"I guardiani della notte" - читать интересную книгу автора (Luk'janenko Sergej)

Capitolo 1

La notte era cominciata male.

Mi svegliai che faceva quasi buio. Rimasi coricato a osservare tra gli spiragli delle persiane gli ultimi raggi di luce e a riflettere. Era ormai la quinta notte di caccia senza nessun risultato. E anche oggi era poco probabile che andasse bene.

Nell'appartamento faceva freddo, i termosifoni erano appena tiepidi. Solo una cosa mi fa amare l'inverno: fa buio presto e per le strade la gente è poca. Ma tant'è… da un pezzo avrei mollato tutto e me ne sarei andato via da Mosca, a Jalta o a Soči. Proprio sul Mar Nero, e non in qualche lontana isola del Pacifico: mi piace sentire intorno a me la lingua di casa…

Sciocche fantasticherie, certo.

È ancora presto per starmene in pace, in qualche paese caldo.

Non ho ancora terminato il servizio.

Il telefono, quasi attendesse il mio risveglio, si mise a trillare perentorio e ripugnante. Trovai a tentoni il ricevitore e me lo attaccai all'orecchio, in silenzio, senza dire una parola.

— Anton, rispondi.

Tacevo. Larisa aveva un tono efficiente, adeguatamente concentrato, ma già stanco. Non doveva aver dormito per tutto il giorno.

— Anton, ti metto in comunicazione col Capo?

— Non ce n'è bisogno — bofonchiai.

— Non ti sarai appena svegliato…

— Già.

— Hai il solito turno oggi.

— È successo niente di nuovo?

— No, niente di nuovo.

— Hai qualcosa per far colazione?

— Lo troverò.

— D'accordo. Buona fortuna.

L'augurio era espresso in tono fiacco, annoiato. Larisa non mi credeva. E di sicuro neanche il Capo.

— Grazie — replicai all'ininterrotto segnale del telefono. Mi alzai, feci una visita in gabinetto e in bagno. Misi il dentifricio sullo spazzolino, ma mi resi conto che era tardi e lo deposi sul bordo del lavandino.

In cucina era buio, ma non accesi la luce. Aprii lo sportello del frigorifero: la lampadina svitata congelava tra gli alimenti. Guardai dentro il tegame, coperto da uno scolabrodo nel quale galleggiava un pezzo di carne semispappolato. Tolsi lo scolabrodo, portai il tegame alle labbra e bevvi un sorso.

Se qualcuno ritiene che il sangue di maiale sia buono, si sbaglia.

Rimisi il tegame coi resti del sangue rappreso al suo posto e tornai nel bagno. La lampadina azzurra e fioca scacciava appena il buio. Mi strofinai a lungo i denti, con accanimento, poi non resistetti e feci un altro giro in cucina e tracannai un sorso di vodka gelata. Ora lo stomaco non solo si era scaldato, ma bruciava. Un delizioso miscuglio di sensazioni: freddo sui denti e caldo nello stomaco.

— Che ti venga… — attaccai a dire all'indirizzo del Capo, ma poi mi ricredetti in tempo. Stavo per imprecare in modo poco ortodosso. Mi spostai nella camera e mi misi a raccattare i capi del mio guardaroba disseminati dovunque. I pantaloni erano finiti sotto il letto, i calzini sul davanzale, la camicia chissà perché era appesa alla maschera coreana. L'antico imperatore mi fissava con disapprovazione.

— Fa' la guardia, piuttosto — borbottai. Il telefono squillò di nuovo. Attraversando con un balzo la stanza, trovai il ricevitore.

— Anton, volevi dirmi qualcosa? — s'informò l'invisibile interlocutore.

— No, nulla — dissi cupo.

— Be', potresti anche aggiungere un: "Lieto di servirla, Eccellenza."

— Non sono lieto. Non può farci niente… Eccellenza.

Il Capo tacque: — Anton, ti prego comunque di prendere più sul serio l'attuale situazione. D'accordo? Ti aspetto domattina per il rapporto. E… buona fortuna.

