di rimproveri e di contraddizioni. Vi era stata la cerimonia della circoncisione del piccolo Leto. Paul aveva capito alcune delle ragioni per cui era sconvolta. Sua madre non aveva mai accettato il suo legame… il «matrimonio di gioventù» con Chani. Ma Chani aveva generato un figlio agli Atreides, e Jessica non aveva potuto rinnegare il figlio con la madre.

Sotto il suo sguardo, Jessica aveva reagito: «Tu pensi che io sia una madre snaturata?»

«Certamente no.»

«Vedo come mi guardi quando sono con tua sorella. Tu non la capisci.»

«So perché Alia è diversa» replicò Paul. «Non era ancora nata, ma parte di te stessa, quando hai trasformato l’Acqua di Vita. Alia…»

«Tu non sai niente di tutto questo!»

E Paul, incapace di spiegare la conoscenza che aveva estratto dal tempo, ribatté soltanto: «Non sei una madre snaturata».

Jessica capì la sua angoscia, e disse: «Figlio mio, devo confessarti una cosa».

«Sì?»

«Voglio bene alla tua Chani. La accetto.»

Questo era reale, si disse Paul. Non era una visione imperfetta che gli stessi dolori del parto del tempo avrebbero potuto cambiare.

Questa sicurezza gli garantì una solida presa sul mondo. Frammenti di realtà comparvero nel suo sogno. Seppe bruscamente di trovarsi in un hiereg, un accampamento nel deserto. Chani aveva piantato la sua tenda distillante sulla sabbia farinosa, così morbida… Questo poteva soltanto significare che Chani era lì vicino… Chani, la sua anima, la sua sihaya, dolce come la primavera del deserto, Chani tra i palmeti del profondo Sud.

Ora ricordò la canzone delle sabbie che aveva scelto per l’ora del sonno:

«Anima mia, Non voglio il Paradiso questa notte, Ma giuro, per Shai-hulud, Che ci andrai ugualmente, Ubbidendo al mio amore».

E poi aveva intonato il canto di marcia che, sulla sabbia, univa gli innamorati, il ritmo simile al fruscio delle dune sotto i piedi:

«Parlami dei tuoi occhi E ti parlerò del tuo cuore. Parlami dei tuoi piedi E ti parlerò delle tue mani. Parlami del tuo sonno E ti parlerò del tuo risveglio. Parlami dei tuoi desideri E ti parlerò della tua sete».

In un’altra tenda qualcuno aveva pizzicato un baliset. E allora aveva pensato a Gurney Halieck. Al ricordo di quella musica familiare aveva pensato a Gurney, di cui aveva intravisto il volto in una banda di contrabbandieri; Gurney, invece, non l’aveva visto: non doveva vederlo, per non riaccendere inavvertitamente la caccia degli Harkonnen al figlio del Duca ucciso.

Ma lo stile di colui che suonava, quella notte, il tocco delicato di quelle dita sulle corde del baliset risvegliarono un nome nella memoria di Paul. Quello di Chatt il Saltatore, capitano dei Fedaykin, i commandos suicidi cui era affidata la salvezza di Muad’Dib.

Siamo nel deserto, si ricordò. Nell’erg centrale, al di là delle pattuglie degli Harkonnen. Sono qui per camminare sulla sabbia, per attirare il creatore e cavalcarlo grazie alla mia astuzia, e provare che io sono totalmente un Fremen.

Sentì la presenza della pistola maula alla cintura, e del cryss. E intorno a sé percepì il silenzio.

Era quel silenzio particolare che prelude al mattino, quando gli uccelli notturni si sono già ritirati e le creature del giorno non hanno ancora annunciato il loro risveglio al nemico, il sole.

«Devi cavalcare sulla sabbia alla luce del giorno, perché Shaihulud veda, e sappia che non hai paura.» Questo gli aveva detto Stilgar. «Così, cambieremo le nostre usanze e dormiremo di notte.»

Lentamente, Paul si sollevò: la tuta distillante gli pendeva slacciata sul corpo; più avanti la tenda era soltanto un’ombra. Si mosse silenziosamente, e tuttavia Chani lo udì.

Parlò dal buio della tenda, ombra nell’ombra. «Non è ancora giorno del tutto, mio amato.»

«Sihaya» disse Paul, sorridendo.

«Tu mi chiami la tua primavera del deserto» replicò Chani, «ma oggi sarò il tuo pungolo. Oggi, io sono la Sayyadina, e veglierò che i riti siano rispettati.»

Paul cominciò ad allacciarsi la tuta. «Mi hai ripetuto una volta le parole del Kitab al-Ibar: ’La donna è il tuo campo; vai dunque al tuo campo e coltivalo’.»

«Io sono la madre del tuo primogenito.»

La vide, nella grigia penombra, che imitava i suoi gesti, stringendo la tuta distillante per il deserto. «Dovresti riposare il più possibile» gli disse Chani.

Sentì l’amore nelle sue parole e la rimproverò, scherzando: «La Sayyadina che osserva non dovrebbe mettere in guardia il candidato».

Lei scivolò al suo fianco e gli appoggiò una mano sulla guancia: «Oggi io sono quella che osserva, ma anche la tua donna».

«Avresti dovuto lasciare questo compito a un’altra» disse Paul.

«L’attesa è troppo terribile. Preferisco essere al tuo fianco.»

Paul le baciò la mano prima di sistemarsi la tuta sul viso, poi si voltò e tolse la chiusura alla tenda. L’aria che li investì era gelida e leggermente umida: avrebbe lasciato tracce di rugiada sul deserto, all’alba. Aveva il profumo della massa prespezia, quella che avevano scoperta poco lontano, a nord est, e che aveva rivelato la vicinanza di un creatore.

Paul strisciò fuori dall’apertura a sfintere, si rizzò sulla sabbia e contrasse i muscoli per scacciare l’ultima traccia di sonno. Una lieve luminescenza verde perlacea si disegnava sull’orizzonte, a est. Nella penombra, le tende della sua gente erano come tante piccole dune. Colse un movimento alla sua sinistra (le sentinelle) e seppe che lo avevano visto.

Sapevano il pericolo che lui avrebbe affrontato, oggi. Tutti i Fremen lo avevano affrontato. Gli accordavano ancora qualche istante di solitudine perché potesse meglio prepararsi.

Dev’esser fatto oggi, si disse.

Pensò al potere che brandiva contro il pogrom: i vecchi che ora gli inviavano i propri figli perché li addestrasse al suo magico modo di combattere, i vecchi che lo ascoltavano in consiglio e che seguivano i suoi piani, e che poi ritornavano a fargli il massimo complimento possibile per un Fremen: «Il tuo piano è riuscito. Muad’Dib».

Tuttavia il più piccolo, il più meschino tra i guerrieri Fremen era capace di una cosa che lui non aveva mai fatto. E Paul sapeva che la sua autorità ne soffriva, per questo, poiché tutti sapevano la differenza tra lui e loro.

Non aveva mai cavalcato un creatore.

Oh, certo, era montato in groppa con gli altri, in viaggi di addestramento e incursioni… ma non aveva mai viaggiato da solo. Finché non lo avesse fatto, il suo universo sarebbe stato limitato dall’abilità degli altri. Era una cosa, questa, che un vero Fremen non avrebbe mai sopportato. Finché non l’avesse fatto, i vasti territori del sud (circa venti martellatori oltre l’erg) gli sarebbero stati proibiti a meno che non ordinasse un palanchino, assoggettandosi a viaggiare come una Reverenda Madre o un ammalato grave.

Si ricordò della lunga lotta combattuta durante la notte con la sua coscienza interiore. Colse uno strano parallelismo: se avesse dominato il creatore, il suo potere si sarebbe rafforzato; se avesse dominato il suo occhio interiore, avrebbe avuto allora un nuovo potere su se stesso. Ma al di là vi era la zona nebbiosa, la grande turbolenza che sembrava impadronirsi di tutto l’universo.

Era ossessionato dai diversi modi in cui percepiva l’universo: confuso e preciso nello stesso tempo. Lo vide in situ. E tuttavia, quando era nato, quando le pressioni della realtà cominciavano ad agire sul tempo, il presente acquistava una propria vita e cresceva con le sue differenze sottili e sfuggenti. Il terribile scopo incombeva e con esso la coscienza razziale. E, sopra ogni cosa, il jihad, sanguinoso e selvaggio.

Chani lo raggiunse fuori della tenda, le braccia strette sul petto. Lo guardò di sfuggita, come faceva sempre per indovinare il suo stato d’animo.

«Parlami ancora delle acque del tuo mondo, Usul» gli disse.

Paul capì che tentava di distrarlo, di liberare la sua mente da ogni tensione prima della prova mortale. Il cielo era sempre più chiaro e alcuni dei suoi Fedaykin stavano già ripiegando le tende.

«Preferirei che tu mi parlassi del sietch e di nostro figlio» disse Paul. «Il nostro Leto tiranneggia sempre mia madre?»

«E anche Alia» aggiunse Chani. «E cresce a vista d’occhio.»

«Com’è il Sud?»

«Quando avrai cavalcato il creatore, lo vedrai da solo.» «Ma vorrei vederlo prima attraverso i tuoi occhi.»

«È un luogo terribilmente solitario» disse Chani.

Paul tese la mano verso la sua fronte e sfiorò la sciarpa nezhoni che le usciva dalla tuta. «Perché non vuoi parlare del sietch?»

«Ne ho già parlato. Il sietch è un luogo terribilmente solitario senza i nostri uomini. È un luogo per lavorare. Noi passiamo le ore nelle officine. Dobbiamo fabbricare armi, piantare i pali per le previsioni del tempo, raccogliere la spezia per il tributo. Dobbiamo seminare le dune perché la vegetazione vi cresca e le ancori. Dobbiamo confezionare tende e tessuti, caricare le celle a combustibile. E infine vi sono i fanciulli da addestrare, perché la forza della tribù non venga mai meno.»

«Non c’è nulla di piacevole, allora, nel sietch?»

«I bambini sono piacevoli. Seguiamo i riti. Abbiamo cibo a sufficienza. A volte, una di noi ritorna al nord dal suo uomo. La vita deve continuare.»

«Mia sorella, Alia… è stata accettata dal popolo?»

Chani si voltò a guardarlo, alla crescente luce dell’alba. I suoi occhi lo fissarono, tristi. «Discuteremo di questo in un altro momento, mio amato.»

«Discutiamone subito.»

«Dovresti conservare le tue energie per la prova.»

Paul si accorse di aver toccato un punto sensibile. All’improvviso la voce di Chani parve esitante, lontana. «L’ignoto» disse, «ha le sue sofferenze.»

Qualche istante dopo, riprese: «C’è ancora una certa… incomprensione, a causa della diversità di Alia. Le donne hanno paura perché una bambina, quasi una neonata, parla… di cose che solo un adulto dovrebbe conoscere. Non capiscono il… mutamento in grembo a sua madre che ha reso Alia… diversa».

«C’è qualche guaio?» chiese Paul. E pensò: Ho avuto la visione di Alia e dei suoi guai.

Chani fissò l’orizzonte risplendente. «Alcune donne si sono unite per appellarsi alla Reverenda Madre. Le hanno chiesto di esorcizzare il demonio che è in sua figlia. Hanno citato le scritture: ’Non consentirete che una strega viva tra voi!’»

«E cosa ha risposto mia madre?»

«Ha recitato la legge e ha respinto le donne, facendole vergognare. Ha detto: ’Se Alia è fonte di guai, la colpa è dell’autorità che non ha saputo prevederli e impedirli’. E ha cercato di spiegare il modo in cui il mutamento ha agito su Alia, quand’era in grembo a lei. Ma le donne erano furiose perché lei le aveva confuse, e se ne sono andate imprecando.»

Alia provocherà dei disordini, pensò Paul.

Uno spruzzo di sabbia cristallina gli sfiorò il viso, portandogli l’odore della prespezia. «El sayal» disse, «la pioggia di sabbia che porta il mattino.»

Il suo sguardo corse sul deserto, nella grigia luminosità dell’alba, sul paesaggio che superava ogni desolazione, su questa sabbia eternamente uguale, l’immagine di se stessa. Un lampo accecante si disegnò in una zona d’ombra, verso sud: una tempesta giunta al parossismo elettrico. Il rombo del tuono rimbalzò a lungo.

«La voce che beatifica la terra» disse Chani.

Altri uomini uscivano dalle tende. Le sentinelle ritornavano dai bordi dell’accampamento. Tutto intorno a lui procedeva alla perfezione, secondo l’antica routine che non richiedeva alcun ordine.

«Dai il minor numero possibile di ordini» gli aveva detto un giorno suo padre… molto tempo fa. «Una volta che avrai dato un ordine a proposito di una certa cosa, dovrai ripeterlo continuamente.»

I Fremen conoscevano istintivamente questa regola.

Il Maestro d’Acqua della truppa intonò il canto del mattino, e vi aggiunse le parole rituali per l’iniziazione di un nuovo cavaliere delle sabbie.

«Il mondo è una carcassa» salmodiò, e il suo lamento riecheggiò tra le dune. «Chi può respingere l’Angelo della Morte? Ciò che Shai-hulud ha deciso, deve essere.»

Paul ascoltò: queste erano le stesse parole con cui si iniziava il canto della morte dei suoi Fedaykin: quello che intonavano lanciandosi nella battaglia.

Vi sarà un nuovo mausoleo di roccia, oggi, per celebrare la dipartita di un’altra anima? si chiese Paul. Forse i Fremen faranno tappa, qui, nel futuro, aggiungendo un’altra pietra e pensando a Muad’Dib che morì in questo luogo?

Sapeva che questa era una delle alternative possibili, uno dei fatti che s’irradiavano nel futuro a partire da quel punto preciso dello spaziotempo. La visione imperfetta lo tormentava. Più si opponeva al suo terribile scopo e lottava contro l’avvento del jihad, più il turbine si accelerava. Il suo avvenire si trasformava in un fiume che si precipitava dentro un abisso, un groviglio di violenza oltre il quale tutto era nebbia e nuvole.

«Stilgar si avvicina» disse Chani. «Devo separarmi da te, mio amato. Ora devo essere la Sayyadina e assistere al rito, perché sia trascritto in tutta la sua verità nelle Cronache.» Lo fissò, e per un attimo si sentì venir meno. Poi riacquistò il controllo: «Quando tutto questo sarà finito, ti preparerò la colazione con le mie stesse mani». Poi si voltò, allontanandosi.

Stilgar giunse attraverso la sabbia farinosa, sollevando ciuffi di polvere. Le profondità oscure dei suoi occhi fissarono Paul con uno sguardo indomito. La barba nera che affiorava dal bordo della tuta, le guance rugose, tutto sembrava scolpito dal vento nella roccia.

Portava lo stendardo di Paul, verde e nero, l’asta del quale nascondeva un tubo d’acqua… una bandiera ormai leggendaria su Arrakis. Con una traccia d’orgoglio, Paul pensò: La più semplice delle cose che io faccio diviene leggenda. Avranno già notato il modo in cui ho congedato Chani, e come accolgo Stilgar… il più piccolo dei miei gesti, oggi. Che io muoia o che io viva, sarà sempre una leggenda. Non devo morire. Poiché rimarrebbe soltanto la leggenda e nulla più potrebbe arrestare il jihad.

Stilgar piantò l’asta della bandiera nella sabbia accanto a Paul e lasciò ricadere le braccia sui fianchi. Gli occhi azzurri nell’azzurro continuarono a fissarlo, indomiti. E Paul pensò che anche i suoi occhi stavano acquistando il colore della spezia.

«Ci hanno negato lo Hajj» dichiarò Stilgar, con rituale solennità.

E Paul rispose, come Chani gli aveva insegnato: «Chi può negare a un Fremen il diritto di camminare o cavalcare dove vuole?»

«Io sono un Naib» disse Stilgar. «Nessuno mai mi prenderà vivo. Io sono un piede del tripode della morte che distruggerà i nostri nemici.»

Il silenzio calò su di loro.

Paul lanciò un’occhiata agli altri Fremen, immobili sulla sabbia oltre Stilgar, immersi nella loro personale preghiera. E pensò che i Fremen erano un popolo che viveva per uccidere, un intero popolo che era sempre vissuto nella rabbia e nel dolore, senza mai pensare che potessero esistere altre cose, fuorché il sogno che Liet-Kynes aveva donato ad essi prima di morire.

«Dov’è il Signore che ci ha condotto attraverso deserti e gli abissi?» chiese Stilgar.

«È sempre con noi» risposero i Fremen.

Stilgar si raddrizzò, si avvicinò a Paul e gli sussurrò: «Ora, ricordati quanto ti ho detto. Devi agire nel modo più semplice e diretto. Senza alcuna fantasia. Noi Fremen cavalchiamo il creatore già a dodici anni. Tu hai sei anni di più, e non sei nato per questa vita. Non devi impressionare nessuno col tuo coraggio. Sappiamo che sei coraggioso. Devi soltanto chiamare il creatore e cavalcarlo».

«Me ne ricorderò» disse Paul.

«Ci conto. Non ho alcun desiderio che la vergogna ricada sul tuo insegnante.»

Stilgar estrasse dalla veste una bacchetta di plastica lunga circa un metro. Un’estremità era appuntita, l’altra aveva un meccanismo a molla. «Ho preparato io stesso questo martellatore. È buono. Accettalo.»

Paul sentì nella mano la superficie liscia e cedevole della plastica, e il suo tepore.

«Shishakli ha i tuoi ami» riprese Stilgar. «Te li darà non appena tu sarai su quella duna, laggiù.» Indicò alla sua destra. «Chiama un grosso creatore, Usul. Mostraci la strada.»

La voce di Stilgar era insieme solenne e piena dell’inquietudine di un amico.

In quell’istante il sole sembrò balzare sopra l’orizzonte. Il cielo acquistò la sfumatura grigio argento che annunciava una giornata torrida.

«Ecco il giorno ardente» disse Stilgar, e la sua voce aveva tutta la solennità del rito. «Vai, Usul, e cavalca il creatore, solca la sabbia come si addice a un condottiero.»

Paul salutò il suo stendardo, il quale pendeva inerte: il vento dell’alba era cessato. Si voltò verso la duna che Stilgar gli aveva indicato: un pendio roccioso con una cresta a forma di «S». Già la maggior parte dei Fremen sì allontanava in direzione opposta, risalendo la duna che aveva ospitato l’accampamento.

Una figura avvolta nel mantello rimaneva sul sentiero di Paul: Shishakli, un capo dei Fedaykin; soltanto i suoi occhi erano visibili, sotto le palpebre fortemente segnate, fra il cappuccio e il bordo della tuta. All’avvicinarsi di Paul, gli porse due aste sottili, simili a due fruste. Erano lunghe circa un metro e mezzo e munite di uncini di plastacciaio a un’estremità, e sull’altra di un manico ruvido per facilitare la presa.

Paul le afferrò ambedue con la sinistra, secondo il rituale.

«Questi sono i miei ami» disse Shishakli, con voce rauca. «Non hanno mai sbagliato.»

Paul annuì in silenzio, come prescritto, superò l’uomo e risalì il pendio della duna. Sulla cresta si guardò indietro e vide i Fremen che si spargevano intorno come uno sciame d’insetti, sventolando i mantelli. Era solo, adesso, in cima alla duna, con l’orizzonte piatto e immobile davanti a lui. Era una buona duna, questa che Stilgar aveva scelto per lui, più alta delle altre, e gli consentiva una vista più vantaggiosa.

Piegandosi in avanti, Paul piantò il martellatore in profondità sul lato della duna rivolto al vento, dove la sabbia era più compatta e avrebbe consentito una miglior propagazione al rumore. Poi esitò, ripassando mentalmente la lezione e gli imperativi di vita e di morte che doveva affrontare.

Non appena avesse schiacciato l’impugnatura a molla, il martellatore avrebbe cominciato a battere il suo appello. In qualche punto, nelle profondità della sabbia, un verme gigante (un creatore) l’avrebbe udito e si sarebbe precipitato verso l’origine del rumore. Con le aste uncinate simili a fruste, Paul avrebbe agganciato un anello del verme e sarebbe balzato in groppa al creatore. Finché l’uncino avesse mantenuto aperto il bordo dell’anello, esponendo all’abrasione della sabbia gli strati interni sensibili, il creatore non sarebbe più sprofondato sotto il deserto. Al contrario avrebbe sollevato il suo corpo gigantesco arcuandolo, nel tentativo di allontanare il più possibile dalla superficie sabbiosa il segmento aperto.

Sono un cavaliere delle sabbie, si disse Paul.

Fissò gli uncini che stringeva nella mano sinistra: pensò che avrebbe dovuto soltanto farli scivolare lungo i fianchi ricurvi del gigantesco creatore, per far sì che il verme contraesse il corpo e si curvasse su quel lato, e per poi guidarlo dove voleva. Aveva già visto questa manovra. Lo avevano già fatto salire sul fianco di un verme per brevi cavalcate di allenamento. Il verme catturato poteva esser cavalcato finché non si arrestava esausto tra le dune, e allora bisognava chiamare un nuovo creatore.

Una volta superata la prova, Paul sapeva che l’avrebbero autorizzato a compiere il viaggio di venti martellatori fino alle terre del sud, libero di riposarsi nei nuovi sietch e tra i palmeti, dove le donne e i bambini erano stati condotti per sfuggire al pogrom.

Alzò la testa e guardò a sud, ricordandosi che il creatore che sarebbe sorto dal sud era un fattore ignoto, e che, del resto, anche colui che lo chiamava era nuovo a questa prova.

«Devi calcolare con cura il suo avvicinamento» gli aveva detto Stilgar. «Devi essere abbastanza vicino per poter balzare sulla sua schiena quando ti passerà accanto, e abbastanza lontano per evitare che ti inghiottisca.»

Con un gesto improvviso Paul liberò l’impugnatura a molla del martellatore, e il richiamo cominciò a rullare sulla sabbia: «Bum!… Bum!… Bum!…»

Paul si raddrizzò e scrutò l’orizzonte e ricordò ancora le parole di Stilgar: «Esamina con cura la sua linea di avvicinamento. Ricorda che un verme molto raramente si avvicina a un martellatore senza farsi vedere. In tutti i casi, ascolta. Forse puoi udirlo prima ancora di vederlo».

E, al colmo della notte, Chani, in preda al terrore per lui, gli aveva mormorato: «Quando attraversi il sentiero di un creatore, devi restare immobile e silenzioso. Devi essere, e pensare, come un mucchio di sabbia. Nasconditi nel tuo mantello e diventa una duna, anche nel tuo intimo».

Lentamente, Paul esplorò l’orizzonte, ascoltando, pronto a osservare i segni che gli erano stati insegnati.

Giunse da sudest, un sibilo lontano, un sussurrio della sabbia. Qualche istante dopo distinse il profilo della creatura che avanzava contro la luce dell’alba, e si rese conto di non aver mai visto un verme così grande, anzi, di non averne mai sentito parlare. La creatura era lunga quasi tre chilometri, e le onde di sabbia sulla sua testa erano come l’avvicinarsi di una montagna.

Non ho mai visto niente di simile nella mia vita o nelle mie visioni, pensò. Si precipitò in avanti, verso il segno del verme, interamente assorbito dagli imperativi di questo istante. 

«Controlla la moneta e le alleanze. Che la canaglia si diverta col resto.» Questo dice l’Imperatore Padiscià. E aggiunge: «Se volete profitti, dovete regnare» C’è della verità in queste parole, ma io mi chiedo: «Chi è la canaglia e chi sono i regnanti?» messaggio segreto di Muad’Dib al Landsraad, tratto dal «Risveglio di Arrakis», della Principessa Irulan

Un pensiero non sollecitato si affacciò alla mente di Jessica: Paul sarà sottoposto alla prova dei cavalieri delle sabbie, adesso. Hanno cercato di tenermelo nascosto, ma è fin troppo evidente.

E Chani è partita per qualche misteriosa destinazione.

Jessica sedeva nella sua camera, approfittando di un breve riposo tra due lezioni notturne. Era una stanza piacevole, ma non così vasta come quella che l’aveva ospitata al Sietch Tabr prima della loro fuga dal pogrom. Tuttavia, i tappeti erano soffici, come pure i cuscini, e vi erano un basso tavolino da caffè e tende multicolori alle pareti: alcuni globi luminosi irradiavano una dolce luminosità gialla. La stanza era impregnata dell’acre, antico odore dei Fremen, un odore che Jessica aveva finito per associare a un senso di sicurezza.

E tuttavia sapeva che non sarebbe mai riuscita a superare la sensazione di trovarsi in un luogo straniero. E questa differenza nessun tappeto, nessuna tenda multicolore poteva cancellarla.

Un debole rullio, un tintinnio le giunsero. Riconobbe il rito che celebrava un parto. Quello di Subiay, probabilmente. Il suo momento si avvicinava. Jessica sapeva che molto presto le avrebbero portato il bambino (un cherubino dagli occhi azzurri) perché la Reverenda Madre lo benedicesse. Sapeva inoltre che sua figlia, Alia, partecipava alla celebrazione e le avrebbe riferito ogni particolare.

Non era ancora il momento di recitare le preghiere serali della separazione. Non avrebbero iniziato la celebrazione di una nascita a poca distanza dalle cerimonie in cui avrebbero pianto le razzie di schiavi su Poritrin, Bela Tegeusi, Rossak e Harmonthep.

Jessica sospirò. Sapeva che tentava di non pensare a suo figlio e ai pericoli che doveva affrontare… i pozzi trappola con gli spuntoni avvelenati, le incursioni degli Harkonnen (anche se un po’ alla volta queste diventavano più rare grazie alle nuove armi che Paul aveva procurato ai Fremen per abbattere velivoli e predatori), e infine i pericoli naturali del deserto: i creatori, la sete e i crepacci di sabbia.

Pensò di chiamare qualcuno per il caffè, e nello stesso tempo rifletté sul paradosso rappresentato dal modo di vivere dei Fremen, alla comodità di questi sietch, nelle caverne, al confronto dei pyon del graben. E ancora, come resistessero molto più di un qualsiasi mercenario Harkonnen a uno hajr nel deserto.

Una mano bruna s’infilò fra le tende al suo fianco, depose una tazza sul tavolino e si ritirò. Dalla tazza si alzò l’aroma del caffè di spezia.

Un’offerta per la celebrazione della nascita, pensò Jessica.

Prese la tazza e sorseggiò il caffè, sorridendo a se stessa. In quale altra società dell’universo una persona nella mia posizione potrebbe accettare una bevanda anonima e berla senza paura? si chiese. Ora potrei mutare qualsiasi veleno prima che mi faccia del male, ma il donatore non lo sa.

Sorseggiò il caffè caldo e delizioso, assaporando l’energia e il vigore della bevanda. E si chiese quale altra società avrebbe avuto un riguardo così naturale per la sua intimità e per il suo conforto, al punto che il donatore s’intrometteva nella sua stanza solo per l’attimo sufficiente a depositare il dono, senza neppure presentarsi a lei. Il dono proveniva dal rispetto e dall’amore… con soltanto una leggerissima punta di paura.

Poi, un nuovo elemento si chiarì nella sua mente: lei aveva pensato al caffè ed esso era venuto. Non aveva nulla a che vedere con la telepatia, lei lo sapeva. Era il tau, l’unità nella comunità del sietch: una compensazione dell’elusivo veleno della spezia che tutti assimilavano. La grande massa della gente non avrebbe mai potuto sperare di raggiungere la libertà che le aveva conferito il seme di spezia: non erano stati né addestrati, né preparati. Le loro menti respingevano quello che non potevano capire o accettare. Ma a volte essi percepivano e reagivano come un unico organismo.

E il pensiero che si trattasse di semplici coincidenze non era mai passato nelle loro menti.

Paul ha subito la prova? si chiese Jessica. È senz’altro capace di superarla, ma gli incidenti colpiscono anche i più bravi.

L’attesa.

È la monotonia, pensò. Non si può aspettare così a lungo. La monotonia, la tristezza ti sommergono.

L’attesa impregnava in molti modi le loro esistenze.

Siamo qui da più di due anni, pensò ancora. E dovrà passare un tempo almeno doppio perché possiamo osare… non già di strappare Arrakis al mostro degli Harkonnen, il Mudir Nahya, Beast Rabban… ma soltanto di sperarlo.

«Reverenda Madre?»

La voce, al di là delle tende, era quella di Harah, l’altra donna nella casa di Paul.

«Sì, Harah.»

Le tende si aprirono e Harah sembrò scivolare attraverso il tessuto. Calzava sandali da sietch e una tunica rossa e gialla che le lasciava scoperte le braccia fin quasi alle spalle. I suoi capelli neri erano divisi in mezzo e pettinati all’indietro come le elitre di un insetto, piatti e brillanti contro la sua testa. Il suo profilo aguzzo da uccello da preda era accigliato.

Dietro di lei entrò Alia: una bambina di circa due anni.

Vedendo la figlia, Jessica fu colpita, una volta di più, dalla somiglianza della bambina con Paul, alla stessa età. Alia aveva gli stessi grandi occhi solenni, interrogativi, i capelli neri e la bocca decisa. Ma c’erano anche impercettibili differenze, ed era a causa di esse che la maggior parte degli adulti trovava Alia inquietante. La bambina (poco più di una lattante) si comportava con una calma e una consapevolezza insolite per la sua età. Gli adulti si scandalizzavano quando scoppiava a ridere a un sottile gioco di parole sul sesso. Oppure, prestando orecchio alla sua voce infantile, indistinta a causa del palato soffice non ancora formato, scoprivano nelle sue parole osservazioni maliziose che certamente non si basavano sulle esperienze di una bambina di due anni.

Harah sprofondò in un mucchio di cuscini, con un sospiro esasperato, e si accigliò.

«Alia» disse Jessica, e invitò la figlia con un gesto a venire avanti.

La bimba si avvicinò alla madre, sprofondando a sua volta in un cuscino accanto a lei e le afferrò strettamente una mano. Il contatto della carne riattivò quella reciproca consapevolezza che avevano condiviso prima della sua nascita. Non era una partecipazione di pensieri, anche se scoccavano lampi tra le loro menti quando Jessica mutava il veleno della spezia durante le cerimonie. Era qualcosa di più grande: l’immediata consapevolezza di un’altra scintilla di vita, qualcosa di acuto e vivido, una risonanza nervosa che le rendeva emotivamente una sola persona.

Nel modo formale adatto a un membro della famiglia di suo figlio, Jessica disse: «Suhakh ul kuhar, Harah. Questa notte ti ritrova in salute?»

Con la stessa tradizionale formalità, Harah rispose: «Subakh un nar. Sto bene».

Le parole erano prive di qualsiasi sfumatura. Sospirò ancora.

Jessica sentì che Alia si divertiva.

«La ghanima di mio fratello è in collera con me» disse Alia col suo leggero balbettio.

Jessica avvertì la parola usata da Alia per riferirsi ad Harah: ghanima. Nelle sottigliezze della lingua Fremen, questa parola significava «qualcosa conquistato in battaglia», e il modo con cui era stata pronunciata implicava che il «qualcosa» non era più usato per il suo scopo originario. Un ornamento, come una punta di lancia usata come contrappeso per una tenda.

Harah si accigliò. «Non cercare d’insultarmi, bambina. Io conosco il mio posto.»

«Che cosa hai combinato questa volta, Alia?» chiese Jessica.

«Non solo si è rifiutata di giocare con gli altri bambini» si affrettò a dire Harah, «ma si è intromessa nella…»

«Mi sono nascosta tra le tende e ho guardato il figlio di Subiay che nasceva» disse Alia. «È un bambino. Piangeva e piangeva. Che polmoni! Quando ha pianto abbastanza…»

«È uscita fuori e lo ha toccato» l’interruppe Harah. «E il bambino ha smesso di piangere. Tutti sanno che un figlio dei Fremen deve piangere alla nascita, nel sietch, perché non possa più piangere e tradirci durante uno hajr.»

«Aveva pianto abbastanza» ribatté Alia. «Volevo soltanto sentire la sua scintilla vitale. È tutto. E quando mi ha sentito, non ha più voluto piangere.»

«Tutto questo ha provocato nuove chiacchiere» replicò Harah.

«Il figlio di Subiay è sano?» chiese Jessica. C’era qualcosa che preoccupava profondamente Harah.

«Sano quanto una madre può desiderare» disse Harah. «Sanno che Alia non gli ha fatto alcun male. Non gl’importa poi tanto che lo abbia toccato. Si è calmato subito ed era felice. Ma…» Harah scrollò le spalle.

«È la diversità di mia figlia, no?» chiese Jessica. «È il modo in cui parla di cose che non dovrebbero riguardarla se non tra molti anni… e di altre che dovrebbe ignorare, cose del passato.»

«Come può sapere qual era l’aspetto di un bambino su Bela Tegeusi?» domandò Harah.

«Ma era così!» ribatté Alia. «Il figlio di Subiay era identico al figlio di Mitha, che è nato prima della partenza.»

«Alia!» gridò Jessica. «Ti ho avvertita!»

«Madre, l’ho visto ed era vero. Il…»

Jessica scosse la testa: lesse sul volto di Harah l’inquietudine. Che cosa ho generato? si chiese. Mia figlia, quando è nata, già sapeva tutto quello che io sapevo… e anche di più. Tutto le è stato rivelato nei corridoi del passato, dalla Reverenda Madre, dentro di me.

«Non sono soltanto le cose che dice» riprese Harah. «Ci sono anche gli esercizi. Il modo in cui si siede e fissa una roccia, muovendo soltanto un muscolo accanto al naso, o un dito, o…»

«Questo fa parte dell’addestramento Bene Gesserit» l’interruppe Jessica. «Tu lo sai. Harah. Vorresti negare a mia figlia la sua eredità?»

«Reverenda Madre, tu sai che queste cose non hanno importanza per me. Ma si tratta del popolo e del modo in cui mormora. Sento il pericolo. Dicono che tua figlia è un demonio, che gli altri bambini si rifiutano di giocare con lei, che tua figlia è…»

«Ha così poco in comune con gli altri bambini» disse Jessica. «Non è un demonio, è soltanto…»

«Certo che non lo è!»

Jessica fu sorpresa dalla veemenza di Harah, e lanciò un’occhiata alla figlia. Alia sembrava perduta tra i suoi pensieri: irradiava come un’impressione… di attesa. Jessica guardò nuovamente Harah.

«Io ti rispetto perché fai parte della famiglia di mio figlio» disse. (Alia si agitò contro la sua mano). «Puoi confidarmi tutto ciò che ti tormenta.»

«Ben presto non farò più parte della famiglia di tuo figlio» replicò Harah. «Se ho atteso fino ad oggi è stato soltanto per il bene dei miei figli, per la speciale educazione che ricevono in quanto figli di Usul. C’è ben poco che io possa fare per loro poiché è risaputo che non divido il letto di tuo figlio.»

Ancora una volta Alia si agitò accanto alla madre, mezzo addormentata.

«Tu sei stata tuttavia una buona compagna per mio figlio» disse Jessica. E aggiunse nella sua mente, poiché questi pensieri non l’abbandonavano mai: Una compagna… non una sposa. Poi i suoi pensieri si concentrarono sui pettegolezzi del sietch, su quello che più l’addolorava: il legame di Paul con Chani, che si era trasformato in matrimonio.

Io amo Chani, pensò. Ma nel medesimo istante si ricordò che l’amore avrebbe dovuto annullarsi davanti alla necessità del trono. Nei matrimoni dei nobili c’erano ben altre ragioni che l’amore!

«Tu credi che io ignori quello che hai in mente per tuo figlio?» domandò Harah.

