"I guardiani della notte" - читать интересную книгу автора (Luk'janenko Sergej)

Capitolo 4

La civetta uscì dal Crepuscolo subito dopo di me. Spiccò il volo — per un istante percepii la lieve puntura dei suoi artigli — e si diresse verso il frigorifero.

— Devo sistemarti un trespolo? — chiesi, chiudendo a chiave la porta.

Vidi Ol'ga parlare per la prima volta. Il becco sussultava, mentre lei tirava fuori con uno sforzo evidente le parole. A dire il vero non capisco come un uccello possa essere in grado di parlare. Tanto più con voce umana.

— Non è il caso, altrimenti comincerò a deporre le uova.

Era chiaro che tentava di scherzare.

— Se ti ho offesa, perdonami — le dissi per ogni eventualità. — Sto cercando anch'io di vincere l'imbarazzo.

— Capisco. È naturale.

Ficcai la testa nel frigorifero e scovai qualcosa per uno spuntino. Formaggio, salame, cetriolini e funghi sotto sale… Chissà se si accompagnava bene il cetriolino sotto sale a un cognac invecchiato di quarant'anni. Forse avrebbero avvertito un reciproco senso di disagio. Lo stesso che avvertivo io con Ol'ga.

Presi il formaggio e il salame.

— Scusa, ma non ci sono limoni. — Comprendevo tutta l'assurdità di quella preparazione, eppure… — Però il cognac è buono.

La civetta taceva.

Dal cassetto scostato sotto il bar presi una bottiglia di Kutuzov.

— L'hai mai provato?

— È la nostra risposta al Napoleon? — La civetta fece una risatina. — No, non l'ho mai provato.

L'assurdità di quella situazione aumentava. Sciacquai due bicchieri da cognac e li posai sul tavolo. Fissai dubbioso quel pugno di penne bianche. E il becco corto, ricurvo.

— Non puoi bere dal bicchiere. Vuoi che ti porti un piattino?

— Voltati.

Ubbidii. Udii alle mie spalle un fruscio di penne. Poi un sibilo leggero, sgradevole, che rammentava il frusciare di una serpe o una fuoriuscita di gas da una bombola.

— Ol'ga, scusa, ma… — Mi voltai.

La civetta era sparita.

Già, mi aspettavo qualcosa del genere. Avevo sperato che potesse assumere sembianze femminili almeno di tanto in tanto. E mi ero figurato mentalmente un ritratto di Ol'ga, la donna prigioniera nel corpo di uccello che ancora rammentava l'insurrezione decabrista. Chissà perché me l'immaginavo come la principessina Lopuchina in fuga dal ballo. Solo un po' più vecchia, più seria, con lo sguardo pieno di saggezza e un po' emaciata…

Sullo sgabello sedeva una donna giovane, giovanissima. Che non dimostrava più di venticinque anni. Con i capelli tagliati cortissimi, da maschio, le guance nere di fumo, come fosse scampata a un incendio. Bella, i tratti del viso fini, aristocratici. Ma quella pelle che sembrava bruciata, quella pettinatura rozza, mostruosa…

I suoi abiti mi scioccarono del tutto. Sudici pantaloni militari degli anni Quaranta, giacca di ovatta imbottita aperta e, sotto, una maglietta grigia da ginnastica. Piedi nudi.

— Sono bella? — chiese la donna.

— Ebbene sì — risposi io. — La Luce e le Tenebre… Perché hai quest'aspetto?

— L'ultima volta che ho assunto sembianze umane risale a cinquantacinque anni fa.

Annuii.

— Capisco, ti hanno utilizzata quando c'era la guerra?

— Mi utilizzano con tutte le guerre. — Ol'ga sorrise gentilmente. — Quando le guerre sono gravi. Altrimenti mi è proibito assumere sembianze umane.

— Ma ora non c'è nessuna guerra.

— Vorrà dire che ci sarà.