Non mi ero sentito in imbarazzo. Però la mia irritazione s'era placata. Dopo aver nascosto il cellulare nella tasca della giacca, aprii l'armadio in anticamera. Per un po' riflettei su come completare l'equipaggiamento. Avevo dei dispositivi nuovi che mi erano stati regalati dagli amici nell'ultima settimana. Eppure mi limitai a prendere la solita attrezzatura, universale e sufficientemente compatta.

Presi il walkman. Non avevo bisogno di ascoltare e poi… la seccatura era che il nemico era implacabile.

Prima di uscire osservai a lungo la scala dallo spioncino.

Nessuno.

Così era cominciata l'ennesima notte.

Viaggiai in metrò per circa sei ore, girando a casaccio da una linea all'altra e a tratti sonnecchiando, consentendo così alla mia coscienza di riposare e ai canali emozionali di sbloccarsi. Tutto chiuso. No, qualcosa d'interessante l'avevo visto, ma si trattava di casi ordinari, per principianti. Solo verso le undici, quando il metrò s'era in parte svuotato, la situazione cambiò.

Me ne stavo seduto con gli occhi chiusi ad ascoltare già per la terza volta durante quella serata la Quinta Sinfonia di Manfredini. Il walkman era assolutamente folle: una mia compilation personale dove compositori italiani barocchi si alternavano a Bach e gli Alisa a Ritchie Blackmore e ai Piknik.

Mi sentivo bloccato: ero tutto un crampo, dalle caviglie alla gola. Emisi persino un sibilo, aprendo gli occhi e scrutando l'intero vagone.

La ragazza la notai subito.

Molto giovane, carina. Con una pelliccetta elegante, una borsetta e un minuscolo libro in mano.

E con un vortice nero talmente smisurato sopra la testa come non ne vedevo da anni.

Dovevo avere uno sguardo folle. La ragazza lo percepì, mi fissò e subito si voltò.

Faresti meglio a guardare in su!

Ma, certo, lei non aveva il potere di vedere il vortice. Il massimo che poteva percepire era una leggera inquietudine. E con l'angolo dell'occhio un baluginio sbiadito sopra la testa… come di mosche in volo o un alito di vento che increspa l'asfalto in una giornata torrida…

Non poteva vedere nulla. Nulla. E avrebbe vissuto ancora un giorno o due finché non avesse messo il piede in fallo sul ghiaccio e poi battuto con un colpo mortale la testa. Oppure fosse finita sotto un'auto. O dentro un portone si fosse imbattuta nel coltello di un teppista ignaro del perché stava uccidendo quella ragazza. E tutti avrebbero detto: "Una ragazza così giovane, con tutta la vita ancora davanti, le volevano tutti bene…"

Sì, certo, ci credo: ha un viso buono e grazioso, solo un po' stanco, ma senza cattiveria… Accanto a una ragazza così ti senti diverso. Cerchi di essere migliore, ma la cosa ti pesa. Con una come lei si preferisce fare amicizia, flirtare un po', dividere le proprie scoperte. Di una come lei di rado ci si innamora… Però tutti l'amano.

Tranne un esperto mago nero prezzolato.

Il vortice malefico in effetti è un'apparizione piuttosto banale. Dopo aver guardato attentamente, riuscivo a distinguerne cinque o sei sospesi sui passeggeri. Erano tutti vischiosi, sbiaditi, turbinavano appena. Risultato del più comune e dilettantesco dei malefici. Come quando, per esempio, uno dice all'indirizzo di un altro: "Che tu possa crepare, canaglia!" O con una formula più essenziale e delicata: "Che ti venga un accidente!"

E fuoriesce dalle Tenebre un piccolo vortice d'aria che annulla la fortuna e risucchia le forze.

Solo che una comune maledizione, da dilettanti, improvvisata, non dura che un'ora o due, o al massimo ventiquattro. E le sue conseguenze sono sgradevoli, ma non letali. Invece il vortice nero sopra la ragazza era ben fatto, stabile, opera di un mago esperto. Anche se non lo sapeva, la ragazza era già morta.