«Cosa vuoi dire?»

«Tu stai progettando di unire le tribù sotto di Lui.»

«È male, questo?»

«Vedo un pericolo per lui… E Alia fa parte di questo pericolo.»

Alia si accoccolò tutta contro la madre, aprì gli occhi e guardò Harah.

«Vi ho osservato quando siete insieme» proseguì Harah. «Il modo in cui vi toccate. Alia è carne della mia carne perché è sorella di un uomo che è come un fratello per me. L’ho vegliata e custodita fin da quando era una poppante, dai giorni della razzia, quando siamo fuggite quaggiù. So molte cose di lei.»

Jessica annuì. Sentì crescere l’agitazione di Alia, al suo fianco.

«Tu sai quello che voglio dire» continuò Harah. «Il modo in cui ha sempre saputo quello che stavamo per dirle. Si è mai visto un bambino che sapesse già tutto della disciplina d’acqua? Le sue prime parole sono state: ’Ti voglio bene, Harah’.»

Puntò gli occhi su Alia: «Perché credi che io accetti i suoi insulti? So che non c’è malizia nelle sue parole».

Alia alzò lo sguardo sulla madre.

«Sì, io so ragionare, Reverenda Madre» disse ancora Harah. «Avrei potuto essere una Sayyadina. Ho visto quello che ho visto.»

«Harah…» Jessica alzò le spalle. «Non so che cosa dirti.» E provò sorpresa, perché era vero.

Alia si raddrizzò, irrigidì le spalle. Jessica percepì la fine dell’attesa, un’emozione fatta di tristezza e di decisione.

«Abbiamo commesso un errore» disse Alia. «Ora abbiamo bisogno di Harah.»

«È stato durante la Cerimonia del Seme» spiegò Harah. «Quando hai cambiato l’Acqua della Vita, Reverenda Madre. Quando Alia era dentro di te, non ancora nata.»

Abbiamo bisogno di Harah? si chiese Jessica.

«Chi altri può parlare alla gente e far sì che comincino a capirmi?» chiese Alia.

«Cosa vuoi che faccia?» disse Jessica.

«Lei lo sa già» replicò Alia.

«Dirò a tutti la verità» disse Harah. Il suo viso sembrò improvvisamente vecchio e triste, la pelle olivastra segnata da una fitta rete di rughe, il profilo simile a quello di una strega. «Dirò a tutti che Alia fa finta di essere una bambina… che non è mai stata bambina.»

Alia scosse la testa. Aveva le guance bagnate di lagrime e Jessica sentì un’ondata di tristezza che emanava da sua figlia come se l’emozione travolgesse lei stessa.

«Io sono un mostro, lo so» bisbigliò Alia. E questa frase di adulto nella bocca infantile di sua figlia fu per Jessica una terribile conferma.

«Tu non sei un mostro!» la rimbeccò aspramente Harah. «Chi ha osato pretenderlo?»

Ancora una volta Jessica si stupì del feroce accento protettivo nella voce di Harah. E si rese conto che il giudizio di sua figlia rispondeva a verità: avevano bisogno di Harah. La tribù avrebbe capito Harah, le sue parole come le sue emozioni, poiché era evidente che amava Alia come se fosse stata sua figlia.

«Chi ha osato?» ripeté Harah.

«Nessuno.»

Alia si asciugò le lagrime con un angolo dell’aba di Jessica. Poi lisciò la veste che aveva bagnato e spiegazzato.

«E allora, non dirlo» le intimò Harah.

«Sì, Harah.»

«Ora, dimmi com’è stato, poiché io possa descriverlo agli altri. Dimmi che cosa ti è accaduto.»

Alia deglutì e fissò sua madre.

Jessica annuì.

«Un giorno» disse Alia, «mi sono svegliata. Ebbi l’impressione di aver dormito, ma non mi ricordavo di niente. Era in un luogo caldo e oscuro, e avevo paura.»

Ascoltando la voce balbettante di sua figlia, Jessica si ricordò della grande caverna.

«Avevo paura» continuò Alia. «Cercai di fuggire, ma era impossibile. Vidi allora una scintilla… O piuttosto, non la vidi: la scintilla era lì, con me, e io percepivo le sue emozioni… Mi confortava, mi calmava, mi diceva che tutto sarebbe andato bene. Era mia madre.»

Harah si sfregò gli occhi e sorrise ad Alia per rassicurarla. Tuttavia, c’era una luce selvaggia negli occhi della Fremen, come se anch’essi ascoltassero avidamente il racconto.

E Jessica rifletté: Come possiamo sapere, veramente, i pensieri di mia figlia? Un’esperienza, una discendenza, un addestramento irripetibili?

«E allora, quando mi sentii finalmente tranquilla e rassicurata» riprese Alia, «un’altra scintilla ci raggiunse… Tutto nel medesimo istante. La nuova scintilla era la Reverenda Madre. Lei… scambiava la sua vita con mia madre… tutto… e io ero con loro, e vedevo tutto… ogni cosa. E poi tutto finì, e io fui loro, e tutte le altre, e me stessa… Soltanto, impiegai molto tempo a ritrovare me stessa, fra tante altre.»

«È stato crudele» esclamò Jessica. «Nessuno dovrebbe risvegliarsi alla coscienza in questo modo. C’è da stupirsi che tu sia riuscita ad accettare tutto quello che ti è accaduto.»

«Non potevo fare altro!» gridò Alia. «Non sapevo come respingerlo, o nascondere la mia coscienza… isolarla… Tutto è accaduto, così… Tutto…»

«Noi non sapevamo» disse Harah. «Quando abbiamo dato a tua madre l’Acqua perché la mutasse, non sapevamo che tu esistevi dentro di lei.»

«Non rattristarti per questo» replicò Alia. «Non c’è ragione di dispiacerti per me. Dopo tutto potrei anche essere felice per tutto questo: io sono una Reverenda Madre. La tribù ha due Rev…»

S’interruppe, e piegò la testa per ascoltare.

Harah la fissò, stupita, poi si voltò verso Jessica.

«Non l’avevi capito?» disse Jessica.

«Ahhh…» fece Alia.

Un canto ritmato si udì in distanza attraverso i tendaggi che le separavano dai corridoi del sietch. Crebbe di volume, si fece più distinto: «Ya! Ya! Yawm! Ya! Ya! Yawm! Mu zein, Wallah! Ya! Ya! Ya! Yawm! Mu zein, Wallah!»

I cantori sfilarono davanti all’ingresso esterno e le loro voci rimbombarono in tutte le stanze. Lentamente, il canto si allontanò.

Allora, Jessica iniziò il rituale. La tristezza risuonò nella sua voce: «Era Ramadhan e aprile su Bela Tegeusi».

«La mia famiglia era seduta in cortile» disse Harah, «accanto alla fontana il cui zampillo impregnava l’aria di umidità. C’era un albero di portyguls, lì accanto, rotondo e cupo. E un paniere con mish mish, e baklava, e coppe colme di liban… tutte cose eccellenti da mangiare. E la pace regnava sui nostri giardini, sui nostri animali… e su tutta la terra.»

«La vita era piena di gioia, finché non vennero i razziatori» disse Alia.

«Il sangue si raggelò alle urla dei nostri amici» disse Jessica. Sentì affluire i ricordi di tutti i passati che erano in lei.

«La la la, gridavano le donne» disse Harah.

«I razziatori sorsero dal mushtamal, precipitandosi su di noi coi loro coltelli arrossati dal sangue dei nostri uomini» disse Jessica.

Un silenzio improvviso le avvolse, e in ogni appartamento del sietch le donne ricordarono e rinnovarono il dolore.

Qualche istante dopo Harah pronunciò le ultime parole del rito, con una durezza che Jessica non aveva mai udito.

«Mai perdonare! Mai dimenticare!»

Nella quiete pensosa che seguì queste parole udirono un brusio e il fruscio di molti mantelli. Jessica percepì la presenza di qualcuno dietro le tende che avvolgevano la sua stanza.

«Reverenda Madre?»

Una voce di donna. Jessica la riconobbe: era la voce di Tharthar, una delle mogli di Stilgar.

«Che cosa c’è, Tharthar?»

«Ci sono guai, Reverenda Madre.»


Jessica sentì una stretta al cuore, un’improvvisa paura per suo figlio. «Paul…» balbettò.

Tharthar scostò le tende ed entrò nella stanza. Jessica ebbe una rapida visione della folla che si accalcava nella camera più esterna, prima che le tende ricadessero. Fissò Tharthar: una donna minuscola, bruna di pelle, avvolta in un mantello nero decorato di rosso. A sua volta, Tharthar fissò Jessica con occhi completamente azzurri; nelle sue narici erano visibili i segni dei filtri.

«Che cosa succede?» domandò Jessica.

«Sono giunte notizie dalla sabbia. Usul affronterà la prova del creatore… oggi. I giovani dicono che non può fallire, che prima del calare della notte sarà cavaliere delle sabbie. I giovani si stanno adunando per una razzia. Faranno un’incursione al nord, e lassù s’incontreranno con Usul. Dicono che lanceranno il grido, allora. Dicono che l’obbligheranno a sfidare Stilgar e ad assumere il comando della tribù.»

Raccogliere l’acqua, seminare le dune, trasformare il pianeta lentamente ma sicuramente… questo non basta più, pensò Jessica. Le piccole, sicure razzie… questo non è più sufficiente, ora che li abbiamo addestrati, Paul ed io. Sentono la loro forza. Vogliono combattere.

Tharthar si appoggiò su un piede, poi su un altro. Si schiarì la gola.

Noi sappiamo che bisogna aspettare prudentemente, pensò ancora Jessica, ma c’è in noi questo nucleo di frustrazione: sappiamo il danno che può derivarci da un’attesa troppo prolungata. Se aspettiamo troppo, rischiamo di dimenticare il nostro scopo.

«I giovani dicono che se Usul non sfiderà Stilgar, vorrà dire che ha paura» aggiunse Tharthar.

Abbassò lo sguardo.

«Allora, è così» mormorò Jessica. E pensò: Ne avevo visto i segni. E anche Stilgar.

Ancora una volta Tharthar si schiarì la gola. «Perfino mio fratello, Soab, lo dice. Non lasceranno a Usul altra scelta.»

Allora il momento è giunto, pensò Jessica. E Paul dovrà cavarsela da solo. La Reverenda Madre non può essere coinvolta nella successione.

Alia si staccò dalla mano di sua madre e disse: «Io andrò con Tharthar e ascolterò quello che dicono i giovani. Forse c’è un modo».

Jessica incontrò gli occhi di Tharthar e disse ad Alia: «Vai, allora. E riferiscimi tutto, appena puoi».

«Non voglio che accada questo, Reverenda Madre» fece Tharthar.

«Neanch’io lo voglio» disse Jessica. «La tribù ha bisogno di tutte le sue forze.» Guardò Harah: «Andrai con loro?»

Harah rispose alla domanda inespressa: «Tharthar non farà nulla contro Alia. Lei sa che presto saremo mogli insieme, lei ed io, per dividerci lo stesso uomo. Abbiamo parlato, Tharthar e io».

Harah fissò Tharthar, poi si rivolse nuovamente a Jessica: «C’è un accordo, tra noi».

Tharthar porse la mano ad Alia e disse: «Dobbiamo affrettarci. I giovani stanno partendo».

Uscirono in fretta sollevando i tendaggi, la mano della bambina stretta in quella minuscola della donna. Ma era la bambina che sembrava guidare.

«Se Paul Muad’Dib ucciderà Stilgar, questo nuocerà agli interessi della tribù» disse Harah. «La successione dei capi si è sempre svolta in questo modo, ma i tempi sono cambiati.»

«I tempi sono cambiati anche per te» fece Jessica.

«Come puoi pensare che io dubiti dell’esito di una simile lotta? Usul può soltanto vincere.»

«Questo volevo dire.»

«Tu credi che i miei sentimenti personali possano influenzare il mio giudizio?» replicò Harah. Scosse la testa, facendo tintinnare gli anelli d’acqua intorno al collo. «Come ti sbagli! Pensi anche che io mi dispiaccia per non essere stata scelta da Usul, che io sia gelosa di Chani?»

«Ognuno fa la propria scelta» disse Jessica.

«Ho pietà di Chani.»

Jessica s’irrigidì: «Che cosa vuoi dire?»

«So quello che pensi di Chani» disse Harah. «Tu pensi che non sia la moglie adatta a tuo figlio.»

Jessica si rilassò e si distese sui cuscini. «Forse.»

«Potresti aver ragione» continuò Harah. «E se ciò fosse vero, potresti trovare un sorprendente alleato nella stessa Chani. Per Lui, lei desidera soltanto il meglio.»

Jessica sentì un improvviso nodo alla gola. «Chani mi è molto cara» replicò. «Non potrebbe…»

«I tuoi tappeti sono molto sporchi» disse Harah. Fece scorrere il suo sguardo sul pavimento, evitando gli occhi di Jessica. «Tanta gente viene qui. Dovresti farli pulire più spesso.»

Non si può evitare l’influenza della politica in seno a una religione ortodossa. La lotta per il potere permea l’educazione, l’addestramento e la disciplina di una comunità ortodossa. A causa di questa pressione. I capi di una simile comunità devono affrontare inevitabilmente l’ultimo dilemma interiore: soccombere al più completo opportunismo per conservare il loro potere, o rischiare di sacrificare se stessi nel nome dell’etica ortodossa. dai «Detti religiosi di Muad’Dib», della Principessa Irulan

Immobile sulla sabbia, Paul aspettava il creatore. Non devo attendere come un contrabbandiere, fremendo d’impazienza, si disse. Devo essere parte del deserto.

L’essere era a pochi minuti di distanza, ormai, e riempiva il mattino del fragoroso crepitio della sabbia. I suoi enormi denti, nell’immensa caverna che era la sua gola, si disegnavano come un grande fiore. L’odore di spezia che emanava dal suo corpo era sempre più intenso.

La tuta distillante aderiva perfettamente al corpo, e Paul a stento percepiva i tamponi al naso, la maschera per l’aria. Gli insegnamenti di Stilgar, le ore trascorse all’agguato sulla sabbia cancellavano nel suo ricordo ogni altra cosa.

«Nella sabbia a ciottoli, a quale distanza devi restare dal raggio d’azione del creatore?» gli aveva chiesto Stilgar.

E lui aveva risposto correttamente: «Mezzo metro per ogni metro di diametro del creatore».

«Perché?»

«Per evitare il vortice al suo passaggio, ma avere ugualmente il tempo per correre a balzargli sulla schiena.»

«Tu hai già cavalcato i più piccoli, quelli allevati per il seme e l’Acqua della Vita» aveva detto Stilgar. «Ma quello che chiamerai per la tua prova sarà un creatore selvaggio, un Vecchio del deserto. Devi mostrare rispetto a un simile essere.»

Ora, il profondo rumore del martellatore si mescolava allo stridio del verme in avvicinamento. Paul respirò profondamente, odorando il gusto amaro e minerale della sabbia perfino attraverso i filtri. Il creatore selvaggio, il Vecchio del deserto, era quasi su di lui. Il suo segmento frontale, crestato, sollevava un’onda di sabbia che l’avrebbe ben presto investito.

Vieni, dunque, adorabile mostro, pensò. Non senti il mio richiamo? Vieni. Vieni.

L’onda sollevò la duna sotto i suoi piedi. Un turbinio di polvere l’investì. Irrigidì le gambe, mentre l’intero suo universo, ormai, era dominato dal passaggio dell’immensa parete ricurva offuscata dalla sabbia, una roccia vivente segmentata.

Paul sollevò gli ami, prese la mira, si piegò in avanti e li lanciò. Li sentì mordere. Una violenta strappata: balzò in alto, piantando i piedi contro la parete ricurva, piegandoli in fuori per farli meglio aderire. Era il momento culminante della prova: se aveva piantato gli uncini al punto giusto, sull’orlo anteriore dell’anello, divaricandolo, il verme non si sarebbe più rotolato su se stesso, schiacciandolo.

Il verme rallentò. Scivolò sul martellatore e lo frantumò. E lentamente cominciò a incurvarsi verso l’alto… in alto… sollevando gli ami che gli irritavano la carne il più in alto possibile, lontano dalla sabbia che minacciava le soffici membrane interne di quel segmento anulare.

Paul si trovò a cavalcare, eretto, in cima al verme, esultando come un imperatore davanti al suo universo. Lottò contro il desiderio di mettersi a danzare, lassù, di far girare il verme, di dimostrare il completo dominio che aveva sulla creatura.

Improvvisamente capì perché Stilgar l’aveva messo in guardia, parlandogli di quei giovani folli che danzavano e giocavano coi mostri, sul loro dorso, staccando entrambi gli uncini e piantandoli di nuovo prima che il verme riuscisse a scrollarseli di dosso.

Paul lasciò un uncino al suo posto e tolse il secondo, piantandolo più in basso sul fianco. Ne saggiò la presa, e quando fu ben sicuro, calò più in basso anche l’altro, e in questo modo discese a metà del fianco. Il creatore s’incurvò nuovamente, e così facendo girò, dirigendosi verso il tratto di sabbia farinosa dove i Fremen aspettavano.

Paul li vide balzare, uno dopo l’altro, sul mostro, scalandolo con gli uncini, evitando però i bordi sensibili degli anelli finché non furono in cima. Alla fine cavalcarono il verme su una triplice fila, dietro di lui, saldamente aggrappati.

Stilgar avanzò fra i ranghi, controllò la posizione degli uncini di Paul e rispose al suo sorriso.

«Ci sei riuscito, eh?» gli disse, alzando la voce per sovrastare il crepitio della sabbia. «È quello che tu credi, dunque?» Si raddrizzò. «Ora io ti dico che il tuo è stato un pessimo lavoro. Un ragazzo di dodici anni l’avrebbe fatto meglio. C’era un tamburo delle sabbie alla sinistra del punto dove aspettavi. Non avresti trovato scampo su quel lato, se il verme si fosse precipitato su di te.»

Il sorriso sparì dal volto di Paul. «Avevo visto il tamburo.»

«E allora, perché non hai chiesto a uno di noi di prender posizione dietro di te? Anche durante una prova, è consentito.»

Paul inghiottì e offrì il suo viso al vento che sibilava intorno.

«Pensi che non sia giusto da parte mia dirlo ora» continuò Stilgar. «Ma è il mio dovere. Il tuo valore è troppo grande per noi. Se tu fossi finito sul tamburo, il creatore si sarebbe precipitato su di te.»

Nonostante l’impeto di rabbia, Paul sapeva che Stilgar diceva la verità. Gli ci volle un intero minuto e tutto l’addestramento ricevuto da sua madre per riacquistare la calma. «Mi scuso» disse. «Non accadrà mai più.»

«In una posizione difficile fatti sempre aiutare da un altro, da qualcuno che possa balzare sul creatore se non puoi farlo tu. Ricordati che noi lavoriamo sempre insieme. Soltanto così siamo sicuri. Insieme. D’accordo?»

Batté una mano sulla spalla di Paul.

«Insieme» ripeté Paul.

«Ora» disse Stilgar, e la sua voce era dura, «fammi vedere come sai manovrare un creatore. Su quale lato ci troviamo?»

Paul guardò giù, lungo la superficie scagliosa dell’anello, notò la forma e la grandezza delle scaglie, il modo in cui si allargavano alla sua destra e si restringevano a sinistra. Ogni venne, lui lo sapeva, si muoveva in modo caratteristico, e rivolgeva quasi sempre lo stesso lato verso l’alto. Quando il verme invecchiava, il lato superiore non cambiava più: le scaglie in basso diventavano più pesanti, più larghe e lisce. Su un grosso verme, bastava una sola occhiata alle scaglie per identificare l’alto e il basso.

Paul mosse gli uncini e si portò più a sinistra. Fece un gesto a due uomini sul fianco che si portarono sul segmento aperto, per mantenere il verme in linea retta. Quindi, invitò due timonieri a uscire dalle file e a farsi avanti.

«Ach, haiiiiii-yoh!» urlò Paul: il grido tradizionale. Il timoniere di sinistra divaricò il bordo dell’anello.

Per proteggerlo, il verme s’incurvò maestosamente. Fece un giro completo, e quando fu diretto nuovamente a sud, Paul urlò: «Geyrat!»

Il timoniere tolse l’uncino. Il creatore proseguì la corsa in linea retta.

«Molto bene, Paul Muad’Dib» disse Stilgar. «Con la pratica potrai diventare anche tu un cavaliere delle sabbie.»

Paul si rabbuiò: Non sono stato io il primo a salirgli in groppa?

Alle sue spalle s’innalzò un improvviso scoppio di risa, e la truppa cominciò a cantare:

«Muad’Dib! Muad’Dib! Muad’Dib! Muad’Dib!»

E molto più indietro sulla superficie del verme, Paul udì i pungolatori che battevano sui segmenti di coda. Il verme accelerò. I mantelli sbattevano al vento e il crepitio della sabbia crebbe d’intensità. Paul si voltò a guardare i Fremen, e colse il volto di Chani tra loro. La fissò, mentre chiedeva a Stilgar: «E allora, sono un cavaliere delle sabbie?»

«Hal yawm! Tu sei un cavaliere delle sabbie.»

«Allora posso scegliere la nostra destinazione?»

«Così vuole l’usanza.»

«E io sono un Fremen, nato qui, oggi, sull’erg di Habbanya. Non ho mai viaggiato, fino ad oggi. Ero un bambino.»

«Non proprio un bambino» replicò Stilgar. Strinse un angolo del cappuccio che sbatteva al vento.

«Ma c’era un sigillo che m’impediva di uscire nel mio universo. Quel sigillo, oggi, è stato strappato.»

«Non c’è più alcun sigillo.»

«Io voglio andare a sud, Stilgar. Venti martellatori. Vedrò così il paese che stiamo edificando, la terra che ho visto soltanto attraverso gli occhi degli altri.»

E vedrò mio figlio e la mia famiglia, pensò. Ho bisogno di tempo, ora, per esaminare questo futuro che, nella mia mente, è un passato. Il turbine si avvicina e, se non riuscirò a fermarlo, si scatenerà in tutta la sua violenza selvaggia.

Stilgar lo osservò, pensoso. Paul continuò a fissare Chani, leggendo sul suo viso il riflesso dell’eccitazione che le sue parole avevano risvegliato nella truppa.

«Gli uomini fremono dall’impazienza di compiere una razzia, con te, nei sink degli Harkonnen» disse Stilgar. «I sink si trovano a un solo martellatore da qui.»

«I Fedaykin hanno già combattuto insieme con me» replicò Paul. «E combatteranno ancora finché non vi saranno più Harkonnen a respirare l’aria di Arrakis.»

Stilgar lo guardò a lungo e Paul capì che stava pensando al modo in cui aveva assunto il comando del Sietch Tabr e del Consiglio dei Capi, dopo la morte di Liet-Kynes.

Certamente ha sentito dell’agitazione che regna tra i giovani Fremen, pensò Paul.

«Vuoi una riunione dei capi?» domandò Stilgar.

Gli occhi dei giovani, dietro di lui, lampeggiarono, mentre continuavano a cavalcare il verme nella sua folle corsa. Chani lo fissò inquieta, facendo passare il suo sguardo da Paul Muad’Dib, che era il suo compagno, a Stilgar, che era suo zio.

«Non puoi sapere ciò che voglio» disse Paul.

E pensò: Non posso rifiutarmi. Devo mantenere il mio controllo su questa gente.

«Tu sei il mudir delle sabbie, oggi» disse Stilgar. La sua voce risuonò fredda, formale. «Come userai il tuo potere?»

Abbiamo bisogno di tempo per rilassarci, per riflettere con calma, pensò Paul.

«Andremo a sud» dichiarò.

«Anche se io dico che dovremo ritornare al nord non appena questa giornata avrà fine?»

«Noi andremo a sud» ripeté Paul.

Una ineluttabile dignità circondò Stilgar, mentre si avvolgeva strettamente nel mantello. «La Riunione avrà luogo» disse. «Manderò i messaggi.»

Crede che io voglia sfidarlo, si disse Paul. E sa che non può vincermi.

Si voltò verso il sud, nel vento che gli frustava il viso, pensando a tutti gli obblighi che avrebbero condizionato le sue decisioni.

Ignorano la verità, disse ancora dentro di sé.

Sapeva che non doveva lasciarsi fuorviare da nessuna considerazione. Ad ogni costo, doveva mantenersi sul cammino di questo uragano del tempo che aveva visto nel futuro. A un preciso istante, sarebbe stato possibile dominarlo, ma soltanto se lui fosse potuto balzare nel cuore stesso del turbine.

Non lo sfiderò, se potrò evitarlo, pensò Paul. Se ci sarà un altro modo d’impedire il jihad…

«Per il pasto serale e la preghiera, ci fermeremo nella Grotta degli Uccelli, oltre la Catena di Habbanya» disse Stilgar. Piantò un uncino per bilanciare l’ondeggiamento del creatore e indicò una lontana barriera rocciosa che sorgeva dal deserto.

Paul studiò il dirupo, le rocce che s’innalzavano come onde gigantesche. Non c’era alcuna traccia di verde, nessun fiore che ammorbidisse quell’orizzonte spietato. Al di là della montagna si apriva la via del sud, dieci giorni e dieci notti almeno, alla massima velocità possibile di un creatore.

Venti martellatori.

Il cammino li avrebbe condotti molto lontano dalle pattuglie degli Harkonnen. Sapeva come sarebbe stato: lo aveva visto nei sogni. Un giorno, continuando a procedere verso il sud, vi sarebbe stato un lieve cambiamento di colore all’orizzonte: un cambiamento quasi impercettibile, un’illusione quasi, dovuta alla speranza. E poi, avrebbero raggiunto il nuovo sietch.

«La mia decisione conviene a Muad’Dib?» chiese Stilgar. Una lievissima sfumatura di sarcasmo nella sua voce, ma le orecchie dei Fremen, intorno a loro, pronte a cogliere le minime variazioni nel grido di un uccello o nel messaggio pigolato da un cielago, udirono il sarcasmo e fissarono Paul in attesa della sua reazione.

«Quando abbiamo consacrato i Fedaykin, Stilgar ha udito il mio giuramento di fedeltà» disse Paul. «I miei commandos della morte sanno che io ho parlato con onore. Forse Stilgar ne dubita?»

Vi era un sincero dolore nella voce di Paul. Stilgar lo sentì e abbassò gli occhi.

«Io non dubiterò mai di Usul, il compagno del sietch. Ma tu sei Paul Muad’Dib, il Duca Atreides e il Lisan al-Gaib, la Voce da un Altro Mondo. Questi, io non li conosco.»

Paul alzò gli occhi e fissò la Catena di Habbanya, che spiccava sempre più alta sul deserto. Il verme, sotto di loro, era ancora pieno di forza e di volontà. Avrebbe potuto trasportarli a una distanza più che doppia di qualsiasi altro verme. Lui lo sapeva. Niente, neppure nelle favole che si raccontavano ai bambini, poteva essere paragonato a questo Vecchio del deserto. Questo verme, lo capì in quell’istante, avrebbe creato una nuova leggenda.

Una mano gli afferrò la spalla.

Paul la guardò, e seguì il braccio fino al volto che si trovava all’altra estremità, fino agli occhi tenebrosi di Stilgar che lo scrutavano dalla sottile fessura tra la maschera filtro e il cappuccio della tuta distillante.

«Colui che guidò il Sietch Tabr prima di me» disse Stilgar, «era mio amico. Avevamo diviso gli stessi pericoli. Mi doveva la vita, mille volte… e anch’io gli dovevo la mia.»

«Io sono tuo amico, Stilgar» disse Paul.

«Nessuno può dubitarne» replicò Stilgar. Gli tolse la mano dalla spalla, scrollò la testa. «È l’usanza.»

Paul comprese che Stilgar era troppo impregnato dalle usanze dei Fremen, anche soltanto per considerare la possibilità che ce ne fossero altre. Qui un capo doveva morire, prima di abbandonare le redini del potere a un altro. E Stilgar era un naib.

«Dobbiamo lasciare questo creatore nelle alte sabbie» disse Paul.

«Sì.» Stilgar fu d’accordo. «Poi marceremo fino alla grotta.»

«L’abbiamo cavalcato per molto tempo» disse ancora Paul. «Ora sprofonderà nella sabbia e dormirà per un giorno intero.»

«Tu sei il mudir delle sabbie» fece Stilgar. «È tuo…»

S’interruppe e fissò il cielo a est.

Paul si voltò di scatto. L’azzurro della spezia, nei suoi occhi, rendeva il cielo più cupo, sul quale un ritmico lampeggiare lontano formava un violento contrasto.

Un ornitottero!

«È piccolo» disse Stilgar.

«Forse un ricognitore» replicò Paul. «Pensi che ci abbia visto?»

«A questa distanza siamo soltanto un verme sulla superficie» disse Stilgar. Fece un rapido gesto con la sinistra: «Giù. Disperdetevi nella sabbia».

Il Fremen si calarono lungo i fianchi del verme, balzando sulla sabbia e confondendosi con essa sotto i loro mantelli. Paul vide dov’era caduta Chani. Qualche istante più tardi, soltanto lui e Stilgar erano ancora in groppa al verme.

«Primo a salire, ultimo a scendere» dichiarò Paul.

Stilgar annuì. Si lasciò scivolare sul fianco, afferrandosi agli uncini, e saltò sulla sabbia. Paul aspettò che il creatore fosse a una distanza di sicurezza, poi sganciò gli uncini. Questo era un momento delicato, poiché il verme era tutt’altro che esausto.

Libero dai pungoli e dagli ami conficcati nella sua carne, l’immenso verme sprofondò nella sabbia. Paul cominciò a correre con passo leggero sulla sua schiena gigantesca, colse con precisione il momento, saltò e rimbalzò sulla sabbia, continuando a correre, e si precipitò verso il lato liscio di una duna, come gli avevano insegnato, nascondendosi sotto una cascata di sabbia che ricoprì il suo mantello.

Ora, l’attesa…

Paul lentamente si voltò, finché non riuscì a distinguere una sottile striscia di cielo tra i bordi del suo mantello. Immaginò gli altri, più indietro sul sentiero, che facevano lo stesso.

Sentì il battito delle ali dell’ornitottero prima ancora di vederlo. Poi, il sibilo del jet, e il velivolo fu sopra di lui, descrisse un’ampia curva sul deserto e si tuffò tra le rocce.

Un ornitottero senza insegne, notò Paul.

Scomparve alla loro vista, oltre la Catena di Habbanya.

Il grido di un uccello risuonò nel deserto. Poi un altro.

Paul si scrollò di dosso la sabbia e salì fino in cima alla duna. Altre figure comparvero sulla cresta della duna, a varie distanze. Riconobbe Chani e Stilgar.

Stilgar indicò la catena montuosa.

Sì riunirono e si misero in marcia secondo il ritmo spezzato che non avrebbe attirato i vermi della sabbia. Stilgar affiancò Paul sul lato della duna indurito dal vento.

«Un ornitottero dei contrabbandieri» disse Stilgar.

«Così sembrava» replicò Paul. «Ma noi siamo troppo lontani, nel deserto, anche per i contrabbandieri.»

«Anch’essi hanno i loro problemi con le pattuglie.»

«Se arrivano così lontano, nel deserto» disse Paul, «potrebbero andare ancora più lontano.»

«È vero.»

«Sarebbe una brutta cosa, per noi, se i contrabbandieri si avventurassero troppo a sud. Essi fanno commercio anche d’informazioni.»

«Non credi che cercassero la spezia?»

«In questo caso dovrebbero esserci un trattore e un’ala qui vicino» fece Paul. «Noi disponiamo di una certa quantità di spezia. Prepariamo una trappola nella sabbia e catturiamo qualche contrabbandiere. Devono imparare che questa è la nostra terra, e i nostri uomini devono far pratica con le nuove armi.»

«Ecco, Usul ha parlato» esclamò Stilgar. «Usul pensa come un Fremen!»

Ma Usul deve prendere delle decisioni che portano a un terribile scopo, pensò Paul.

La tempesta si addensava. 

Quando la legge e il dovere sono una cosa sola, unita dalla religione, noi perdiamo un po’ della nostra consapevolezza. Non siamo più pienamente coscienti, non siamo più individui completi. da «Muad’Dib: Le novantanove meraviglie dell’universo», della Principessa Irulan

La mietitrice dei contrabbandieri, con la sua ala trasporto e uno sciame di ornitotteri ronzanti, avanzava tra le dune simile a un’ape regina con la sua corte. Comparvero sul suo cammino alcune basse creste rocciose, che s’innalzavano sul deserto come una sorta di miniatura del Muro Scudo. La recente tempesta aveva spazzato via la sabbia dalle rocce.

Nella bolla di comando della mietitrice, Gurney Halleck si piegò in avanti, regolò le lenti a olio del binocolo ed esplorò il paesaggio. Al di là della cresta vide una chiazza scura che avrebbe potuto essere un’esplosione di spezia e diede il segnale all’ornitottero più vicino perché scendesse a investigare.

L’ornitottero ondeggiò sulle ali, a indicare che aveva ricevuto il messaggio. Uscì dallo sciame, puntando verso la sabbia più scura ed esplorò la zona con i suoi misuratori che sondavano la superficie.

Quasi subito ripiegò le ali e si tuffò in picchiata, girando in cerchio, confermando così la presenza della spezia.

Gurney infilò il binocolo nella custodia. Anche gli altri avevano visto il segnale. Gli piaceva quel posto. La cresta rocciosa offriva uno schermo e una protezione. Erano nelle profondità del deserto e un’imboscata era poco probabile. Tuttavia…

Ordinò agli ornitotteri di sorvolare le rocce e di prendere posizione in differenti punti intorno alla zona… non troppo in alto, per sfuggire ai rivelatori Harkonnen a lunga portata.

Non credeva, tuttavia, che le pattuglie degli Harkonnen si fossero spinte così lontano, a sud. No, questo territorio era Fremen.

Gurney controllò le armi, maledicendo il destino che rendeva inutili gli scudi nel deserto. Qualsiasi cosa che potesse richiamare un verme doveva venire evitata ad ogni costo. Si sfregò la cicatrice della liana indelebilis, sulla guancia, studiando il paesaggio. Decise che sarebbe stato più sicuro scendere con un gruppo di uomini a piedi, tra le rocce. L’esplorazione a terra era ancora la più sicura. Non si era mai abbastanza prudenti quando i Fremen e gli Harkonnen si tagliavano la gola a vicenda.

Erano i Fremen, comunque, che preoccupavano Gurney in quel momento. La spezia importava poco, ma i Fremen si rivelavano dei veri demoni se si metteva il piede in un territorio che essi consideravano proibito. E, da qualche tempo, erano diabolicamente astuti.

Gurney trovava insopportabili l’astuzia dei Fremen e la loro bravura in battaglia. Combattevano una guerriglia che non aveva nulla da invidiare alla raffinata abilità di Gurney… e che lui era stato addestrato dai migliori combattenti dell’universo prima di farsi le ossa in battaglie dove soltanto i più forti erano sopravvissuti!

Nuovamente esaminò il deserto, chiedendosi da dove mai proveniva la sua inquietudine crescente. Forse il verme che avevano visto… ma era lontano, sull’altro lato della montagna.

Una testa comparve al suo fianco: quella del comandante del trattore, un vecchio pirata barbuto e guercio, l’occhio azzurro e i denti candidi per la dieta a base di spezia.

«Sembra un ricco appezzamento, Signore» disse il comandante. «Ci andiamo?»