Questa volta non sorrise. Cercai di allontanare quella maledizione con un segno.

— Vuoi fare una doccia?

— Volentieri.

— Non ho abiti femminili. Un paio di jeans e una camicia ti vanno bene?

Annuì. Si alzò goffamente, tenendo in modo buffo le braccia e si fissò stupita i piedi nudi. Se ne andò nel bagno, come se non fosse la prima volta che faceva una doccia da me.

Mi fiondai nella camera da letto. Non doveva avere molto tempo.

I jeans erano vecchi, ma erano di una misura in meno rispetto a quelli che portavo adesso. Le sarebbero andati comunque grandi… E la camicia? No, meglio un maglioncino leggero. La biancheria… Eh, sì… come no, come no.

— Anton!

Feci una pila dei vestiti, agguantai un asciugamano pulito e tornai a razzo. La porta del bagno era aperta.

— Che rubinetti che hai…

— Sono d'importazione… Sto arrivando.

Entrai. Ol'ga stava nella vasca da bagno, con la schiena voltata verso di me e girava assorta la maniglia del rubinetto ora a destra ora a sinistra.

— Verso l'alto — le dissi. — Alzala, a sinistra scende acqua fredda, a destra calda.

— Chiaro, grazie.

Non provava il minimo imbarazzo per la mia presenza. Era comprensibile, se si pensava alla sua età e al suo rango… insomma, al rango che aveva avuto.

Ma io mi sentivo confuso. E per questo diventai cinico.

— Eccoti i vestiti. Forse troverai qualcosa che fa al caso tuo. Sempre se ne hai bisogno, naturalmente.

— Grazie, Anton… — Ol'ga mi fissò. — Non farci caso. Sono stata per ottant'anni dentro un corpo d'uccello. E ho trascorso la maggior parte del tempo in letargo, ma ora ne ho abbastanza.

Aveva occhi profondi, magnetici. Pericolosi.

— Ormai non mi sento più né un essere umano, né un Altro, né una donna. E neppure una civetta. Solo… una vecchia, abominevole idiota asessuata che qualche volta è in grado di parlare.

L'acqua della doccia la colpì. Ol'ga sollevò lentamente le braccia, si rigirò con piacere sotto i getti scroscianti.

— Togliermi questa fuliggine di dosso per me è molto più importante che… turbare un simpatico giovane.

Dopo aver incassato il "giovane", senza ulteriori polemiche, uscii dal bagno. Scossi la testa, presi il cognac e stappai la bottiglia.

Almeno una cosa era chiara: lei non era un mutantropo. Un mutantropo non avrebbe tenuto sul corpo dei vestiti. Ol'ga era una maga. Una maga, una donna di circa duecento anni, che ottant'anni fa era stata punita con la privazione del corpo. Era una specialista in scambi magnetici, l'ultima volta che era stata reclutata per una missione risaliva a cinquant'anni prima…

C'erano dati sufficienti per una ricerca nei computer della base. Non avevo accesso a tutti i file, non avevo il grado. Ma, per fortuna, i superiori non potevano neppure immaginare quante informazioni si ottenevano da una ricerca incrociata.

Naturalmente, se avessi davvero voluto scoprire l'identità di Ol'ga.

Versato il cognac nei bicchieri, mi misi in attesa. Ol'ga uscì dal bagno cinque minuti dopo, asciugandosi i capelli con la salvietta. Indossava i miei jeans e il mio maglione.

Non si può dire che si fosse trasformata del tutto… però era diventata più gradevole.

— Grazie, Anton. Non puoi immaginare con che piacere…

— Lo immagino.

— Immaginare non basta. L'odore, Anton… l'odore di bruciato. Io mi sono quasi abituata dopo mezzo secolo. — Ol'ga sedette goffamente sullo sgabello. Sospirò. — È brutto, ma sono felice dell'attuale crisi. Non importa che sia perdonata, purché abbia la possibilità di lavarmi…

— Puoi rimanere con queste sembianze? Esco a comprarti degli abiti adatti.

