"I guardiani della notte" - читать интересную книгу автора (Luk'janenko Sergej)

Capitolo 2

— Un lavoro fatto coi piedi!

Cercai di obiettare, ma la replica successiva, sferzante come uno schiaffo, mi chiuse la bocca.

— Un'azione scadente!

— Ma…

— Almeno sei consapevole dei tuoi errori? Risposi prudente: — Sì, in qualche misura…

Mi piace stare in questo ufficio. Sopite sensazioni infantili si risvegliano nel mio cuore nel vedere tutti quei gingilli divertenti, conservati sugli scaffali di vetro molato, disseminati lungo i muri e sulla scrivania insieme coi dischetti del computer e i documenti d'ufficio. Dietro ogni oggetto, dall'antico ventaglio giapponese al pezzo di metallo arrugginito con sopra inciso un cervo simbolo di una casa automobilistica, c'è sempre una storia. Quando il Capo è in vena si ascoltano da lui racconti molto, molto interessanti.

Ma il problema è che raramente è in vena.

— Va bene. — Il Capo smise di andare su e giù per l'ufficio, sedette nella poltrona di pelle e si accese una sigaretta.

— Riferisci, allora.

Il suo tono era professionale, come esigeva il ruolo. Agli occhi di un essere umano poteva apparire come un manager medio sui quarant'anni, uno di quelli su cui il governo ama riporre le proprie speranze.

— Di che cosa dovrei riferire? — chiesi io, rischiando di incocciare in un altro giudizio non proprio lusinghiero del Capo.

— Degli errori. Dei tuoi errori.

Allora era così… D'accordo.

— Il mio primo errore, Boris Ignat'evič — esordii nel tono più innocente — sta nel non aver compreso correttamente il mio incarico.

— Ma va'! — esclamò lui.

— Be', io ritenevo che il mio obiettivo fosse quello di rintracciare un vampiro che si era dato alla caccia attiva sul territorio di Mosca. Di rintracciarlo e… renderlo inoffensivo.

— Già, già — approvò il Capo.

— Ma in realtà lo scopo essenziale dell'incarico era quello di verificare la mia idoneità al lavoro operativo e all'azione sul campo. Partendo da un'errata valutazione dell'incarico, o meglio seguendo il principio del "dividi e difendi"…

Il Capo sospirò, annuendo. Qualcuno che non lo conosceva avrebbe potuto pensare che fosse stato smascherato.

— E tu hai violato in qualche misura questo principio?

— No. E per questo ho fallito l'incarico.

— Come mai hai fallito?

— All'inizio… — Guardai di sottecchi la bianca civetta delle nevi impagliata, custodita sotto vetro sullo scaffale. Aveva mosso o no la testa? — All'inizio ho esaurito la carica dell'amuleto nel vano tentativo di neutralizzare il vortice malefico…

Boris Ignat'evič si adombrò. Si lisciò i capelli.

— Va bene, partiamo da qui, allora. Ho studiato l'immagine e se tu non l'hai abbellita…

Scrollai la testa indignato.

— Ti credo. Annullare un vortice simile con l'amuleto è impossibile. Te la ricordi la classificazione?

Al diavolo! Ma perché non avevo dato un'occhiata ai miei vecchi appunti?

— Sono sicuro che non te la ricordi. Non importa, questo è un vortice non classificabile. Non saresti mai riuscito a cavartela… — Il Capo oltrepassò la scrivania e in un misterioso sussurro disse: — E devi sapere che…

Mi misi in ascolto.

— … Che neppure io ci sarei riuscito, Anton.

Era una confessione inattesa e non riuscii a replicare nulla. La certezza che il Capo potesse assolutamente tutto, mai espressa da nessuno a parole, era però radicata in tutti i dipendenti dell'ufficio.

— Anton, un vortice di questa forza… può annullarlo solo il suo creatore.

— Bisogna trovarlo… — dissi io incerto. — Mi dispiace per la ragazza…

— Non è lei il problema. Almeno non solo lei.

— Perché? — Avevo fatto una gaffe e subito mi ripresi: — Bisogna fermare il mago delle Tenebre?

Il Capo sospirò.

— Forse ha la licenza. Forse aveva il diritto di lanciare la maledizione… Il problema non è neppure il mago. Un vortice malefico di quella forza… ricordi quando in inverno è caduto l'aereo?