Macchinalmente allungai la mano verso la tasca, cercando di capire dove fossi e mi inalberai. Ma perché i cellulari non funzionano nel metrò? Come se chi li possiede non viaggiasse sotto terra…

Ora ero combattuto tra l'incarico principale che dovevo eseguire, anche senza speranza di successo, e la ragazza condannata a morire. Non sapevo se fosse possibile aiutarla, ma ero costretto a seguire l'artefice del vortice…

E in quell'istante ricevetti un altro colpo. Del tutto diverso. Né crampi, né dolore, solo mi si seccò la gola, le gengive s'intorpidirono, il sangue mi pulsò alle tempie e la punta delle dita cominciò a prudermi.

Ci siamo!

Ma perché proprio nel momento peggiore?

Mi alzai. Il treno aveva già rallentato in prossimità della stazione. La ragazza mi passò accanto e percepii il suo sguardo. Mi seguiva. Aveva paura. Evidentemente il vortice malefico la rendeva inquieta, anche se lei non lo avvertiva, costringendola a scrutare chi le stava intorno.

Forse per questo era ancora viva?

Cercando di non guardare nella sua direzione, affondai la mano nella tasca. Tastai l'amuleto: una fredda sbarra cesellata di onice. Rallentai ancora un secondo, cercando di escogitare altre azioni.

No, non c'era via d'uscita.

Strinsi la sbarra nel pugno. La strofinai con le dita e la pietra si riscaldò, emanando l'energia accumulata. La sensazione non era illusoria, ma questo era un calore che non si misurava col termometro. Era come se stringessi un carbone ardente… un carbone coperto di fredda cenere, ma incandescente all'interno.

Dopo aver caricato l'amuleto, gettai uno sguardo alla ragazza. Il vortice ondeggiava, piegandosi verso di me. Era tanto potente da intaccare l'intelletto.

Colpii.

Non solo nel vagone, ma in tutto il treno, anche un solo Altro avrebbe visto lo scoppio accecante trapassare con uguale leggerezza il metallo e il cemento…

Non avevo mai colpito prima un vortice malefico di una struttura così complicata. E non avevo mai dotato prima l'amuleto di una carica così potente.

L'effetto fu del tutto inatteso. Le deboli maledizioni scagliate sulle altre persone furono subito spazzate via. Una donna anziana che si passava stancamente la mano sulla fronte si guardò stupita il palmo: la sua crudele emicrania cessò di colpo. Un giovane, che fissava ottusamente il vetro, sussultò, il suo viso si rilassò e dai suoi occhi sparì una cupa angoscia.

Il vortice nero sopra la ragazza si ridusse di circa cinque metri, una buona metà schizzò fuori dal vagone. Ma non perse la sua struttura e rifluì zigzagando verso di lei.

Che potenza!

Che struttura mirata!

Si dice, ma in verità io non l'ho mai constatato, che se il vortice si è ridotto di due o tre metri perda l'orientamento, colpendo la persona più prossima. Anche questo è negativo, ma la maledizione di un altro ha un effetto assai più debole e la nuova vittima ha maggiori possibilità di salvarsi.

Questo vortice balzò indietro, come un cane fedele che torna dal padrone in pericolo!

Il treno si stava arrestando. Gettai un ultimo sguardo al vortice: era di nuovo sospeso sopra la ragazza e turbinava più veloce… E io non potevo fare nulla, proprio nulla. Lì accanto, nella stazione, c'era l'obiettivo di tutte le mie peregrinazioni di settimane per Mosca. Non potevo andare oltre, per seguire la ragazza. Il Capo mi avrebbe mangiato vivo… e con tutta probabilità non solo in senso figurato…

Quando le porte si aprirono stridendo, rivolsi alla ragazza un ultimo sguardo, affrettandomi a memorizzare la sua aura. Le possibilità di ritrovarla nella città immensa erano poche. Eppure dovevo provarci.

Ma non ora.

Mi precipitai fuori dal vagone e mi guardai intorno. L'esperienza sul campo non bastava, in questo il Capo aveva assolutamente ragione. Ma il metodo d'insegnamento da lui usato non mi piaceva affatto.

Come facevo, dannazione, a trovare l'obiettivo?