— Non è il caso. Ho solo mezz'ora al giorno.

Appallottolato l'asciugamano, Ol'ga lo gettò sul davanzale. Sospirò: — Potrei anche non riuscire a lavarmi la prossima volta. E neppure a bere il cognac… Alla tua salute, Anton!

— Alla tua!

Il cognac era buono, lo sorseggiai con piacere, malgrado la totale confusione nella mia testa. Ol'ga lo bevve d'un fiato, corrugò la fronte, ma commentò con cortesia: — Non è male.

— Perché il Capo non ti permette di assumere sembianze normali?

— Non è in suo potere.

Era chiaro. La punizione non arrivava dall'ufficio distrettuale, ma dai vertici superiori.

— Ti auguro buona fortuna, Ol'ga. Qualunque azione tu abbia commesso, sono certo che la tua colpa è già stata espiata da un pezzo.

La donna si strinse nelle spalle.

— Vorrei crederlo. Capisco che posso suscitare compassione, ma il castigo era giusto. Del resto… parliamone seriamente.

— Parliamone.

Ol'ga si allungò attraverso il tavolo verso di me. Disse con un misterioso sussurro: — Te lo dico con franchezza: mi sono stufata. Ho nervi saldi, ma così non si può vivere. La mia unica chance è quella di compiere una missione talmente importante che ai capi non resti altra via d'uscita che perdonarmi.

— E dove la troviamo una missione simile?

— L'abbiamo già. E consiste di tre tappe: proteggiamo il ragazzino e lo facciamo diventare un alleato delle Forze della Luce. La vampira la eliminiamo.

Ol'ga aveva un tono sicuro di sé e a un tratto le credetti. Proteggeremo lui ed elimineremo lei. Senza problemi.

— Solo che si tratta di inezie, Anton. A te un'azione simile consentirà di salire di grado, ma io non verrò salvata. L'importante è la ragazza col vortice malefico.

— Di lei si stanno già occupando, Ol'ga. Io… noi siamo stati esclusi dall'incarico.

— Non importa. Non se la caveranno da soli.

— Davvero? — chiesi con ironia.

— Non se la caveranno. Boris Ignat'evič è un mago potente. Ma in altri campi. — Ol'ga socchiuse gli occhi beffardamente. — E io è tutta la vita che mi occupo di catastrofi infernali.

— Ecco che cosa c'entrava la guerra! — esclamai.

— Naturalmente. Simili esplosioni d'odio in tempo di pace non avvengono. Quel bastardo di Adolf… ne aveva di seguaci, eppure l'avrebbero fatto fuori già nel primo anno di guerra. Insieme a tutta la Germania. Quella di Stalin era una situazione diversa: era circondato da un'adorazione abnorme… uno scudo potente. Anton, io sono una semplice donna russa… — un fugace sorriso sottolineò ciò che Ol'ga intendeva con la parola "semplice" — e ho trascorso tutta l'ultima guerra a proteggere i nemici del mio paese dalle maledizioni. Anche solo per questo mi meriterei il perdono, non credi?

— Sì, lo credo. — Avevo la sensazione che si fosse sbronzata.

— Un lavoro fetente… a tutti noi capita di dover andare contro la natura umana, ma giungere fino a tal punto… È così, Anton. Loro… non se la caveranno. Io… posso provarci. Anche se non ne ho la completa certezza.

— Ol'ga, se è una cosa così seria, devi fare rapporto…

La donna scosse la testa, aggiustandosi i capelli bagnati: — Non posso. Mi è proibito comunicare con chiunque, eccetto che con Boris Ignat'evič e il mio partner nell'incarico. A lui ho già detto tutto. Ora posso solo aspettare. E sperare di riuscire a cavarmela all'ultimo minuto.

— E il Capo non lo capisce questo?