Sussultai. Non era stato il risultato di un lavoro lasciato a metà, quanto piuttosto l'esito di una serie di lacune nelle nostre leggi: il pilota su cui avevano lanciato la maledizione non era riuscito a cavarsela coi comandi e l'aereo di linea si era abbattuto sui quartieri della città. Centinaia di persone innocenti avevano perduto la vita…

— Vortici di quella portata non siamo in grado di sistemarli a campione. La ragazza è condannata, ma non perché su di lei potrebbe cadere il solito mattone dal tetto. E più probabile che salti in aria una casa o che si scateni un'epidemia, o che su Mosca cada per caso la bomba atomica. Ecco qual è il guaio, Anton.

Il Capo si voltò di colpo, incenerì con lo sguardo la civetta. Lei ricompose in fretta le ali, e il lampo negli occhi di vetro si spense.

— Boris Ignat'evič… — dissi, in preda al terrore. — E colpa mia…

— È chiaro che è colpa tua. Solo una cosa ti salva, Anton. — Il Capo si schiarì la voce. — Cedendo alla compassione, hai agito in modo corretto. L'amuleto non poteva annullare del tutto il vortice malefico, ma ha allontanato temporaneamente il rischio di una catastrofe infernale. Ora abbiamo un vantaggio di ventiquattro… forse di quarantotto ore. Ho sempre ritenuto che azioni non premeditate ma positive producano un esito migliore di quelle premeditate ma crudeli. Se non avessi usato l'amuleto, ora tutta Mosca sarebbe sotto le macerie.

— Che possiamo fare?

— Cerchiamo la ragazza. Proteggiamola… compatibilmente con le nostre forze. Ce la faremo un'altra volta a destabilizzare il vortice malefico. E nel frattempo riusciremo a trovare il mago che ha scagliato la maledizione e a costringerlo ad annullare il vortice.

Annuii.

— Lo cercheranno tutti — disse il Capo in tono distratto. — Richiamerò i ragazzi dalle ferie, entro domattina arriveranno Il'ja e Semën da Sri Lanka ed entro l'ora di pranzo tutti gli altri.

— Entro domattina? — Guardai l'orologio. — Mancano ancora ventiquattr'ore.

— Ma no, entro stamattina — rispose il Capo, ignorando il sole di mezzogiorno dietro il vetro. — Lo cercherai anche tu. Forse avrai di nuovo fortuna… Continuiamo la disamina dei tuoi errori?

— Vale la pena perdere tempo? — chiesi io timidamente.

— Non temere, non stiamo perdendo tempo. — Il Capo si alzò, si avvicinò allo scaffale, tolse la civetta impagliata, la mise sulla scrivania. Da vicino era chiaro che si trattava proprio di una civetta impagliata, in lei non c'era più vita che in un collo di pelliccia… — Torniamo ai vampiri e alla loro vittima.

— Io ho lasciato andare la vampira. E i ragazzi non l'hanno presa — confermai in tono rammaricato.

— Non recriminare, ti sei battuto con onore lo stesso. La domanda riguardava la vittima.

— Sì, il ragazzo ha conservato la memoria. Ma se l'è data letteralmente a gambe…

— Anton, torna in te! Il ragazzo l'hanno agganciato col Richiamo a parecchi chilometri di distanza! Doveva entrare nell'androne come un automa! E quando il Crepuscolo fosse scomparso perdere i sensi! Anton, e se dopo tutto ciò che è avvenuto ha conservato la facoltà di muoversi, vuol dire che ha un magnifico potenziale magico! — Il Capo tacque.

— Sono uno scemo.

— No. Forse sei stato troppo tempo relegato in laboratorio. Anton, quel ragazzo potenzialmente è più forte di me!

— Questa poi…

— Su, lascia perdere la piaggeria…

Il telefono prese a squillare sulla scrivania. Doveva essere qualcosa di urgente: erano in pochi a conoscere il numero diretto del Capo. Io, per esempio, non lo conoscevo.

— Zitto! — intimò lui all'apparecchio che non aveva colpe. E l'apparecchio tacque. — Anton, dobbiamo ritrovare il ragazzino. La vampira che è fuggita di per sé non è pericolosa. Saranno i ragazzi a raggiungerla, oppure la catturerà una pattuglia ordinaria. Ma se succhierà il sangue del ragazzino o, peggio ancora, lo inizierà… Tu non sai cos'è un autentico vampiro. I nostri vampiri attuali sono come zanzare paragonate a Nosferatu. E lui non era neanche uno dei migliori, si dava pure delle arie… Insomma, il ragazzo dev'essere ritrovato e, se possibile, assunto nella Guardia. Non abbiamo diritto di lasciarlo alle Tenebre: l'equilibrio a Mosca crollerebbe definitivamente.

— È forse un ordine?

— Una licenza — precisò tetro il Capo. — Io, come ben sai, ho diritto di dare ordini del genere.

— Lo so — mormorai. — Da chi si comincia? Da lui, presumo.