Osservavo con la vista normale le persone, ma nessuna di loro mi insospettiva. Finora c'era stata una gran ressa di passeggeri: in fondo mi trovavo in centro, nella Kurskaja, sulla linea circolare, c'erano persone in arrivo dalla stazione e venditori che si disperdevano, e ancora quelli che si affrettavano a prendere le coincidenze per i loro quartieri dormitorio… Socchiudendo gli occhi potevo osservare uno spettacolo più attraente: quello delle aure che sbiadivano, come sempre verso sera. Tra esse un'aura maligna ardeva come una macchia di un rosso brillante e l'aura di una coppietta, che evidentemente aveva fretta di raggiungere casa, riluceva di un arancione penetrante. Simili a strisce di un grigio-marrone slavato erano invece le aure evanescenti degli ubriachi.

Ma non c'era alcun indizio. Solo secchezza alla gola, torpore alle gengive e il martellare folle del cuore. Il sapore del sangue sulle labbra. Un'eccitazione crescente.

Tutti segni marginali e tuttavia persino troppo evidenti per mancarli.

Ma chi erano? Chi?

Il treno si mosse alle mie spalle. La sensazione che l'obiettivo fosse vicino non si era ancora attenuata; voleva dire che non c'eravamo ancora. Avanzò un convoglio. E sentii che l'obiettivo sussultava, muovendosi incontro a quello.

Avanti!

Attraversai la banchina, e destreggiandomi verso i segnali tra i passeggeri che mi fulminavano, raggiunsi la coda del treno. La sensazione cominciò ad attenuarsi. Corsi fino al vagone di testa… c'era… si faceva più vicina…

La gente entrava nei vagoni. Corsi lungo tutto il convoglio, mentre una densa saliva mi riempiva la bocca, i denti cominciavano a dolermi e le dita erano in preda ai crampi… Nella cuffia ronzava la musica:

In the shadow of the moon, She danced in the starlight Whispering a haunting tune To the night…

Oh, un motivo appropriato. Incredibilmente appropriato.

E non di buon augurio.

Saltai tra le porte che si chiudevano, mi bloccai, concentrandomi su me stesso. Avevo indovinato? Con la vista non riuscivo neppure adesso a mettere a fuoco l'obiettivo…

Avevo indovinato.

Il treno sfrecciò lungo l'anello e i miei sensi in tumulto gridavano: "È qui! È qui vicino!"

Avevo indovinato anche il vagone?

Dopo aver guardato di sottecchi i miei compagni di viaggio, rinunciai alla speranza. Qui non c'era nessuno degno di attenzione.

Pazienza, bisognava aspettare…

Feel no sorrow, jeef no pain, Feel no hurt, ther's nothing gamed… Only love will then remain, She would say.

Al Prospekt Mira sentii che l'obiettivo si allontanava. Balzai fuori dal vagone e mi incamminai verso la coincidenza. Era lì vicino, da qualche parte, vicino…

Alla stazione radiale la percezione dell'obiettivo si fece quasi tormentosa. Avevo già esaminato alcuni possibili candidati: due ragazze, un giovane, un ragazzino. Erano tutti dei potenziali candidati, ma chi era di loro?

I quattro salirono nello stesso vagone. Era già una fortuna. Li seguii e mi misi ad aspettare.

Una delle ragazze scese alla fermata Rižskaja.

La percezione dell'obiettivo non si era indebolita.

Il giovane scese alla Alekseevskaja.

Magnifico. La ragazza o il ragazzino? Chi dei due?

Osai guardare entrambi di sottecchi. La ragazza era grassottella, rosea, immersa nella lettura di "Moskovskij Komsomolec". Non sembrava per nulla turbata. Il ragazzino, al contrario, esile e fragile, stava davanti alla porta e passava un dito sul vetro.

Al mio sguardo la ragazza era molto, ma molto… più appetibile. Due a uno che si trattava di lei.

Ma forse qui c'entrava solo il sesso.

Sentivo già il Richiamo. Che era ancora senza parole. Solo una lenta, tenera melodia. Subito smisi di ascoltare il suono che usciva dalla cuffia: il Richiamo aveva sommerso la musica.

Né la ragazza né il ragazzino parevano agitarsi troppo. O possedevano una soglia di tolleranza molto elevata oppure, al contrario, erano stati subito sopraffatti.