— Al contrario, penso che lo capisca.

— E allora… — mormorai.

— Siamo stati amanti. Per molto tempo. E per di più siamo anche amici, il che succede assai di rado… E quindi, Anton, oggi risolviamo la questione del ragazzino e della vampira psicopatica. E domani aspetteremo. Aspetteremo finché non ci sarà una catastrofe infernale. Sei d'accordo?

— Devo riflettere, Ol'ga.

— Perfetto, pensaci. È ora, voltati.

Non feci in tempo. Forse non era stata colpa di Ol'ga. Non aveva calcolato bene il tempo che le era concesso.

Fu uno spettacolo disgustoso. Ol'ga prese a tremare, s'inarcò. Il corpo fu scosso da un'onda sussultoria: le ossa si piegarono, come fossero di gomma. La pelle cadde, mettendo a nudo i muscoli irrorati di sangue. Di lì a un istante la donna si trasformò in un ammasso di carne sgualcita, in una sfera informe. E la sfera si rattrappiva sempre di più, coprendosi di morbide piume bianche.

La civetta delle nevi spiccò il volo dallo sgabello con un grido un po' uccellesco e un po' umano. Si fiondò verso il suo posto prediletto sul frigorifero.

— Diavolo! — gridai, dimenticando ogni regola e insegnamento. — Ol'ga!

— Bello, eh? — La voce della donna era ansimante, ancora provata dal dolore.

— Perché, perché deve succedere proprio così?

— Fa parte del castigo, Anton.

Allungai la mano e sfiorai l'ala dispiegata e tremante.

— Ol'ga, sono d'accordo con te: risolviamo la questione del ragazzino e della vampira.

— Allora al lavoro, Anton!

Annuendo, uscii nel corridoio. Spalancai l'armadio con l'equipaggiamento, entrai nel Crepuscolo perché altrimenti non avrei visto nulla se non abiti e vecchia paccottiglia.

Un corpicino leggero si posò sulla mia spalla: — Che cos'hai?

— Ho esaurito l'amuleto di onice. Puoi ricaricarlo?

— No. mi hanno privato di quasi tutti i poteri. Mi è rimasto solo quello che serve per neutralizzare l'inferno. E anche la memoria, Anton… mi rimane ancora la memoria. Come pensi di uccidere la vampira?

— Non è registrata — dissi io. — Ho solo dei rimedi popolari.

La civetta ridacchiò.

— Il paletto di frassino si usa ancora?

— Io non ce l'ho.

— Capisco. E per via dei tuoi amici, vero?

— Sì. Non voglio che si spaventino, varcando la soglia.

— E allora che cosa usiamo?

Da un nascondiglio scavato tra i mattoni presi una pistola. Mi piegai sulla civetta. Ol'ga studiò attentamente l'arma.

— L'argento? Per i vampiri è molto nocivo, ma non letale.

— Dentro ci sono proiettili deflagranti. — Estrassi il caricatore dalla Desert Eagle. — Proiettili d'argento deflagranti. Calibro 044. Bastano tre colpi e si riempie di buchi, e il vampiro non è più in grado di reagire.

— E poi?

— Rimedi popolari.

— Non credo nella tecnica — mi fece eco Ol'ga. — Ho visto un lupo mannaro riprendersi dopo che era stato fatto a pezzi da una carica.

— E si è ripreso in fretta?

— Dopo tre giorni.

— E io che sto dicendo?

— D'accordo, Anton. Se non ti fidi dei miei poteri…

Era contrariata, lo capivo. Ma io non sono un operativo. Io sono un dipendente del quartier generale.

— Andrà tutto bene — la rassicurai. — Credimi. Su, concentriamoci sulla ricerca dell'esca.

— Andiamo.

— Ecco, è accaduto tutto qui — riferii a Ol'ga. Stavamo nell'androne. Naturalmente nel Crepuscolo.