«Calati sull’orlo di quella cresta» ordinò Gurney. «Lasciami sbarcare con i miei uomini. Poi muovi il cingolato fino alla spezia. Io e i miei uomini vi sorveglieremo dalle rocce.»

«Sì.»

«In caso di guai» disse Gurney, «salva la mietitrice. Noi fuggiremo con gli ornitotteri.»

Il comandante salutò. «Benissimo, Signore.» E sparì nella botola.

Ancora una volta Gurney scrutò l’orizzonte. Potevano esserci dei Fremen laggiù. La mietitrice stava violando il loro territorio. E i Fremen lo preoccupavano, imprevedibili e duri. C’erano molte cose in questo lavoro che lo preoccupavano, ma la ricompensa sarebbe stata grande. L’irritava anche il fatto che era impossibile inviare i ricognitori più in alto. E la radio doveva mantenere un silenzio assoluto. Tutto questo, aumentava la sua inquietudine.

Il trattore girò e cominciò a scendere. Scivolò dolcemente sull’arida spiaggia ai piedi della roccia. I cingoli toccarono la sabbia.

Gurney aprì la bolla e si liberò della cintura di sicurezza. Nel preciso istante in cui la mietitrice si arrestava, balzò fuori, chiudendosi con un tonfo la bolla alle spalle. Si lasciò scivolare sui cingoli, aiutandosi con le mani e coi piedi, e con un salto scavalcò la rete di emergenza. I cinque uomini della scorta lo seguirono, uscendo dal boccaporto di prua. Altri sganciarono l’ala del trattore; l’ala si alzò in volo acquistando quota e mettendosi a girare sopra la mietitrice.

Subito il colossale cingolato scattò in avanti, allontanandosi dalla cresta rocciosa e dirigendosi al largo, verso la macchia scura della spezia.

Un ornitottero si calò in picchiata e toccò terra nelle vicinanze. Un altro lo seguì, e poi un terzo, con brusche frenate. Vomitarono all’esterno i plotoni di Gurney, poi spiccarono nuovamente il volo.

Gurney, nella tuta distillante, tese le braccia e provò i riflessi dei muscoli. Si tolse dal viso la maschera e il filtro, perdendo umidità per far fronte a una necessità più immediata: gli ordini che avrebbe urlato. Cominciò a scalare la roccia, controllando la consistenza del terreno: ciottoli e sabbia pisolitica. Odore di spezia.

Un posto ideale per una base di emergenza, pensò. Sarebbe forse assai utile sotterrare un po’ di scorte qui intorno.

Si voltò verso gli uomini che lo seguivano tra le rocce in formazione sparsa. Era gente in gamba, anche i nuovi che non aveva avuto il tempo di mettere alla prova. Uomini di valore: non c’era bisogno di ripetere continuamente quello che dovevano fare. Nessun vigliacco tra loro, nessuno scintillio di scudi che avrebbe attirato un verme, rovinando il raccolto della spezia.

Dal punto in cui si trovava, in alto fra le rocce, Gurney vedeva chiaramente la macchia scura della spezia, a mezzo chilometro di distanza, e il trattore che la stava raggiungendo proprio in quell’istante. Guardò in alto, verso la protezione aerea, valutandone la quota… non troppo elevata. Scosse la testa, e riprese la sua scalata.

In quell’istante, l’intera cresta rocciosa sembrò esplodere.

Dodici lampi accecanti schizzarono rombando verso l’alto, in direzione degli ornitotteri e dell’ala. Contemporaneamente un fracasso metallico si udì in direzione del trattore e le rocce intorno a Gurney cominciarono a eruttare Fremen incappucciati.

Un pensiero folgorò la mente di Gurney: Per le corna della Grande Madre! Razzi! Lanciano razzi! Poi si trovò faccia a faccia con una figura incappucciata, raggomitolata su se stessa, il cryss in pugno, pronta a scattare. Altri due uomini balzarono fuori dalle rocce a destra e a sinistra. Soltanto gli occhi del guerriero davanti a lui erano visibili, tra il cappuccio e il velo del burnus color sabbia, ma la tensione che percepì nell’uomo l’avvertì che era un combattente assai abile e dotato di ogni astuzia. Gli occhi erano azzurri nell’azzurro, il colore dei Fremen dell’alto deserto.

Gurney mosse una mano verso il coltello, tenendo gli occhi fissi sul cryss dell’altro. Se osavano lanciare razzi, questo voleva dire che disponevano di altre armi a proiettile. Il momento richiedeva un’estrema prudenza. Sapeva, a giudicare dal fracasso, che almeno un paio dei suoi velivoli erano stati abbattuti. Alle sue spalle si udivano grugniti, imprecazioni, un rumore di lotta.

Il Fremen aveva seguito il movimento della sua mano.

«Lascia il coltello nel fodero, Gurney Halleck» disse l’uomo.

Gurney esitò. La voce aveva un suono stranamente familiare anche attraverso il filtro della tuta.

«Conosci il mio nome?» esclamò.

«Non ti serve il coltello con me, Gurney» fece l’uomo. Si raddrizzò, infilò il cryss nel fodero, sotto il mantello. «Di’ ai tuoi uomini di cessare la loro inutile resistenza.»

L’uomo gettò indietro il cappuccio e scostò il filtro.

Gurney s’impietrì. Per un attimo credette di trovarsi di fronte al fantasma del Duca Leto Atreides. Poi, lentamente, comprese.

«Paul» bisbigliò. Poi, più forte: «Paul, sei veramente tu?»

«Non credi ai tuoi occhi?» domandò Paul.

«Dicevano che eri morto» balbettò Gurney con voce rauca. Fece un mezzo passo avanti.

«Dì ai tuoi uomini di arrendersi» ripeté Paul, indicando la base della cresta rocciosa. Riluttante, Gurney si voltò. Vide soltanto qualche mischia isolata. Gli uomini del deserto sembravano essere dovunque. Il trattore era immobile e silenzioso; un gruppo di Fremen era in piedi sopra di esso. Non si udiva più il rumore dei velivoli sopra le loro teste.

«Cessate il combattimento!» urlò Gurney. Respirò profondamente, mise le mani a imbuto intorno alla bocca: «Qui Gurney Halleck! Cessate di combattere!»

Lentamente le figure aggrovigliate nella lotta si separarono. Numerosi occhi perplessi si alzarono verso di lui.

«Questi sono amici!» gridò ancora.

«Amici?» gli rispose una voce. «Metà dei nostri uomini sono stati assassinati!»

«È stato un errore» disse Gurney. «Non peggioratelo.»

Si voltò nuovamente verso Paul e fissò gli occhi del giovane, azzurri sull’azzurro.

Un sorriso sfiorò il volto di Paul, ma c’era una durezza nella sua espressione che ricordò a Gurney il Vecchio Duca, il nonno. Poi vide il corpo nervoso e asciutto di Paul, la pelle coriacea, gli occhi sfuggenti, vigili, che non erano mai stati degli Atreides.

«Dicevano che eri morto» ripeté ancora.

«Mi è sembrato la miglior protezione lasciarlo credere» disse Paul.

Gurney si rese conto che quella sarebbe stata l’unica giustificazione che Paul gli avrebbe fornito, dopo averlo abbandonato alla sua sorte, facendogli credere che il Giovane Duca… che il suo amico fosse morto. Si chiese allora se fosse rimasto qualcosa del ragazzo che lui aveva conosciuto e addestrato nell’arte del combattimento.

Paul fece un passo verso Gurney e sentì gli occhi che gli prudevano.

«Gurney…»

E furono l’uno nelle braccia dell’altro, battendosi reciprocamente le mani sulle spalle, provando il contatto confortante dei propri muscoli.

«Dannato ragazzo! Dannato ragazzo!» continuava a balbettare Gurney.

E Paul: «Gurney, vecchio Gurney!»

Poi si separarono, si squadrarono. Gurney respirò profondamente. «Così tu sei la causa della nuova abilità dei Fremen in battaglia! Avrei dovuto immaginarlo. Fanno cose che soltanto io potrei fare. Se soltanto avessi capito…» Scosse la testa. «Se tu avessi mandato un messaggio, ragazzo… Niente mi avrebbe fermato! Sarei venuto di corsa, e…»

Un’occhiata di Paul lo fermò, uno sguardo duro, calcolatore.

Gurney sospirò. «Sicuro. Qualcuno si sarebbe chiesto perché Gurney Halleck se n’era andato così in fretta. E alcuni avrebbero fatto qualcosa di più che porsi semplici domande. Avrebbero dato la caccia alle risposte.»

Paul annuì e guardò i Fremen in attesa. Vi erano apprezzamento e curiosità negli occhi dei Fedaykin.

Fissò nuovamente Gurney. L’aver ritrovato il suo vecchio maestro d’armi lo riempiva di gioia. Era come un felice presagio, l’annuncio di un avvenire propizio.

Con Gurney al suo fianco…

Paul guardò oltre i Fedaykin e le rocce, studiò l’equipaggiamento dei contrabbandieri.

«Da che parte stanno i tuoi uomini, Gurney?»

«Sono dei contrabbandieri. Vanno dove il profitto li chiama.»

«La nostra impresa garantisce ben pochi profitti» disse Paul, e colse l’impercettibile gesto che Gurney gli aveva fatto con la mano destra. Nel vecchio codice manuale che un tempo usavano tra loro, questo significava che tra i contrabbandieri c’erano alcuni uomini da cui bisognava guardarsi.

Portò la mano alla bocca per indicare che aveva capito e alzò lo sguardo verso i Fremen che erano rimasti di guardia tra le rocce. Vide Stilgar. Il ricordo del suo problema ancora in sospeso raffreddò in parte la sua gioia.

«Stilgar» disse Paul. «Questo è Gurney Halleck. Ti ho parlato tante volte di lui. Il maestro d’armi di mio padre. È lui che mi ha insegnato a combattere. È un vecchio amico. Ci si può fidare di lui per qualsiasi impresa.»

«Capisco» fece Stilgar. «Tu sei il suo Duca.»

Paul fissò il volto cupo, e si chiese per quale ragione Stilgar avesse detto proprio questo. Il suo Duca. C’era stata una lieve, curiosa inflessione nella sua voce, come se volesse dire un’altra cosa. E questo non era da lui, perché Stilgar era un capo Fremen, e diceva sempre quello che pensava.

Il mio Duca! pensò Gurney. Guardò Paul come se lo vedesse per la prima volta. Sì, Leto è morto e Paul è il Duca.

Nella sua mente, lo schema della guerra dei Fremen su Arrakis acquistò una nuova forma. Il mio Duca! Qualcosa di morto, nelle profondità della sua coscienza, riprese a vivere, a pulsare. A stento udì la voce di Paul, il quale ordinò che i contrabbandieri fossero disarmati in attesa d’interrogarli.

Ritornò bruscamente alla realtà quando sentì i suoi uomini protestare. Scosse la testa e si voltò. «Siete sordi?» gridò. «Questo è il Duca legittimo di Arrakis. Fate come vi ha ordinato!»

Borbottando, i contrabbandieri si rassegnarono.

Paul si avvicinò a Gurney e mormorò: «Non mi sarei mai aspettato che tu cadessi in questa trappola, Gurney».

«Sono stato giustamente punito. Scommetto che quella macchia laggiù, la spezia, non è più profonda di un granello di sabbia. Un’esca per attirarci.

«Hai vinto la scommessa» replicò Paul. Guardò i contrabbandieri che consegnavano le armi. «Vi sono altri uomini di mio padre nel tuo equipaggio?»

«Nessuno. Siamo troppo dispersi. Qualcuno è tra i liberi commercianti, ma la maggior parte ha speso tutti i suoi beni per andarsene da questo pianeta.»

«Ma tu sei rimasto.»

«Io sono rimasto.»

«Perché Rabban è qui.»

«Pensavo che non mi restasse nient’altro fuorché la vendetta» disse Gurney.

Un urlo, curiosamente troncato, risuonò in cima alla cresta rocciosa. Gurney alzò gli occhi e vide un Fremen che agitava un fazzoletto.

«Arriva un creatore» disse Paul. Seguito da Gurney, salì su uno sperone roccioso e guardò verso sudovest. L’onda di sabbia spostata dal verme era visibile a metà strada tra le rocce e l’orizzonte, una traccia coronata di polvere che tagliava direttamente il deserto verso di loro.

«È molto grosso» disse Paul.

Uno strepito si alzò dalla mietitrice alle loro spalle. L’enorme macchina si stava girando sui cingoli come un gigantesco insetto, muovendosi pesantemente verso le rocce.

«Peccato che non sia stato possibile salvare l’ala!» disse ancora Paul.

Gurney lo fissò, e guardò nuovamente il mucchio di rottami fumanti, nel deserto, dove l’ala e gli ornitotteri si erano schiantati, colpiti dai razzi dei Fremen. Provò un improvviso dolore per gli uomini morti laggiù… i suoi uomini, e disse: «Tuo padre si sarebbe rammaricato soprattutto per gli uomini che non era riuscito a salvare».

Paul lo fissò duramente, poi abbassò lo sguardo. Replicò, infine: «Erano tuoi amici, Gurney. Ti capisco. Per noi, tuttavia, erano degli intrusi. Potevano vedere cose proibite».

«Capisco fin troppo bene» disse Gurney. «Ora sono proprio curioso di vederle queste cose proibite.»

Paul alzò gli occhi e riconobbe quel sogghigno da vecchio lupo che conosceva così bene, e l’increspatura della liana indelebilis sulla mascella di Halleck.

Gurney accennò col capo al deserto sotto di loro. I Fremen continuavano ad affaccendarsi e nessuno sembrava preoccuparsi per l’avvicinarsi del verme.

Un rullio risuonò tra le dune, al di là della trappola di spezia; un sordo pulsare che Gurney sentì risalire dalla base della roccia, attraverso i piedi. I Fremen si dispersero sulla sabbia, lungo il segno del verme.

E il verme era ormai vicino, come un gigantesco pesce delle sabbie, aprendo la superficie del deserto con la sua cresta; i suoi anelli lucidi e ondeggianti tracciavano un solco tra una nube di polvere.

Dalla sua posizione privilegiata Gurney poté assistere alla cattura: il balzo ardito del primo uncinatore, la brusca rotazione della creatura, e poi tutti gli uomini che si lanciavano all’assalto della mobile collina scagliosa.

«Ecco una cosa che non avresti dovuto vedere» dichiarò Paul.

«Circolano molte voci» disse Gurney. «Ma è impossibile crederlo senza averlo visto.» Scosse la testa. «La creatura che tutti temono, su Arrakis, voi la usate come un animale da sella!

«Hai sentito mio padre parlare del potere del deserto» replicò Paul. «Eccolo. La superficie del pianeta è nostra. Non esistono tempeste, o animali, che possano fermarci.»

Fermarci, pensò Gurney. Vuol dire i Fremen. Si considera uno di loro. Considerò ancora gli occhi azzurri di Paul. Sapeva che anche i suoi occhi avevano una sfumatura di questo colore, ma i contrabbandieri potevano ottenere alimenti da altri pianeti, e c’era una sottile implicazione di casta, fra loro, in base all’intensità dell’azzurro. Quando un uomo diventava troppo simile agli indigeni, si diceva che aveva preso «un colpo di spezia». C’era sempre un certo disprezzo in questa espressione.

«Un tempo non avremmo mai cavalcato un creatore alla luce del giorno e a queste latitudini» disse Paul. «Ma Rabban non dispone più di un numero sufficiente di ornitotteri per sorvegliare anche la più piccola distesa di sabbia.» Fissò Gurney: «I tuoi velivoli ci hanno colto di sorpresa».

Ci hanno colto… Ci hanno…

Gurney scosse la testa, per scacciare quei pensieri: «Non si può certo paragonare alla nostra sorpresa».

«Che cosa si dice di Rabban nei villaggi?» chiese Paul.

«Dicono che hanno fortificato i villaggi del graben a un punto tale che voi non riuscirete più a far nulla contro di loro. Sono convinti che vi dissanguerete in inutili attacchi, mentre loro se ne staranno tranquilli, dietro le linee di difesa.

«In altre parole» disse Paul, «sono immobilizzati.»

«Mentre voi potete andare dove volete» replicò Gurney.

«È una tattica che ho imparato da te» fece Paul. «Hanno perduto l’iniziativa, e questo vuoi dire che hanno perduto la guerra.»

Gurney ebbe un sorriso di complicità.

«Il nemico si trova esattamente dove io desidero che sia» concluse Paul. Fissò Gurney: «Ebbene, Gurney, vuoi arruolarti con me per la fine di questa guerra?»

«Arruolarmi?» Gurney lo fissò. «Mio Signore, non ho mai lasciato il tuo servizio. Sei tutto quello che mi resta… E pensare che io ti credevo morto! Ero solo, e sono sopravvissuto come potevo, in attesa d’immolare la mia vita per l’unica causa valida… la morte di Rabban!»

Paul tacque, imbarazzato.

Un profilo femminile scivolò tra le rocce, sopra di loro. I suoi occhi, dietro la maschera, guizzavano da Paul al suo compagno. Si fermò davanti a Paul. Gurney notò il suo atteggiamento possessivo, il modo in cui lo fronteggiava.

«Chani» disse Paul, «questo è Gurney Halleck. Mi hai sentito parlare di lui.»

«Sì, ho sentito parlare di lui» replicò Chani. Lanciò una rapida occhiata a Halleck, poi fissò nuovamente Paul.

«Dove sono andati gli uomini sul creatore?»

«L’hanno cavalcato solo per distrarlo e darci il tempo di salvare le macchine.»

«Bene, allora…» Paul s’interruppe e annusò l’aria.

«Il vento si avvicina» disse Chani.

Una voce li chiamò dalla cresta rocciosa che incombeva su di loro: «Ehi, laggiù!… Il vento!»

Gurney vide che i Fremen si muovevano più in fretta. I loro gesti erano frenetici, adesso. L’avvicinarsi del vento creava in essi il timore che neppure il verme aveva suscitato. La mietitrice risalì pesantemente l’arido pendio sabbioso, aprendosi una strada tra le rocce… e i macigni furono rimessi a posto dietro la macchina con tanta precisione che i suoi occhi non scorsero più traccia del passaggio.

«Ne avete molti di nascondigli di questo tipo?» domandò.

«Molti… Moltissimi, anzi.» Paul guardò Chani: «Trovami Korba. Digli che Gurney mi ha avvertito che ci sono uomini, fra questi contrabbandieri, di cui non ci si può fidare».

Chani fissò ancora Gurney, poi Paul, annuì e si allontanò tra le rocce, agile come una gazzella.

«È la tua donna?» chiese Gurney.

«La madre del mio primogenito» disse Paul. «C’è un altro Leto fra gli Atreides.»

Gurney accettò la notizia limitandosi a stralunare gli occhi.

Paul osservò con occhio critico l’attività dei suoi uomini. Il cielo, verso sud, aveva acquistato una tinta ocra e le prime raffiche di vento li investirono in un turbinio di polvere.

«Stringi bene la tuta» disse Paul, e si aggiustò la maschera e il cappuccio. Gurney obbedì. Paul riprese, e la sua voce risuonò soffocata dai filtri: «Quali sono gli uomini di cui non ti fidi, Gurney?»

«Vi sono alcune nuove reclute» spiegò Gurney. «Alcuni stranieri…» Esitò, stupito che questo termine gli fosse venuto così facilmente: Stranieri…

«Sì?»

«Non assomigliano ai cacciatori di fortuna che si uniscono a noi» disse Gurney. «Sono diversi, più duri.»

«Spie degli Harkonnen?» chiese Paul.

«Credo, mio Signore, che non abbiano niente a che vedere con gli Harkonnen. Io sospetto che siano al servizio dell’Imperatore. Salusa Secundus ha lasciato la sua impronta su di loro.»

Paul gli lanciò un’occhiata tagliente: «Sardaukar?»

Gurney scrollò le spalle: «È possìbile, ma lo nasconderebbero assai bene, in questo caso».

Paul annuì. Gurney aveva riacquistato subito le sue abitudini di leale difensore degli Atreides, ma con qualche sottile differenza… Arrakis aveva cambiato anche lui.

Due Fremen incappucciati emersero da una spaccatura della roccia e si arrampicarono verso di loro. Uno dei due trasportava un grosso fagotto nero sopra la spalla.

«Dove sono i miei uomini, adesso?» s’informò Gurney.

«Al sicuro fra le rocce, sotto di noi» disse Paul. «Abbiamo una caverna, quaggiù, la Caverna degli Uccelli. Decideremo il loro destino dopo la tempesta.»

«Muad’Dib!» chiamò una voce.

Paul si voltò al grido e vide una sentinella al rimboccatura della grotta. Fece un gesto in risposta.

Gurney lo fissò, stupito. «Sei Muad’Dib?» domandò. «Il turbine delle sabbie?»

«È il mio nome Fremen» spiegò Paul.

Gurney evitò il suo sguardo, colto da un cupo presentimento. Metà dei suoi uomini giacevano morti sulla sabbia, l’altra metà era prigioniera. Non gl’importava delle nuove reclute, ma fra gli altri c’era brava gente: amici, uomini nei cui confronti sentiva una certa responsabilità. «Decideremo il loro destino dopo la tempesta», questo aveva detto Paul. Anzi, Muad’Dib. E Gurney ricordò le storie che si raccontavano di Muad’Dib, il Lisan al-Gaib… come avesse spellato un ufficiale degli Harkonnen per farne pelle di tamburo, e come amasse circondarsi dei commandos della morte, i Fedaykin, che si precipitavano nella lotta alzando inni alla morte.

Lui.

I due Fremen che risalivano la roccia balzarono in silenzio su uno spuntone davanti a Paul e s’immobilizzarono. Quello dal volto scuro disse: «Tutto a posto, Muad’Dib. Meglio andar sotto, adesso».

«D’accordo.»

Gurney valutò la voce dell’uomo, comando e preghiera insieme. Era Stilgar: un’altra figura leggendaria tra i Fremen.

Paul fissò il fagotto nero sulla spalla dell’altro: «Korba, che cosa c’è là dentro?»

Stilgar rispose: «Era nel trattore. Ha le iniziali del tuo amico qui presente, e contiene un baliset. Ti ho sentito parlare tante volte della bravura di Gurney Halleck al baliset…»

Gurney lo studiò, vide la barba nera che spuntava dal bordo della maschera, gli occhi di falco, il naso aguzzo.

«Hai un compagno che pensa, mio Signore» disse Gurney. «Grazie, Stilgar.»

Stilgar accennò al Fremen chiamato Korba di passare il fagotto a Gurney e replicò: «Ringrazia il tuo Signore, il Duca. Il suo favore ti ha guadagnato l’ammissione fra noi».

Gurney accettò il fagotto, perplesso a causa della durezza che aveva percepito nelle parole di Stilgar. L’uomo aveva parlato in tono di sfida, e Gurney si chiese se il Fremen, per caso, non provasse gelosia. Lui era Gurney Halleck, un uomo che conosceva Paul da lungo tempo, ancora prima di Arrakis: un uomo che aveva condiviso con Paul un antico cameratismo da cui Stilgar sarebbe stato sempre escluso.

«Voglio che voi due siate amici» disse Paul.

«Stilgar il Fremen è un nome famoso» dichiarò Gurney. «Io sarò onorato di contare tra i miei amici chiunque abbia ucciso degli Harkonnen.»

«Stringerai la mano al mio amico Gurney Halleck, Stilgar?» chiese Paul.

Lentamente Stilgar porse la mano e strinse quella che Gurney gli offriva, una mano che la spada, anno dopo anno, aveva reso callosa. «Pochi ignorano il nome di Gurney Halleck» disse a sua volta. Lasciò la presa e si voltò verso Paul: «La tempesta si precipita su di noi».

«Andiamo» disse Paul.

Stilgar si voltò, guidandoli attraverso le rocce, lungo un sentiero serpeggiante che li portò, dentro una spaccatura stretta e tenebrosa, fino al basso ingresso di una caverna. Un gruppo di uomini si affrettò a sigillarla non appena furono passati. Alcuni globi luminosi rivelarono un’ampia sala scavata nella roccia, con un soffitto a cupola e una sporgenza lunga e piatta che si alzava su un lato e dava accesso a un corridoio.

Paul balzò sulla sporgenza, seguito da Gurney, e gli fece strada lungo il corridoio. Gli altri si diressero verso un altro passaggio che si apriva di fronte all’entrata. Paul condusse Halleck attraverso un’anticamera, e di qui a una stanza rivestita di tende rosso vino.

«Qui resteremo soli per un po’» disse Paul. «Gli altri rispetteranno la mia…»

L’allarme, suonato su un gong, esplose con enorme fracasso nella grotta d’entrata, seguito da urla e da un clangore d’armi. Paul si girò di scatto, precipitandosi attraverso l’anticamera e la sporgenza rocciosa. Gurney venne dietro a lui, la spada sguainata.

Sotto di loro, una mischia tumultuante di figure in lotta nascondeva il pavimento della caverna. Paul valutò in un attimo la scena, distinguendo i mantelli e i bourkas dai costumi degli altri. I sensi, che la madre gli aveva affinato con gli anni, gl’indicarono un fatto significativo: i Fremen si battevano contro un gruppo di uomini vestiti da contrabbandieri, ma raggruppati a tre per tre, disposti a triangolo sotto la pressione degli avversari.

L’abitudine di combattere a corpo a corpo era il marchio dei Sardaukar Imperiali. All’improvviso, un Fedaykin nel tumulto vide Paul e il suo grido di battaglia s’innalzò, riecheggiando nella caverna: «Muad’Dib! Muad’Dib! Muad’Dib!»

Ma anche altri occhi avevano visto Paul. Un coltello nero fu scagliato contro di lui. Paul lo schivò, udì la lama colpire la roccia alle sue spalle, si voltò e vide Gurney che lo raccoglieva.

I triangoli degli assalitori venivano respinti, adesso.

Gurney alzò il coltello davanti agli occhi di Paul e indicò la spirale gialla, sottile come un capello, e il leone dalla criniera dorata e gli occhi sfaccettati sull’impugnatura: i simboli dell’Impero.

Sardaukar, senza alcun dubbio.

Paul avanzò sulla sporgenza: soltanto tre Sardaukar erano ancora vivi. Corpi sanguinanti erano sparsi per tutta la caverna.

«Fermatevi!» urlò. «Il Duca Paul Atreides vi ordina di fermarvi!»

I combattenti ondeggiarono, esitarono.

«Voi, Sardaukar!» urlò Paul ai tre che restavano. «Per ordine di chi minacciate la vita di un Duca regnante?» E rapidamente, mentre i suoi uomini continuavano ad assalirli: «Fermi, ho detto!»

Uno dei tre, messo alle strette, si raddrizzò: «Chi dice che siamo Sardaukar?»

Paul prese il coltello a Gurney e lo sollevò: «Questo lo dice».

«E allora, chi dice che tu sia un Duca regnante?» domandò l’uomo.

Paul fece un gesto verso i Fedaykin: «Questi uomini dicono che io sono il Duca regnante. Il vostro Imperatore in persona ha assegnato Arrakis alla Casa degli Atreides. Io sono la Casa degli Atreides».

Il Sardaukar rimase in silenzio, agitandosi nervosamente.

Paul studiò l’uomo: alto, slavato, una pallida cicatrice che gli attraversava una guancia. Il suo atteggiamento tradiva rabbia e confusione, ma c’era ancora quell’orgoglio, in lui, senza il quale un Sardaukar sarebbe parso nudo… e con il quale sembrava sempre in uniforme.

Paul lanciò un’occhiata a uno dei suoi luogotenenti Fedaykin: «Korba, come mai sono armati?»

«Avevano coltelli in tasche astutamente dissimulate nelle tute distillanti» disse Korba.

Paul esaminò i morti e i feriti sparsi nella caverna, poi fissò nuovamente Korba. Non c’era bisogno di parole: il luogotenente abbassò gli occhi.

«Dov’è Chani?» Paul trattenne il respiro.

«Stilgar l’ha trascinata via.» Korba indicò con la testa l’altro corridoio, guardò i morti e i feriti. «Mi considero responsabile per questo errore, Muad’Dib.»

«Quanti Sardaukar c’erano, Gurney?» chiese Paul.

«Dieci.»

Paul saltò giù dalla sporgenza e attraversò la caverna, portandosi a un metro di distanza dal Sardaukar che aveva parlato.

Sentì i Fedaykin che si tendevano. Non avrebbero voluto che Paul si esponesse in tal modo al pericolo. Essi desideravano impedire a tutti i costi che ciò avvenisse, perché nessun Fremen voleva perdere la saggezza di Muad’Dib.

Senza voltarsi, Paul chiese al luogotenente: «A quanto ammontano le nostre perdite?»

«Quattro feriti e due morti, Muad’Dib.»

Paul colse un movimento dietro al Sardaukar: Chani e Stilgar uscirono dall’altro corridoio, uno accanto all’altra. Paul riportò la sua attenzione al Sardaukar, fissando il bianco di quegli occhi di un altro mondo. «Tu, qual è il tuo nome?» gli chiese.

L’uomo s’irrigidì, lanciando occhiate a destra e a sinistra.

«Non provarci» lo consigliò Paul. «È evidente che vi hanno ordinato di cercare e di distruggere Muad’Dib. E sono certo che siete stati voi a suggerire che si cercasse la spezia nell’alto deserto.»

Un’esclamazione soffocata di Gurney, alle sue spalle, suscitò un lieve sorriso sulle labbra di Paul.

Il sangue affluì al volto del Sardaukar.

«Ciò che tu vedi davanti a te è più di Muad’Dib» disse Paul. «Sette dei vostri sono morti, e solo due dei nostri. Tre a uno. Niente male contro dei Sardaukar, non è vero?»

L’uomo si alzò sulla punta dei piedi e ricadde non appena i Fedaykin accennarono ad avanzare.

«Ti ho chiesto il nome» disse Paul. E si servì della Voce: «Dimmi il tuo nome!»

«Capitano Aramsham dei Sardaukar Imperiali!» esclamò l’uomo. La sua mascella ricadde. Fissò Paul, sconvolto, distrutto. Fino a quel momento aveva considerato quella caverna una tana di barbari. Ora, però, non la pensava più così.

«Bene, Capitano Aramsham» continuò Paul, «gli Harkonnen pagherebbero cifre favolose per sapere quello che voi adesso sapete. E l’Imperatore… che cosa darebbe l’Imperatore per sapere che un Atreides è ancora vivo, nonostante il suo tradimento?»

Il capitano guardò a destra e a sinistra, verso i due uomini che gli rimanevano. Paul poté quasi toccare i pensieri che turbinavano nella mente dell’uomo. I Sardaukar non si arrendevano mai, ma l’Imperatore doveva sapere di questa minaccia.

Sempre usando la Voce, Paul disse: «Arrendetevi, Capitano!»

L’uomo a sinistra di Aramsham balzò all’improvviso verso Paul, ma si scontrò col pugnale del capitano che guizzò nel suo petto. L’assalitore stramazzò al suolo, sanguinante, la lama piantata nel cuore.

Il capitano fronteggiò l’ultimo compagno che gli era rimasto. «Tocca a me decidere quello che è meglio per Sua Maestà!» gridò. «Capito?»

L’altro Sardaukar si afflosciò.

«Butta a terra il coltello» ordinò il capitano.

Il Sardaukar obbedì.

Il capitano si voltò nuovamente verso Paul: «Per voi ho ucciso un amico» disse. «Non lo dimenticherò mai.»

«Siete mio prigioniero» replicò Paul. «Vi siete arreso a me. Che voi viviate o moriate non ha alcuna importanza.» Fece un gesto alle guardie perché prendessero i due Sardaukar, e si voltò verso Korba.

«Muad’Dib» disse Korba. «Ho mancato al mio compito…»

«L’errore è stato mio, Korba» l’interruppe Paul. «Avrei dovuto avvertirti. In futuro, quando perquisisci un Sardaukar, ricordati di questo. E ricordati anche che ciascuno di loro ha una o due unghie false dei piedi, che possono essere combinate con altri oggetti nascosti nel loro corpo per montare una radiotrasmittente. Hanno uno o più denti falsi e rotoli di filo shiga nascosti tra i capelli, così sottili da essere quasi invisibili, e tuttavia abbastanza robusti da strangolare un uomo e perfino tagliargli la testa. È necessario esaminare i Sardaukar centimetro per centimetro, sondarli coi raggi X, tagliar loro ogni ciuffo di peli del corpo. E quando avrai finito, stai pur certo che non avrai ancora scoperto tutto.»

Alzò gli occhi su Gurney che si era avvicinato ad ascoltare.

«Allora è molto meglio ucciderli» disse Korba.

Paul scosse la testa, sempre fissando Gurney. «No, voglio che riescano a fuggire.»

«Signore!» Gurney quasi soffocò.

«Sì?»

«Il tuo uomo ha ragione. Bisogna ucciderli immediatamente. Distruggi tutte le prove della loro presenza, qui. Hai umiliato i Sardaukar Imperiali! Quando l’Imperatore lo saprà non avrà più pace finché non ti avrà messo a cuocere a fuoco lento.»

«È assai difficile che l’Imperatore ci riesca» disse Paul, lentamente, freddamente. Qualcosa era accaduto dentro di lui, mentre fronteggiava il Sardaukar. Una somma di decisioni si era formata. «Gurney» riprese, «ci sono molti uomini della Gilda intorno a Rabban?»

Gurney si raddrizzò, socchiuse gli occhi. «La tua domanda non ha alcun…»

«Quanti?» urlò Paul.

«Arrakis brulica di agenti della Gilda. Comperano la spezia come se fosse la cosa più preziosa dell’universo. Perché mai ci saremmo avventurati così lontano nel deserto, se non…»

«La spezia è davvero la cosa più preziosa dell’universo» disse Paul. «Per loro.» Si voltò verso Chani e Stilgar che si avvicinavano. «E siamo noi che la controlliamo, Gurney.»

«No. Gli Harkonnen!» protestò Gurney.

«Chi può distruggere una cosa, la controlla» replicò Paul. Con un gesto imperioso impedì a Gurney di replicare, poi salutò Stilgar e Chani con un cenno del capo.

Prese il coltello del Sardaukar con la sinistra e lo porse a Stilgar.

«Tu vivi per il bene della tribù» disse. «Spargeresti il mio sangue con questo coltello?»

«Per il bene della tribù» grugnì Stilgar.

«Allora, usa questo coltello!»

«Mi stai sfidando?» domandò Stilgar.

«Se ti sfidassi» dichiarò Paul, «lo farei senz’armi e mi lascerei colpire.»

Stilgar respirò affannosamente.

«Usul!» esclamò Chani. Fissò Gurney e poi ancora Paul.

Mentre Stilgar rifletteva sul significato di queste parole, Paul proseguì: «Tu sei Stilgar, l’uomo delle battaglie. Quando i Sardaukar hanno scatenato il massacro, qui, tu non c’eri. Il tuo primo pensiero è stato quello di proteggere Chani».

«È mia nipote» disse Stilgar. «Se i tuoi Fedaykin non fossero riusciti a distruggere quelle canaglie…»

«Perché il tuo primo pensiero è stato per Chani?» chiese Paul.

«Non ho pensato a Chani!»

«Oh?»

«Ho pensato a te» confessò Stilgar.

«E allora sei ancora convinto che riusciresti ad alzare la tua mano contro di me?»

Stilgar cominciò a tremare, e mormorò: «È l’usanza».

«È anche l’usanza uccidere gli stranieri di un altro mondo incontrati nel deserto e impadronirsi della loro acqua come un dono di Shai-hulud. Tuttavia, tu hai salvato la vita di due stranieri, una notte. Mia madre e me.»