— Fa' come ti pare. Forse, però, è meglio dalla ragazza. E cerca anche di ritrovare il ragazzino.

— Posso andare?

— Almeno dormi.

— Ho dormito benissimo, Boris Ignat'evič…

— Non credo. Ti consiglio di dormire almeno un'oretta.

Non ci capivo più niente. Mi ero alzato alle undici, mi ero precipitato subito in ufficio e mi sentivo in forma e pieno di energie.

— Eccoti un aiutante. — Il Capo toccò con il dito la civetta impagliata. L'uccello dispiegò le ali e prese a stridere.

Dopo aver deglutito, mi decisi a domandare: — Ma chi è? Che cos'è?

— E perché vuoi saperlo? — chiese il Capo, fissando gli occhi della civetta.

— Per decidere se voglio lavorare con lui!

La civetta mi guardò e cominciò a sibilare come un gatto infuriato.

— La domanda è posta male. — Il Capo scosse la testa. — Se acconsentirà lei a lavorare con te, ecco qual è la domanda.

La civetta ricominciò a stridere.

— Sì — disse il Capo, rivolgendosi all'uccello. — Per molti versi hai ragione, ma chi è stato a chiedere un nuovo appello?

L'uccello si placò.

— Prometto che intercederò. E questa volta ci sono delle possibilità.

— Boris Ignat'evič, la mia opinione è che… — attaccai.

— Scusami, Anton, ma la tua opinione non mi interessa… — Il Capo tese la mano, la civetta spostò maldestramente le zampe piumate e si sistemò sul palmo. — Tu non comprendi la tua fortuna.

Tacqui. Il Capo si avvicinò alla finestra, la spalancò e tese la mano. La civetta frullò le ali e volò giù in basso. E bravo l'uccello imbalsamato!

— Ma… dove…?

— Da te. Lavorerete in coppia… — Il Capo si grattò la radice del naso. — Già! Ricordati che si chiama Ol'ga.

— La civetta?

— Sì, la civetta. Le darai da mangiare, l'accudirai e tutto andrà bene. Ma ora… dormi ancora un po' e poi alzati. Dall'ufficio puoi anche non passare, aspetta Ol'ga e mettiti al lavoro. Controlla la linea circolare del metrò, per esempio…

— Come faccio a dormire… — cominciai. Ma il mondo tutt'intorno si offuscò, sbiadì e si dissolse. L'angolo del guanciale mi si era conficcato dolorosamente nella guancia.

Ero sdraiato nel mio letto.

Mi sentivo la testa pesante e gli occhi come fossero pieni di sabbia. La gola era secca e doleva.

— Ah… — mandai un gemito rauco, girandomi sulla schiena. I tendoni pesanti mi impedivano di capire se fosse ancora notte o giorno fatto. Guardai di sbieco l'orologio: le lancette luminose indicavano le otto.

Era la prima volta che avevo ottenuto udienza dal Capo in sogno.

Si trattava di un fatto sgradevole, in primo luogo per il Capo, cui era toccato irrompere nella mia coscienza.

Doveva proprio mancargli il tempo, se era stato costretto a continuare il mio addestramento nel mondo dei sogni. Ma era andata così… Che realtà! Non me l'aspettavo. La scelta dell'incarico, questa civetta idiota…

Sussultai: dall'esterno bussavano al vetro. In modo impercettibile ma insistente, con un rumore come di unghie. Giungevano delle strida soffocate.

Cosa aspettavo ancora?

Balzai in piedi, mi sistemai alla bell'e meglio le mutande e corsi alla finestra.

Uno scatto. Scostai le tende. Alzai le persiane.

La civetta era posata sul davanzale. Strizzava un poco gli occhi: dopotutto era l'alba e per lei c'era troppa luce. Dalla strada era difficile capire cosa fosse quell'uccello che si era posato sul davanzale del decimo piano. Ma se solo i vicini avessero dato un'occhiata fuori, sarebbero rimasti sbalorditi. Una civetta delle nevi nel centro di Mosca!

— Ma che diavolo è… — dissi piano.

Avrei voluto esprimermi in modo più colorito, ma mi avevano disabituato fin dall'inizio del mio impiego nella Guardia. O meglio: ero stato io a disabituarmi. Quando cominci a vedere una o due volte un vortice malefico sopra una persona contro cui hai imprecato, subito ti abitui a tenere a freno la lingua.

La civetta mi fissava. Attendeva.