Il treno giunse alla stazione VDNCh. Il ragazzino uscì sulla banchina e si incamminò in fretta verso la vecchia uscita. La ragazza rimase.

La maledizione!

Entrambi erano ancora vicinissimi e io non potevo capire chi sentivo dei due!

La melodia ci avvolgeva inebriante e in essa cominciarono a insinuarsi delle parole.

Una voce di donna!

Mi precipitai fuori dalle porte che si chiudevano e mi affrettai sulle tracce del ragazzino.

Magnifico. La caccia era alla fine.

Va bene, ma come potevo farcela con l'amuleto scarico? Non ne avevo idea…

Scese pochissima gente, sulla scala mobile salimmo in quattro. Il ragazzino per primo, dietro di lui una donna con un bambino, poi io, e subito dopo uno sgualcito e attempato colonnello. L*aura del colonnello era bella, luminosa, di una tonalità tra il grigio acciaio e l'azzurro. Pensai persino con ironia, per la stanchezza, di chiedere il suo aiuto. Gente come lui crede ancora nell'"onore degli ufficiali".

Solo che l'aiuto di un vecchio colonnello sarebbe servito meno di quello di un acchiappamosche per scacciare un elefante.

Dopo aver smesso d'imbottirmi la testa di fesserie, fissai di nuovo il ragazzino. Con gli occhi chiusi, scansionai l'aura.

Il risultato fu scoraggiante.

Era circonfusa da un chiarore cangiante, traslucido e a tratti si colorava di rosso, a tratti di verde cupo con bagliori blu scuro.

Un caso raro. Un destino ancora indeterminato. Un potenziale ancora insondato. Il ragazzino poteva diventare un gran delinquente o un uomo retto e buono, o anche una nullità come la maggioranza degli esseri umani al mondo. Era ancora tutto in divenire, come si dice. Simili aure possono averle i bambini di due o tre anni, ma in quelli più grandi s'incontrano molto di rado.

Ora era chiaro perché il Richiamo fosse indirizzato proprio a lui. Era una vera délicatesse, per così dire.

Sentii che la bocca mi si riempiva di saliva.

Stava andando avanti da troppo tempo, da troppo tempo… Fissai il ragazzino, il suo collo sottile sotto la sciarpa e maledissi il Capo, le consuetudini, i rituali, tutto ciò di cui era fatto il mio lavoro. Le gengive s'intorpidirono, la gola si seccò.

Il sangue aveva un gusto salato e amaro, ma solo col sangue potevo placare quella sete.

La maledizione!

Il ragazzino balzò fuori dalla scala mobile, corse nel vestibolo, scomparve dietro le porte a vetro. Per un attimo mi sentii meglio. Rallentai il passo e lo pedinai, mettendo a fuoco le sue mosse con la coda dell'occhio: il ragazzino s'inabissò nel sottopassaggio. Ormai correva, il Richiamo lo trascinava, attirandolo verso di sé.

Più in fretta!

Dopo aver raggiunto il chiosco, gettai al venditore due monetine e dissi, avendo cura di non mostrare i denti: — Da sei, con l'anello.

Il ragazzo brufoloso con gesti lenti — a quanto pare anche lui aveva provveduto a scaldarsi lì al lavoro — allungò la bottiglietta. E avvertì per onestà: — La vodka non è un gran che. Non è roba avvelenata, è una Dorochovskaja, ma…

— La salute è preziosa — tagliai corto. La vodka era chiaramente un surrogato, ma era proprio quello che mi andava bene. Con una mano strappai la capsula sotto l'anellino di filo di ferro attorcigliato, con l'altra presi il cellulare e tirai fuori l'antenna. Il venditore sgranò gli occhi. Tracannai un sorso — la vodka puzzava di cherosene e il sapore era ancora più schifoso, era di sicuro contraffatta — e corsi verso il sottopassaggio.

— Pronto.

Non era Larisa. La notte di solito era Pavel di turno.

— Anton. Nei pressi dell'Hotel Kosmos, dove ci sono i cortili. Seguo una traccia.

— Devo mandare una squadra? — Dalla voce trapelava un certo interesse.