Poiché Stilgar continuava a tacere, tremando, gli occhi puntati su di lui, Paul continuò: «Le usanze cambiano, Stilgar. Le hai cambiate tu stesso».

Stilgar abbassò gli occhi sull’emblema giallo del pugnale che stringeva in mano.

«Quando io sarò Duca in Arrakeen, con Chani al mio fianco, credi che avrò il tempo di occuparmi del Sietch Tabr?» insistette Paul. «Di tutti i problemi particolari di ogni famiglia?»

Stilgar continuò a fissare la lama.

«Credi davvero che io voglia tagliarmi il braccio destro?» domandò Paul.

Lentamente, Stilgar alzò gli occhi e lo guardò.

«Credi davvero» proseguì Paul, «che io voglia privare la tribù e me stesso della tua forza e della tua saggezza?»

A bassa voce Stilgar replicò: «Questo giovane della mia tribù, di cui conosco il nome, io potrei ucciderlo, rispondendo alla sua sfida, secondo la volontà di Shai-hulud. Ma il Lisan al-Gaib non potrei toccarlo. Tu lo sapevi, quando mi hai dato il coltello».

«Lo sapevo» confermò Paul.

Stilgar aprì la mano. Il coltello rimbalzò al suolo con un suono metallico.

«Le usanze cambiano» disse.

«Chani» ordinò Paul, «vai da mia madre. Dille che ci raggiunga, subito, prima che…»

«Ma avevi detto che saremmo andati a sud!» protestò Chani.

«Mi sono sbagliato. Gli Harkonnen non sono laggiù. La guerra non è laggiù.»

Chani respirò profondamente e accettò tutto questo come le donne del deserto accettavano gli obblighi di quella vita così intimamente legata alla morte.

«Porterai a mia madre un messaggio che soltanto le sue orecchie dovranno udire» disse Paul. «Dille che Stilgar mi riconosce come Duca di Arrakis e che bisogna fare in modo che i giovani lo accettino senza combattere.»

Chani guardò Stilgar.

«Fai come ti ha detto» borbottò Stilgar. «Sappiamo entrambi che potrebbe vincermi… e che io non potrei alzare una mano su di lui… per il bene della tribù.»

«Ritornerò con tua madre» disse Chani.

«Manda lei sola» replicò Paul. «Stilgar ha visto giusto. Io sono più forte quando tu sei al sicuro. Tu rimarrai nel sietch.»

Lei fece per protestare, poi tacque.

«Sihaya» aggiunse Paul, pronunciando il suo nome segreto. Poi distolse lo sguardo da lei e incontrò gli occhi fiammeggianti di Gurney.

Dall’istante in cui Paul aveva nominato sua madre, tutto, per Gurney, era sprofondato in una coltre di nebbia.

«Tua madre» disse Gurney.

«Idaho ci ha salvati la notte del tradimento» spiegò Paul, con la mente ancora rivolta a Chani. «Ora noi…»

«Che cosa è accaduto a Duncan Idaho, mio Signore?» chiese Gurney.

«È morto… dandoci il tempo di fuggire.»

La strega è viva! pensò Gurney È viva… colei sulla quale ho giurato vendetta! Ed è evidente che il Duca ignora quale creatura gli ha dato la luce. Mostro! Lei ha venduto suo padre agli Harkonnen!

Paul gli passò accanto e balzò nuovamente sulla sporgenza rocciosa. Si guardò intorno e vide che i morti e i feriti erano stati portati via. Pensò amaramente che questo sarebbe stato un altro capitolo della leggenda di Muad’Dib. Non ho neppure impugnato il coltello, ma si racconterà che oggi ho ucciso venti Sardaukar con le mie stesse mani.

Gurney seguì Stilgar, insensibile al pavimento di roccia, ai globi luminescenti, travolto da un furore selvaggio: La strega è ancora in vita, e quelli che ha tradito sono soltanto ossa in una tomba solitaria. Paul deve sapere la verità su di lei, prima che io la uccida.

Quante volte l’uomo in collera nega furiosamente quello che la sua coscienza gli dice? dalla «Raccolta dei detti di Muad’Dib», della Principessa Irulan

Dalla folla riunita nella grotta delle assemblee s’irradiava quell’atmosfera muta e fremente che Jessica aveva sentito il giorno in cui Paul aveva ucciso Jamis. Piccoli gruppi si formavano e s’innalzava un brusio nervoso.

Mentre usciva dall’appartamento di Paul, Jessica nascose il cilindro messaggio sotto la veste. Era perfettamente riposata dopo il lungo viaggio dal sud, ma era irritata con Paul perché non aveva ancora autorizzato l’impiego degli ornitotteri catturati.

«Non abbiamo ancora il completo controllo dell’aria» aveva detto Paul. «E non dobbiamo dipendere da un carburante che non sia di questo mondo. Il carburante e i velivoli devono essere conservati per il giorno della grande rivincita!»

Paul era in piedi, sull’orlo della sporgenza, con un gruppo di giovani. La pallida luce dei globi dava alla scena un tocco d’irrealtà. Era come un dipinto, ma con una terza dimensione: gli odori della caverna, i mormorii, il rumore dei piedi strascicati.

Jessica studiò suo figlio, chiedendosi perché non le avesse ancora rivelato la sorpresa… Gurney Halleck. Il pensiero di Gurney la turbava, ricordandole un passato diverso e felice, giorni di amore e di bellezza col padre di Paul.

Stilgar aspettava con un piccolo gruppo dei suoi sull’altro lato della sporgenza. Era silenzioso, pieno di una dignità ineluttabile.

Non dobbiamo perdere quest’uomo, pensò Jessica. Il piano di Paul deve funzionare. Qualsiasi altra soluzione sarebbe una terribile tragedia.

Avanzò, sfiorando Stilgar ma senza degnarlo di uno sguardo, e un cammino si aprì tra la folla fino a Paul. Il più completo silenzio l’accompagnò.

Lei sapeva il significato di quel silenzio, l’emozione e le domande inespresse di quella gente. Lei era la Reverenda Madre.

I giovani si allontanarono da Paul mentre lei si avvicinava, e, per un attimo, questa deferenza con cui lo trattavano la sgomentò. «Tutti coloro che sono inferiori a te bramano la tua posizione»: era un assioma Bene Gesserit. Ma non lesse alcun desiderio su quei volti. Li dominava piuttosto quel fermento religioso che ribolliva intorno a Paul e alla sua guida. Ricordò un altro assioma: «I profeti hanno l’abitudine di morire di morte violenta».

Paul la fissò.

«È l’ora» disse Jessica, e gli porse il cilindro col messaggio.

Uno dei compagni di Paul, il più ardito, fulminò Stilgar con un’occhiata, ed esclamò: «Lo sfiderai Muad’Dib? Ora è il momento, non c’è dubbio. Ti giudicheranno un codardo se non…»

«Chi osa chiamarmi un codardo?» domandò Paul. La sua mano era volata all’impugnatura del cryss.

Un silenzio di tomba piombò sul gruppo, avvolgendo poi l’intera folla.

«C’è del lavoro da fare» disse Paul, mentre l’uomo si scostava da lui. Paul si voltò, si fece strada tra la gente fino alla sporgenza rocciosa, vi saltò sopra e affrontò la folla.

«Sfidalo!» gridò una voce.

Mormorii e bisbiglii accompagnarono il grido.

Paul aspettò che ritornasse il silenzio. Vi furono ancora colpi di tosse, un lieve ondeggiare qua e là. Quando la quiete fu completa, Paul alzò la testa e parlò con voce squillante.

«Siete stanchi di aspettare» disse.

Nuovamente, aspettò che l’esplosione d’invocazioni e di urla si calmasse.

Sono veramente stanchi di aspettare, pensò. Brandì il cilindro, pensando al messaggio che conteneva. Sua madre gliel’aveva mostrato, spiegandogli che era stato strappato a un corriere degli Harkonnen.

Il messaggio era esplicito: Rabban veniva abbandonato a se stesso, su Arrakis! Non avrebbe più ricevuto né aiuto né rinforzi!

Ancora una volta, Paul parlò con voce squillante: «Voi pensate che sia tempo che io sfidi Stilgar e gli strappi il comando?» Prima che potessero rispondere, si scagliò furiosamente su di loro: «Credete che il Lisan al-Gaib sia così stupido?»

Un silenzio attonito calò sulla caverna.

Accetta la sua veste religiosa, si disse Jessica. Non deve farlo!

«È l’usanza!» gridò qualcuno.

Paul replicò seccamente, spiando le loro reazioni emotive: «Le usanze cambiano».

Una voce piena di collera s’innalzò dal fondo della caverna: «Siamo noi che diciamo quello che bisogna cambiare!»

Vi furono grida di approvazione, qua e là.

«Come volete» disse Paul.

Stava usando la Voce. Jessica percepì le sottili intonazioni che gli aveva insegnato.

«Tocca a voi decidere» continuò Paul. «Ma prima dovete ascoltarmi.»

Stilgar si sporse sul dirupo roccioso. «Anche questa è l’usanza» disse, impassibile. «Qualsiasi Fremen ha il diritto di essere udito dal Consiglio. Paul Muad’Dib è un Fremen.»

«La cosa più importante è il bene della tribù, non è vero?» chiese Paul.

Conservando la sua calma piena di dignità, Stilgar replicò: «Questo è il fine di ogni nostra decisione».

«Benissimo. Allora, chi comanda questi uomini, questa tribù? E chi governa tutti gli uomini e tutte le tribù attraverso gli istruttori che abbiamo addestrato all’arte magica del combattimento?»

Paul attese, osservando le innumerevoli teste. Non vi fu risposta.

«È Stilgar, dunque, che comanda tutto? Lui stesso lo nega. Sono io, allora? Perfino Stilgar agisce secondo la mia volontà a volte, e i saggi, e i saggi tra i saggi mi ascoltano e mi onorano nel consiglio.»

Un silenzio pieno di tensione regnava tra la folla.

«Mia madre comanda, allora?» Paul indicò Jessica, avvolta nelle vesti nere cerimoniali. «Stilgar e tutti gli altri capi le chiedono consiglio per ogni decisione importante. Voi lo sapete. Ma una Reverenda Madre marcia, forse, attraverso il deserto e guida le razzie contro gli Harkonnen?»

Paul vide le fronti aggrottate, le espressioni pensierose, ma udì ancora serpeggiare mormorii incolleriti.

È un modo molto pericoloso di affrontarli, pensò Jessica, ma si ricordò del cilindro e di quello che il messaggio implicava. E vide a che cosa mirava Paul: andare fino in fondo alla loro incertezza, e quando l’avesse sradicata, tutto il resto sarebbe seguito.

«Nessun uomo riconosce un capo senza una sfida e una lotta, non è così?» domandò Paul.

«È l’usanza!» gridò una voce.

«Qual è il nostro scopo?» replicò Paul. «Abbattere Rabban, la bestia degli Harkonnen, e fare di questo pianeta un mondo in cui vivere con le nostre famiglie nella felicità e nell’abbondanza d’acqua. È questo il nostro scopo?»

«I compiti più duri esigono dure usanze!» urlò qualcuno.

«Spezzate forse i vostri coltelli prima della battaglia?» gridò Paul. «Io vi dico questo come un fatto, non come una vanteria o una sfida: non c’è un solo uomo, qui presente, compreso Stilgar, che possa vincermi in un corpo a corpo. Lo stesso Stilgar l’ammette. Lui lo sa e anche voi lo sapete.»

Ancora una volta mormoni di collera s’innalzarono dalla folla.

«Molti di voi si sono battuti con me in palestra» disse Paul. «Sapete che non è un’oziosa vanteria: lo dico perché è un fatto noto a tutti, e sarei un pazzo se non lo riconoscessi io stesso. Io ho incominciato ad allenarmi in questo modo molto prima di voi, e quelli che mi hanno insegnato sono molto più duri di chiunque voi abbiate mai affrontato. Come credete, dunque, che io abbia potuto vincere Jamis a un’età alla quale i vostri figli giocano ancora?»

Sta usando bene la Voce, pensò Jessica, ma non basta con questa gente. È assai ben protetta dal controllo verbale. Deve aggredirli con la logica.

«Veniamo a questo, dunque» disse Paul. Prese il cilindro e dispiegò il messaggio. «Questo è stato strappato a un corriere Harkonnen. La sua autenticità è provata oltre ogni dubbio. È indirizzato a Rabban. Esso dice che ogni sua nuova richiesta di truppe è respinta, che la sua produzione di spezia è inferiore alla quota, che deve estrarre molta più spezia, su Arrakis, con la gente che ha.»

Stilgar avanzò al fianco di Paul.

«Quanti fra voi capiscono il significato di questo messaggio?» domandò Paul. «Stilgar l’ha capito subito.»

«Sono tagliati fuori!» urlò qualcuno.

Paul infilò nella sciarpa il cilindro col messaggio. Sfilò dal collo una corda di filo shiga intrecciato, ne tolse un anello e lo mostrò alla folla: «Questo era il sigillo ducale di mio padre» disse. «Ho giurato di non portarlo mai più, fino al giorno in cui non fossi stato pronto a condurre le mie truppe dovunque, su Arrakis, reclamando il pianeta come mio legittimo feudo!» S’infilò l’anello al dito e strinse il pugno.

Il silenzio divenne ancora più profondo.

«Chi governa, qui?» chiese Paul. Alzò il pugno. «Io! Io governo su ogni centimetro quadrato di Arrakis! Questo è il mio feudo ducale, che l’Imperatore lo voglia o no! Lui lo ha dato a mio padre, e a me spetta di diritto da mio padre!»

Si alzò sulla punta dei piedi, studiando la folla, cogliendone le emozioni.

Quasi, si disse.

«Vi sono uomini, qui, che occuperanno posizioni importanti su Arrakis quando reclamerò i diritti imperiali che mi appartengono» dichiarò. «Stilgar è uno di questi uomini. Non voglio corromperlo! E non per gratitudine, anche se io sono uno fra i molti, qui presenti, che gli devono la vita. No! Ma perché Stilgar è saggio e forte. Perché governa i suoi uomini con intelligenza e non solo secondo le usanze. Mi credete davvero così stupido? Credete che io sia disposto a tagliarmi il braccio destro e a lasciarlo sanguinante sul pavimento di questa caverna soltanto per darvi spettacolo?»

Paul fulminò la folla con lo sguardo: «Chi osa dire che io non sono il legittimo governante di Arrakis? Devo forse provarlo privando ogni tribù dell’erg del suo capo?»

Accanto a Paul, Stilgar lo fissò, perplesso.

«Come potrei privarmi di una parte della nostra forza nel momento in cui ne abbiamo più bisogno?» continuò Paul. «Io sono il vostro capo e vi dico che dobbiamo smetterla di uccidere i nostri uomini migliori. Dobbiamo uccidere invece i nostri veri nemici, gli Harkonnen!»

Fulmineamente, Stilgar brandì il suo cryss e lo puntò sulla folla. «Lunga vita al Duca Paul Muad’Dib!» gridò.

Un ruggito assordante riempì la caverna, rimbalzando tra le pareti di roccia. Tutti applaudivano e cantavano: «Ya hya chouhada! Muad’Dib! Muad’Dib! Muad’Dib! Ya hya chouhada!»

«Lunga vita ai soldati di Muad’Dib!» tradusse Jessica tra sé. La lunga scena preparata da lei, Paul e Stilgar aveva funzionato perfettamente.

Il tumulto si spense lentamente.

Quando fu ritornato il silenzio Paul fronteggiò Stilgar e gli disse: «Inginocchiati, Stilgar».

Stilgar s’inginocchiò sulla roccia.

«Dammi il tuo cryss» ordinò Paul.

Stilgar obbedì.

Questo non è come avevamo previsto, pensò Jessica.

«Ripeti con me, Stilgar» disse Paul, e richiamò alla memoria le parole dell’investitura, come le aveva udite da suo padre: «Io, Stilgar, prendo questo coltello dalle mani del mio Duca».

«Io, Stilgar, prendo questo coltello dalle mani del mio Duca» ripeté Stilgar, accettando la lama scintillante del cryss.

«Pianterò questa lama dove il mio Duca comanderà» disse Paul. Stilgar ripeté le parole, con solenne lentezza.

Ricordando l’origine del rito, Jessica ricacciò le lagrime e scosse la testa. So le ragioni di tutto questo, pensò. Non dovrei commuovermi così.

«Dedico questa lama alla causa del mio Duca e alla morte dei suoi nemici, fin quando il nostro sangue scorrerà» disse Paul.

E Stilgar ripeté ogni parola.

«Bacia la lama» gli ordinò Paul.

Stilgar obbedì, alla maniera dei Fremen, abbracciando anche il braccio destro di Paul, quello che brandiva il coltello in battaglia. A un cenno di Paul infilò il coltello nel fodero e si alzò.

Un mormorio di stupore corse tra la folla e Jessica udì le parole: «La Profezia… una Bene Gesserit indicherà la strada e una Reverenda Madre la vedrà…» E, più lontano, una voce aggiunse: «Ce l’ha mostrata attraverso suo figlio!»

«Stilgar è il capo di questa tribù» dichiarò Paul. «Che nessuno s’inganni. Stilgar comanda con la mia voce. Quello che Stilgar vi dirà sarà come se io l’avessi detto.»

Abile, pensò Jessica. Il capo della tribù non può perdere la faccia davanti a quelli che devono obbedirgli.

Paul disse ancora, a bassa voce: «Stilgar, voglio delle staffette nel deserto, questa notte, e che si mandino dei cielago per convocare una Riunione del Consiglio. Quando avrai fatto questo, prendi Chatt, Korba, Otheym e due altri luogotenenti di tua scelta. Portali nelle mie stanze: dobbiamo preparare il piano di battaglia. Dobbiamo avere in pugno una vittoria da mostrare al Consiglio dei Capi quando essi arriveranno».

Paul fece un gesto a sua madre, invitandola ad accompagnarlo. Poi lasciò la sporgenza rocciosa e attraversò la folla, dirigendosi verso il corridoio centrale e l’appartamento che gli era stato preparato. Mentre Paul si spingeva attraverso la folla, molte mani si protesero a toccarlo e alcune voci l’invocarono.

«Il mio coltello obbedirà agli ordini di Stilgar, Paul Muad’Dib! Facci combattere, Paul Muad’Dib! Che il sangue degli Harkonnen bagni il nostro mondo!»

Jessica percepiva chiaramente che il desiderio di battersi di questa gente saliva a livelli frenetici. Non erano mai stati così pronti. Li scaglieremo oltre le cime più alte.

Nella stanza più interna, Paul invitò sua madre a sedersi. «Aspetta qui.» E scivolò sotto la tenda, nel corridoio.

Jessica restò sola nella stanza silenziosa. Non si udiva neppure il debole ronzio delle pompe a vento che facevano circolare l’aria nel sietch.

Porterà qui Gurney, pensò. E si meravigliò per lo strano miscuglio d’emozioni che l’invadeva. Gurney e la sua musica evocavano tanti momenti felici di Caladan, prima della loro partenza per Arrakis. Ma Caladan… era come se fosse appartenuto a un’altra persona. Erano passati tre anni, ormai, e Jessica era diventata un’altra persona. L’idea di rivedere Gurney l’obbligava a riflettere su tutti quei cambiamenti.

Il servizio da caffè di Paul, di argento e jasmium, ereditato da Jamis, era appoggiato su un tavolo basso alla sua destra. Lo fissò, pensando a quante mani avevano toccato quel metallo. La stessa Chani aveva servito Paul in quell’ultimo mese.

Che cosa può fare questa donna del deserto per Paul, oltre a servirgli il caffè? si chiese Jessica. Non gli porta alcun potere, nessuna famiglia. Paul ha soltanto un’unica, grande possibilità: allearsi con una delle Grandi Case, forse con la famiglia imperiale. Vi sono principesse da marito, dopotutto, e ciascuna di esse è una Bene Gesserit.

Jessica s’immaginò mentre lasciava i rigori di Arrakis per la sicurezza e il potere che spettavano alla madre di un consorte reale. Fissò le pesanti tende che nascondevano le pareti rocciose di quella cella, pensando a com’era giunta fin lì, cavalcando una schiera di vermi, ai palanchini e alle piattaforme stracariche di quant’era necessario all’imminente campagna.

Finché Chani vivrà, Paul non capirà qual è il suo dovere, pensò Jessica. Lei gli ha dato un figlio, e questo è abbastanza.

L’afferrò l’improvviso desiderio di rivedere suo nipote, un bambino che tanto assomigliava al nonno. Jessica nascose il viso tra le mani, dando alla respirazione il ritmo rituale che placava le emozioni e schiariva la mente. Poi si piegò in avanti, per gli esercizi religiosi che preparavano il corpo ad accogliere gli imperativi mentali.

Non aveva obiezioni al fatto che suo figlio avesse scelto la Caverna degli Uccelli come posto di comando. Era una soluzione ideale. A nord si apriva il Passo del Vento, verso un villaggio ben difeso in un sink circondato da rocce a picco. Era un villaggio importante, poiché ospitava artigiani e tecnici, centro di manutenzione per l’intera cerchia difensiva degli Harkonnen.

Un colpo di tosse risuonò al di là delle tende. Jessica si raddrizzò e respirò profondamente.

«Entra» disse.

I drappi furono violentemente scostati e Gurney Halleck piombò nella stanza. Jessica intravvide appena il suo viso contorto da uno strano sogghigno, poi Gurney fu dietro di lei e l’afferrò brutalmente, passandole il braccio sotto il mento e trascinandola in piedi.

«Gurney, pazzo, cosa stai facendo?»

Poi sentì il tocco gelido del coltello contro la schiena. Un brivido di consapevolezza si propagò dall’affilata punta d’acciaio. Seppe in quell’istante che Gurney voleva ucciderla. Perché? Non riuscì a immaginare alcuna ragione, poiché non era un uomo che potesse tradire. Ma non c’era alcun dubbio sulle sue intenzioni. La sua mente fu travolta dall’affanno. Perché non era un uomo che si potesse sopraffare facilmente. Era un uccisore preparato alla Voce, che conosceva tutti gli stratagemmi, pronto ad ogni violenza. Era un superbo strumento di morte, che lei stessa aveva contribuito ad addestrare con i suoi consigli e i suoi suggerimenti sottili.

«Credevi di essere riuscita a sfuggire, eh, strega?» ruggì Gurney.

Prima che lei potesse accogliere questa domanda nella sua mente e cercare una risposta, le tende si scostarono e Paul entrò.

«Eccolo, Madre, è…» Paul s’interruppe bruscamente.

«Resta dove sei, mio Signore» disse Gurney.

«Che cosa…» Paul scosse la testa, incredulo.

Jessica fece per parlare, ma il braccio di Gurney aumentò la stretta.

«Parlerai quando io lo vorrò, strega» ringhiò Gurney. «Voglio soltanto che tuo figlio sappia una cosa. Al minimo gesto contro di me, ti pianterò questo coltello nel cuore, un semplice atto riflesso. La tua voce deve restare uniforme. Non muoverti, non tendere i muscoli. Agirai con la massima prudenza, per guadagnarti questi pochi istanti di vita. E ti assicuro che è tutto quello che ti resta.»

Paul avanzò di un passo: «Gurney, amico mio, che cosa…»

«Fermati dove sei!» urlò Gurney. «Ancora un passo e lei è morta.»

Le mani di Paul scivolarono verso l’impugnatura del coltello. Parlò, con calma mortale: «Farai bene a spiegarti, Gurney».

«Ho giurato di scannare viva la traditrice di tuo padre» replicò Gurney. «Credi che io possa dimenticare l’uomo che mi ha salvato dal pozzo degli schiavi degli Harkonnen, l’uomo che mi ha ridato la libertà, la vita, l’onore… che mi ha offerto la sua amicizia: una cosa che io valuto al di sopra di ogni altra? Ho chi l’ha tradito sotto il mio coltello. Nessuno può impedirmi di…»

«Non potresti commettere errore peggiore di questo, Gurney» disse Paul.

È questo, dunque, pensò Jessica. Quale ironia!

«Un errore, eh?» ribatté Gurney. «Ascoltiamo dunque cosa può dirci questa donna. E ricorda che ho corrotto, spiato e truffato per confermare questa accusa. Ho perfino offerto della semuta a un capitano delle guardie degli Harkonnen, per ascoltare tutta la storia.»

Jessica sentì il braccio che le stringeva la gola rilassarsi leggermente, ma, prima che lei potesse parlare, Paul disse: «Il traditore era Yueh. Questo di dico, Gurney. Le prove sono complete, irrefutabili. È stato Yueh. Non m’interessa come tu sia arrivato ai tuoi sospetti, ma se farai del male a mia madre…» brandì il cryss e lo puntò verso di lui, «avrò il tuo sangue.»

«Yueh era un dottore condizionato per servire la Casa Reale» ringhiò Gurney. «Non poteva tradire!»

«C’è un modo per annullare quel condizionamento» replicò Paul.

«Le prove» disse Gurney.

«Le prove non sono qui» rispose Paul. «Si trovano nel Sietch Tabr, lontano da qui. Ma…»

«È un trucco!» ruggì Gurney, e il suo braccio si strinse intorno al collo di Jessica.

«Nessun trucco, Gurney» replicò Paul. Vi era una profonda tristezza nella sua voce, al punto che Jessica ne ebbe il cuore lacerato.

«Ho visto il messaggio preso al corriere degli Harkonnen» ribatté Gurney. «Esso indicava chiaramente che…»

«L’ho visto anch’io» disse Paul. «Mio padre me lo mostrò la sera stessa, e mi spiegò che era un trucco degli Harkonnen, per fargli sospettare la donna che amava.»

«Ah!» esclamò Gurney. «Tu non hai…»

«Silenzio!» disse Paul. La tranquilla fermezza delle sue parole era più imperativa di tutti gli ordini che Jessica avesse mai udito.

Ha il Grande Controllo, pensò.

Il braccio di Gurney tremò sul suo collo. La punta del coltello si ritirò.

«Quello che tu non hai udito» riprese Paul, «sono i singhiozzi di mia madre la notte in cui ha perduto il suo Duca. Quello che tu non hai visto è il lampeggiare dei suoi occhi quando parla di uccidere gli Harkonnen.»

Così, pensò Jessica, ha ascoltato. Le lagrime le bruciarono gli occhi.

«Quello che hai dimenticato» proseguì Paul, «è la lezione che avevi imparato nei pozzi degli schiavi. Tu parli con fierezza dell’amicizia di mio padre! E sei incapace di distinguere tra gli Harkonnen e gli Atreides al punto di non riconoscere un inganno degli Harkonnen dal fetore che emana? Ancora non sai che la lealtà agli Atreides si acquista con l’amore, mentre la moneta di scambio degli Harkonnen è l’inganno? Davvero non hai riconosciuto la vera natura di questo tradimento?»

«Ma Yueh?» mormorò Gurney.

«Abbiamo un messaggio di Yueh, firmato di suo pugno, in cui confessa il suo tradimento» disse Paul. «Te lo giuro sull’amore che ti porto. Un amore che conserverò anche quando ti avrò lasciato morto in questa stanza.»

Ascoltando suo figlio, Jessica si meravigliò della sua comprensione, del suo intuito, della sua intelligenza.

«Mio padre aveva un istinto per gli amici» continuò Paul. «Non ha concesso facilmente il suo amore, ma non ha mai commesso uno sbaglio. La sua unica debolezza? L’incomprensione dell’odio. Pensava che chiunque odiasse gli Harkonnen non avrebbe potuto tradirlo.» Guardò sua madre. «Lei lo sa. Le ho trasmesso il messaggio di mio padre. Lei sa che mio padre non avrebbe mai dubitato di lei.»

Jessica sentì il suo controllo dissolversi. Si morse il labbro inferiore. Davanti all’atteggiamento formale di suo figlio, capì quanto queste parole dovessero costargli. Avrebbe voluto correre da lui, cullare la sua testa contro il suo petto, come non aveva mai fatto. Ma il braccio aveva cessato di tremare contro la sua gola. E la punta del coltello era nuovamente puntata sulla sua schiena, aguzza, immobile.

«Uno dei momenti più terribili nella vita di un ragazzo» riprese Paul, «è quando scopre che suo padre e sua madre sono esseri umani che condividono un amore al quale lui non potrà mai partecipare. È una perdita, ma anche un risveglio, la constatazione che il mondo esiste, e che noi siamo soli. Questo momento porta con sé la propria verità, cui non possiamo sfuggire. Io ho udito mio padre parlare di mia madre. Lei non ha tradito, Gurney.»

Jessica ritrovò infine la voce e disse: «Gurney, lasciami». Aveva parlato con voce normale, nessun trucco con cui giocare sulla sua debolezza. Tuttavia, il braccio di Gurney si allontanò e ricadde. Jessica si avvicinò a Paul e si fermò davanti a lui, senza toccarlo.

«Paul» disse, «vi sono altri risvegli in questo universo. Improvvisamente ho capito fino a qual punto ti ho manipolato, trasformato… per farti seguire la via che avevo scelta… che io dovevo scegliere (se questa può essere una giustificazione) a causa della mia educazione.» Tacque, mentre un nodo le stringeva la gola. Inghiottì, poi riprese, guardando suo figlio negli occhi: «Paul… io voglio che tu faccia qualcosa per me: scegli la via della tua felicità. Per questo, sfida chiunque o qualunque cosa. Ma scegli da solo la tua vita. Io…»

Udì un mormorio alle sue spalle. S’interruppe.

Gurney!

Seguì lo sguardo di Paul. Si voltò.

Gurney non si era mosso, ma aveva infilato il coltello nel fodero e si era aperto la veste, rivelando il petto rivestito della grigia tuta distillante dei contrabbandieri.

«Pianta il tuo coltello, qui, nel petto» mormorò Gurney. «Uccidimi, e che sia finita. Ho infangato il mio nome. Ho tradito il mio Duca! Il migliore…»

«Basta!» gridò Paul.

Gurney tacque e lo fissò.

«Chiudi quella veste e smettila di recitare come un pazzo» continuò Paul. «Hai già fatto abbastanza follie, per oggi.»

«Uccidimi, ti dico!» ruggì Gurney.

«Tu non mi conosci» disse Paul. «Mi credi davvero un idiota? Devono comportarsi così tutti gli uomini di cui ho bisogno?»

Gurney guardò Jessica, e la sua voce acquistò un tono disperato, supplichevole: «Allora voi, mia Lady, vi prego… uccidetemi».

Jessica gli si avvicinò, gli mise le mani sulle spalle. «Gurney, perché vuoi che gli Atreides uccidano quelli che amano?» Gentilmente, gli tolse dalle mani i lembi della veste e li allacciò sul suo petto.

Gurney parlò, scosso dai singhiozzi: «Ma… io…»

«Tu eri convinto di agire per Leto. Io ti onoro, per questo.»

«Mia Lady» balbettò Gurney. Lasciò ricadere il mento sul petto e strinse le palpebre, ormai prossime alle lagrime.

«Consideriamo tutto questo un malinteso tra vecchi amici» disse ancora Jessica. E Paul percepì la calma riposante della sua voce. «Ora è finito e ringraziamo il cielo che non ci saranno più equivoci tra noi.»

Gurney la fissò con gli occhi lucidi.

«Il Gurney Halleck che io conoscevo era abile tanto con la lama quanto col baliset» disse Jessica. «Era l’uomo del baliset quello che ammiravo di più. Forse, quel Gurney Halleck ricorda quanto mi piaceva ascoltarlo quando suonava per me? Hai ancora il baliset, Gurney?»

«Ne ho uno nuovo» fece Gurney. «Viene da Chusuk. Un meraviglioso strumento che suona come un Varota autentico, anche se non è firmato. Io penso che sia stato fabbricato da un allievo di Varota che…» S’interruppe. «Ma che cosa vi sto dicendo, mia Signora? Io qui sto perdendo…»

«Tu non perdi affatto il tuo tempo, Gurney» replicò Paul. Venne accanto a sua madre. «Noi stiamo parlando di una cosa che porta la felicità a un gruppo di amici. Vorrei che tu suonassi qualcosa, adesso, per lei. I piani di battaglia possono aspettare qualche istante. In ogni caso, non cominceremo a combattere prima di domani.»

«Io… vado a prendere il baliset» disse Gurney. «È nel corridoio.» Si dileguò fra le tende.

Paul appoggiò una mano sul braccio di sua madre e sentì che tremava.

«È finita, Madre» disse.

Senza voltare la testa lei gli lanciò un’occhiata: «Finita?»

«Certamente, Gurney ha…»

«Gurney? Ah, sì…» Abbassò lo sguardo.

In un fruscio di tende Gurney riapparve col suo baliset. Cominciò ad accordarlo, evitando i loro sguardi. I tappeti e le tende alle pareti soffocavano gli echi e in questa camera il suono del baliset era più dolce, più intimo.

Paul condusse sua madre fino a un cuscino e la fece sedere con la schiena rivolta alla parete. Fu colpito all’improvviso dall’età che le leggeva sul viso, dove il deserto aveva già inciso le sue prime linee disseccate, le sue prime tracce agli angoli degli occhi velati di azzurro.

È stanca, pensò. Dobbiamo liberarla di una parte dei suoi fardelli.

Gurney pizzicò una corda.

Paul alzò gli occhi su di lui e disse: «Devo occuparmi di alcune… cose. Tu resta qui».

Gurney annuì. La sua mente era lontana, forse su Caladan, sotto i cieli aperti dall’orizzonte coperto di nuvole foriere di pioggia.

Paul si allontanò a malincuore. Mentre avanzava nel corridoio, sentì un nuovo accordo del baliset e si fermò un istante per ascoltare la musica in sordina.

«Vigne e frutteti, E urì dai seni generosi, E una tazza ricolma davanti a me. Perché sognar battaglie E montagne ridotte in polvere? Perché queste lagrime nei miei occhi? Cielo, apriti E spargi la tua abbondanza Sulle mie mani protese. Perché fremo al pensiero di un’imboscata E del veleno nella mia tazza? Perché mi pesano gli anni? Braccia amorose mi chiamano Nude, verso le loro delizie, E mi promettono i piaceri dell’Eden. Perché mai ricordo le ferite E l’incubo di antichi errori? Perché dormendo tremo d’orrore?»

Davanti a Paul, all’angolo del corridoio, comparve un messaggero dei Fedaykin, avvolto nel mantello. L’uomo aveva ricacciato indietro il cappuccio e le cinghie della tuta distillante gli pendevano, slacciate, intorno al collo, rivelando che era appena giunto dal deserto.

Paul gli ordinò di fermarsi e avanzò verso di lui.

L’uomo s’inchinò a mani giunte, nel modo in cui avrebbe salutato una Reverenda Madre o la Sayyadina dei riti.

«Muad’Dib» annunciò, «i capi cominciano ad arrivare per il Consiglio.»

«Così presto?»

«Sono quelli che Stilgar ha convocato per primi, quando tutti pensavano che…» S’interruppe, alzò le spalle.

«Capisco.» Paul si voltò verso la camera dalla quale filtravano gli accordi del baliset (l’antica canzone che tanto piaceva a sua madre) con le note gioiose e tristi.

«Stilgar arriverà fra poco con gli altri» disse. «Guidali da mia madre.»

«Aspetterò qui, Muad’Dib» fece il corriere.

«Sì… sì, d’accordo.»