E intorno strepitavano altri uccelli. Uno stormo di passeri, che si era posato su un albero poco distante, si abbandonava ad assordanti cinguettii. Le cornacchie erano più ardite: si erano posate sul balcone dei vicini, sugli alberi più prossimi. E gracchiavano, senza sosta, saltando di tanto in tanto giù dai rami e mulinando davanti alla finestra. L'istinto le avvertiva delle disgrazie che incombevano da quel vicino inatteso.

Ma la civetta non reagiva.

Avrebbe sputato sia sui passeri sia sulle cornacchie. Se solo avesse potuto, s'intende.

— Ma tu chi sei allora? — borbottai, aprendo la finestra e staccando le cornici incollate. Aveva reso un bel servizio il Capo al suo socio… alla sua socia…

Con un solo battito di ali la civetta entrò nella stanza, si posò sull'armadio guardaroba e socchiuse gli occhi. Era come se vivesse là da un secolo. Si era forse congelata lungo il tragitto? Ma no, era una civetta delle nevi…

Richiusi la finestra, riflettendo sul da farsi. Come sarei riuscito a comunicare con lei, a nutrirla, e come poteva, di grazia, questo pennuto essermi d'aiuto?

— Ti chiami Ol'ga? — chiesi, dopo aver concluso con la finestra. Dalle fessure filtrava aria, ma di questo ci saremmo occupati poi. — Ehi, uccello!

La civetta aprì un occhio. Mi ignorava, quasi quanto gli indaffarati passerotti.

A ogni istante mi sentivo sempre più a disagio. In primo luogo si trattava di un socio con cui era impossibile comunicare. E poi anche di una femmina!

Sia pure una civetta.

E se mi fossi infilato i pantaloni? Stavo lì con addosso solo le mutande sgualcite, con la barba lunga, insonnolito…

Sentendomi l'ultimo degli idioti, afferrai dei vestiti e uscii dalla stanza. La frase da me lanciata alla civetta mentre me ne andavo: «Mi scusi, torno tra un minuto» suonava come degno completamento di tutto l'insieme.

Se quest'uccellino era davvero ciò che pensavo, non dovevo avergli fatto la migliore delle impressioni.

Ciò che desideravo di più era farmi una doccia, ma non potevo permettermi di perdere così tanto tempo. Mi limitai a radermi e a infilare la testa che mi ronzava sotto il rubinetto dell'acqua fredda. Sulla mensola, tra lo shampoo e il deodorante, c'era anche dell'acqua di Colonia che di solito non usavo.

— Ol'ga? — chiamai, guardando nel corridoio.

La civetta era in cucina, sul frigorifero. Sembrava morta, era come un uccello imbalsamato, sistemato lì per divertimento. Quasi come sullo scaffale del Capo.

— Sei viva? — le chiesi.

Un occhio giallo ambra mi fissò tetro.

— D'accordo. — Allargai le braccia. — Ricominciamo dall'inizio, vuoi? So di non averti fatto la migliore delle impressioni. E ti dico francamente che per me è un fatto cronico.

La civetta ascoltava.

— Non so chi tu sia. — Dopo essermi accomodato sullo sgabello, mi sistemai davanti al frigorifero. — E non puoi neppure raccontarmelo… ma posso immaginarlo. Mi chiamo Anton. Cinque anni fa si scoprì che ero un Altro.

Il suono che mandò la civetta era simile a una risatina soffocata.

— Già — confermai. — Proprio cinque anni fa. È andata così. La mia barriera di separazione era molto elevata. Non volevo vedere il mondo del Crepuscolo. E non lo vedevo. Finché non fu il Capo a imbattersi in me.

Sembrava che per la civetta la cosa si facesse interessante.

— Lui si occupava dell'addestramento pratico. Addestrava gli operativi a scoprire i potenziali Altri occulti. E si imbatté in me… — Sogghignai, ripensandoci. — E naturalmente infranse la mia barriera. Poi tutto fu semplice… Frequentai il corso di adattamento e cominciai a lavorare nella sezione analitica… Così, senza troppi cambiamenti nella mia vita, diventai un Altro, quasi senza accorgermene. Il Capo non era contento, ma taceva. Il lavoro lo facevo bene… e lui non ha il diritto di immischiarsi nel resto. Ma una settimana fa è comparso un vampiro-maniaco. E io ho avuto l'incarico di neutralizzarlo. Forse perché tutti gli operativi erano occupati. In effetti perché scoprissi cos'è la guerra, e forse questo è giusto. E poi in una settimana sono morte tre persone. Un professionista avrebbe catturato quella coppietta nell'arco di ventiquattr'ore…

Mi sarebbe piaciuto davvero sapere che cosa pensava Ol'ga. Ma la civetta non emetteva alcun suono.