— Sì. Ho già scaricato l'amuleto.

— Che è successo?

Un barbone, che schiacciava un sonnellino in mezzo al sottopassaggio, allungò la mano nella speranza che gli cedessi la bottiglietta. Lo superai di corsa.

— Ce n'è un altro… Sbrigati, Pavel.

— I ragazzi sono già partiti.

A un tratto mi parve che mi trafiggessero le tempie con degli aghi incandescenti. Ah, farabutto…

— Pasa, non rispondo di me — mi affrettai a dire, interrompendo la comunicazione. E mi fermai davanti all'uniforme di un poliziotto.

E ti pareva!

Perché i tutori umani dell'ordine devono sempre comparire nel momento meno opportuno?

— Sergente Kaminskij — si precipitò a dire come uno scioglilingua il poliziotto più giovane. — I documenti…

Interessante, di che vogliono accusarmi? Di ubriachezza molesta in luogo pubblico? Probabile.

Infilando la mano in tasca, sfiorai l'amuleto. Era appena tiepido, ma bastava.

— Non li ho — dissi.

Due paia d'occhi mi frugarono, pregustando già una preda, ma ben presto non furono che vuote pupille, senza più un barlume di intelligenza.

— Da qui non è mai passato — ripeterono i due uomini in coro.

Non c'era tempo di programmarli. Dissi la prima cosa che mi venne in mente: — Comprate della vodka e riposatevi. Fate con calma. Su, marsc!

L'ordine aveva centrato l'obiettivo. Prendendosi per mano, come ragazzini a zonzo, i poliziotti si precipitarono fuori dal sottopassaggio verso i chioschi. Mi sentii un po' a disagio pensando alle conseguenze di quell'ordine, ma non c'era il tempo di aggiustare la faccenda.

Uscii dal sottopassaggio persuaso che fosse già tardi. Invece no. Stranamente il ragazzino non era andato lontano. Stava lì in piedi, a un centinaio di metri, dondolandosi appena. Quella sì che era resistenza! Il Richiamo era tanto intenso che stupiva che i rari passanti non si gettassero nelle danze, che i filobus non sterzassero dal viale per irrompere nell'androne incontro a un irresistibile destino…

Il ragazzo si guardò intorno. Sembrava fissarmi. E proseguì in fretta.

Fine, era crollato.

Lo seguii, in preda all'ansia sul da farsi. Era meglio aspettare la squadra: sarebbe arrivata in una decina di minuti, non di più.

Ma le cose avevano preso una brutta piega per il ragazzo.

La compassione è un sentimento pericoloso. Oggi le avevo già ceduto due volte. Prima in metrò, esaurendo la forza dell'amuleto nel tentativo infruttuoso di annientare il vortice malefico. E ora di nuovo, seguendo le tracce del ragazzo.

Molti anni fa avevo udito una frase che non mi sentivo affatto di condividere. Non la condivido neppure oggi, anche se innumerevoli volte mi sono reso conto della sua verità: «Il bene comune e il bene concreto raramente vanno insieme…»

Già, ora lo capivo.

Ma, forse, esiste una verità che è peggio della menzogna.

Correvo incontro al Richiamo. Di sicuro lo percepivo in modo diverso da come lo sentiva il ragazzo. Per lui l'invito era una seducente, irresistibile melodia che lo privava della volontà e della forza. Per me, al contrario, era una sfrenata eccitazione del sangue.

Un'eccitazione del sangue…

Il mio corpo, di cui mi ero preso gioco per una settimana, si rivoltava. Avevo voglia di bere, ma non acqua (potevo soddisfare la sete, senza alcun danno per me stesso, anche con la neve sporca di città), non alcol (tenevo una bottiglietta di pessima vodka non raffinata sotto il braccio e anche questa non mi avrebbe arrecato nessun danno). No, volevo sangue.

E non di maiale o di bue, ma proprio umano. Maledetta caccia…

«Devi superare questo stadio» mi aveva detto il Capo. «Cinque anni nella sezione analitica non sono mica pochi, non trovi?» Non so, forse non erano pochi, ma a me piaceva. Del resto, anche il Capo da più di un secolo non svolgeva il lavoro operativo.