Paul lo superò, puntando verso le profondità della caverna, verso quel luogo che si trovava in tutte le grotte, accanto al bacino dell’acqua, dov’era un piccolo shai-hulud. Il creatore non misurava più di nove metri, intrappolato e impossibilitato a crescere dai condotti d’acqua che lo circondavano da ogni lato. Il creatore, dopo essere emerso dal suo vettore, il piccolo creatore, fuggiva l’acqua che per lui era un veleno. L’annegamento di un creatore era il più grande segreto dei Fremen, perché l’unione dell’acqua e del creatore produceva l’Acqua di Vita, quel veleno che soltanto una Reverenda Madre poteva trasformare.

Paul aveva preso la decisione nell’istante in cui sua madre affrontava il pericolo. Nessuna linea del futuro fra quelle che lui aveva visto indicava quel momento di pericolo associato con Gurney Halleck. Il futuro, questo futuro carico di nubi, nel quale l’intero universo si precipitava verso il nodo ribollente, era come un mondo fantasma intorno a lui.

Devo vederlo, pensò.

Il suo organismo aveva lentamente acquisito una certa tolleranza per la spezia, che aveva reso le sue visioni prescienti sempre più rare… sempre più confuse. La soluzione era ovvia.

Annegherò il creatore. Così, vedremo se sono lo Kwisatz Haderach che può sopravvivere alla prova delle Reverende Madri!

Avvenne nel terzo anno della Guerra del Deserto che Muad’Dib si trovasse, solo, nella Caverna degli Uccelli, sotto le tende kiswa di una cella interna. Giaceva immobile, come morto, assorto nelle rivelazioni dell’Acqua della Vita. Il suo essere era trasportato al di là delle frontiere del tempo dal veleno che dà la vita. Così si realizzò la profezia secondo la quale il Lisan al-Gaib era insieme morto e vivo. dalle «Leggende di Arrakis», della Principessa Irulan

Nella penombra che precede l’alba, Chani lasciò il Bacino di Habbanya; l’ornitottero che l’aveva trasportata dal sud si allontanò ronzando verso il suo nascondiglio, nell’immensità del deserto. Intorno a lei la scorta si manteneva in distanza, disperdendosi tra le rocce, spiando ogni possibile pericolo: così ubbidiva alla richiesta della compagna di Muad’Dib, la madre del suo primogenito, che voleva restare per un attimo sola.

Perché mi ha chiamata? si chiese Chani. Mi ha detto molte volte che devo rimanere al Sud con il piccolo Leto e Alia.

Strinse il mantello intorno a sé, superò agilmente con un balzo una barriera rocciosa e cominciò a risalire un sentiero che soltanto una creatura del deserto poteva distinguere nell’ombra. Alcuni ciottoli le scivolarono sotto i piedi, ma lei li evitò senza quasi pensarci.

Salire così tra le rocce la sollevò dai timori nati dal silenzio della scorta e dal fatto che era stato inviato uno dei preziosi ornitotteri a cercarla. Sentiva, ora, un’esplosione di gioia interiore al pensiero che avrebbe ritrovato ben presto Muad’Dib, il suo Usul. Per tutto il pianeta il suo nome era diventato un grido di battaglia: «Muad’Dib! Muad’Dib!» ma per lei era un uomo diverso dal nome diverso, un tenero amante, il padre di suo figlio.

Un’alta figura si disegnò tra le rocce sopra di lei, e con un gesto la invitò ad affrettarsi. Già s’innalzavano nel cielo gli uccelli dell’alba, lanciando richiami. Un pallido chiarore si disegnava sull’orizzonte, a est.

L’alta figura sopra di lei non era uno degli uomini della scorta. Otheym? si chiese, riconoscendo il modo in cui si muoveva. Lo raggiunse e vide effettivamente il piatto, largo viso del luogotenente dei Fedaykin: il suo cappuccio era aperto, il filtro fissato sommariamente alla bocca, come si faceva quando ci si avventurava all’esterno solo per un attimo.

«Presto» bisbigliò, precedendola nel crepaccio verso la caverna segreta. «Tra poco sarà giorno» disse ancora, tenendo aperto per lei il sigillo della porta. «Presi dalla disperazione, gli Harkonnen hanno lanciato un gran numero di pattuglie in queste regioni. Non possiamo rischiare di venire scoperti proprio adesso.»

Emersero nello stretto corridoio lungo il quale si entrava nella Caverna degli Uccelli. Alcuni globi luminosi si accesero. Otheym la superò. «Seguimi, presto.»

Si affrettarono lungo il corridoio, superarono un’altra porta, poi un altro corridoio, e infine, scostando alcune tende, giunsero in quella che era stata l’alcova della Sayyadina nei giorni in cui il nascondiglio era stato soltanto una caverna nella quale far tappa durante il giorno. Ora, cuscini e tappeti ricoprivano il pavimento, arazzi con la rossa figura del falco rivestivano le pareti rocciose. Un basso tavolo da campo, su un lato, era disseminato di carte: l’odore di spezia ne rivelava l’origine.

La Reverenda Madre era seduta là dentro, sola, di fronte alla porta. Alzò lo sguardo su Chani con una fissità introspettiva che faceva tremare i non iniziati.

Otheym congiunse le palme e disse: «Ho portato Chani». S’inchinò, poi scomparve al di là delle tende.

E Jessica pensò: Come potrò dirlo a Chani?

«Come sta mio nipote?» s’informò.

Questo è il saluto rituale, pensò Chani, e nuovamente fu terrorizzata. Dov’è Muad’Dib? Perché non è qui ad accogliermi?

«È in buona salute e felice, madre mia» disse Chani. «L’ho lasciato alle cure di Harah, con Alia.»

Madre mia, pensò Jessica. Sì, ha il diritto di chiamarmi così, nel saluto formale. Mi ha dato un nipote.

«Mi è stato detto che il Sietch Coanua ha offerto del tessuto» continuò Jessica.

«Un tessuto meraviglioso» disse Chani.

«Alia ti ha affidato un messaggio?»

«Nessun messaggio. Ma il sietch è più calmo, ora che il popolo ha accettato il miracolo della sua condizione.»

Perché continua a guadagnar tempo? si chiese Chani. C’era qualcosa di tanto urgente da inviare un ornitottero per me. Perché tutte queste formalità?

«Dobbiamo usare quel tessuto per confezionare vestiti al piccolo Leto» riprese Jessica.

«Come tu vuoi, madre mia» replicò Chani. Abbassò gli occhi. «Ci sono notizie di battaglie?» Il suo viso era privo d’espressione, perché Jessica non capisse che con questa domanda lei chiedeva notizie di Paul Muad’Dib.

«Nuove vittorie» annunciò Jessica. «Rabban ha addirittura osato inviarci, tra mille cautele, una proposta di tregua. I suoi messaggeri gli sono stati restituiti senza la loro acqua. Rabban ha perfino diminuito gli arruolamenti in alcuni villaggi del sink. Ma è troppo tardi. La gente sa che lo fa per paura di noi.»

«Così, tutto si svolge come Muad’Dib aveva previsto» disse Chani. Fissò Jessica, cercando di nascondere le sue paure. Ho fatto il suo nome, ma non ha risposto. Non si legge alcuna emozione su quel suo liscio volto di pietra… Ma è troppo gelida. Perché è così immobile? Cos’è accaduto al mio Usul?

«Vorrei che fossimo al Sud» riprese Jessica. «Le oasi erano meravigliose quando ci siamo andati. Non sei impaziente di vedere il giorno in cui tutta la terra sarà in fiore?»

«La terra è bella, vero» disse Chani. «Ma è anche piena di tristezza.»

«La tristezza è il prezzo della vittoria.»

Mi sta preparando alla tristezza? si chiese Chani. «Ci sono troppe donne senza uomini» replicò. «C’era della gelosia, in loro, quando sono stata chiamata al Nord.»

«Io ti ho chiamata» disse Jessica.

Chani sentì il cuore balzarle in gola. Avrebbe voluto schiacciare le mani sulle orecchie per non sentire quello che Jessica stava per dire. Tuttavia, riuscì a dire, con voce perfettamente calma: «Il messaggio era firmato Muad’Dib».

«Io l’ho firmato in presenza dei suoi luogotenenti» dichiarò Jessica. «Un inganno necessario.» E pensò: Questa donna è coraggiosa, Paul. Riesce a conservare le buone maniere perfino quando il terrore sta per travolgerla. Sì. È proprio di lei che abbiamo bisogno, adesso.

Vi fu un’impercettibile sfumatura di rassegnazione nella voce di Chani, mentre chiedeva: «Ora puoi dirmi ciò che deve esser detto».

«La tua presenza mi era necessaria per aiutarmi a far rivivere Paul» disse Jessica. E pensò: Ecco, l’ho detto nel modo giusto. Rivivere. Così saprà che Paul è vivo, e che il pericolo è grande.

Bastò un attimo a Chani per ritrovare la calma.

«Che cosa debbo fare, dunque?» Avrebbe voluto balzare addosso a Jessica, avvinghiarsi a lei, scuoterla e urlare: «Portami da lui!» Ma aspettò in silenzio la risposta.

«Temo che gli Harkonnen siano riusciti a infiltrare un agente tra noi e ad avvelenarlo» spiegò Jessica. «È l’unica spiegazione possibile. Un veleno insolito e raro. Ho esaminato il suo sangue coi metodi sottili, senza riuscire a scoprirlo.»

Chani si gettò ai suoi piedi: «Veleno? Sta forse soffrendo? Potrei…»

«È inconscio. I suoi processi vitali sono rallentati a tal punto che possono venir rivelati soltanto con le tecniche più raffinate. Tremo al pensiero di quello che sarebbe accaduto se non fossi stata io a scoprirlo. A un occhio non addestrato sembrava morto.»

«Tu non mi hai convocato solo per bontà» disse Chani. «Io ti conosco, Reverenda Madre. Come puoi pensare che io riesca a qualcosa che è impossibile a te?»

È coraggiosa, bella e… sì, perspicace, pensò Jessica. Avrebbe potuto essere un’eccellente Bene Gesserit.

«Chani» riprese Jessica, «ti sembrerà incredibile, ma io non so esattamente per quale ragione ti ho chiamata. È stato un istinto… un’intuizione. Il pensiero mi è venuto così, chiaro: ’Manda a chiamare Chani’.»

Per la prima volta Chani vide la tristezza sul volto di Jessica, l’autentico dolore in fondo a quegli occhi così calmi e rivolti all’interiorità.

«Ho fatto tutto quello che potevo, tutto quello che sapevo…» disse Jessica. «Tu non sapresti neppure immaginare cosa significhi questo tutto. E tuttavia… ho fallito.»

«Halleck, il vecchio amico» domandò Chani. «È forse lui il traditore?»

«No, non è Gurney.»

Queste quattro parole erano come una lunga conversazione, e Chani vi colse l’eco di lunghi tentativi, domande… il ricordo di antichi insuccessi che gravavano su quello spento diniego.

Chani si rialzò, lisciando le pieghe della sua veste macchiata dalle sabbie. «Portami da lui.»

Jessica si alzò a sua volta e si diresse verso le tende sulla parete sinistra.

Chani la seguì e si trovò in quello che prima era un magazzino; le pareti rocciose erano nascoste, adesso, dietro una pesante tappezzeria. Paul giaceva su un letto da campo, sul lato opposto. Un unico globo luminoso fugava le ombre dal suo viso. Una veste nera lo copriva fino al petto, lasciandogli scoperte le braccia tese lungo i fianchi. Sotto, sembrava non indossare altro. La pelle era grigia, simile a cera. Era completamente immobile.

Chani dominò il desiderio di precipitarsi sul suo corpo, di abbracciarlo convulsamente. I suoi pensieri corsero invece a suo figlio: Leto. E si rese conto in quell’istante che Jessica, un giorno, aveva vissuto un’identica prova… il suo uomo minacciato di morte, e costretta a considerare con la sua mente le possibili vie di salvezza di suo figlio. Chani, allora, allungò una mano e strinse quella di Jessica: una stretta quasi dolorosa nella sua violenza.

«È vivo» disse Jessica. «Ti garantisco che è vivo. Ma il filo della sua vita è così sottile che potrebbe sfuggire a una ricerca. Alcuni fra i capi già mormorano che è la madre a parlare, e non la Reverenda Madre, e che mio figlio è veramente morto e che io non voglio concedere la sua acqua alla tribù.»

«Da quanto tempo è così?» chiese Chani. Liberò la sua mano da quella di Jessica e avanzò nella stanza.

«Tre settimane» disse Jessica. «Ho trascorso un’intera settimana nel tentativo di farlo rivivere. Vi sono state riunioni, discussioni… inchieste. Poi ti ho chiamata. I Fedaykin ubbidiscono a me, altrimenti non sarei riuscita a ritardare il…» S’inumidì le labbra e tacque, fissando Chani che si avvicinava a Paul.

Chani si arrestò accanto a Paul e contemplò il suo viso, la barba che lo incorniciava, le palpebre chiuse, le alte sopracciglia, il naso affilato. Sembrava così tranquillo…

«Come si nutre?» chiese Chani.

«Le necessità della sua carne sono così ridotte che non ha ancora avuto bisogno di cibo.»

«Quanti sanno ciò che è accaduto?»

«Solo i suoi consiglieri personali, alcuni dei capi, i Fedaykin e, naturalmente chiunque gli abbia somministrato il veleno.»

«Non c’è alcun indizio su chi sia stato?»

«No. E non certo perché non lo abbiamo cercato.»

«Che cosa dicono i Fedaykin?»

«Credono che Paul sia immerso in una sacra estasi e che stia raccogliendo i suoi santi poteri prima dell’ultima battaglia. Io coltivo questa convinzione.»

Chani s’inginocchiò accanto al letto, fin quasi a sfiorare il viso di Paul. Subito avvertì il profumo della spezia… la spezia onnipresente che odorava di sé l’intera vita dei Fremen. E tuttavia…

«Tu non sei nata tra la spezia, come noi» disse Chani. «Non hai pensato che il suo corpo potrebbe essersi ribellato a un’eccessiva quantità di spezia nel cibo?»

«Le reazioni allergiche sono tutte negative» replicò Jessica.

E chiuse gli occhi, sia per cancellare la scena alla sua vista, sia perché, all’improvviso, capì quant’era stanca. Quanto tempo è che non dormo? si chiese. Troppo.

«Quando tu cambi l’Acqua della Vita» continuò Chani, «tu lo fai in te stessa, grazie alla tua percezione interiore. Hai utilizzato questa tua percezione per analizzare il suo sangue?»

«È sangue normale. Totalmente adattato alla vita e al nutrimento dei Fremen.»

Chani si accovacciò sui calcagni. Mentre esaminava Paul, i suoi pensieri respinsero la paura. Era una tecnica appresa osservando le Reverende Madri. Il tempo poteva servire alla mente. Tutta l’attenzione poteva essere concentrata su un unico pensiero.

All’improvviso domandò: «C’è un creatore, qui?»

«Molti. Ne abbiamo sempre qualcuno, in questi giorni.» Jessica sospirò di stanchezza. «Ogni vittoria richiede una benedizione. Ogni cerimonia prima di una razzia…»

«Ma Paul Muad’Dib si è tenuto lontano da queste cerimonie» disse Chani.

Jessica scosse la testa, e ricordò i sentimenti ambivalenti di suo figlio nei confronti della droga di spezia e della prescienza che essa suscitava.

«Come fai a saperlo?» chiese Jessica.

«Si dice.»

«Si dicono troppe cose» replicò Jessica in tono amaro.

«Procurami dell’Acqua del Creatore, non trasformata» disse Chani.

Jessica s’irrigidì al tono imperioso di Chani, poi vide l’intensa concentrazione della giovane donna. Bisbigliò: «Subito». E uscì attraverso la tenda per chiamare un Maestro delle Acque.

Chani continuò a fissare Paul: Se ha tentato di far questo… pensò. È proprio il tipo di cosa che potrebbe tentare…

Jessica ritornò e s’inginocchiò accanto a Chani, porgendole una brocca la quale spandeva l’acuto odore del veleno. Chani immerse un dito nel liquido e sfiorò il naso di Paul.

La pelle fremette e, lentamente, le narici si dilatarono.

Jessica lanciò un grido soffocato.

Chani toccò col dito umido il labbro superiore di Paul.

Paul inspirò a lungo, faticosamente.

«Che cosa succede?» domandò Jessica.

«Ferma!» le ingiunse Chani. «Trasforma un po’ di Acqua sacra, presto!»

Senz’altre domande Jessica ubbidì a Chani. Alzò la brocca e inghiottì un sorso del liquido.

Gli occhi di Paul si aprirono. Guardò Chani.

«Non è necessario che cambi l’Acqua» disse. La sua voce era debole, ma ferma.

Jessica, nel medesimo istante in cui sentì il sorso d’acqua sulla lingua, scoprì che il suo corpo riprendeva vigore, trasformando il veleno quasi automaticamente. Con la sua sensibilità accresciuta percepì il flusso vitale che emanava da Paul.

In quell’istante, seppe.

«Tu hai bevuto l’Acqua sacra!» esplose.

«Una goccia» disse Paul. «Così poca… una goccia.»

«Come hai potuto commettere una simile follia?»

«È tuo figlio» disse Chani.

Jessica la fulminò con lo sguardo.

Un sorriso pieno di tenerezza e di comprensione comparve sulle labbra di Paul: «Ascolta la mia amata» sussurrò. «Ascoltala, Madre. Lei sa.»

«Quello che gli altri possono fare» spiegò Chani, «deve farlo anche lui.»

«Quand’ho avuto questa goccia in bocca» disse Paul, «quando l’ho sentita e l’ho gustata, e quando ho saputo l’effetto che faceva su di me, allora ho capito che avrei potuto fare quello che tu stessa hai fatto, Madre. Quando le vostre insegnanti Bene Gesserit parlano dello Kwisatz Haderach, sono infinitamente lontane dall’immaginare in quanti luoghi io sia stato. Nei pochi istanti in cui…» S’interruppe, accigliandosi, e fissò Chani, perplesso. «Chani? Perché sei qui? Tu non dovresti essere… Perché sei qui?»

Cercò di sollevarsi sui gomiti. Chani lo respinse dolcemente.

«Per favore, Usul» disse.

«Mi sento così debole» fece Paul. Il suo sguardo guizzò intorno alla stanza. «Da quanto tempo sono qui?»

«Sei rimasto per tre settimane in un coma così profondo che la scintilla della vita sembrava spenta in te» disse Jessica.

«Ma era… l’ho inghiottita un istante fa, e…»

«Un istante per te, tre settimane di angoscia per me» replicò Jessica.

«Era soltanto una goccia, ma io l’ho convertita. Ho trasformato l’Acqua della Vita.» E prima che Chani e Jessica potessero fermarlo, tuffò una mano nella brocca che avevano appoggiato sul pavimento, accanto a lui. e la portò gocciolante alla bocca, inghiottendo il liquido contenuto nel palmo.

«Paul!» gridò Jessica.

Lui le afferrò una mano, girò verso di lei il volto deformato da un rictus mortale, e l’investì con tutta la sua percezione.

Il rapporto non fu così tenero, così completo, così assoluto com’era stato con Alia e con la vecchia Reverenda Madre nella caverna… ma era pur sempre un’unione, un condividere l’essere tutto intero. Jessica si sentì scossa, indebolita e si ripiegò nel suo spirito, timorosa di lui.

Ad alta voce lui disse: «Tu hai parlato di un luogo dove non puoi entrare? Questo luogo che la Reverenda Madre non può contemplare, voglio vederlo!»

Lei scosse il capo, terrorizzata.

«Voglio vederlo!» le ingiunse Paul.

«No!»

Ma lei non poteva sfuggirgli. Soggiogata dalla sua terribile forza, chiuse gli occhi e sprofondò in se stessa, nella Direzione che è Tenebra.

La coscienza di Paul l’avvolse, la compenetrò in quel buio profondo. Intravide vagamente il luogo, prima che la sua mente fuggisse da quell’orrore. Senza saperne il perché, tutto il corpo di lei tremava per quello che aveva appena intravisto… una regione flagellata dal vento, dove danzavano scintille incandescenti, dove anelli di luce pulsavano e lunghe file di forme bianche e tumescenti fluivano intorno alle luci, spinte dalle tenebre e dal vento del nulla.

Aprì gli occhi e incontrò lo sguardo di Paul. Lui le stringeva ancora la mano, ma la terribile unione era cessata. Jessica dominò il suo tremito. Paul le lasciò andare la mano. Fu come se le avesse tolto una stampella. Vacillò, e sarebbe caduta se Chani non fosse balzata a sostenerla.

«Reverenda Madre!» esclamò Chani. «Che cosa succede?»

«Stanca…» balbettò Jessica. «Così… stanca.»

«Qui» disse Chani. «Siediti qui.» Aiutò Jessica a sistemarsi su un cuscino, accanto alla parete.

Jessica fu confortata dal contatto di quelle braccia giovani e forti. Si aggrappò a Chani.

«Ha visto veramente con l’Acqua della Vita?» domandò Chani, liberandosi dalla stretta.

«Sì» bisbigliò Jessica. La sua mente era ancora sconvolta per il contatto. Era come se avesse appena toccato la terraferma dopo settimane in un mare in tempesta. Sentì dentro di sé la vecchia Reverenda Madre… e tutte le altre, che si erano risvegliate e domandavano: «Che cosa è stato? Che cosa è accaduto? Dov’era quel luogo?»

Ma un pensiero la dominava: suo figlio era lo Kwisatz Haderach, colui che poteva essere in molti luoghi nel medesimo istante. Era il sogno delle Bene Gesserit divenuto realtà. E quella realtà non le dava pace.

«Che cosa è accaduto?» chiese Chani.

Jessica scosse la testa.

Paul disse: «C’è, in ciascuno di noi, una forza antica che prende, e una forza antica che dà. È già difficile per un uomo affrontare quel luogo, dentro di lui, dove regna la forza che prende. Ma gli è quasi impossibile contemplare la forza che dà, senza trasformarsi in qualcosa di diverso da un uomo. Per una donna, la situazione è esattamente il contrario».

Jessica alzò gli occhi e vide che Chani la fissava, ascoltando Paul.

«Madre… hai capito?» le chiese Paul.

Lei poté soltanto accennare di sì.

«Queste cose, dentro di noi, sono così antiche» proseguì Paul, «che si sono diffuse in ogni nostra cellula. Noi siamo modellati da queste forze. Possiamo sempre dire a noi stessi: ’Sì, capisco come tutto ciò sia possibile’. Ma quando guardiamo dentro di noi e dobbiamo affrontare le forze primordiali della nostra stessa esistenza, allora noi comprendiamo il pericolo. Sappiamo quanto è facile essere travolti e distrutti. Il più grande pericolo per Colui che Dà è la forza che Prende. Il più grande pericolo per Colui che Prende, è la forza che Dà. È facile essere sopraffatti dall’una come dall’altra.»

«E tu, figlio mio» disse Jessica, «sei Colui che Dà o Colui che Prende?»

«Io sono esattamente al centro. Non posso dare senza prendere, non posso prendere senza…»

S’interruppe, fissando il muro alla sua destra.

Chani sentì un alito di vento sfiorarle la guancia. Si voltò e vide le tende che si chiudevano.

«Era Otheym» disse Paul. «Stava ascoltando.»

Chani accettò queste parole, e un po’ della prescienza di Paul passò in lei. E seppe una cosa non ancora accaduta come se fosse stata un avvenimento del passato. Otheym avrebbe parlato di quanto aveva visto e udito. Altri avrebbero diffuso la storia, ed essa si sarebbe diffusa sull’intero pianeta come un mare di fiamme. Paul Muad’Dib non è come gli altri uomini, avrebbero detto. Non c’è più alcun dubbio. È un uomo, e tuttavia vede attraverso l’Acqua della Vita come una Reverenda Madre. È veramente il Lisan al-Gaib.

«Tu hai visto il futuro, Paul» disse Jessica. «Vuoi dirci quello che hai visto?»

«Non il futuro» replicò Paul, «ma il Presente, l’Adesso.» Riuscì faticosamente a mettersi seduto, rifiutando l’aiuto di Chani. «Lo spazio, intorno ad Arrakis, pullula di navi della Gilda.»

Jessica tremò, nel percepire l’assoluta certezza nella sua voce.

«Lo stesso Imperatore Padiscià è lassù» continuò Paul. Fissò il soffitto roccioso della cella. «Con la sua Veridica favorita e cinque legioni di Sardaukar. Il vecchio Barone Vladimir Harkonnen è anche lui lassù, con Thufir Hawat e sette navi piene di tutti i coscritti che è riuscito a trovare. Ogni Grande Casa ha inviato le sue truppe… E tutti sono lassù, sopra di noi, in attesa.»

Chani scosse la testa, incapace di distogliere lo sguardo da Paul. Era affascinata e sconvolta dalla sua voce piatta e monotona, dalla diversità che s’irradiava da lui, dal modo in cui la fissava, come se guardasse attraverso il suo corpo.

Jessica, la gola asciutta, chiese: «Che cosa stanno aspettando?»

Paul la guardò. «Il permesso della Gilda. La Gilda abbandonerà su Arrakis qualsiasi forza militare che atterrerà senza permesso.»

«La Gilda ci sta forse proteggendo?»

«Proteggendo! È stata la Gilda a divulgare ciò che stiamo facendo su Arrakis e ad abbassare la tariffa per il trasporto delle truppe a un punto tale che anche le Case più povere sono lassù, in attesa di saccheggiarci.»

Jessica notò la mancanza di amarezza nelle sue parole, e se ne domandò la ragione. Non dubitò. Aveva parlato con la stessa forza la notte in cui le aveva rivelato la via del futuro che li avrebbe portati tra i Fremen.

Paul respirò profondamente. «Madre, devi trasformare una certa quantità di Acqua per noi. Ci serve il catalizzatore. Chani, voglio che sia inviata nel deserto una pattuglia di esploratori… che trovino una massa di prespezia. Se versiamo una certa quantità di Acqua della Vita sulla prespezia, sai che cosa accadrà?»

Jessica soppesò per un istante le sue parole, poi capì: «Paul!» ansimò.

«L’Acqua della Morte» disse Paul. «Sarà una reazione a catena.» Puntò un dito sul pavimento: «Spargerà la morte fra i piccoli creatori, distruggendo un anello del ciclo vitale che comprende la spezia e i creatori. Arrakis sarà una completa desolazione, senza di essi».

Chani si portò una mano alla bocca, atterrita e sconvolta dalle bestemmie che uscivano dalle labbra di Paul.

«Colui che può distruggere una cosa, la controlla» disse Paul. «Noi possiamo distruggere la spezia!»

«Che cosa trattiene la mano della Gilda?» bisbigliò Jessica.

«Stanno cercando me» fece Paul. «Pensa! I migliori navigatori della Gilda, gente che può esplorare il tempo per trovare la rotta più sicura ai più veloci incrociatori… tutti questi uomini mi cercano… e sono incapaci di trovarmi. Tremano! Sanno che ho in pugno il loro segreto!» Paul tese le mani a coppa. «Privi della spezia, sono ciechi!»

Chani ritrovò la voce: «Hai detto che vedevi l’Adesso

Paul si distese nuovamente sul giaciglio, scrutando l’intera estensione del presente i cui limiti sfumavano nel futuro e nel passato, lottando per conservare la prescienza mentre cominciava a svanire, dentro di lui, l’effetto della spezia.

«Vai e fai quello che ti ho ordinato» disse. «Il futuro diventa sempre più confuso per me, come per la Gilda. Le linee della visione si restringono. Tutte si concentrano su questo mondo, sulla spezia… Essi non hanno mai osato intervenire prima… perché rischiavano di perdere ciò di cui avevano assoluto bisogno. Ma ora sono disperati… Tutte le strade portano alle tenebre.»

E venne il giorno in cui Arrakis si trovò al centro dell’universo, e l’universo, quasi, vi ruotava intorno. dal «Risveglio di Arrakis», della Principessa Irulan

«Guarda!» sussurrò Stilgar.

Paul era disteso accanto a lui, in un crepaccio che incideva il bordo superiore del Muro Scudo, gli occhi incollati a un telescopio dei Fremen.

Le lenti a olio erano messe a fuoco su un trasporto leggero che si stagliava contro la luce dell’alba, nel bacino sottostante. Già una metà dello scafo scintillava alla luce del sole, mentre l’altra era ancora immersa nell’ombra e disseminata di oblò da cui traspariva la luce gialla dei globi accesi durante la notte. Oltre la nave, la città di Arrakeen era immobile, gelida e brillante.

Non era tanto la nave che aveva destato lo stupore di Stilgar, si disse Paul, quanto la costruzione di cui la nave era soltanto il pilastro centrale. Una singola, gigantesca tenda di metallo, alta parecchi piani, che si stendeva tutto intorno per un raggio di almeno mille metri: la residenza temporanea di cinque legioni di Sardaukar e della Sua Maestà Imperiale, l’Imperatore Padiscià Shaddam IV.

Accovacciato alla sinistra di Paul, Gurney Halleck disse: «Ho contato nove piani. Ci dev’essere un bel numero di Sardaukar là dentro».

«Cinque legioni» confermò Paul.

«Si sta facendo giorno» sibilò Stilgar. «Non mi piace che tu ti esponga, Muad’Dib. Ora ritorniamo fra le rocce.»

«Sono perfettamente al sicuro, qui» replicò Paul.

«Quella nave dispone di armi a proiettili» disse Gurney.

«Sono convinti che noi siamo protetti da scudi» affermò Paul. «Non sprecheranno un colpo per tre figure non identificate.»

Paul alzò il telescopio per esaminare la parete opposta del bacino, le rocce butterate e le frane che contrassegnavano la tomba di tanti uomini di suo padre. E le ombre degli uomini, in quel momento, forse stavano guardando. C’era una sorta di giustizia in tutto questo. Tutte le fortezze degli Harkonnen e le città lungo il Muro Scudo erano cadute in mano ai Fremen, oppure, isolate, perivano come steli tagliati dalla pianta. Solo il bacino e la città erano ancora nelle mani del nemico.

«Potrebbero tentare una sortita con gli ornitotteri, se ci vedessero» insisté Stilgar.

«Lascia che lo facciano» replicò Paul. «Abbiamo un mucchio di ornitotteri a disposizione, oggi… e c’è una tempesta in arrivo.»

Puntò il telescopio sul lato opposto del campo di atterraggio di Arrakeen, dove le fregate degli Harkonnen erano allineate. Sotto di esse si agitava debolmente lo stendardo della CHOAM con l’asta piantata al suolo. La Gilda doveva essere alla disperazione per consentire a questi due gruppi di atterrare, mentre tutti gli altri venivano mantenuti di riserva. La Gilda si comportava come l’uomo che immerge nella sabbia la punta del piede per saggiare la temperatura prima di erigere la tenda.

«C’è qualcos’altro da vedere, qui?» chiese Gurney. «Dobbiamo ritirarci. La tempesta arriva.»

Paul osservò nuovamente la gigantesca tendopoli. «Hanno portato perfino le loro donne, i lacché e i servitori. Ahhh, mio caro Imperatore, sei troppo fiducioso.»

«C’è qualcuno nel passaggio segreto» disse Stilgar. «Devono essere Otheym e Korba.»

«Va bene, Stil» disse Paul. «Torniamo indietro.»

Lanciò un’ultima occhiata col telescopio all’immenso pianoro, alle navi, alla gigantesca tenda metallica, alla città silenziosa. Poi scivolò indietro sulla scarpata rocciosa. Un Fedaykin lo sostituì al telescopio.

Paul riemerse in una piccola depressione sulla superficie del Muro Scudo. Aveva circa trenta metri di diametro ed era profonda tre metri: una formazione naturale della roccia che i Fremen avevano dissimulato sotto una copertura translucida. Il materiale radio era raggruppato intorno a un ampio foro sulla parete di destra. I Fedaykin, sparsi in tutta la depressione, erano pronti all’attacco.

Due guardie uscirono dal foro accanto agli apparecchi di comunicazione e cominciarono a parlare coi Fedaykin.

Paul guardò Stilgar e accennò con la testa in direzione dei due uomini: «Fatti dare il loro rapporto, Stil».

Stilgar ubbidì.

Paul si accovacciò con la schiena contro la roccia, tese i muscoli, poi si rialzò. Vide Stilgar che congedava i due uomini, i quali scomparvero nuovamente nel foro. Pensò alla lunga discesa che li aspettava nello stretto cunicolo scavato dall’uomo, che sboccava molto più in basso, sul fondo del bacino.

Stilgar si avvicinò a Paul.

«Era così importante che non hanno potuto servirsi di un cielago?» chiese Paul,

«Risparmiano i volatili per la battaglia» disse Stilgar. Lanciò un’occhiata agli apparecchi radio poi riportò la sua attenzione su Paul. «Anche con una frequenza di trasmissione ridottissima, è un errore, Muad’Dib. Possono sempre rintracciare la trasmittente.»

«Tra poco» replicò Paul, «saranno troppo occupati per cercarci. Che cosa dicono i tuoi uomini?»

«I nostri beneamati Sardaukar sono stati liberati presso il Vecchio Crepaccio, e stanno ritornando dal loro padrone. I lanciarazzi e le altre armi a proiettile sono in posizione. I nostri uomini sono schierati come tu hai ordinato.»

Paul studiò gli uomini schierati nella depressione, alla luce che filtrava attraverso la copertura mimetizzante. Il tempo era come un insetto che strisciava sulla roccia.

«Immagino che i nostri due Sardaukar dovranno fare un bel po’ di strada a piedi prima d’inviare un segnale a un trasporto di truppe. Sono sorvegliati?»

«Sono sorvegliati» confermò Stilgar.

Accanto a Paul, Gurney Halleck si schiarì la gola: «Non sarebbe meglio cercare un posto più sicuro, adesso?»

«Non c’è alcun posto sicuro» replicò bruscamente Paul. «I rapporti sulle condizioni del tempo sono sempre favorevoli?»

«La tempesta è in arrivo» disse Stilgar. «È una Madre di tutte le Tempeste. Non la senti, Muad’Dib?»

«C’è qualcosa di diverso nell’aria, infatti. Ma vorrei garantirmi la certezza mettendo un palo nella sabbia.»

«La tempesta sarà qui tra un’ora» confermò Stilgar. Accennò con la testa alla fenditura che si apriva sulla tendopoli dell’Imperatore e le fregate degli Harkonnen. «Lo sanno anche laggiù. Non c’è un solo ornitottero in volo. Tutto coperto e legato. Hanno avuto un rapporto sulle condizioni del tempo dai loro amici nello spazio.»

«Nessun’altra sortita?»

«Niente, fin da quando sono sbarcati la scorsa notte» disse Stilgar. «Sanno che siamo qui. Credo che aspettino il momento giusto, adesso.»

«Tocca a noi sceglierlo» replicò Paul.

Gurney lo fissò: «Se ce lo permetteranno».

«Quella flotta resterà nello spazio» disse Paul.

Gurney scosse la testa…

«Non hanno altra scelta» insistette Paul. «Noi possiamo distruggere la spezia. La Gilda non correrà questo rischio.»

«La gente disperata è anche la più pericolosa» ribatté Gurney.

«Non siamo noi i disperati?» domandò Stilgar.

Gurney lo fissò, accigliandosi.

«Tu non hai vissuto il sogno dei Fremen» lo mise in guardia Paul. «Stil pensa a tutta l’acqua che abbiamo sprecato per corrompere, a tutti questi anni di attesa, prima che Arrakis possa fiorire. Non è…»

«Arrrgh» grugnì Gurney.

«Perché è così triste?» chiese Stilgar.

«È sempre triste prima di una battaglia» spiegò Paul. «È l’unica forma di umorismo, per Gurney.»