— Qual è la cosa più importante per mantenere l'equilibrio? — chiesi tuttavia. — Una promozione nella mia qualifica operativa o la vita di tre persone del tutto innocenti?

La civetta taceva.

— Non ho intercettato i vampiri coi soliti metodi previsti — proseguii comunque. — Sono dovuto entrare in contatto. Non mi sono messo a bere sangue umano. Me la sono cavata con quello di maiale. E tutti questi preparati… già, tu naturalmente li conosci…

Dopo aver accennato ai preparati mi alzai, aprii l'armadietto sopra la cucina a gas, presi un barattolo di vetro. Era rimasta un po' di polverina grumosa e marroncina sul fondo; consegnarla in amministrazione non aveva senso. Versai la polverina nel lavandino e feci scorrere l'acqua: nella cucina si diffuse un inebriante e obnubilante profumo. Risciacquai il barattolo e lo gettai nel secchio della spazzatura.

— Per poco non ho perso il controllo — osservai. — Nel più banale dei modi. Ieri mattina tornavo dalla caccia… e mi sono imbattuto nella mia vicina di casa, una ragazza… Non ho neppure osato salutarla, mi erano già spuntati i canini. E stanotte quando ho sentito il Richiamo diretto contro il ragazzino… per poco non mi sono unito ai vampiri.

La civetta mi fissò negli occhi.

— Pensi che sia per questo che il Capo mi ha incaricato? — Un uccello imbalsamato. Un pugno di piume, imbottito di ovatta. — Perché ti guardassi negli occhi?

Suonò il campanello. Trasalii, allargando le braccia: non c'era niente da fare, era colpa sua, qualunque interlocutore sarebbe stato meglio di questo noioso uccello. Accesi la luce, raggiunsi la porta e aprii.

Sulla soglia c'era un vampiro.

— Entra — gli dissi. — Entra, Kostja.

Indugiò sulla soglia e alla fine entrò. Si lisciò i capelli. Notai che aveva le mani sudate e lo sguardo sfuggente.

Kostja aveva solo diciassette anni. Era un vampiro dalla nascita, un comune, normale vampiro urbano. Una condizione molto sgradevole: i suoi genitori erano vampiri, e un bambino in quelle condizioni non aveva quasi nessuna possibilità di crescere come un essere umano.

— Ho riportato i CD — bofonchiò Kostja. — Eccoli.

Presi la pila di CD, senza neppure stupirmi che fossero così tanti. Di solito occorreva fare lunghe pressioni sul ragazzo per farglieli restituire: era maledettamente distratto.

— Li hai ascoltati tutti? — chiesi. — Li hai registrati?

— Hmm… be', io vado…

— Aspetta. — Lo afferrai per la spalla e lo spinsi dentro la stanza. — Che significa?

Taceva.

— Lo sai già? — gli chiesi, intuendo.

— Noi siamo in pochissimi, Anton. — Kostja mi guardò negli occhi. — Quando qualcuno finisce nel Crepuscolo, lo percepiamo subito.

— Già. Togliti le scarpe, andiamo in cucina e parliamone seriamente.

Kostja non obiettò. Immaginavo eccitato il da farsi. Cinque anni addietro, quando ero diventato un Altro e il mondo mi aveva rivelato il suo lato oscuro, mi attendeva una quantità di scoperte stupefacenti. Ma che proprio sopra di me abitasse una famiglia di vampiri fu una delle più scioccanti.

Lo rammento come fosse ieri. Tornavo dalle lezioni, quelle che mi ricordavano mio malgrado l'istituto che avevo da poco finito di frequentare. Tre lezioni di due ore l'una, un lettore, il caldo soffocante a causa del quale i camici bianchi si attaccavano al corpo; affittavamo un'aula dell'istituto di medicina. Tornando a casa mi trastullavo per strada, finendo ogni tanto nel Crepuscolo per un attimo (non ero ancora così esperto), oppure cominciavo a sondare i passanti. E sulla scala mi imbattei nei vicini.

Persone davvero carine. Volevo chiedere loro in prestito un trapano e il padre di Kostja, Gennadij, muratore di professione, venne da me e mi aiutò a cavarmela con le pareti di cemento, dimostrandomi concretamente come un intellettuale non possa sopravvivere senza l'aiuto di un proletario…

E di colpo capii che loro non erano esseri umani.

Fu terribile. La loro aura grigio-marrone, il senso di oppressione… Rimasi annichilito e li guardi con terrore. Polina, la madre di Kostja, aveva mutato leggermente espressione del viso, il ragazzino era rimasto immobile e si era voltato. E il capofamiglia mi si era avvicinato, scomparendo a ogni passo nel Crepuscolo, con quell'andatura aggraziata tipica dei vampiri che sono a un tempo vivi e morti. Il Crepuscolo è il loro habitat consueto.