Sfrecciai davanti alle vetrine sfavillanti, che esponevano ceramiche Gžel' taroccate ed erano zeppe di cibi di plastica. Accanto, lungo il viale, le auto correvano, e i passanti erano rari. Anche questa era una finzione, un'illusione, solo una delle facce del mondo, l'unica accessibile agli esseri umani. Per fortuna non ero un essere umano.

Senza rallentare la corsa, creai il Crepuscolo.

Il mondo sussultò, scostandosi. Fui colpito da dietro le spalle come dal riflettore di un aeroporto, e una lunga ombra sottile s'infittì e acquisì volume, si allungò su se stessa nello spazio dove non c'erano altre ombre. Si staccò dal sudicio asfalto, si levò, ondeggiando come una densa colonna di fumo. Si muoveva veloce dinanzi a me…

Accelerando la corsa, raggiunsi la grigia silhouette ed entrai nel Crepuscolo. I colori del mondo sbiadirono, mentre le auto sul viale parvero rallentare e finire in panne.

Mi approssimavo al luogo.

Penetrando nell'androne già mi preparavo ad assistere alla fine della storia. Il corpo del ragazzo immobile, senza vita, esangue, e i vampiri pronti a scomparire.

Ma ero arrivato in tempo.

Il ragazzino stava dinanzi alla ragazza vampiro, che aveva già allungato i canini, e si scioglieva lentamente la sciarpa. Era poco probabile che in quel momento avesse paura. Il Richiamo ottundeva del tutto la sua coscienza. Stava piuttosto sognando quei canini aguzzi che si avvicinavano.

Accanto c'era il giovane vampiro. Sentii subito che, dei due, lui era il più importante: era stato lui a iniziare la ragazza, lui ad addestrarla al sangue. E, cosa più infame, aveva una licenza registrata a Mosca. Il bastardo!

In compenso le mie probabilità di farcela aumentavano…

I vampiri si voltarono verso di me, straniti, senza comprendere che cosa stesse accadendo. Il ragazzo si trovava ancora nel Crepuscolo e io non avrei potuto, dovuto vederlo… e neppure loro.

Poi il viso del giovane a poco a poco si distese, sorrise persino, amichevole, sereno: — Salve…

Mi aveva scambiato per uno di loro. E non era il caso di biasimarlo per l'errore: adesso io ero davvero uno di loro. O quasi. La settimana di preparazione non era stata inutile: avevo cominciato a sentirli… e avevo quasi attraversato il Crepuscolo…

— Guardiano della Notte — dissi. Allungai la mano con l'amuleto. Era scarico, ma non era così facile accorgersene a distanza. — Uscite dal Crepuscolo!

Il giovane avrebbe forse anche ubbidito. Confidando che non sapessi nulla della scia di sangue che si erano lasciati dietro e che la faccenda potesse essere classificata come "tentativo di non autorizzata interazione con un essere umano". Ma la ragazza non aveva la stessa capacità di autocontrollo e non era in grado di ragionare.

— A-ahhh!!! — Con un intenso ululato si avventò contro di me. E meno male che non aveva conficcato i denti nel ragazzino: in quel momento era incapace di intendere e di volere, come un tossico in crisi di astinenza.

Per un essere umano sarebbe stato un colpo troppo violento, nessuno avrebbe potuto pararlo.

Ma io mi trovavo nel medesimo stadio di realtà della vampira. Alzai la mano e le spruzzai la vodka dalla bottiglietta sul viso stravolto dalla trasformazione.

Perché i vampiri tollerano così poco l'alcol?

Il minaccioso ululato divenne un debole sibilo. La vampira ruotò su se stessa, colpendosi con le mani il volto da cui cadevano strati di pelle e di carne grigiastra. E il ragazzo girò sui tacchi e si diede alla fuga.

Tutto si era risolto anche troppo semplicemente. Il vampiro che aveva ottenuto la licenza non era un ospite di passaggio con cui doversi battere alla pari. Scagliai la bottiglia contro la vampira, allungai la mano e afferrai il filo che si dipanava dal marchio di registrazione. Il vampiro prese a rantolare, afferrandosi la gola.