Un sogghigno da lupo si disegnò lentamente sul volto di Gurney; i suoi denti brillarono sulla mentoniera della tuta distillante. «Mi rattrista il pensiero di quante povere anime Harkonnen spediremo all’aldilà senza prima poterle assolvere.»

Stilgar sogghignò a sua volta. «Parla come un Fedaykin.»

«Gurney è nato per i commandos della morte» dichiarò Paul. E pensò: Sì, che occupino la loro mente con queste chiacchiere, prima che sia l’ora di misurarci contro quelle forze, laggiù, nella pianura.

Lanciò un’altra occhiata in direzione della fenditura, poi guardò nuovamente Gurney e vide che il menestrello guerriero era ancora accigliato.

«Preoccuparsi consuma le forze» mormorò Paul. «Tu stesso me l’hai detto, una volta.»

«Mio Duca» disse Gurney. «La mia maggior preoccupazione sono le atomiche. Se le userai per squarciare il Muro Scudo…»

«Quella gente lassù non userà le atomiche contro di noi. Non oserà… per la stessa ragione per la quale non vogliono correre il rischio di distruggere per sempre la spezia.»

«Ma l’ingiunzione contro…»

«L’ingiunzione!» esclamò Paul. «È la paura, non l’ingiunzione, che impedisce alle Grandi Case di aggredirsi a colpi di atomiche! Il linguaggio della Grande intesa è chiaro, in proposito: ’L’impiego di atomiche contro gli esseri umani sarà punito con la distruzione del pianeta’. Noi stiamo per far saltare il Muro Scudo, non gli esseri umani.»

«La differenza è sottile» disse Gurney.

«Ma quei legulei, lassù, saranno felici di ammetterla» replicò Paul. «Non parliamo più di questo.»

Si voltò, e avrebbe desiderato provare dentro di sé la fiducia che aveva appena ostentato. Aggiunse: «E la gente di città? È già al suo posto?»

«Sì» mormorò Stilgar.

Paul lo guardò: «Che cosa ti rode?»

«Non mi sono mai fidato completamente della gente di città» replicò Stilgar.

«Anch’io ero uno della gente di città, un tempo.»

Stilgar s’irrigidì: il suo volto divenne più cupo. «Muad’Dib sa che io non intendevo…»

«So quello che intendevi dire, Stil» l’interrupe Paul. «Ma qui non si tratta di quello che tu pensi di un uomo, bensì di quello che lui fa. La gente di città è di sangue Fremen. Solo, non ha ancora imparato come spezzare le sue catene. Tocca a noi insegnarglielo.»

Stilgar annuì e disse con voce grave: «La vita ci ha insegnato a pensare così, Muad’Dib. È sulla Piana dei Morti che abbiamo imparato a disprezzare la gente di città».

Paul guardò Gurney e vide che questi osservava attentamente Stilgar. «Gurney» disse, «spiegaci perché la gente della città, laggiù, è stata scacciata dalle sue case dai Sardaukar.»

«Un vecchio trucco, mio Duca. Hanno pensato di riempirci di profughi.»

«Le ultime guerriglie sono così lontane nel tempo, che i potenti hanno dimenticato completamente come combatterle» riprese Paul. «I Sardaukar hanno fatto il nostro gioco. Hanno preso alcune donne della città per divertirsi e hanno decorato i loro stendardi con le teste degli uomini che si sono opposti. Così, hanno scatenato un odio feroce in gente che altrimenti avrebbe considerato l’imminente battaglia nient’altro che una grossa seccatura… tutt’al più un cambio di padrone. I Sardaukar ci hanno procurato reclute, Stilgar.»

«La gente della città sembra impaziente di combattere» ammise Stilgar.

«Il loro odio è fresco e limpido» disse Paul. «È per questo che la usiamo come truppa d’assalto.»

«Le loro perdite saranno spaventose» fece Gurney.

Stilgar annuì.

«Sanno il rischio» continuò Paul. «Sanno che ogni Sardaukar che uccideranno sarà uno di meno per noi. Capite? Ora hanno qualcosa per cui morire. Hanno scoperto di essere un popolo, si stanno svegliando.»

L’uomo di vedetta al telescopio lanciò un’esclamazione soffocata. Paul scivolò nel crepaccio: «Che cosa succede, là fuori?»

«Una grande agitazione, Muad’Dib» bisbigliò l’osservatore. «Lì, in quella mostruosa tenda di metallo. Un veicolo di superficie è giunto dalla Scarpata Ovest: sembrava un falco che piombasse su un nido di pernici.»

«I Sardaukar nostri prigionieri sono arrivati» disse Paul.

«Hanno messo in azione uno scudo tutto intorno al terreno» aggiunse l’osservatore. «Vedo l’aria che vibra fino ai più lontani magazzini della spezia.»

«Ora sanno contro chi combattono» disse Gurney. «Ora, le bestie Harkonnen tremino e si rodano il fegato al pensiero che un Atreides è ancora in vita!»

Paul s’indirizzò nuovamente al Fedaykin del telescopio: «Fai attenzione all’asta della bandiera, al culmine della nave dell’Imperatore. Se compare il mio stendardo…»

«Impossibile!» esclamò Gurney.

Paul vide Stilgar che si accigliava, perplesso, e aggiunse: «Se l’Imperatore accetta la mia rivendicazione, lo segnalerà issando lo stendardo degli Atreides. In questo caso, passeremo al secondo piano di battaglia: attaccheremo soltanto gli Harkonnen. I Sardaukar resteranno in disparte e ci lasceranno sistemare la faccenda tra noi».

«Non m’intendo di queste cose di altri pianeti» disse Stilgar. «Ne ho sentito parlare, ma mi sembra improbabile che…»

«Non c’è bisogno di esperienza per sapere quello che faranno» l’interruppe Gurney.

«Stanno issando una nuova bandiera sulla nave più alta» annunciò il Fedaykin. «La bandiera è gialla, con un cerchio nero e rosso al centro.»

«Una mossa molto sottile» disse Paul. «È la bandiera della CHOAM.»

«È la stessa bandiera delle altre navi» aggiunse il Fedaykin.

«Non capisco» fece Stilgar.

«Sì, molto sottile» commentò Gurney. «Se avesse innalzato lo stendardo degli Atreides, avrebbe poi dovuto riconoscere tutto ciò che esso implicava. Ci sono troppi osservatori. Avrebbe ugualmente potuto rispondere con i colori degli Harkonnen. Ma no… ha innalzato l’emblema della CHOAM. Così, egli dice a quella gente, lassù…» Gurney puntò un dito verso lo spazio «dove si trova il profitto. Dice che a lui importa poco che ci sia o non ci sia un Atreides, quaggiù.»

«Quanto, ancora, prima che la tempesta raggiunga il Muro Scudo?» chiese Paul.

Stilgar si voltò e consultò uno dei Fedaykin nella depressione. Poi disse: «Arriverà molto presto, Muad’Dib. Molto più presto di quanto ci aspettassimo. L’ho detto, è una grande tempesta… forse anche più grande di quanto la desideravi».

«È la mia tempesta» fece Paul. E vide l’espressione di rispettoso timore che si disegnò sui volti dei Fedaykin silenziosi. «Anche se scuotesse l’intero pianeta, non sarebbe troppo per me. Colpirà in pieno il Muro Scudo?»

«Quasi. Ma non farà alcuna differenza.»

Un corriere uscì dal foro che conduceva giù nel bacino, e annunciò: «I Sardaukar e le pattuglie degli Harkonnen si stanno ritirando, Muad’Dib».

«Pensano che la tempesta rovescerà troppa sabbia nel bacino, cancellando ogni visibilità» disse Stilgar. «Pensano che anche noi saremo paralizzati.»

«Di’ ai nostri cannonieri di prender bene la mira prima che la tempesta oscuri il cielo» ordinò Paul. «Devono fracassare il muso di ciascuna di quelle navi non appena la tempesta avrà distrutto gli scudi.»

Si avvicinò fino alla parete rocciosa, alzò un angolo della copertura mimetizzante e scrutò il cielo. Già si vedeva la sabbia trascinata dal vento che si contorceva formando lunghe code di cavallo contro l’oscurità incombente. Paul rimise a posto la copertura e disse: «Che i nostri uomini comincino a scendere, Stil».

«Non vieni con noi?» domandò Stilgar.

«Mi fermo ancora un poco con i Fedaykin» disse Paul.

Stilgar alzò le spalle, con un gesto d’intesa verso Gurney, avanzò verso il foro nella roccia e scomparve nel buio.

«Gurney» disse Paul. «Lascio nelle tue mani il pulsante che farà saltare il Muro Scudo. Conto su di te.»

«Lo farò.»

Paul chiamò con un gesto uno dei suoi luogotenenti Fedaykin. «Otheym, togli le tue pattuglie dalla zona dell’esplosione. Devono essere lontane prima che la tempesta ci travolga.»

Otheym s’inchinò e seguì Stilgar.

Gurney si avvicinò nel crepaccio e parlò all’uomo del telescopio: «Sorveglia attentamente la parete sud. Sarà completamente indifesa finché non la faremo saltare».

«Invia un cielago con un segnale a tempo» ordinò Paul.

«Alcuni veicoli di superficie si dirigono verso la parete sud» disse l’uomo al telescopio. «Usano armi a proiettile. Sparano qualche colpo di prova. I nostri usano scudi individuali, come tu hai ordinato. I veicoli si arrestano…»

Nell’improvviso silenzio, Paul udì demoni del vento che urlavano nel cielo… il fronte della tempesta. La sabbia cominciava a infilarsi nella cavità, turbinando, dai buchi della copertura mimetica. Poi, un colpo di vento strappò il tessuto e lo trascinò via con sé.

Paul ordinò ai Fedaykin di ripararsi e si avvicinò agli uomini delle trasmittenti, accanto alla bocca del tunnel. Gurney lo seguì. Paul si piegò sopra gli operatori.

«La tempesta, Muad’Dib» disse uno degli uomini. «La Madre di tutte le Tempeste.»

Paul guardò il cielo sempre più buio e ordinò: «Gurney, fai ritirare gli osservatori dalla parte sud». Dovette urlare l’ordine due volte, per vincere il crescente frastuono della tempesta.

Gurney si allontanò.

Paul si allacciò il filtro al viso, stringendo il cappuccio della tuta distillante.

Gurney ritornò.

Paul gli sfiorò la spalla, indicandogli il pulsante per l’esplosione nell’imboccatura del tunnel, oltre gli operatori radio. Gurney entrò nel cunicolo, si fermò con la mano sul pulsante, e fissò Paul.

«Nessun messaggio» disse l’operatore. «Soltanto scariche.»

Paul annuì, gli occhi puntati sul quadrante graduato in tempo standard. Poi guardò nuovamente Gurney, alzò una mano, un’ultima occhiata al quadrante… La lancetta iniziò il giro finale. Paul allora abbassò la mano gridando: «Fuoco!»

Gurney premette il pulsante.

Sembrò trascorrere un intero secondo, prima che il terreno cominciasse a incresparsi e a tremare. Il boato crebbe e sovrastò il ruggito della tempesta.

L’osservatore Fedaykin comparve accanto a Paul, il telescopio stretto sotto il braccio: «La breccia è aperta, Muad’Dib!» urlò. «La tempesta è sopra di loro e i nostri artiglieri hanno già aperto il fuoco!»

Paul ebbe la visione della tempesta che spazzava il bacino, mentre la muraglia carica di elettricità statica distruggeva al suo passaggio tutti gli scudi dei nemici.

«La tempesta!» gridò qualcuno. «Dobbiamo ripararci, Muad’Dib!»

Paul si riscosse dai suoi pensieri e sentì le innumerevoli punture della sabbia sulle guance. Il dado è tratto! pensò. Mise un braccio sulle spalle dell’operatore radio e disse: «Lascia gli apparecchi! Ne abbiamo altri nel tunnel». Si sentì strappar via dai Fedaykin, i quali lo premevano da ogni lato per proteggerlo. Fu spinto in avanti nelle profondità del tunnel. Il silenzio calò all’improvviso su di loro. Girarono un angolo e si trovarono in una piccola stanza illuminata dai globi. Un nuovo cunicolo si apriva più avanti.

Un operatore radio era in ascolto a un altro apparecchio.

«Troppi disturbi» esclamò.

Un vortice di sabbia riempì l’aria intorno a loro.

«Sigillate la galleria!» gridò Paul. L’ordine fu eseguito e ritornò il silenzio. «La strada verso il bacino è ancora aperta?»

Uno dei Fedaykin si allontanò per qualche secondo, ritornò e disse: «L’esplosione ha provocato una piccola frana, ma gli ingegneri dicono che la via è sempre libera. La stanno ripulendo con le lame laser».

«Che usino le mani!» gridò Paul. «Ci sono ancora degli scudi in funzione, laggiù!»

«Fanno attenzione, Muad’Dib» disse l’uomo. Tuttavia si precipitò a trasmettere l’ordine.

Comparvero gli altri operatori radio, portando con sé l’equipaggiamento esterno.

«Avevo detto a quegli uomini di lasciar perdere gli apparecchi!» esclamò Paul.

«Ai Fremen non piace abbandonare il materiale» replicò uno dei Fedaykin.

«Gli uomini sono più importanti del materiale, adesso» dichiarò Paul. «Tra poco avremo più apparecchi di quanti ne potremmo mai usare… o non ne avremo bisogno mai più.»

Gurney Halleck si avvicinò. «Ho sentito dire che la via è aperta. Siamo molto vicini alla superficie, mio Signore. Se gli Harkonnen rispondono al nostro attacco…»

«Non sono in grado di rispondere» disse Paul. «In questo momento si accorgono che non hanno più scudi e che non possono più lasciare Arrakis.»

«Il nuovo posto di comando è pronto, mio Signore.»

«Non hanno ancora bisogno di me al posto di comando» replicò Paul. «Il piano si svolge alla perfezione anche senza la mia presenza. Dobbiamo aspettare che…»

«Ricevo un segnale, Muad’Dib» l’interruppe l’operatore radio. Scosse la testa, schiacciò la cuffia contro le orecchie. «Troppe scariche!» Poi cominciò a scrivere su un taccuino davanti a lui, continuando a scuotere la testa, aspettando, scrivendo… aspettando.

Paul scivolò al suo fianco. Uno dei Fedaykin fu pronto a scostarsi per lasciargli il posto. Paul si curvò sull’operatore e lesse quello che l’uomo aveva scritto:

«Invasione… al Sietch Tabr… prigionieri… Alia… famiglie di… sono morti… essi… figlio di Muad’Dib».

Nuovamente l’operatore scosse la testa.

Paul alzò gli occhi. Gurney lo fissava.

«Il messaggio non è completo» disse. «Le scariche. Tu non puoi sapere…»

«Mio figlio è morto» disse Paul. E seppe che era la verità nel preciso istante in cui pronunciava queste parole. «Mio figlio è morto… e Alia è prigioniera… in ostaggio.» Si sentì vuoto: un guscio senza emozioni. Tutto quello che toccava era morte e dolore. Era come una malattia, che poteva spargersi in tutto l’universo.

Sperimentò la saggezza di un vecchio, l’accumulo d’innumerevoli esperienze in un numero infinito di vite. Dentro di lui sembrò che qualcuno scoppiasse in un riso soffocato, sfregandosi le mani.

E pensò: L’universo sa così poco dell’autentica crudeltà!

E Muad’Dib li fronteggiò e disse: «Anche se giudichiamo che la prigioniera è morta, tuttavia essa vive. Perché il suo seme è il mio seme e la sua voce è la mia voce. E lei vede al di là delle più lontane frontiere del possibile. Sì. lei vede attraverso me nelle lontane valli dell’ignoto». dal «Risveglio di Arrakis», della Principessa Irulan

Il Barone Vladimir Harkonnen era in piedi, gli occhi bassi, nella camera delle Udienze Imperiali: il selamlik ovale all’interno della tendopoli dell’Imperatore Padiscià. Furtivamente, il Barone aveva studiato la stanza dalle pareti metalliche e i suoi occupanti, noukkers, paggi, guardie, Sardaukar allineati lungo pareti la cui unica decorazione erano le bandiere lacere e sporche di sangue catturate in battaglia.

Poi si udirono le voci, in un alto passaggio che si apriva a destra della stanza: «Largo! Largo alla Persona Reale!»

L’Imperatore Padiscià Shaddam IV fece il suo ingresso nella stanza delle udienze, seguito dalla corte. Restò immobile accanto all’ingresso, in attesa che il trono fosse portato nella stanza, ignorando il Barone, come pure ogni altra persona nella stanza.

Da parte sua il Barone scoprì che non gli era possibile ignorare la Persona Reale, e studiò l’Imperatore alla ricerca di un miniino indizio, del più piccolo gesto che indicasse il perché di quella udienza. L’Imperatore era lì, impassibile: una figura magra ed elegante nella grigia uniforme Sardaukar con frange d’oro e di argento. Il volto sottile e gli occhi gelidi gli ricordarono il defunto Duca Leto: l’Imperatore aveva quello stesso sguardo da uccello da preda. Ma i suoi capelli erano rossi, non neri, ed erano per la maggior parte nascosti da un elmetto Burseg nero come l’ebano, con la corona e la cresta imperiale d’oro.

Comparve un gruppo di paggi che trasportava il trono. Era uno scranno massiccio scolpito in un unico blocco di quarzo Hagal, azzurro verde e translucido, attraversato da scintillanti incrostazioni gialle. Fu sistemato sotto il baldacchino e l’Imperatore vi prese posto.

Una vecchia avvolta in un aba nero, il cappuccio calato sulla fronte, lasciò allora il corteo imperiale e venne a prender posto dietro il trono. Appoggiò la mano nodosa sullo schienale di quarzo. Il suo viso, all’ombra del cappuccio, era la caricatura di una strega: occhi e guance infossati, naso protuberante, pelle butterata e solcata da vene sporgenti.

Il Barone alzò gli occhi su di lei e smise di tremare. La presenza della Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam, la Veridica dell’Imperatore, rivelava quanto fosse importante l’udienza. Il Barone distolse lo sguardo da lei e spiò il corteo alla ricerca di altri indizi. C’erano due agenti della Gilda, uno alto e grasso, l’altro piccolo e ancora più grasso. Tutt’e due avevano occhi grigi e languidi. Tra i valletti dell’Imperatore, la Principessa Irulan: una donna che si diceva educata secondo la più assoluta disciplina Bene Gesserit, destinata a diventare una Reverenda Madre. Era alta e bionda, il volto di una bellezza cesellata, gli occhi verdi che lo fissavano trapassandolo da parte a parte.

«Mio caro Barone.»

L’Imperatore si era degnato di notarlo. La sua voce era baritonale e squisitamente controllata. Con quel saluto pareva anche congedarlo.

Il Barone s’inchinò profondamente, poi si portò nella posizione obbligatoria, a dieci passi dal trono. «Sono venuto perché Voi mi avete convocato, Maestà.»

«Convocato!» ridacchiò la vecchia strega.

«Suvvia, Reverenda Madre» la rimproverò l’Imperatore. Ma fissò divertito il Barone, e gli disse: «Per prima cosa, ditemi dove avete mandato il vostro tirapiedi, Thufir Hawat».

Il Barone lanciò occhiate a destra e a sinistra, e imprecò tra sé per non essersi portato le guardie. Non gli sarebbero state di grande aiuto contro i Sardaukar, tuttavia…

«Allora?» chiese l’Imperatore.

«È scomparso da cinque giorni, Maestà.» Il Barone lanciò un’occhiata agli agenti della Gilda, poi fissò nuovamente l’Imperatore. «Avrebbe dovuto atterrare in una base di contrabbandieri, tentando d’infiltrare i suoi uomini nel campo di quel fanatico, Muad’Dib.»

«Incredibile!» esclamò l’Imperatore.

La vecchia strega batté sulla spalla dell’Imperatore con una mano simile a un artiglio, si piegò in avanti e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio.

L’Imperatore annuì e disse: «Cinque giorni, Barone. Ditemi, perché non vi siete preoccupato della sua assenza?»

«Ma io sono davvero preoccupato, Maestà!»

L’Imperatore continuò a fissarlo, aspettando. La Reverenda Madre scoppiò a ridere, chiocciando.

«Quello che voglio dire, Maestà» proseguì il Barone, «è che Hawat, comunque, morirà nel giro di poche ore.» E spiegò la faccenda del veleno residuo e l’assoluta necessità di un antidoto.

«Molto ingegnoso, Barone» disse l’Imperatore. «E dove sono i vostri nipoti, Rabban e il giovane Feyd-Rautha?»

«La tempesta si precipita su di noi, Maestà. Li ho inviati a ispezionare il perimetro esterno, nel timore che i Fremen attacchino al riparo della sabbia.»

«Perimetro» fece l’Imperatore. La parola gli uscì dalla bocca come se fosse stata qualcosa che pungeva. «La tempesta non investirà questo bacino, e la plebaglia Fremen non oserà mai attaccare finché io sarò qui con cinque legioni di Sardaukar.»

«Certamente no, Maestà» disse il Barone. «Ma un eccesso di prudenza non può esser certo criticato.»

«Ahhh» esclamò l’Imperatore. «Criticare. Allora, non dovrei parlare di tutto il tempo che questa farsa di Arrakis mi è costata? E neppure dei profitti della CHOAM che vengono inghiottiti da questa tana di topi? E neppure delle cerimonie di corte e degli affari di Stato che ho dovuto ritardare… e perfino cancellare… a causa di questo stupido affare?»

Il Barone abbassò lo sguardo, spaventato dall’ira imperiale. La fragilità della sua posizione, qui, tutto solo e protetto solo dalla Intesa e dal dictum familia delle Grandi Case, lo inquietava. Vuole forse uccidermi? pensò. Non può! Non può, con tutte le Grandi Case che aspettano, lassù, pronte a cogliere il primo pretesto per guadagnar qualcosa da questa crisi.

«Avete catturato qualche ostaggio?» chiese l’Imperatore.

«È inutile, Maestà» replicò il Barone. «Questi pazzi Fremen celebrano una cerimonia di sepoltura per ogni prigioniero, e agiscono come se fosse già morto.»

«Davvero?» disse l’Imperatore.

E il Barone attese, lanciando occhiate a destra e a sinistra alle pareti metalliche del selamlik, pensando all’immane tenda di metalventaglio che si stendeva da ogni lato intorno a lui. Essa rappresentava una ricchezza talmente sterminata che perfino lui ne provò soggezione. Porta con sé i paggi, pensò il Barone, gli inutili lacché, le donne e i loro amici… parrucchieri, arredatori, tutti… tutti i parassiti che vivono ai margini della Corte. Tutti qui ad adularlo, a complottare astutamente, tutti a girargli intorno… Tutti qui ad applaudire il modo in cui concluderà questo affare, a scrivere epigrammi sulle battaglie e a idolatrare i feriti.

«Forse» continuò l’Imperatore, «non avete scelto bene gli ostaggi.»

Sa qualcosa, pensò il Barone. La paura lo schiacciava come una pietra sullo stomaco. Gli venne fame e fu sul punto di ordinare che gli portassero da mangiare, ma scacciò il pensiero, tremando sui suoi sospensori. Intorno a lui non c’era nessuno ai suoi ordini.

«Avete nessuna idea di chi sia questo Muad’Dib?» chiese l’Imperatore.

«Certamente un Umma» disse il Barone, «un fanatico Fremen, un avventuriero religioso. Spuntano regolarmente ai bordi della civiltà. Sua Maestà lo sa.»

L’Imperatore guardò la sua Veridica, poi si voltò nuovamente verso il Barone, accigliandosi: «E voi, non sapete nient’altro di questo Muad’Dib?»

«Un pazzo» esclamò il Barone. «Ma tutti i Fremen sono pazzi.»

«Pazzi?»

«Urlano il suo nome quando si gettano nella mischia. Le donne ci scaraventano addosso i figli e si precipitano esse stesse sui nostri coltelli per aprire una strada ai loro uomini quando ci attaccano. Non hanno alcuna… alcuna decenza!»

«È grave» disse l’Imperatore, e il suo tono derisorio non sfuggì al Barone. «E, ditemi, avete mai esplorato le regioni polari al sud di Arrakis?»

«Ma…» balbettò il Barone, colto di sorpresa, «Sua Maestà sa benissimo che l’intera regione è inabitabile, aperta alle tempeste e ai vermi. Non c’è neppure la spezia a quelle latitudini.»

«Non avete ricevuto alcun rapporto dalle astronavi della spezia? Non avete mai sentito parlare delle macchie di verde che sono state viste laggiù?»

«Vi sono sempre stati questi rapporti. Alcuni hanno dato luogo a inchieste… molto tempo fa. È stata vista qualche pianta. Molti ornitotteri sono andati perduti.

Troppi, Maestà. Gli uomini non possono sopravvivere a lungo in un simile territorio.»

«Certamente» disse l’Imperatore. Fece schioccare le dita e una porta si aprì alla sua sinistra, dietro il trono. Due Sardaukar uscirono dalla porta, scortando una bambina che non sembrava avere più di quattro anni. Indossava un aba nero e il cappuccio gettato all’indietro mostrava i lacci di una tuta distillante che le pendevano sciolti sotto la gola. I suoi occhi erano azzurri come quelli dei Fremen e contemplavano la scena da un viso soffice e tondo. Non sembrava per nulla spaventata e c’era qualcosa nel suo sguardo che turbò il Barone senza che lui sapesse perché.

Perfino la Veridica Bene Gesserit si tirò indietro, mentre la bambina passava, e fece un gesto come per proteggersi. La vecchia strega era visibilmente scossa dalla presenza della bambina.

L’Imperatore si schiarì la gola, ma la bambina parlò per prima: una voce sottile e blesa dovuta al palato ancora molle, ma tuttavia chiarissima. «Così, è lui» disse. Si portò fino al bordo del baldacchino: «Non è un gran che, vero? Un vecchio grasso e spaventato, troppo debole per sopportare il proprio grasso senza l’aiuto dei sospensori».

Era una dichiarazione talmente inaspettata dalla bocca di una bambina che il Barone, nonostante la rabbia, la fissò a bocca aperta senza proferir parola. È forse una nana? si chiese.

«Mio caro Barone» disse infine l’Imperatore, «vi presento la sorella di Muad’Dib.»

«La so…» Il Barone guardò l’Imperatore. «Non capisco.»

«Anch’io, a volte, commetto eccessi di prudenza» dichiarò l’Imperatore. «Mi è stato riferito che le vostre regioni meridionali disabitate presentavano tracce di attività umana.»

«Ma è impossibile!» protestò il Barone. «I vermi… E c’è sabbia fino a…»

«Questa gente sembra perfettamente capace di evitare i vermi» disse l’Imperatore.

La bambina si era seduta sulla predella accanto al trono, facendo dondolare i piccoli piedi. Osservava la scena, perfettamente sicura di sé.

Il Barone fissò quei piccoli piedi che scalciavano, i sandali che occhieggiavano sotto il tessuto.

«Sfortunatamente» riprese l’Imperatore, «ho inviato soltanto cinque trasporti di truppe con una ridotta forza d’attacco per catturare prigionieri e interrogarli. A stento siamo riusciti a fuggire con un trasporto e tre prigionieri. Sì, Barone, i miei Sardaukar sono stati quasi sopraffatti da una forza difensiva composta in gran parte di donne, bambini e vecchi. Questa bambina era al comando di uno dei gruppi che ci hanno attaccato.»

«Vedete, Maestà!» esclamò il Barone. «Vedete come sono!»

«Mi sono lasciata catturare» dichiarò la bambina. «Non volevo trovarmi faccia a faccia con mio fratello e dirgli che suo figlio era stato ucciso.»

«Soltanto un pugno dei nostri è riuscito a fuggire» ripeté l’Imperatore. «A fuggire! Avete sentito quello che ho detto?»

«Avremmo ammazzato anche loro, se non fosse stato per le fiamme» disse la bambina.

«I miei Sardaukar si sono serviti dei razzi dei loro trasporti come di lanciafiamme» spiegò l’Imperatore. «Una mossa disperata, grazie alla quale sono riusciti a fuggire coi tre prigionieri. Capite, Barone: i Sardaukar costretti a battere in ritirata davanti a un gruppo di donne, di bambini e di vecchi!»

«Dobbiamo attaccarli in forze» strillò il Barone. «Dobbiamo distruggerli fino all’ultimo vestigio di…»

«Silenzio!» ruggì l’Imperatore. Si raddrizzò sul trono: «Non approfittate ancora della mia indulgenza! Voi siete qui, davanti a me, come un idiota, e…»

«Maestà!» esclamò la Veggente.

L’Imperatore l’azzitti. «Voi mi dite che non sapete niente di quanto abbiamo scoperto, niente delle magnifiche qualità guerriere di questo popolo! Per chi mi prendete, Barone?»

Il Barone fece due passi indietro, e pensò: È stato Rabban. Ha fatto questo… a me! Rabban ha…

«E questa finta guerra col Duca Leto» ringhiò l’Imperatore, sprofondando di nuovo sul trono. «Come siete riuscito a manovrarla meravigliosamente!»

«Maestà» balbettò il Barone, «cosa state…»

«Silenzio!»

La vecchia Bene Gesserit appoggiò una mano sulla spalla dell’Imperatore e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio.

La bambina seduta sulla predella smise di scalciare e disse: «Spaventalo ancora un po’, Shaddam. So che non dovrei, ma provo un infinito piacere».

«Taci, bambina» disse l’Imperatore. Si piegò in avanti e le mise una mano sulla testa. Fissò il Barone: «È possibile, Barone? È possibile che voi siate così stupido come mi suggerisce la mia Veridica? Voi non riconoscete questa bambina, la figlia del vostro alleato, il Duca Leto?»

«Mio padre non è mai stato suo alleato» ribatté la bambina. «Mio padre è morto e questa vecchia bestia Harkonnen non mi ha mai visto prima.»

Il Barone, paralizzato, la fissava stupefatto. Quando ritrovò la voce, fu soltanto per farfugliare: «Chi sei?»

«Io sono Alia, figlia del Duca Leto e di Lady Jessica, sorella del Duca Paul Muad’Dib» dichiarò la bambina. Balzò sul pavimento: «Mio fratello ha giurato di appiccare la tua testa in cima al suo stendardo, e credo che lo farà».

«Taci, bambina» disse l’Imperatore. Sprofondò nel trono, le mani sotto il mento, studiando il Barone.

«Io non prendo ordini dall’Imperatore» esclamò Alia. Si voltò, e fissò la vecchia Reverenda Madre: «Lei lo sa».

L’Imperatore alzò gli occhi verso la sua Veridica. «Che cosa vuol dire?»

«Questa bambina è un’abominazione!» sbottò la vecchia. «Sua madre merita di esser punita come nessuno lo è mai stato, in tutta la storia! La morte non sarà mai troppo rapida per questa bambina e per colei che l’ha generata!» Puntò un dito verso Alia: «Esci dalla mia mente!»

«Telepatia?» bisbigliò l’Imperatore. Fissò attentamente la bambina. «Per la Grande Madre!»

«Voi non capite, Maestà» disse la vecchia. «Non è telepatia. Lei è veramente nella mia mente! Lei è come tutte le altre che mi hanno preceduto e che mi hanno lasciato i loro ricordi. Lei è nel mio spirito! È impossibile, ma è dentro di me!»

«Quali altre?» domandò l’Imperatore. «Che cos’è questa storia assurda?»

La vecchia si raddrizzò e lasciò ricadere il braccio. «Ho detto troppo, ma rimane pur sempre il fatto che questa bambina dev’essere distrutta. Da molto tempo sapevamo come fare per impedirle di nascere, ma una di noi ci ha tradito.»

«Tu farnetichi, vecchia» disse Alia. «Non sai come sia accaduto, e tuttavia continui a blaterare come una pazza cieca.» Alia chiuse gli occhi, inspirò profondamente e trattenne il respiro.

La vecchia Reverenda Madre gemette e barcollò.

Alia aprì gli occhi: «È così che è accaduto» disse. «Un incidente cosmico… e tu vi hai recitato la tua parte».

La Reverenda Madre alzò ambedue le mani, come per respingere la bambina.

«Che cosa sta accadendo, qui?» domandò l’Imperatore. «Bambina, puoi veramente proiettare il tuo pensiero nella mente di un altro?»

«Non è affatto così» ribatté Alia. «Se io non sono nata come te, non posso pensare come te.»

«Uccidetela» mormorò la vecchia, e si afferrò allo schienale del trono per sostenersi. «Uccidetela!» I suoi occhi profondamente infossati fissavano Alia con odio.

«Silenzio!» ordinò l’Imperatore. Studiò Alia: «Bambina, puoi comunicare con tuo fratello?»

«Mio fratello sa che io sono qui» rispose Alia.

«Puoi dirgli di arrendersi in cambio della tua vita?»

Alia gli sorrise con serena innocenza: «Non lo farò» disse.

Il Barone avanzò incespicando: «Maestà… io non so nulla di…»

«Barone» lo rimbeccò l’Imperatore, «interrompetemi un’altra volta e vi toglierò per sempre la possibilità di interrompere.» I suoi occhi non lasciarono il piccolo viso di Alia, studiandolo attraverso le palpebre socchiuse: «Non vuoi, eh? Puoi leggermi nella mente quello che farò se non mi obbedirai?»

«Ho già detto che non posso leggere il pensiero» replicò lei. «Ma non c’è bisogno di telepatia per leggere le tue intenzioni.»

L’Imperatore si accigliò: «Bambina, la tua causa è senza speranza. Basta che io chiami a raccolta le mie forze per ridurre questo pianeta a un…»

«Non è così semplice» disse Alia. Accennò ai due uomini della Gilda: «Chiedilo a loro».

«Non è saggio opporsi ai miei desideri» dichiarò l’Imperatore. «Tu non puoi rifiutarmi niente.»

«Mio fratello sta per arrivare» disse Alia. «Anche un Imperatore deve tremare davanti a Muad’Dib, perché la sua forza è quella del buon diritto e il cielo gli sorride.»

L’Imperatore balzò in piedi: «Questo scherzo è durato abbastanza. Prenderò tuo fratello e questo pianeta, e li ridurrò in…»

La stanza oscillò e tremò intorno a loro, con un sordo boato. Poi una cascata di sabbia si rovesciò dietro al trono, nel punto in cui l’immensa tenda di metallo si saldava alla nave Imperiale. La pressione dell’aria aumentò bruscamente. Un brivido attraversò la pelle dei presenti: uno scudo di enormi dimensioni veniva attivato.

«Te l’avevo detto» disse Alia. «Mio fratello sta arrivando.»

L’Imperatore era immobile davanti al trono, la mano destra premuta contro l’orecchio, ascoltando una microricevente. Il Barone scivolò dietro ad Alia, mentre i Sardaukar si appostavano alle uscite.

«Ritorneremo subito nello spazio, per riorganizzarci» annunciò l’Imperatore. «Barone, tutte le mie scuse. Questi pazzi ci attaccano con la protezione della tempesta. Essi sapranno, allora, cosa significa sfidare l’ira Imperiale.» Indicò Alia: «Gettatela nella tempesta».

A queste parole, Alia balzò indietro, fingendosi terrorizzata: «Lascia che la tempesta prenda quello che può!» E si gettò tra le braccia del Barone.

«L’ho presa, Maestà!» gridò il Barone. «Ora la spedirò al… Aaaahh!» La scaraventò al suolo, stringendosi il braccio sinistro.

«Mi dispiace, nonno» disse Alia. «Hai fatto la conoscenza del gom jabbar degli Atreides.» Si alzò in piedi, aprì le mani e lasciò cadere un ago gocciolante.