— Salve, Anton — mi disse.

Il mondo intorno era grigio e morto. Io stesso non mi accorgevo di come, seguendolo, stessi affondando nel Crepuscolo.

— L'ho sempre saputo che una volta o l'altra avresti oltrepassato la barriera — continuò. — Va tutto bene.

Feci un passo indietro e Gennadij sussultò.

— Tutto in regola — disse. Si aprì la camicia e mostrò il timbro della licenza, un marchio azzurro sulla pelle grigia. — Siamo tutti in regola. Polina! Kostja!

Anche sua moglie aveva attraversato il Crepuscolo e si era sbottonata la camicetta. Il ragazzo non si muoveva, aspettava un cenno dal padre per mostrare anche lui il marchio.

— Devo controllare — mormorai. I miei passi erano incerti, per due volte incespicai e ricominciai da capo. Gennadij aspettava paziente. Il timbro mi diede la risposta che volevo. Si trattava di una registrazione senza scadenza, non c'era nessuna violazione della procedura…

— Tutto in regola? — chiese Gennadij. — Possiamo andare?

— Io…

— Va bene così. Lo sapevamo che prima o poi saresti diventato un Altro.

— Andate — dissi. Non era previsto dal regolamento, ma ora non avevo tempo di pensare alle regole.

— Sì… — Prima di uscire dal Crepuscolo, Gennadij indugiò. — Io sono stato ospite a casa tua… Anton, ti rinnovo l'invito a entrare…

Era tutto in regola.

Quando se ne furono andati mi sedetti su una panchina, accanto a una vecchia che si riscaldava al sole. Mi accesi una sigaretta, cercando di mettere ordine nei miei pensieri. La vecchia mi fissò e disse: — Brava gente, vero, Arkašen'ka?

Ogni volta confondeva il mio nome. Le restavano ancora sì e no due o tre mesi di vita, lo vedevo con chiarezza.

— Non proprio… — risposi. Fumai tre sigarette e poi me la filai a casa. Mi trattenni un po' sulla soglia a osservare come svanivano le grigie tracce "da vampiro" rimaste. Mi avevano insegnato proprio quel giorno a vederle…

Fino a sera bighellonai. Sfogliai gli appunti che spiegavano quand'era il caso di passare nel Crepuscolo. Nel mondo ordinario questi quaderni sembravano completamente vuoti. Avrei voluto telefonare al coordinatore del mio gruppo oppure al Capo, alla cui tutela ero affidato. Ma sentivo di dover decidere da solo.

Quando arrivò il buio non mi trattenni più. Salii al piano di sopra e suonai. Venne ad aprirmi Kostja. Trasalii. Nella realtà, come anche la sua famiglia, sembrava perfettamente normale…

— Chiama i tuoi vecchi — gli dissi.

— Perché? — borbottò lui.

— Voglio invitarvi a bere un tè.

Gennadij si materializzò dietro le spalle del figlio, all'improvviso: era di gran lunga più dotato di me, che ero un neofita delle Forze della Luce.

— Sei sicuro, Anton? — chiese dubbioso. — Questo non è assolutamente previsto. È tutto in regola.

— Ne sono certo.

Tacque. Si strinse nelle spalle: — Verremo da te domani, se ti va bene. Non amareggiarti.

A mezzanotte ero fuori di me dalla gioia per il loro rifiuto. Verso le tre di notte cercai di addormentarmi, rassicurato dal fatto che non avrebbero mai trovato la strada di casa mia.

Verso mattina stavo in piedi davanti alla finestra, senza aver chiuso occhio, a contemplare la città. Di vampiri ce n'erano pochi. Pochissimi. Nel raggio di due, tre chilometri non ce n'era nessun altro.

Che significava essere rifiutati? Rifiutati non per aver commesso un delitto, ma per l'eventualità potenziale di commetterlo? E che vita poteva mai essere la loro… — anche se vita non era un'espressione del tutto appropriata — sempre sotto sorveglianza?

Tornando dalle lezioni, comprai un dolce per il tè.

Ed ecco qui Kostja, un ragazzo buono, intelligente, studente della facoltà di fisica, che aveva avuto la sfortuna di essere un morto vivente, seduto accanto a me, che faceva girare il cucchiaino nella zuccheriera. Da dove gli veniva tanta timidezza?

Da principio faceva un salto da me quasi ogni giorno. Io ero esattamente il suo opposto, combattevo dalla parte della Luce. Ma l'avevo ammesso a casa mia e con me non doveva nascondersi. Poteva chiacchierare, affondare nel Crepuscolo e vantarsi dei poteri che gli si erano rivelati. "Anton, lo sai?, sono riuscito a trasformarmi." "I miei canini hanno cominciato ad allungarsi, grrrr!"