— Uscite dal Crepuscolo!

Sembrava aver capito che le cose si stavano mettendo molto male per lui. Si chinò su di me, cercando di attenuare la pressione del filo, allungando nel movimento i canini e trasformandosi.

Se l'amuleto fosse stato carico, l'avrei tranquillamente tramortito.

Ma così dovetti ucciderlo.

Il marchio — il cui sigillo mandava bagliori azzurri sul petto del vampiro — scricchiolò quando lanciai il mio ordine muto. L'energia convogliata da qualcuno con una forza assai superiore alla mia si riversò nel suo corpo morto. Il vampiro correva ancora. Era sazio, energetico e le vite altrui ancora alimentavano la sua carne morta. Ma resistere a un colpo di tale violenza era impossibile: la pelle si prosciugò, avvolgendo le ossa come pergamena, dalle orbite fuoriuscì del liquido vischioso. Poi la colonna vertebrale si spezzò e i resti sussultanti rotolarono ai miei piedi.

Mi voltai: la vampira poteva ancora riprendersi. Ma non c'era nessun pericolo. Attraversò il cortile correndo a scatti. Dal Crepuscolo non era comunque uscita e solo io potevo vedere questo sconvolgente spettacolo. Be', anche i cani, certo. In qualche angolo una cagnetta minuscola non la smetteva di abbaiare istericamente, paralizzata dall'odio e anche dalla paura, sentimenti che la razza canina prova verso i morti viventi da che mondo è mondo.

Per inseguire la vampira non mi bastavano le forze. Dopo essermi sgranchito, presi l'impronta dell'aura: smunta, grigia, putrida. L'avremmo ritrovata. Ora non poteva più nascondersi da nessuna parte.

Ma dov'era finito il ragazzino?

Dopo essere uscito dal Crepuscolo creato dai vampiri, poteva essere caduto in uno stato di incoscienza o di torpore. Nell'androne non c'era più. Non avrebbe mai potuto sfrecciare davanti a me senza che lo scorgessi… Dall'androne mi precipitai dentro il cortile e così lo vidi. Era sfrecciato via quasi più velocemente della vampira. Bravo! Fantastico! Non aveva bisogno d'aiuto. Il rischio era che si ricordasse di quanto era avvenuto, anche se… chi avrebbe creduto a un ragazzino? E poi al mattino il ricordo sarebbe sbiadito nella sua memoria, e si sarebbe dissolto trasformandosi in un incubo irreale.

O era meglio raggiungere il ragazzino?

— Anton!

Dal viale arrivavano di corsa Igor' e Garik, la nostra inseparabile coppia di operativi.

— La ragazza se n'è andata!

Garik correndo tirò un calcio al cadavere prosciugato del vampiro, sollevando nell'aria gelida una nuvola di polvere. Gridò: — L'impronta!

Gli rimandai l'immagine della vampira in fuga. Garik corrugò il viso e aumentò la velocità. Gli operativi si lanciarono nella caccia. Igor' mi gridò: — Occupati tu dei rifiuti!

Annuendo, come se attendesse una risposta, uscii dal Crepuscolo. Il mondo s'illuminò. Le sagome degli operativi si dissolsero, persino la neve che attecchiva nella realtà ordinaria smise di essere calpestata da piedi invisibili.

Con un sospiro mi avviai verso la Volvo grigia parcheggiata sul ciglio della strada. Sul sedile posteriore si trovava una banale attrezzatura: un robusto sacco di plastica, una paletta e una scopa. In cinque minuti spazzai i resti quasi inconsistenti del vampiro e occultai il sacco nel bagagliaio. Da un monticello di neve, lasciato da un portinaio negligente, raccolsi un po' di neve sporca, la disseminai nell'androne, la calpestai, mescolando i resti putrefatti col fango. Non avrai una sepoltura da essere umano, tu non sei un uomo…

E così era tutto.

Tornai alla macchina, sedetti al volante, mi misi la cintura. Era andato tutto bene. Anzi, benissimo. Il vecchio vampiro era morto, i ragazzi avrebbero catturato la sua amica e il bambino era vivo.

Già. m'immaginavo come sarebbe stato contento il Capo.