Il Barone si rovesciò all’indietro. Gli occhi gli si sbarrarono mentre fissava la traccia rossa che era comparsa sul suo palmo sinistro. «Tu… tu…» Rotolò sul fianco tra i suoi sospensori: una massa enorme di carne floscia a pochi centimetri dal pavimento, la testa penzolante e la bocca spalancata.

«Questa gente è pazza!» ringhiò l’Imperatore. «Svelti! Tutti a bordo della nave. Purificheremo questo pianeta da ogni…»

Qualcosa lampeggiò alla sua sinistra. Una palla di fuoco zampillò dalla parete e crepitò sul pavimento di metallo. Un acre odore d’isolante bruciato entrò a fiotti nel selamlik.

«Lo scudo!» urlò uno degli ufficiali Sardaukar. «Lo scudo esterno è caduto! Hanno…»

Le sue parole furono soffocate da un ruggito metallico, mentre la parete della nave dietro all’Imperatore vacillò e fremette.

«Hanno fatto saltar via la prora della nostra nave!» urlò qualcuno.

La polvere ribolliva nella stanza. Alia scomparve nel vortice e corse verso la porta d’ingresso.

L’Imperatore si voltò di scatto e ordinò ai suoi di dirigersi verso un’uscita di emergenza che si aprì di scatto sulla parete della nave, dietro al trono. Un rapido segnale con la mano a un ufficiale dei Sardaukar, attraverso la polvere. «Ci arroccheremo qui!» ordinò.

Un altro schianto scosse la tendopoli. Le doppie porte si spalancarono di schianto sul lato opposto della stanza, lasciando entrare un torrente di sabbia e innumerevoli urla. Per un attimo una minuscola figura nera si disegnò contro la luce: Alia che si precipitava a procurarsi un coltello e, come si confaceva al suo addestramento Fremen, a uccidere gli Harkonnen e i Sardaukar feriti. I Sardaukar della Casa Imperiale si dispiegarono allora nella bruma giallastra, formando un arco di cerchio per proteggere la ritirata dell’Imperatore.

«Salvate voi stesso, Signore!» gridò un ufficiale. «Entrate nella nave!»

Ma l’Imperatore era solo, immobile accanto al trono; la sua mano indicava le porte del selamlik. La parete era stata squarciata per quaranta metri, e le porte si aprivano sulla sabbia sconvolta dalla tempesta. Da una distanza infinita una nuvola di polvere incombeva sul mondo. Campi di elettricità statica crepitavano tra le nubi e i lampi degli scudi cortocircuitati s’innalzavano da ogni parte. La pianura brulicava di figure che si battevano: Sardaukar e uomini avvolti nei mantelli che continuavano a balzar fuori dal cuore turbinante della tempesta.

Tutto questo faceva da cornice a quello che l’Imperatore indicava con la mano.

Dalla nuvola di sabbia uscì una schiera compatta di forme risplendenti, curve gigantesche s’innalzarono su zanne di cristallo che divennero le bocche spalancate dei vermi delle sabbie: una massiccia parete di vermi, ognuno con un plotone di Fremen che lo spronava all’attacco. Piombarono su di loro fischiando, stridendo, schiacciando la mischia furiosa sulla pianura, in uno sventolio di mantelli neri nella tempesta.

Puntavano direttamente sulla tendopoli dell’Imperatore e i Sardaukar della Casa Reale, per la prima volta nella loro storia, fissarono pietrificati un massacro che le loro menti avevano difficoltà ad accettare.

Ma le figure che balzavano giù dalle schiene dei vermi erano uomini, e il balenare delle lame nella sinistra luce giallastra era qualcosa che i Sardaukar erano stati addestrati ad affrontare. Si gettarono nella mischia. E sulla pianura di Arrakeen fu un unico, gigantesco corpo a corpo, mentre un gruppo scelto di guardie Sardaukar spingeva l’Imperatore all’interno della nave, sigillando la porta dietro di lui e preparandosi a morire sul posto.

Scosso dal relativo silenzio all’interno della nave, l’Imperatore fissò i volti pallidi e terrorizzati del suo seguito. Sua figlia appariva stremata, il volto paonazzo. La Veridica, immobile, il cappuccio calato sul viso, era un’indistinta ombra nera. Infine, i due che cercava: gli uomini della Gilda. La loro uniforme grigia, senza ornamenti, sembrava intonarsi perfettamente alla calma che ostentavano, nonostante il gioco delle intense emozioni intorno a loro.

Il più alto dei due, tuttavia, teneva una mano sull’occhio sinistro. Mentre l’Imperatore lo fissava, qualcuno urtò il braccio dell’uomo della Gilda: la mano si mosse e l’occhio fu rivelato. L’uomo aveva perduto una delle lenti a contatto che mascheravano il vero occhio, e ora questo occhio lo fissava… un occhio d’un azzurro così profondo da sembrare quasi nero.

Il più piccolo dei due si fece largo a gomitate e disse all’Imperatore: «Non sappiamo come andrà a finire». E il suo compagno più alto, nuovamente con la mano sull’occhio, replicò con voce gelida: «Ma neppure Muad’Dib lo sa».

Queste parole riscossero l’Imperatore dal suo stupore. A stento si trattenne dall’esprimere tutto il suo disprezzo, poiché non c’era alcun bisogno della particolare messa a fuoco interiore dei navigatori della Gilda per indovinare l’immediato futuro. Forse questi due uomini dipendevano talmente dalla loro facoltà da aver perduto completamente l’uso degli occhi e della ragione? si chiese.

«Reverenda Madre» disse. «Dobbiamo mettere a punto un piano.»

La vecchia ricacciò il cappuccio sulla schiena e affrontò il suo sguardo. In quell’istante, una totale comprensione si stabilì tra loro. Sapevano ambedue che restava soltanto un’arma: il tradimento.

«Il Conte Fenring» disse la Reverenda Madre.

L’Imperatore Padiscià annuì, e fece un gesto a uno dei suoi aiutanti perché eseguisse quell’ordine.

Era guerriero e mistico, feroce e santo, astuto come una volpe e innocente, cavalleresco e spietato, meno di un dio e più di un uomo. Non si può misurar Muad’Dib con gli standard ordinari Nel momento del suo trionfo, indovinò la morte che gli veniva preparata e tuttavia accettò il tradimento. Possiamo dire che lo fece per un senso di giustizia? Quale giustizia, allora? Perché, ricordate che stiamo parlando, ora, del Muad’Dib che rivestì il suo tamburo con la pelle del nemico, e che negò tutte le convenzioni, del suo passato ducale con un semplice gesto della mano, dichiarando semplicemente: «Io sono lo Kwisatz Haderach. Questa è una ragione più che sufficiente». dal «Risveglio di Arrakis», della Principessa Irulan

La sera della vittoria, Paul Muad’Dib fu scortato verso la residenza del Governatore, l’antica dimora che gli Atreides avevano occupato quand’erano giunti la prima volta su Dune. L’edificio era tale quale Rabban l’aveva restaurato. Era uscito intatto dalla battaglia, anche se la popolazione della città l’aveva saccheggiato. Alcuni dei mobili della Grande Sala erano stati rovesciati e fracassati.

Paul varcò a grandi passi l’ingresso principale, seguito da Gurney Halleck e Stilgar. La scorta si disperse nella Grande Sala e liberò uno spazio per Muad’Dib. Un gruppo cominciò a controllare che nessuna trappola fosse stata nascosta in quel luogo.

«Ricordo il giorno in cui siamo venuti qui per la prima volta con tuo padre» disse Gurney. Alzò gli occhi sui massicci pilastri e sulle alte finestre a feritoia. «Allora questo posto non mi piacque e adesso mi piace ancora meno. Una caverna è molto più sicura.»

«Tu sei un vero Fremen» dichiarò Stilgar, e vide il freddo sorriso che queste parole avevano fatto apparire sulle labbra di Muad’Dib. «Muad’Dib, sei ancora deciso a…»

«Questa dimora è un simbolo» disse Paul. «Rabban è vissuto qui. Occupandola sigillo la mia vittoria agli occhi di tutti. Manda i tuoi uomini in tutto l’edificio. Che non tocchino niente. Che si assicurino soltanto che non sia rimasto un solo Harkonnen, o qualcuno dei loro giocattoli.»

«Come tu comandi» fece Stilgar, e si allontanò a malincuore per obbedire.

Gli operatori radio comparvero nel salone coi loro apparecchi e cominciarono a montarli accanto al grande caminetto. I Fremen che si erano uniti ai Fedaykin superstiti presero posizione intorno alla sala. Si udirono mormoni; occhiate sospettose furono scambiate. Gli Harkonnen erano vissuti troppo a lungo in quel posto perché i Fremen potessero sentirsi a proprio agio.

«Gurney, manda una scorta a prendere mia madre e Chani» disse Paul. «Chani sa già di nostro figlio?»

«Il messaggio è stato inviato, mio Signore.»

«I creatori sono stati ritirati dal bacino?»

«Sì, mio Signore. La tempesta si è quasi calmata.»

«I danni sono gravi?»

«Sul percorso principale della tempesta… il campo di atterraggio e i magazzini della spezia… i danni sono rilevanti» disse Gurney. «Sia per la battaglia che per la tempesta.»

«Niente che il denaro non possa ripagare, suppongo» fece Paul.

«Eccettuate le vite, mio Signore» replicò Gurney, e vi era una sfumatura di rimprovero nella sua voce, come se avesse detto: Quando mai un Atreides si è preoccupato prima delle cose, quand’erano in gioco esseri umani?

Ma Paul riusciva soltanto a concentrarsi sul suo occhio interiore e sulle crepe, per lui ancora visibili, della parete del tempo. E attraverso ogni crepa il jihad infuriava, perdendosi nei corridoi del futuro.

Paul sospirò e attraversò la Grande Sala poiché aveva visto una sedia contro la parete di fronte. Un tempo si trovava nella sala da pranzo e forse era la sedia di suo padre. In quel momento, tuttavia, era soltanto un oggetto sul quale scaricare la sua stanchezza, nascondendola allo sguardo degli uomini. Si sedette, avviluppando il mantello intorno alle gambe e slacciandosi la tuta distillante sul collo.

«L’Imperatore è ancora asserragliato tra i resti della sua nave» disse Gurney.

«Che rimanga lì, per ora» disse Paul. «Hanno già trovato gli Harkonnen?»

«Stanno ancora esaminando i morti.»

«Qual è la risposta delle navi lassù?» Alzò il mento verso il soffitto.

«Nessuna risposta ancora, mio Signore.»

Paul sospirò e si appoggiò allo schienale. Poi aggiunse: «Portami uno dei prigionieri Sardaukar. Dobbiamo inviare un messaggio all’Imperatore. È tempo di discutere le condizioni».

«Sì, mio Signore.»

Gurney si voltò e fece un gesto a uno dei Fedaykin che si mise di guardia accanto a Paul.

«Gurney» bisbigliò Paul. «Dal giorno in cui ci siamo ritrovati, non ti ho mai udito pronunciare una citazione appropriata agli eventi.» Alzò gli occhi e vide Gurney che inghiottiva, e l’improvviso indurirsi della sua mascella.

«Come vuoi, mio Signore» fece Gurney. Si schiarì la gola e disse con voce stridula: «’E la vittoria in quel giorno si cambiò in lutto per tutto il popolo, perché il popolo seppe, in quel giorno, che il re piangeva suo figlio’».

Paul chiuse gli occhi, sforzandosi di scacciare il dolore dalla mente, di aspettare a piangere, come un tempo aveva aspettato a piangere suo padre. Ora dedicò i suoi pensieri alle scoperte che si erano accumulate in quel giorno: i futuri che s’intrecciavano e la presenza di Alia nel suo spirito.

Di tutte le particolarità della visione temporale questa era la più strana. «Ho manipolato il futuro per collocare le mie parole dove tu solo potessi udirle» gli aveva detto Alia. «Neppure tu puoi far questo, fratello mio. È un gioco interessante. E… oh, sì, ho ucciso il nonno, quel vecchio pazzo del Barone. Non ha provato molto dolore.»

Silenzio. La sua percezione temporale gli diceva che Alia si era ritirata da lui.

«Muad’Dib.»

Paul aprì gli occhi e vide davanti a sé il volto nero e barbuto di Stilgar, gli occhi tenebrosi e scintillanti.

«Hai trovato il corpo del Vecchio Barone» disse Paul.

Stilgar sussultò. «Come potevi saperlo?» bisbigliò infine. «Abbiamo appena scoperto il suo cadavere in quell’immenso mucchio di metallo edificato dall’Imperatore.»

Paul ignorò la domanda. Gurney si avvicinava seguito da due Fremen che scortavano un prigioniero Sardaukar.

«Eccone uno, mio Signore» disse Gurney. Con un gesto, ordinò ai Fremen di tenere il prigioniero a cinque passi da Paul.

Gli occhi del Sardaukar, notò Paul, avevano un’espressione vitrea, sconvolta. Un livido bluastro gli attraversava il volto dalla radice del naso a un angolo della bocca. Era biondo e dai tratti delicati: caratteristiche che indicavano un alto rango tra i Sardaukar. E tuttavia non c’erano insegne sulla sua uniforme strappata, fuorché i bottoni d’oro con lo stemma imperiale e i galloni stracciati dei suoi calzoni.

«Penso che sia un ufficiale, mio Signore» disse Gurney.

Paul annuì. «Io sono il Duca Paul Atreides. Lo capisci, questo?»

Il Sardaukar lo fissò senza muoversi.

«Parla» riprese Paul, «o il tuo Imperatore potrebbe morire.»

L’uomo sbatté le palpebre e deglutì.

«Chi sono io?» domandò Paul.

«Voi siete il Duca Paul Atreides» disse l’uomo con voce rauca.

Paul ebbe l’impressione che si sottomettesse con troppa facilità, ma d’altra parte i Sardaukar non avevano mai dovuto affrontare una giornata come questa. Finora avevano conosciuto soltanto vittorie, e ciò, si disse Paul, era già una forma di debolezza. Scartò quel pensiero, ripromettendosi di riprenderlo in considerazione più tardi.

«Voglio che tu porti un messaggio all’Imperatore» riprese Paul. E pronunciò l’antica formula: «Io, il Duca di una Grande Casa, Congiunto dell’Imperatore, faccio solenne giuramento all’Intesa. Se l’Imperatore e i suoi deporranno le armi e verranno da me, garantirò le loro vite con la mia». Alzò la mano sinistra, perché il Sardaukar potesse vedere il sigillo ducale. «Lo giuro su questo.»

Il Sardaukar s’inumidì le labbra e guardò Gurney.

«Sì» disse Paul. «Chi, se non un Atreides, potrebbe garantirsi la fedeltà di Gurney Halleck?»

«Porterò il messaggio» dichiarò il Sardaukar.

«Accompagnalo al nostro posto più avanzato e lascialo andare» ordinò Paul.

«Sì, mio Signore.» Gurney fece un cenno alle guardie perché lo scortassero e lo condusse fuori.

Paul si voltò verso Stilgar.

«Chani e tua madre sono arrivate» disse Stilgar. «Chani ha chiesto di restar sola col suo dolore. La Reverenda Madre ha voluto recarsi per un attimo nella camera strana. Non so perché.»

«Mia madre è malata di nostalgia per quel mondo che probabilmente non vedrà mai più» spiegò Paul. «Un pianeta dove l’acqua cade dal cielo e le piante crescono così fitte che è impossibile camminare tra loro.»

«L’acqua dal cielo…» mormorò Stilgar.

In quell’istante Paul vide quello che Stilgar era diventato: non era più un naib, ma una creatura del Lisan al-Gaib, un ricettacolo di stupore e obbedienza. Questo in realtà lo diminuiva e Paul sentì in lui il primo soffio del vento fantasma del jihad.

Ho visto un amico cambiarsi in un adoratore, pensò.

Provò all’improvviso un’impressione di profonda solitudine. Esplorò la sala con lo sguardo e vide a qual punto l’atteggiamento delle guardie si era modificato in sua presenza. Si erano aggiustate le vesti e stavano come in parata, in una sorta di competizione nella speranza di attirare l’attenzione di Muad’Dib.

Muad’Dib, da cui nasce ogni benedizione, pensò, e fu il pensiero più amaro della sua vita. Sono convinti che m’impadronirò del trono. Ma non sanno che lo faccio soltanto per impedire il jihad.

Stilgar si schiarì la gola: «Anche Rabban è morto».

Paul annuì.

Le guardie alla sua destra si scostarono all’improvviso e scattarono sull’attenti facendo ala a Jessica. Era vestita del suo aba nero e avanzava leggera come se ancora scivolasse sulla sabbia, ma Paul osservò che qualcosa sembrava essere ritornato in lei, qualcosa dei giorni in cui era vissuta qui… la concubina di un duca regnante. Un po’ della sua antica baldanza.

Jessica si fermò davanti a Paul, lo guardò. Vide che era stanco e che lo nascondeva, ma non provò alcuna compassione per lui. Era come incapace di provare qualsiasi emozione per suo figlio.

Jessica era entrata nella Grande Sala chiedendosi come mai questo luogo si rifiutasse di riacquistare il calore di un tempo, nei suoi ricordi. Questa sala le era estranea, come se non vi fosse mai stata, come se non l’avesse mai attraversata al braccio del suo amato Leto. Come se non avesse mai affrontato Duncan Idaho ubriaco, mai, mai, mai…

Dovrebbe esistere una parola chiave direttamente opposta all’adab, la memoria ossessiva, pensò. Una parola per i ricordi che si rinnegano.

«Dov’è Alia?» domandò.

«Fuori» rispose Paul. «Intenta a quello che ogni bravo bambino Fremen dovrebbe fare in questi momenti. Sta uccidendo ogni nemico ferito, marcando i corpi per le squadre di recupero dell’acqua.»

«Paul!»

«Fa questo per bontà, non capisci? Perché mai ci è così difficile afferrare questa unione nascosta tra bontà e crudeltà?»

Jessica fissò duramente suo figlio, sconvolta dal profondo cambiamento che sentiva in lui. È la morte di suo figlio che ha fatto questo? si chiese. E disse: «Gli uomini raccontano storie su di te. Dicono che tu hai tutti i poteri della leggenda: che niente può esserti nascosto, che vedi quello che nessun altro può vedere».

«Una Bene Gesserit che mi fa domande a proposito di una leggenda?» ribatté Paul.

«Ho la mia responsabilità in quello che tu sei» ammise Jessica. «Ma non sperare che io…»

«Ti piacerebbe vivere miliardi e miliardi di vite?» chiese Paul. «Che riserva di leggende! Pensa a tutte le esperienze, a tutta la saggezza che ne può derivare. Ma la saggezza attenua l’amore, non è vero? Essa dà una nuova forma all’odio… Come puoi sapere ciò che è spietato se non hai scandagliato nel profondo la crudeltà come la bontà? Dovresti aver paura di me, Madre. Io sono lo Kwisatz Haderach.»

Jessica aveva la gola secca: «Una volta hai negato di esserlo».

Paul scosse la testa. «Non posso più negarlo, ora.» Affrontò il suo sguardo: «L’Imperatore e i suoi stanno arrivando. Tra un istante saranno annunciati. Stammi vicina. Voglio vederli con estrema chiarezza. La mia futura sposa è tra essi».

«Paul! Non commettere lo stesso errore di tuo padre!»

«È una principessa» disse Paul. «Essa mi aprirà la via al trono, e questo è tutto. Un errore? Tu credi, poiché io sono quale tu mi hai fatto, che non possa provare il desiderio di vendetta?»

«Anche sugli innocenti?» domandò Jessica. E pensò: Non deve commettere i miei stessi sbagli.

«Non ci sono più innocenti» dichiarò Paul.

«Dillo a Chani» rispose Jessica, e indicò il corridoio che si apriva sul fondo della sala.

Chani entrò nella Grande Sala, attraversò lo schieramento dei Fremen come se non li vedesse. Aveva gettato il cappuccio sulla schiena e si era sfilata la maschera della tuta. Avanzò fragile, incerta, e si fermò accanto a Jessica.

Paul vide le lagrime sulle sue guance. Dà acqua ai morti, pensò. Sentì una fitta di dolore, come se soltanto la presenza di Chani l’avesse risvegliato.

«È morto, mio amato» disse Chani. «Nostro figlio è morto.»

Paul si alzò. Mantenne un controllo assoluto su se stesso. Tese una mano, accarezzò la guancia di Chani, l’umidità sulla sua pelle. «Nulla potrà sostituirlo» disse. «Ma vi saranno altri figli. Usul te lo promette.» Gentilmente, l’allontanò, poi fece un segno a Stilgar.

«Muad’Dib» disse Stilgar.

«L’Imperatore e la sua gente stanno arrivando dalla nave. Io resterò qui. Riunisci tutti i prigionieri al centro della sala, a una distanza di dieci metri da me, a meno che io non ordini altrimenti.»

«Ai tuoi ordini, Muad’Dib.»

Mentre Stilgar si voltava per obbedire, Paul udì i mormorii sbalorditi tra i Fremen: «Avete visto? Lo sapeva! Nessuno glielo ha detto, ma lo sapeva!»

Ora, infatti, si udivano chiaramente i Sardaukar dell’Imperatore avvicinarsi cantando a bocca chiusa una marcia, per tenere alti gli spiriti. Poi vi fu un mormorio di voci all’entrata e Gurney Halleck passò tra le guardie, attraversò la Sala per conferire con Stilgar, e infine si avvicinò a Paul, con uno strano sguardo negli occhi.

Perderò anche Gurney, così? si chiese Paul. Lo perderò come ho perduto Stilgar?… Perderò un amico in cambio di un adoratore?

«Non hanno armi a proiettile» disse Gurney. «L’ho controllato io stesso.» Si guardò intorno nella sala, osservando i preparativi ordinati da Paul. «Feyd-Rautha Harkonnen è con loro. Devo isolarlo?»

«Lascialo.»

«Ci sono anche alcuni uomini della Gilda che chiedono privilegi speciali e minacciano un embargo contro Arrakis. Ho detto che ti avrei trasmesso il messaggio.»

«Che minaccino, dunque.»

«Paul!» Jessica lanciò un’esclamazione soffocata. «Stai parlando della Gilda!»

«Tra poco strapperò loro gli artigli» disse Paul.

E pensò allora alla Gilda, a questa potenza che si era specializzata da così lungo tempo, fino a diventare un parassita incapace di esistere indipendentemente da questa vita di cui si nutriva. Non avevano mai osato impugnare la spada… e non l’avrebbero impugnata mai più. I navigatori della Gilda dipendevano esclusivamente dagli speciali poteri del melange. Quando la Gilda si era accorta dell’errore insito in questa specializzazione, avrebbe dovuto impadronirsi di Arrakis. Avrebbe potuto farlo, vivere i suoi giorni di gloria e morire. Invece, aveva deciso di vivere alla giornata, sperando che l’infinito oceano del cosmo da lei percorso avrebbe prodotto un nuovo ospite non appena il vecchio fosse morto.

I navigatori della Gilda, con la loro limitata prescienza, avevano compiuto una scelta fatale: si erano impegnati nel cammino più facile, limpido, chiaro, che conduce sempre alla stagnazione.

Che guardino pure da vicino il nuovo ospite, pensò Paul.

«C’è anche una Reverenda Madre del Bene Gesserit che dice di essere un’amica di tua madre» aggiunse Gurney.

«Mia madre non ha amiche tra le Bene Gesserit.»

Ancora una volta Gurney esaminò la Grande Sala, poi si piegò e bisbigliò all’orecchio di Paul: «Thufir Hawat è con loro, mio Signore. Non ho avuto la possibilità di vederlo da solo, ma mi ha spiegato coi nostri vecchi segnali in codice che ha lavorato per gli Harkonnen credendo che tu fossi morto. Dice che deve restare con loro».

«Tu hai lasciato Thufir con quei…»

«È lui che l’ha voluto, e ho pensato che fosse meglio così. Se… se qualcosa non andasse per il suo verso, possiamo controllarlo. E se non fosse così, è sempre meglio avere un orecchio dall’altra parte.»

Paul si ricordò allora di alcuni brevi lampi di prescienza su questo preciso istante, e di una linea tempo in cui Thufir Hawat aveva un ago avvelenato che l’Imperatore gli aveva ordinato di usare su «quel Duca ribelle».

Le guardie all’ingresso principale scattarono formando un breve corridoio di lance. Si udì un fruscio confuso di vesti; la sabbia portata dal vento all’interno della Residenza scricchiolò sotto numerosi piedi.

L’Imperatore Padiscià Shaddam IV comparve alla testa della sua gente. Non aveva più l’elmetto Burseg, e i suoi capelli rossi erano scompigliati. La manica sinistra della sua uniforme era strappata lungo tutta la cucitura interna. Era senza cintura e senz’armi, ma con la sua sola personalità sembrava creare uno scudo intorno a sé.

Una lancia Fremen si abbassò davanti a lui, arrestandolo alla distanza indicata da Paul. Gli altri si accalcarono alle sue spalle, una mescolanza di volti confusi e di stoffe multicolori.

Paul alzò gli occhi sul gruppo. Vide alcune donne che cercavano di dissimulare le lagrime e i lacché, venuti su Arrakis a godersi da un posto di prima fila la nuova vittoria dei Sardaukar, muti per la sconfitta. Vide gli occhi da uccello, scintillanti, della Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam che lo fissavano con odio da sotto il cappuccio nero, e accanto a lei, sottile e furtivo, Feyd-Rautha Harkonnen.

Ecco un volto che il tempo mi ha rivelato, pensò.

Poi, dietro Feyd-Rautha, il suo sguardo fu attirato da un movimento, e vide un volto sottile, da donnola, che non aveva mai incontrato prima, non nel tempo e neppure fuori di esso. Tuttavia, sentì che avrebbe dovuto conoscerlo, e questa sensazione lo fece rabbrividire di paura.

Perché dovrei temere quell’uomo?

Si curvò verso sua madre e le bisbigliò: «Quell’uomo alla sinistra della Reverenda Madre, quello dallo sguardo cattivo… chi è?»

Jessica guardò, riconoscendo un viso del dossier del suo Duca. «Il Conte Fenring» disse. «Colui che ci ha preceduti su Arrakis. Un eunuco genetico… un Assassino.»

Il commesso viaggiatore dell’Impero, pensò Paul, e provò come uno choc nel più profondo della sua coscienza, perché aveva visto l’Imperatore un numero incalcolabile di volte nei suoi possibili futuri, ma non aveva mai incontrato il Conte Fenring.

Paul si ricordò allora di aver visto il proprio cadavere in una quantità incalcolabile di nodi temporali, ma di non avere assistito neppure una volta alla propria morte.

Quest’uomo mi è sempre stato nascosto perché è colui che mi ucciderà? si chiese Paul.

Provò una fitta di apprensione. Distolse allora l’attenzione da Fenring, osservando i Sardaukar, i loro volti amari e disperati. Paul colse qua e là, fra di essi, uno sguardo vigile e attento. Gli ufficiali esaminavano la sala, vagliando le sue difese, e ancora complottavano e facevano piani nel tentativo disperato di trasformare la sconfitta in vittoria.

Infine, l’attenzione di Paul fu attratta da una donna alta e bionda, dagli occhi verdi, una bellezza nobile e altera. Il suo viso, dal classico profilo, non aveva alcuna traccia di lagrime. Paul la riconobbe all’istante: la Principessa Reale Bene Gesserit, un volto che gli era apparso infinite volte nelle sue visioni attraverso il tempo: Irulan.

La chiave del trono, pensò.

Poi, colse un altro movimento tra la folla imperiale, un volto, una figura ne emersero: Thufir Hawat, le antiche sembianze solcate da cicatrici, le labbra scure e macchiate, le spalle curve, il corpo fragile per l’età.

«È Thufir Hawat» disse Paul. «Lascialo venire avanti, Gurney.»

«Mio Signore!» esclamò Gurney.

«Lascialo venire avanti» ripeté Paul.

Gurney annuì.

Hawat avanzò esitando. Una lancia Fremen si alzò e ricadde dietro di lui. I suoi occhi acquosi scrutarono Paul, vagliando, esplorando.

Paul fece un passo avanti, e avvertì la tensione, l’attesa dell’Imperatore e dei suoi.

Lo sguardo di Hawat passò oltre Paul, e il vecchio disse: «Lady Jessica, ho appreso solo oggi come vi abbia mal giudicata. Non merito perdono».

Paul attese, ma sua madre restò silenziosa.

«Thufir, vecchio amico» disse Paul. «Come puoi vedere, la mia schiena non è rivolta a nessuna porta.»

«L’universo è pieno di porte» fece Hawat.

«Sono figlio di mio padre?» chiese Paul.

«Più simile a tuo nonno» replicò Hawat con voce rauca. «Hai il suo sguardo e il suo modo di fare.»

«E tuttavia, sono figlio di mio padre» disse Paul. «Perché io ti dico, Thufir, che per ripagare i tuoi anni al servizio della mia famiglia tu, ora, puoi chiedermi qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa, Thufir. È la mia vita che vuoi? È tua.»

E fece un altro passo in avanti, le mani lungo i fianchi. Colse un lampo d’intesa nello sguardo di Thufir.

Ha capito che io so della trappola, pensò Paul.

Ridusse allora la sua voce a un bisbiglio, che soltanto Hawat poteva udire: «Dico sul serio, Thufir. Se devi colpirmi, fallo ora».

«Io volevo soltanto trovarmi un’ultima volta davanti a te, mio Duca» disse Hawat. E Paul, per la prima volta, vide lo sforzo che il vecchio faceva per non cadere. Avanzò, lo afferrò per le spalle, e sentì fremere i muscoli fra le sue dita.

«Soffri, mio vecchio amico?» gli chiese.

«Soffro, mio Duca» dichiarò Hawat, «ma il piacere è infinitamente più grande.»

Fece un mezzo giro tra le braccia di Paul, tese la mano sinistra col palmo all’insù, verso l’Imperatore, e mostrò a tutti il piccolo ago premuto contro le dita. «Vedete, Maestà? Vedete l’ago del vostro tradimento? Credevate forse che io, che ho votato la mia intera vita al servizio degli Atreides, avrei dato meno, adesso?»

Paul barcollò, mentre il vecchio gli si afflosciava tra le braccia. Sentì la flacìdità della morte. Lentamente, con infinita delicatezza, distese il corpo di Hawat sul pavimento, si raddrizzò e ordinò con un gesto alle sue guardie di portarlo via.

Il silenzio calò nella sala, finché il suo ordine non fu eseguito.

Il volto dell’Imperatore era gelido, di pietra. Paul per la prima volta lesse in quegli occhi la paura.

«Maestà» disse Paul, e colse un gesto di sorpresa nella Principessa Reale. Aveva pronunciato questa parola con l’intonazione controllata del Bene Gesserit, caricandola di tutto il disprezzo possibile.

È proprio una Bene Gesserit, pensò Paul, guardando la principessa.

L’Imperatore si schiarì la gola e replicò: «Forse il mio rispettabile congiunto crede che tutto, ora, vada secondo i suoi desideri. Niente di più falso. Ha violato l’Intesa, ha usato le atomiche contro…»

«Ho usato le atomiche contro un ostacolo naturale del deserto» l’interruppe Paul. «Era sul mio cammino, e io avevo fretta di arrivare da voi, Maestà, per domandarvi qualche spiegazione su certe vostre strane attività.»

«La sterminata forza di tutte le Grandi Case sta orbitando intorno ad Arrakis, in questo momento» disse l’Imperatore. «Una sola parola da parte mia, e…»

«Ah, sì» confermò Paul. «Quasi mi dimenticavo di loro.» Cercò con gli occhi nel seguito dell’Imperatore, finché non vide i volti dei due uomini della Gilda. Si rivolse a Gurney: «Sono quelli gli agenti della Gilda, Gurney? Quei due uomini grassi vestiti di grigio, laggiù?»

«Sì, mio Signore.»

«Voi due» disse Paul, puntando il braccio verso di loro. «Uscite subito di lì e spedite un messaggio perché quella flotta ritorni subito a casa. Poi, aspetterete la mia autorizzazione per…»

«La Gilda non prende i tuoi ordini!» gridò il più alto dei due. Lui e il suo compagno si precipitarono verso la barriera di lance, che furono alzate a un cenno di Paul. I due uomini si avvicinarono a Paul, il più alto puntò un braccio verso di lui: «Qui ci sono senz’altro gli estremi per un embargo, a causa del tuo…»

«Che io senta ancora questa assurdità, da voi due» replicò Paul, «e ordinerò che sia distrutta l’intera produzione di spezia su Arrakis… per sempre!»

«Sei pazzo?» esclamò il più alto dei due. Fece un mezzo passo indietro.

«Così, ammetti che io sono in grado di farlo?» chiese Paul.

L’uomo della Gilda boccheggiò. «Sì, puoi farlo… ma non devi!»

«Ahhh» fece Paul, e annuì a se stesso. «Siete tutti e due navigatori della Gilda, non è vero?»

«Sì!»

Il più piccolo dei due proseguì: «Anche tu saresti cieco e ci condanneresti tutti a una morte lenta. Sai tu cosa significa esser privati del liquore di spezia, quando si è intossicati?»

«L’occhio che sceglie la rotta più sicura chiuso per sempre» disse Paul. «La Gilda paralizzata. Gli esseri umani diverrebbero piccoli gruppi isolati, sui loro pianeti isolati. Sapete, potrei farlo per semplice ripicca… o perché mi annoio.»

«Parliamone privatamente» si affrettò ad aggiungere il più alto dei due agenti della Gilda. «Sono convinto che potremo raggiungere un compromesso sod…»

«Mandate quel messaggio!» esclamò Paul. «Sono stanco di discutere. Se quella flotta sopra di noi non se ne va al più presto, non avremo più bisogno di parlare.» Indicò col capo i suoi operatori radio sul fondo della Grande Sala. «Potete usare i miei apparecchi.»

«Prima dobbiamo discuterne» ribatté l’agente più alto. «Non possiamo semplicemente…»

«Mandate il messaggio!» urlò Paul. «Chi può distruggere una cosa ha l’assoluto controllo su di essa! Io ho quel potere: voi stessi l’avete riconosciuto. Non siamo qui per discutere, negoziare o cercar compromessi. Ubbidite ai miei ordini, o sarete i primi a subirne le conseguenze!»

«Lo farà» balbettò il più piccolo. E Paul vide la paura che li attanagliava.

Lentamente, i due agenti della Gilda si avvicinarono alle trasmittenti dei Fremen.

«Obbediranno?» domandò Gurney.

«La loro visione del tempo si restringe» disse Paul. «Vedono davanti a sé una parete nuda che indica le conseguenze della loro disobbedienza. Ogni navigatore della Gilda, su ogni nave, vede davanti a sé quella parete. Obbediranno.»

Paul si voltò e fissò l’Imperatore. E disse: «Quando vi hanno permesso di salire sul trono di vostro padre, voi doveste garantire che i rifornimenti di spezia non si sarebbero mai interrotti. Voi avete tradito il vostro impegno, Maestà. Sapete le conseguenze?»

«Nessuno mi ha permesso di…»

«Smettetela di recitare la parte dello stupido» gridò Paul. «La Gilda è come un villaggio sulla riva di un fiume. Hanno bisogno dell’acqua, ma possono prelevare soltanto lo stretto necessario. Non possono costruire una diga attraverso il fiume, perché questo attirerebbe l’attenzione sul loro piccolo prelievo: alla fine, potrebbero perfino essere distrutti. Questo fiume è la spezia, e io ho costruito una diga su questo fiume. Ma la mia diga è tale che voi non potete distruggerla senza che sia distrutto anche il fiume.»