E la cosa strana è che tutto ciò appariva normale. Io ridacchiavo osservando i tentativi del giovane vampiro di trasformarsi in pipistrello. Questo era un incarico che spettava a un vampiro di livello superiore quale lui non era, e se fosse dipeso dalla Luce non sarebbe mai diventato.

— Kostja, io mi sono limitato a eseguire il mio incarico.

— E hai fatto male.

— Avevano violato la legge. Capisci? Non è nostra procedura farli sparire. Non solo le Forze della Luce l'avevano accolto, ma anche tutti gli Altri. Questo ragazzo…

— Lo conoscevo — disse inaspettatamente Kostja. — Era uno allegro.

Che diavolo…

— Ha sofferto?

— No — scossi la testa. — Il marchio uccide lentamente.

Kostja trasalì, per un istante chinò gli occhi sul petto. Se attraversi il Crepuscolo, il marchio lo distingui anche attraverso i vestiti, altrimenti non riesci proprio a individuarlo. Voleva dire che non l'aveva attraversato. Ma come facevo io a sapere che cosa provano i vampiri?

— Che potevo fare? — chiesi. — Li uccideva. Uccideva persone che non avevano nessuna colpa. Completamente indifese dinanzi a lui. Aveva iniziato una ragazza… con brutalità, con violenza, una che non doveva affatto diventare una vampira. Ieri per poco non hanno finito un ragazzino. Così per gioco. Non per fame.

— Tu sai che significa per noi avere fame? — chiese Kostja, dopo una pausa di silenzio.

Eh, sta crescendo… Proprio sotto i nostri occhi…

— Sì… Ieri… per poco non diventavo un vampiro.

Calò per un attimo il silenzio.

— Lo so. L'avevo sentito… sperato.

Diavolo dell'inferno! Avevo intrapreso la mia caccia. E loro avevano cacciato me. O meglio, mi avevano teso un'imboscata, aspettando che il cacciatore si trasformasse in preda.

— No — dissi io. — Scusami tanto.

— Già, lui era colpevole — Kostja continuò. — Ma perché bisognava ucciderlo? Lo si doveva giudicare. Tribunali, avvocati, capi d'accusa, tutto secondo le regole…

— Non è previsto che gli umani vengano immischiati nelle nostre questioni! — ruggii io. E per la prima volta Kostja non reagì.

— Tu non sei stato umano per troppo tempo!

— E non me ne rammarico affatto!

— Perché l'hai ucciso?

— Perché altrimenti lui avrebbe ucciso me!

— Io l'avevo iniziato!

— Questo è anche peggio!

Kostja tacque. Allontanò il tè e si alzò. Il solito ragazzino impudente e moralista fanatico. Solo che era un vampiro.

— Vado…

— Aspetta un momento. — Mi mossi verso il frigorifero. — Prendilo. Mi hanno rifornito, ma non mi serve.

Tolsi delle ampolle da duecento grammi di sangue donato tra le bottiglie di acqua minerale Boržomi.

— Non occorre.

— Kostja, lo so che è un vostro eterno problema. A me non serve. Prendilo.

— Vuoi comprarmi? Cominciai a stizzirmi.

— Ma perché dovrei comprarti? Buttarlo via è stupido, tutto qui! È sangue. Donato da esseri umani per aiutare gli altri!

E allora Kostja sogghignò sinistramente. Allungò la mano, prese una delle ampolle, la stappò, togliendo con facilità e destrezza la capsula di latta. Si portò la boccetta alle labbra. Sogghignò di nuovo, tracannando un sorso.

Non avevo mai visto come si nutrivano. E non ci tenevo neppure.

— Smettila di fare il buffone — dissi.

Kostja aveva le labbra insanguinate. Un rivolo sottile di sangue gli scorreva lungo la guancia. Non solo scorreva, ma era come se venisse assorbito.

— Ti disgusta il modo in cui ci nutriamo?

— Sì.

— Allora anch'io ti disgusto? E tutti noi…?

Scossi la testa. Non sfioravamo mai questo argomento. Così era più facile.

— Kostja… per vivere tu hai bisogno di sangue. E di tanto in tanto anche di sangue umano.

— Noi in genere non viviamo.

— Dico così genericamente. Per muoverti, pensare, parlare, sognare…

— Che ne sai tu dei sogni dei vampiri?

— Ragazzo, al mondo c'è una quantità di persone che ha bisogno continuamente di versare del sangue. E non sono meno di voi. E poi ci sono casi estremi. Per questo esiste la donazione, per questo è un'opera meritoria e in continua espansione… Non sorridere. Conosco i vostri interventi meritori a favore del progresso della medicina e della diffusione della donazione. Kostja, se qualcuno per vivere… per esistere necessita di sangue, non è un male. E che vada a finire nelle vene o nello stomaco, anche questo è irrilevante. Il problema è come tu te lo procacci.

— Tutte parole. — Kostja ridacchiò. Mi sembrò che per un istante avesse attraversato il Crepuscolo per emergerne subito dopo. Sta crescendo, il ragazzo, sta crescendo. E in lui si sta manifestando una vera forza. — Ieri tu hai dimostrato qual è il tuo vero atteggiamento verso di noi.

— Ti sbagli…

— Ma smettila… — Allontanò la bottiglietta e poi, cambiando idea, la reclinò sul lavandino. — Non abbiamo bisogno delle tue…

Alle mie spalle si udì un verso. Mi voltai: la civetta, di cui mi ero del tutto dimenticato, girò la testa verso Kostja e dispiegò le ali.

Non avevo mai visto un'espressione simile sul viso del ragazzo.

— Ah… — fece. — Ah…

La civetta ripiegò le ali e chiuse gli occhi.

— Ol'ga, stiamo parlando! — ruggii. — Dacci un minuto…

L'uccello non reagì. Ma Kostja continuava a posare lo sguardo ora su di me ora sulla civetta. Poi sedette, con le mani intrecciate sui ginocchi.

— Che hai? — chiesi.

— Posso andare?

Non era solo stupito o spaventato, era scioccato.

— Va'. Ma prima prendi tutto…

Si affrettò a raccogliere le ampolle e a ficcarsele in tasca.

— Prendi un sacchetto, testa di legno! Non si sa mai, potrebbe esserci qualcuno sulle scale…

Il vampiro sistemò ubbidiente le ampolle nel sacchetto con la scritta: FACCIAMO RISORGERE LA CULTURA RUSSA! Sfiorando la civetta, uscì nel corridoio e s'infilò in tutta fretta le scarpe.

— Torna pure — gli dissi. — Io non sono tuo nemico. Finché non supererai il limite, non sarò tuo nemico.

Annuì e uscì come un razzo dall'appartamento.

Stringendomi nelle spalle, richiusi la porta. Tornai in cucina e fissai la civetta: — E allora? Che cosa è successo?

Dal suo sguardo giallo ambrato non trapelava nulla.

Allargai le braccia: — Come faremo a lavorare insieme? Come faremo a collaborare? Sei dotata di qualche strumento per comunicare? Mi sto confidando con te, mi senti? Ti sto parlando con franchezza!

Non avevo ancora attraversato completamente il Crepuscolo, mi ero proiettato solo col pensiero. Non si deve mai avere troppa fiducia negli sconosciuti, ma era poco probabile che il Capo mi avesse assegnato un'aiutante non affidabile.

Non vi fu risposta. Se anche poteva comunicare per via telepatica, Ol'ga certo non aveva intenzione di farlo.

— Che misure adottiamo? Bisogna cercare quella ragazzina. Ricevi l'immagine?

Non vi fu risposta. Dopo aver sospirato, lanciai a caso all'uccello un frammento della mia memoria.

La civetta dispiegò le ali e svolazzando venne a posarsi sulla mia spalla.

— Allora senti, eh? Ma non ti abbassi a dare una risposta. Va bene, se vuoi così. Che cosa devo fare?

Continuava il solito gioco del silenzio. Del resto, sapevo che cosa fare. Che non avessi nessuna speranza era un altro discorso.

— E come farò ad andarmene in giro per strada con te sulla spalla?

Uno sguardo beffardo, davvero beffardo. E l'uccello sulla spalla volò via nel Crepuscolo.

Allora le cose stavano così: era un osservatore invisibile. Non soltanto un osservatore: la reazione di Kostja alla civetta era stata più che emblematica. A quanto pare le Forze delle Tenebre conoscevano l'aiutante che mi era stata assegnata assai meglio di un qualunque agente della Luce.

— D'accordo — le dissi compiacente. — Mangia qualcosa, va bene?

Presi uno yogurt e mi versai un bicchiere di succo d'arancia. Il mio nutrimento dell'ultima settimana, ossia bistecche semicrude e succo di carne, quasi per niente distinguibile dal sangue vero e proprio, mi dava ormai la nausea.

— A te va del succo di carne, vero? La civetta si voltò.

— Be', come vuoi — le dissi. — Sono sicuro che non appena ti verrà fame troverai il modo di comunicare con me.