L’Imperatore si passò una mano tra i capelli rossi e fissò la schiena dei due uomini della Gilda.

«Perfino la Veridica Bene Gesserit sta tremando» continuò Paul. «Vi sono molti altri veleni che le Reverende Madri possono utilizzare per i loro trucchi, ma dopo che si sono servite del liquore di spezia, gli altri veleni restano senza effetto.»

La vecchia si strinse nella veste nera e si fece largo tra la folla finché non si arrestò davanti alla barriera delle lance.

«Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam» disse Paul, «è passato molto tempo da Caladan, non è vero?»

Lei folgorò con un’occhiata sua madre, e dichiarò: «Bene, Jessica, vedo che tuo figlio è colui che cercavamo. Per questo ti può essere perfino perdonata quell’abominazione che è tua figlia».

Paul dominò la fredda collera che saliva in lui, e replicò: «Tu non hai alcun diritto, e nessuna ragione, di perdonare alcunché a mia madre».

La vecchia affrontò il suo sguardo.

«Prova i tuoi trucchi con me, vecchia strega» la rimbeccò Paul. «Dov’è il tuo gom jabbar? Cerca di penetrare col tuo sguardo là dove non osi guardare. Là ci sarò io, a guardarti!»

La vecchia abbassò gli occhi.

«Non hai niente da dire?» domandò Paul.

«Ti ho dato il benvenuto tra gli esseri umani» mormorò lei. «Non scherzare su questo.»

Paul alzò la voce: «Osservatela bene, amici miei! Questa è una Reverenda Madre Bene Gesserit, il più paziente degli esseri al servizio della più paziente delle cause! Essa ha atteso con le sue sorelle per novanta generazioni che si producesse la giusta combinazione genetica e ambientale da cui doveva nascere colui che i loro piani esigevano. Osservatela, amici miei! Ora, lei sa che le novanta generazioni hanno prodotto quella persona. Eccomi, ma io… non… obbedirò… mai… ai… suoi… ordini!»

«Jessica!» urlò la vecchia. «Fallo tacere!»

«Fallo tacere tu» disse Jessica.

Paul guardò con disprezzo la vecchia: «Per la parte che hai avuto in tutto questo, potrei farti strangolare con gioia» dichiarò. «Non potresti impedirmelo!» continuò, mentre lei s’irrigidiva per il furore. «Ma credo che la miglior punizione sia quella di farti vivere fino alla fine dei tuoi giorni senza che tu sia capace di toccarmi, o di piegarmi a uno solo dei tuoi voleri…»

«Jessica, che cosa hai fatto?» esclamò la vecchia.

«Questo soltanto vi concedo» disse Paul. «Voi avete visto, in parte, quali erano i bisogni della razza, ma quanto povera e limitata è la vostra visione! Voi credete di controllare l’evoluzione umana con qualche accoppiamento diretto secondo i vostri piani! Quanto poco, in realtà, ne capite…»

«Non devi parlare di queste cose!» sibilò la vecchia.

«Silenzio!» ruggì Paul. E questa parola sembrò acquistare sostanza mentre si contorceva nell’aria sotto il controllo di Paul.

La vecchia indietreggiò barcollando tra le braccia di coloro che si trovavano alle sue spalle, mortalmente pallida per questo attacco che Paul le aveva sferrato alla psiche. «Jessica» bisbigliò, «Jessica.»

«Io ricordo il tuo gom jabbar» disse Paul. «Tu ricorda il mio. Posso ucciderti con una sola parola.»

I Fremen, tutto intorno alla Grande Sala, si lanciarono occhiate d’intesa. La leggenda non diceva forse: «E la sua parola porterà la morte eterna a chi si oppone alla sua giustizia?»

Paul fissò nuovamente la Principessa Reale, immobile accanto a suo padre, l’Imperatore. Disse, senza lasciarla con gli occhi: «Maestà, conosciamo entrambi la via d’uscita alle nostre difficoltà».

L’Imperatore guardò sua figlia e poi Paul: «Come osi? Tu? Un avventuriero senza famiglia, un…»

«Smettetela con questa commedia» l’interruppe Paul. «Voi stesso mi avete riconosciuto come Reale Congiunto. Sono le vostre precise parole.»

«Io sono il tuo re» disse l’Imperatore.

Paul guardò gli uomini della Gilda, accanto alla trasmittente. Uno dei due annuì.

«Potrei forzarvi la mano» fece Paul.

«Non oserai!» gridò l’Imperatore.

Paul si limitò a fissarlo.

La Principessa Reale mise una mano sul braccio di suo padre. «Padre» disse, e la sua voce era dolce e suadente.

«Non usare i tuoi trucchi su di me» replicò bruscamente l’Imperatore. La guardò. «Non devi farlo, figlia mia. Abbiamo altre risorse che…»

«Ma qui c’è un uomo che è degno di essere tuo figlio» disse lei.

La Reverenda Madre, che aveva ritrovato la sua dignità, si fece largo verso l’Imperatore e bisbigliò qualcosa al suo orecchio.

«Sta patrocinando la tua causa» disse Jessica.

Paul continuò a fissare la bionda Principessa. Bisbigliò a sua madre: «Quella è Irulan, la primogenita, non è vero?»

«Sì.»

Chani si avvicinò a Paul, sull’altro lato, e gli disse: «Vuoi che io me ne vada, Muad’Dib?»

Paul la fissò: «Andartene? Tu non lascerai mai più il mio fianco».

«Non c’è più nulla, fra noi, che ci leghi» disse Chani.

Paul continuò a guardarla, in silenzio, poi aggiunse: «Usa sempre il linguaggio della verità, con me, Sihaya». Chani fece per rispondere, ma Paul le appoggiò un dito sulle labbra: «Quello che ci lega non potrà mai esser sciolto» disse. «Ora, osserva attentamente ciò che accadrà qui, poiché desidero rivedere questa sala più tardi, agli occhi della tua saggezza.»

L’Imperatore e la sua Veridica discutevano a bassa voce, animatamente.

Paul si rivolse a sua madre: «Lei gli sta ricordando che, in base al loro accordo, una Bene Gesserit dovrà salire al trono, ed è appunto Irulan che è stata preparata».

«Era il loro piano?» chiese Jessica.

«Non è forse ovvio?» replicò Paul.

«Ne vedo i segni» disse bruscamente Jessica. «La mia domanda voleva soltanto ricordarti che non dovresti cercare d’insegnarmi quello che ti ho inculcato io stessa.»

Paul la guardò e colse un gelido sorriso sulle sue labbra.

Gurney Halleck si curvò tra loro e bisbigliò: «Ti ricordo, mio Signore, che c’è un Harkonnen in quel mucchio di bastardi». Accennò con la testa a Feyd-Rautha, schiacciato sulla sinistra contro la barriera di lance. «Quello. Ha il volto più malvagio di quanti ne abbia mai visti. Tu mi avevi promesso una volta che…»

«Ti ringrazio, Gurney» disse Paul.

«È il na-Barone… anzi, il Barone, adesso che il vecchio è morto» fece Gurney. «Andrà benissimo per quello che ho in…»

«Puoi vincerlo, Gurney?»

«Il mio Signore si burla di me?»

«Quella discussione fra l’Imperatore e la sua strega è andata avanti abbastanza, non credi, Madre mia?»

Jessica annuì: «Davvero».

Paul alzò la voce: «Maestà, c’è forse un Harkonnen tra voi?»

Il modo in cui l’Imperatore alzò gli occhi su Paul rivelò tutto il suo sdegno: «Credevo che il mio seguito si trovasse sotto la protezione della tua parola di Duca».

«La mia era soltanto la richiesta di una informazione» precisò Paul. «Volevo soltanto sapere se un Harkonnen fa ufficialmente parte del vostro seguito, o se vi si è nascosto per vigliaccheria.»

L’Imperatore ebbe un sorriso astuto: «Chiunque sia stato accolto tra la mia gente fa parte del mio seguito».

«Voi avete la parola del Duca» dichiarò Paul. «Ma Muad’Dib è un’altra cosa. Lui potrebbe non accettare la sua definizione di ciò che è un seguito. Il mio amico Gurney Halleck vuole uccidere un Harkonnen. Se lui…»

«Kanly!» urlò Feyd-Rautha, schiacciandosi contro la barriera di lance. «Tuo padre ha invocato questa vendetta, Atreides. Tu mi dai del vigliacco mentre ti nascondi tra le tue donne e offri un lacché al tuo posto!»

La Veridica bisbigliò qualcosa, precipitosamente, all’Imperatore, ma lui la respinse e gridò: «Kanly, vero? Vi sono regole molto precise per il kanly».

«Paul, metti fine a tutto questo» disse Jessica.

«Mio Signore» riprese Gurney, affannosamente, «mi avevi promesso che avrei avuto la mia giornata davanti a un Harkonnen.»

«L’hai già avuta» fece Paul, e sentì le emozioni rifluire da lui, lasciandolo simile a un fantoccio. Si sfilò il mantello e il cappuccio e li porse a sua madre insieme con la sciarpa e il cryss, e cominciò a slacciarsi la tuta distillante. L’intero universo si concentrava in quell’istante, lo sentì.

«Paul, è inutile» disse Jessica. «Ci sono altri modi, più facili.»

Si liberò della tuta, sfilò il cryss dal fodero tra le mani di sua madre. «Lo so» affermò. «Veleno e assassinio. Tutto secondo la tradizione.»

«Tu mi hai promesso un Harkonnen!» sibilò Gurney, e Paul vide la rabbia sul volto dell’uomo, la linea scura della liana indelebilis sul suo viso. «Me lo devi, mio Signore!»

«Hai forse sofferto, da loro, più di quanto ho sofferto io?» chiese Paul.

«Mia sorella» esclamò Gurney con voce rauca, «e gli anni che ho passato nel pozzo degli schiavi…»

«Mio padre» replicò Paul, «i miei amici e compagni, Thufir Hawat e Duncan Idaho. Gli anni trascorsi come un animale braccato, senza più rango o seguaci… E una cosa ancora: il kanly, e tu sai meglio di me quali sono le regole.»

Le spalle di Halleck si afflosciarono: «Mio Signore, se quel porco… Non è niente più che una bestia schifosa. Tu potresti soltanto schiacciarlo col piede e gettar via la tua calzatura perché è contaminata. Chiama un boia, se proprio è necessario, o lascia che sia io a farlo, ma non offrire te stesso per…»

«Muad’Dib non ha alcun bisogno di far questo» disse Chani.

Lui la guardò e lesse la paura nei suoi occhi: «Ma il Duca Paul deve» dichiarò.

«È soltanto una bestia Harkonnen!» ringhiò Gurney.

Paul esitò. Era sul punto di rivelare la sua stessa discendenza Harkonnen, ma ne fu impedito da un’occhiata tagliente di sua madre, e disse semplicemente: «Ma questo essere ha una forma umana, Gurney, e deve beneficiare del dubbio umano».

Gurney insistette: «Se soltanto…»

«Per favore, fatti da parte» disse Paul. Soppesò il cryss e spinse via, gentilmente, Gurney.

«Gurney!» esclamò Jessica. Gli sfiorò il braccio: «È come suo nonno. Non distrarlo. È la sola cosa che tu possa fare per lui, ora». E pensò: Grande Madre! Quale ironia!

L’Imperatore studiò Feyd-Rautha, notando le spalle rigonfie e i grossi muscoli. Si voltò a osservare Paul: un giovane sottile come una corda di frusta, non così asciutto come i nativi di Arrakis, ma gli si potevano contare le costole, e i fianchi erano così scavati che l’incresparsi e il tendersi dei muscoli era perfettamente visibile sotto la sua pelle tesa.

Jessica si piegò verso Paul e mormorò per lui solo: «Un’ultima cosa, Figlio mio. A volte, la gente pericolosa è preparata dalle Bene Gesserit. Una parola è impressa nei più profondi recessi della sua mente, secondo l’antica tecnica della sofferenza e del piacere. La parola usata più frequentemente è ’Uroshnor’. Se costui è stato preparato, e sono convinta che lo sia, quella parola pronunciata al suo orecchio farà afflosciare i suoi muscoli, e…»

«Non ho bisogno di alcun vantaggio speciale, Madre» disse Paul. «Per favore, fatti da parte.»

«Perché fa questo?» domandò Gurney a Jessica. «Vuoi farsi uccidere e diventare un martire? Tutte quelle ciance religiose dei Fremen gli hanno oscurato il cervello?»

Jessica nascose il viso tra le mani, rendendosi conto all’improvviso di non sapere perché Paul agiva così. Poteva avvertire la presenza della morte nella stanza, e sapeva che questo Paul, così nuovo e diverso, era davvero capace di quello che Gurney aveva suggerito. E concentrò tutti i suoi talenti sul desiderio che provava di difendere suo figlio, ma non c’era niente che potesse fare.

«Sono quelle ciance religiose» ripeté Gurney.

«Zitto!» bisbigliò Jessica. «E prega.»

Improvvisamente un sorriso comparve sul volto dell’Imperatore: «Se Feyd-Rautha Harkonnen… del mio seguito… così desidera» disse, «io lo libero da qualsiasi impegno. Che agisca secondo la sua volontà.» Accennò con la mano alle guardie Fedaykin di Paul: «Uno dei vostri pezzenti ha la mia cintura e il mio pugnale. Se Feyd-Rautha lo desidera, può scendere in campo con la mia lama».

«Lo desidero» dichiarò Feyd-Rautha, e Paul lesse l’esaltazione sul suo viso.

È troppo fiducioso, pensò. È un vantaggio naturale che posso accettare.

«Portate il pugnale dell’Imperatore» ordinò Paul. Il suo ordine fu prontamente eseguito. «Mettetelo qui, sul pavimento.» E indicò il punto col piede.

«Che la feccia imperiale si ammucchi contro il muro e l’Harkonnen resti solo.»

Un fruscio di vesti, piedi strascicati, ordini sibilati sottovoce e voci di protesta si levarono mentre l’ordine di Paul veniva eseguito. Gli uomini della Gilda, accanto alla trasmittente, fissarono Paul, perplessi.

Sono abituati a vedere il futuro, pensò Paul. In questo luogo e in questo tempo sono ciechi… ciechi quanto lo sono io. E tentò un’ultima volta di sondare il futuro, l’incrociarsi dei venti, il cuore della tempesta che si concentrava in quel luogo, in quel preciso istante. Ma anche i più sottili spiragli del futuro gli erano oscuri, adesso. Qui c’era il jihad non ancora nato, lui lo sapeva. Qui c’era la coscienza razziale che lui aveva già sperimentato, col suo terribile scopo. C’erano ragioni a sufficienza per uno Kwisatz Haderach o un Lisan al-Gaib, perfino per le incerte, claudicanti intenzioni del Bene Gesserit. La razza umana aveva preso coscienza della sua stagnazione, del suo malsano ripiegarsi su se stessa, e ora vedeva un’unica via di scampo: il turbine che avrebbe mescolato i geni, dal quale sarebbero sopravvissute soltanto le combinazioni più forti. In quell’istante tutti gli uomini formavano un unico organismo incosciente in preda a un istinto capace di travolgere qualsiasi barriera.

E Paul comprese la futilità dei suoi sforzi per modificare anche il frammento più impercettibile di ciò che accadeva. Aveva pensato di potersi opporre da solo al jihad, ma il jihad vi sarebbe stato, comunque. Le sue legioni si sarebbero scagliate con furia fuori di Arrakis anche senza di lui. Avevano soltanto bisogno di una leggenda, e lui era già una leggenda. Aveva mostrato la strada, aveva dato ad essi il potere, perfino sulla Gilda, che aveva bisogno della spezia per sopravvivere.

Lo afferrò una sensazione di fallimento, poi vide che Feyd-Rautha Harkonnen si era sbarazzato dell’uniforme strappata ed era rimasto soltanto con una semplice maglia metallica da combattimento.

Questo è il culmine, pensò Paul. A partire da qui, il futuro si aprirà e le nuvole si dissolveranno per irradiare una luce gloriosa. Se io dovessi morire, qui, diranno che ho sacrificato la mia vita perché il mio spirito possa guidarli. E se vivrò diranno che nulla può opporsi a Muad’Dib.

«L’Atreides è pronto?» domandò Feyd-Rautha, secondo l’antico rituale kanly.

Paul scelse di rispondergli secondo la tradizione Fremen: «Possa il tuo coltello scheggiarsi e spezzarsi!» Puntò il dito verso il pugnale dell’Imperatore, sul pavimento, indicando che Feyd-Rautha poteva avanzale e prenderlo.

Senza mai lasciarlo con gli occhi, Feyd-Rautha venne avanti, afferrò l’arnia e la bilanciò fra le dita per saggiarne il contatto. L’eccitazione saliva in lui. Questo era il combattimento che aveva sempre sognato, da uomo a uomo, abilità contro abilità, senza nessuno scudo interposto. Questo combattimento gli avrebbe aperto la via al potere, poiché l’Imperatore avrebbe sicuramente premiato chiunque avesse ucciso questo fastidioso Duca. Poteva darsi, perfino, che l’Imperatore concedesse in premio quella sua figlia altezzosa e una parte del trono. E questo duca bandito, questo avventuriero, non avrebbe certo tenuto testa a un Harkonnen, addestrato ad ogni astuzia, ad ogni perfidia da mille combattimenti nell’arena. Questo cialtrone ignorava che avrebbe dovuto affrontare molte più armi di un semplice coltello.

Vedremo se sai resistere al veleno! pensò Feyd-Rautha. Salutò Paul col pugnale dell’Imperatore e disse: «Preparati a incontrare la morte, pazzo!»

«Allora, combattiamo, cugino?» chiese Paul. Avanzò con passo felino, gli occhi puntati sulla lama davanti a lui, il corpo rannicchiato, il cryss bianco latteo puntato in fuori, come un’estensione del suo braccio.

Girarono l’uno intorno all’altro, i piedi nudi che stridevano, a volte, sul pavimento, pronti a gettarsi sul minimo spiraglio.

«Come danzi bene» disse Feyd-Rautha.

Parla, pensò Paul. Un’altra debolezza. Il silenzio lo rende inquieto.

«Hai ricevuto l’assoluzione?» domandò Feyd-Rautha.

Paul girava ancora in silenzio.

In prima fila tra la folla la vecchia Reverenda Madre tremava. Il giovane Atreides aveva chiamato «cugino» l’Harkonnen. Questo significava una sola cosa: lui sapeva la loro comune ascendenza, e questo era facile a capirsi poiché era lo Kwisatz Haderach. Ma questa semplice parola pronunciata da Paul l’obbligò a concentrarsi sull’unica cosa che importava, per lei.

Ciò che avveniva qui, poteva rivelarsi la peggiore catastrofe per il piano di selezione del Bene Gesserit.

Lei aveva intravisto qualcosa di ciò che Paul aveva capito, che Feyd-Rautha poteva ucciderlo, ma senza uscirne, per questo, vittorioso. Un altro pensiero, tuttavia, quasi sommerse il suo spirito. Là, davanti a lei, i due prodotti finali del lungo e faticoso programma si affrontavano in un combattimento mortale. Se entrambi fossero morti in quel luogo, sarebbe rimasta soltanto la figlia bastarda di Feyd-Rautha, ancora una bambina, un fattore sconosciuto, e Alia, l’abominazione.

«Forse avete soltanto dei riti pagani, qui» disse ancora Feyd-Rautha. «Vuoi che la Veridica prepari il tuo spirito per il grande viaggio?»

Paul sorrise, girando verso destra, vigile, i suoi cupi pensieri cancellati dagli imperativi di quell’istante.

Feyd-Rautha balzò, fintando con la destra, ma facendo balzare il coltello nella sinistra.

Paul lo schivò facilmente, notando nel colpo vibrato da Feyd-Rautha l’esitazione del combattente abituato allo scudo. Tuttavia, fu soltanto una lieve esitazione; Feyd-Rautha aveva già combattuto altre volte con avversali privi di scudo.

«Forse un Atreides corre invece di combattere?» chiese Feyd-Rautha, beffardo.

Paul ricominciò a girare silenziosamente in tondo. Gli tornarono alla memoria le parole di Idaho, il duro addestramento di tanto tempo fa su Caladan: «Nei primi istanti, studia l’avversario. Perdi così la possibilità di una rapida vittoria, ma questi attimi di studio sono una garanzia di successo. Prendi il tuo tempo».

«Forse pensi di prolungare la tua vita con questa danza?» disse Feyd-Rautha. «Benissimo.» Cessò di girare e si raddrizzò.

Paul aveva visto abbastanza per una prima valutazione. Feyd-Rautha avanzava a sinistra offrendo all’avversario il fianco destro, come se la cotta di maglia fosse una protezione sufficiente. Era l’azione di un uomo addestrato all’uso dello scudo, e che avesse un pugnale in ambedue le mani.

Oppure… Paul esitò… oppure la cotta di maglia era qualcosa di più di quello che sembrava.

L’Harkonnen sembrava troppo fiducioso nei confronti di un uomo che in quello stesso giorno aveva condotto le sue forze alla vittoria contro le legioni dei Sardaukar.

Feyd-Rautha notò l’esitazione, e disse: «Perché ritardi l’inevitabile? Tu m’impedisci di esercitare i miei diritti su questo mondo di pezzenti».

Un ago, pensò Paul. Molto ben nascosto. Nessuna traccia sul corsetto.

«Perché non parli?» chiese Feyd-Rautha.

Paul ricominciò i suoi giri di sondaggio, lasciando che un gelido sorriso fosse la sua unica risposta all’inquietudine che aveva colto nella voce di Feyd-Rautha, il che provava come il silenzio facesse il suo effetto.

«Sorridi, eh?» E Feyd-Rautha fece un balzo a metà della frase.

Paul si aspettava una lieve esitazione, e quasi non riuscì a deviare l’improvviso fendente. Sentì la punta che gli scalfiva il braccio sinistro. Respinse dalla sua mente l’improvviso dolore e capì che l’esitazione di prima era un trucco, una controfinta. Era un avversario superiore a quanto si era aspettato. Ci sarebbero state finte nelle finte nelle finte.

«Il tuo Thufir Hawat è all’origine della mia destrezza» disse Feyd-Rautha. «Mi ha dato il mio primo sangue. Tanto peggio per lui, se quel vecchio stupido non è vissuto abbastanza per vederlo.»

E Paul ricordò che una volta Idaho aveva detto: «In combattimento, aspettati soltanto quello che accade. In questo modo, non sarai mai sorpreso».

Di nuovo essi girarono l’uno intorno all’altro, attenti, i muscoli pronti a scattare.

Paul guardò il viso del suo avversario, vide che nuovamente l’esaltazione s’impadroniva di lui, e si chiese perché. Feyd-Rautha attribuiva dunque tanta importanza a un graffio? A meno che la lama non fosse avvelenata! Ma com’era possibile? I suoi stessi uomini avevano avuto la lama tra le mani e l’avevano controllata prima di restituirla. Avevano troppa esperienza per non individuare un veleno.

«Quella donna alla quale parlavi» disse Feyd-Rautha. «La più piccola. È forse qualcosa di speciale per te? Il tuo cucciolo favorito? Devo riservarle delle attenzioni speciali?»

Paul tacque. I suoi sensi interiori stavano esaminando il sangue che gocciolava dalla ferita, e vi scoprirono una traccia di sonnifero. Paul modificò il suo metabolismo per respingere la minaccia: alterò le molecole del sonnifero. Ma un dubbio lo colse. Avevano impregnato la lama con un sonnifero. Un sonnifero che poteva ingannare il rivelatore di veleni, ma che era abbastanza potente, tuttavia, da paralizzare i suoi muscoli. I suoi nemici avevano i loro trucchi, finte nelle finte nelle finte.

Ancora una volta Feyd-Rautha balzò vibrando un colpo.

Paul, il sorriso congelato sul volto, finse di muoversi lentamente come inibito dalla droga, e all’ultimo istante schivò, conficcando la punta del cryss nel braccio che calava su di lui.

Feyd-Rautha schivò in parte il colpo balzando di lato e ritirandosi, facendo saltare il coltello nella mano sinistra. Impallidì: la ferita bruciava.

Che viva anche lui il suo istante di dubbio, pensò Paul. Che sospetti pure il veleno.

«Tradimento!» gridò Feyd-Rautha. «Mi ha avvelenato! Sento il veleno nel mio braccio!»

E Paul parlò per la prima volta: «È soltanto un po’ acido, per rispondere al sonnifero sulla lama dell’Imperatore».

Feyd-Rautha, fulminandolo con lo sguardo, alzò il coltello nella mano sinistra in una sorta di saluto beffardo.

Anche Paul passò il cryss nella mano sinistra e ricominciò a girare, in silenzio, intorno al suo avversario.

Feyd-Rautha si avvicinò lentamente, brandendo in alto la lama dell’Imperatore. La collera si leggeva nei suoi occhi semichiusi e nella mascella prominente. Fintò a destra e in basso, e si trovarono l’uno addosso all’altro, le lame incrociate, in un affannoso corpo a corpo.

Paul fece ruotare il suo avversario. Diffidava del suo fianco destro, dove sospettava ci fosse un ago avvelenato. Nel preciso istante in cui l’ago scattò, fu quasi colto di sorpresa. Ne fu avvertito da un movimento di Feyd-Rautha, da un cedimento impercettibile dei suoi muscoli, e l’ago lo mancò per una frazione di millimetro.

Era sul fianco sinistro!

Un trucco nel trucco, pensò Paul. Usò l’addestramento Bene Gesserit per curvarsi di scatto e approfittare del riflesso istintivo di Feyd-Rautha, ma, nel tentativo di sfuggire all’ago avvelenato, incespicò e cadde con un tonfo sul pavimento, e Feyd-Rautha si precipitò su di lui.

«Lo vedi, no?, sul mio fianco?» mormorò Feyd-Rautha. «È la tua morte, pazzo.» E cominciò a contorcersi, avvicinando la punta dell’ago a Paul. «Paralizzerà i tuoi muscoli e il mio coltello ti finirà. E non resterà alcuna traccia!»

Paul lottò con tutti i suoi muscoli, mentre dal fondo della sua mente s’innalzavano le grida silenziose dei suoi antenati, esigendo che lui pronunciasse la parola segreta, per bloccare Feyd-Rautha e salvare se stesso.

«No, non la dirò!» ansimò Paul.

Feyd-Rautha lo fissò, con un’impercettibile esitazione. E bastò a Paul per cogliere il punto debole nell’equilibrio del suo avversario. Colpì una gamba e lo fece crollare. Ora le posizioni erano invertite: Feyd-Rautha giaceva sotto di lui, il fianco destro in alto, incapace di muoversi perché l’ago, sul fianco sinistro, si era conficcato nel pavimento.

Paul liberò la mano sinistra: il suo gesto fu reso più facile dal sangue che continuava a gocciolare dalla ferita. Poi vibrò un violento colpo sotto la mascella di Feyd-Rautha: la punta del cryss si aprì un cammino fino al cervello. Feyd-Rautha sussultò e si afflosciò al suolo, trattenuto ancora sul fianco dall’ago piantato a terra.

Respirando a fondo per ritrovare la calma, Paul scivolò su un lato e si raddrizzò. Restò in piedi accanto al corpo, impugnando ancora il coltello, e alzò gli occhi con deliberata lentezza verso l’Imperatore.

«Maestà» disse Paul. «Le vostre forze si sono ridotte di un’altra unità. La smetteremo adesso di tergiversare? Discuteremo di ciò che va fatto? Parleremo del mio matrimonio con vostra figlia e del trono che spetta agli Atreides?

L’Imperatore si voltò e fissò il Conte Fenring. Il Conte incontrò il suo sguardo: un lampo, tra i suoi occhi grigi e gli occhi verdi dell’altro. Ogni parola era inutile, si conoscevano da tanto tempo che gli occhi parlavano per loro.

Uccidilo per me, diceva l’Imperatore. Questo Atreides è giovane e forte, sì… ma è anche stanco, e non riuscirebbe comunque a tenerti testa. Sfidalo… tu sai come. Uccidilo.

Lentamente Fenring scosse la testa. I suoi occhi fissarono Paul.

«Presto!» ruggì l’Imperatore.

Il Conte fissò Paul, come Lady Margot gli aveva insegnato, nella Via Bene Gesserit, consapevole del mistero e della grandezza nascosti in questo giovane Atreides.

Potrei ucciderlo, pensò Fenring, e sapeva che questo era vero.

Qualcosa nelle segrete profondità della sua mente trattenne il Conte. Ebbe una visione rapida e inadeguata della sua superiorità su Paul, per mezzo del lato segreto della sua persona, delle sue motivazioni furtive al punto che nessuno le poteva penetrare.

E Paul, grazie al nodo ribollente del tempo, riuscì in parte a capirlo, e finalmente si spiegò perché non avesse mai visto Fenring nella trama degli infiniti futuri rivelati dalla sua prescienza. Fenring era uno di Coloro che Sarebbero Potuti Essere, uno Kwisatz Haderach potenziale che un’unica, impercettibile macchia nello schema genetico aveva respinto; un eunuco dai talenti furtivi, segreti. Provò allora una profonda compassione per il Conte Fenring, il primo, vero sentimento di fraternità che avesse mai conosciuto.

Fenring si accorse della sua emozione, la capì e disse: «Maestà, mi rifiuto».

Il furore travolse Shaddam IV. Si fece largo tra il suo seguito e calò un manrovescio sul viso di Fenring.

Fenring diventò paonazzo. Alzò gli occhi, fissò l’Imperatore e disse, con calma deliberata: «Siamo stati amici, Maestà. Quello che io faccio, ora, voi lo dovete soltanto alla nostra amicizia. Dimenticherò il vostro gesto».

Paul si schiarì la gola: «Stavamo parlando del trono, Maestà».

L’Imperatore si girò di scatto, lo sguardo fiammeggiante d’odio: «Io sono sul trono!» abbaiò.

«Voi ne avrete un altro su Salusa Secundus» disse Paul.

«Ho deposto le armi e sono venuto qui sulla tua parola d’onore!» gridò l’Imperatore. «Tu osi minacciarmi…»

«Voi siete al sicuro in mia presenza» dichiarò Paul. «Un Atreides l’ha garantito. Muad’Dib, tuttavia, vi condanna al vostro pianeta prigione. Ma non abbiate timore, Maestà: userò tutti i poteri di cui dispongo perché il vostro mondo sia meno rude. Lo trasformerò in un pianeta giardino pieno di cose belle.»

L’Imperatore colse il significato nascosto delle parole di Paul, e replicò con voce stridula: «Ora capisco i tuoi veri motivi».

«Proprio così» confermò Paul.

«E Arrakis?» chiese l’Imperatore. «Un altro pianeta giardino pieno di cose belle?»

«I Fremen hanno la parola di Muad’Dib» disse Paul. «Sotto il cielo di questo mondo l’acqua scorrerà liberamente, e vi saranno oasi verdeggianti piene di delizie. Ma dobbiamo pensare anche alla spezia. Così vi sarà sempre il deserto su Arrakis… e venti selvaggi, e prove per indurire l’uomo. Noi Fremen abbiamo un detto: Dio creò Arrakis per temprare il fedele. Non si può andare contro la parola di Dio.»

La Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam aveva colto il significato nascosto nelle parole di Paul. Aveva intravisto il jihad, e disse: «Non puoi scatenare questa gente sull’universo!»

«Rimpiangerete i modi gentili dei Sardaukar!» ribatté Paul.

«Non puoi…»

«Tu sei una Veridica» disse Paul. «Valuta dunque le tue parole.» Fissò la Principessa Reale, e poi l’Imperatore. «Meglio sbrigarsi, Maestà.»

L’Imperatore, impietrito, guardò sua figlia. Lei gli accarezzò il braccio e lo ammansi: «Sono stata educata per questo, Padre.»

Lui respirò profondamente.

«Non potete impedirlo» mormorò la Reverenda Madre.

L’Imperatore si raddrizzò, ritrovando una parvenza di dignità: «Chi negozierà per te, Congiunto?»

Paul si voltò, vide sua madre, gli occhi quasi completamente chiusi per la stanchezza, accanto a Chani, tra i Fedaykin. Si avvicinò e si fermò davanti a Chani.

«So le tue ragioni» disse Chani. «Se dev’essere così… Usul.»

Paul, nell’udire le lagrime nascoste nella sua voce, le sfiorò la guancia. «La mia Sihaya non avrà nulla da temere, mai» bisbigliò. Lasciò ricadere il braccio e guardò la madre: «Negozierai per me, Madre, con Chani al tuo fianco. Lei è saggia e ha occhi acuti. E si dice, giustamente, che nessuno sia più duro, in affari, di un Fremen. Lei guarderà attraverso gli occhi del suo amore per me, pensando alle necessità dei figli che verranno. Ascoltala».

Jessica, indovinando il freddo calcolo che si nascondeva dietro le parole del figlio, rabbrividì. «Quali sono le tue istruzioni?» domandò.

«Esigo, in dote, la totalità degli interessi dell’Imperatore nella CHOAM.»

«La totalità?» Jessica rimase senza parole.

«Dev’essere interamente spogliato. Voglio una contea e un direttorato nella CHOAM per Gurney Halleck, e, sempre per lui, il feudo di Caladan. Vi dovranno esser titoli e poteri per tutti i sopravvissuti fra gli Atreides, fino al più umile dei soldati.»

«E per i Fremen?» domandò Jessica.

«I Fremen sono affar mio» dichiarò Paul. «Quello che riceveranno, sarà dato da Muad’Dib. E, per prima cosa, Stilgar sarà Governatore di Arrakis. Ma per questo c’è tempo.»

«E per me?» chiese Jessica.

«C’è qualcosa che tu desideri?»

«Forse Caladan» disse lei, guardando Gurney. «Ma non ne sono sicura. Io sono diventata troppo simile ai Fremen… Sono una Reverenda Madre. Ho bisogno di un periodo di pace e tranquillità, per riflettere.»

«Questo l’avrai» replicò Paul. «E qualsiasi altra cosa che Gurney ed io possiamo darti.»

Jessica annuì, e all’improvviso si sentì vecchia e stanca. Guardò Chani: «E per la concubina reale?»

«Nessun titolo per me» disse Chani. «Niente. Ti supplico.»

Paul incontrò il suo sguardo, e la rivide all’improvviso col piccolo Leto tra le braccia: il figlio che aveva incontrato la morte in tutta questa violenza. «Ti giuro» bisbigliò, «che non avrai bisogno di alcun titolo. Quella donna laggiù sarà mia moglie, e tu soltanto una concubina, poiché questo è un affare politico, e noi dobbiamo concludere la pace e allearci alle Grandi Case del Landsraad. Le formalità vanno rispettate. Tuttavia, quella principessa avrà da me solo il nome. Nessun figlio, nessuna carezza, uno sguardo, un solo istante di desiderio.»

«Così tu dici adesso» mormorò Chani, e guardò la bionda principessa sull’altro lato della sala.

«Conosci così poco mio figlio?» bisbigliò Jessica. «Guarda quella principessa, laggiù, così altera e sicura di sé. Dicono che nutra velleità letterarie. Speriamo che esse possano riempire la sua esistenza, perché avrà ben poco altrimenti.» Un’amara risata le sfuggì. «Pensaci, Chani: quella principessa avrà il nome, e tuttavia sarà meno di una concubina… non avrà mai un momento di tenerezza dall’uomo cui sarà unita. Mentre noi, Chani, noi che portiamo il nome di concubine… la storia ci chiamerà spose.»