Di tanto in tanto passava qualcuno, che cercava comicamente di scansarmi, sebbene fossi invisibile.

— Qui tu hai ucciso il vampiro. — Il tono di Ol'ga era molto professionale. — Già… Capisco, amico mio. Hai eliminato nel modo sbagliato i rifiuti… Ma non fa nulla…

Ai miei occhi non restava più alcuna traccia del vampiro defunto. Ma non stetti a discutere.

— Qui c'era una vampira… e tu l'hai colpita… no, hai fatto schizzare della vodka… — Ol'ga scoppiò a ridere piano. — Lei se n'è andata… I nostri operativi stanno perdendo smalto. La traccia è evidente anche adesso!

— Si è trasformata — dissi cupo.

— In un pipistrello?

— Sì, Garik ha detto che c'è riuscita all'ultimo momento.

— Male. La vampira è più forte di quanto sperassi.

— Ma non è selvatica. Beveva sangue vivo e uccideva. Non ha esperienza, ma di forza ne ha a bizzeffe…

— La elimineremo — disse in tono perentorio Ol'ga.

Continuavo a tacere.

— Ah, ecco qui la traccia del ragazzino. — La voce di Ol'ga si addolcì. — Però… ha un ottimo potenziale. Andiamo a vedere dove vive.

Uscimmo dall'androne, ci incamminammo lungo il marciapiede. Il cortile era grande, circondato da case da tutti i lati. Percepivo anch'io l'aura del ragazzino, anche se debole e confusa: doveva passare di qui regolarmente.

— Avanti — ordinò Ol'ga. — Gira a sinistra. Diritto. A destra. Alt…

Mi arrestai davanti a una via lungo la quale avanzava lento un tram. Dal Crepuscolo non ero ancora uscito.

— In questa casa — comunicò Ol'ga. — Avanti. Lui si trova là.

Era un casermone mostruoso. Piatto, altissimo. Sembrava poggiare su delle zampe e a una prima occhiata ricordava un gigantesco monumento a una scatola di fiammiferi. Alla seconda, un'esibizione patologica di megalomania.

— In una casa così si può uccidere — dissi — o impazzire.

— Occupiamoci di tutte e due le questioni — propose Ol'ga. — Sai, ho una grande esperienza in queste cose.

Egor non voleva uscire di casa. Quando i genitori erano andati al lavoro e la porta si era richiusa di colpo, lui subito si era sentito in preda alla paura. E sapeva che oltre i confini del suo appartamento vuoto quella paura si sarebbe trasformata in autentico terrore.

Non aveva scampo. In nessun luogo e in nessun modo. Ma la casa creava almeno un'illusione di sicurezza.

Il mondo si era spezzato, il mondo era crollato la notte prima. Egor aveva sempre ammesso onestamente, sebbene non davanti a tutti ma solo con se stesso, di non essere coraggioso. Del resto non era neppure un vigliacco. Vi erano cose delle quali si poteva e si doveva avere paura: teppisti, maniaci, terroristi, catastrofi, incendi, guerre, malattie incurabili. Ma si poteva fare di tutta un'erba un fascio e soprattutto erano pericoli lontani. Esistevano, erano reali, ma fuori della vita di tutti i giorni. Bastava rispettare le regole essenziali: non girare di notte, non introdursi in quartieri che non si conoscevano, lavarsi le mani prima di mangiare, non saltare sui binari. Sì, si poteva aver timore delle disgrazie, ma si capiva anche che le possibilità di rimanere inguaiati erano scarse.

Ora tutto era cambiato.

C'erano fenomeni ai quali era impossibile sfuggire. Fenomeni che non esistono e non possono esistere al mondo.

Esistevano i vampiri.

Rammentava distintamente — il terrore non l'aveva privato della memoria — ciò su cui aveva confidato ieri mentre correva a casa e, contro le sue abitudini, aveva attraversato la strada senza guardarsi intorno. E nutriva la timida speranza che al mattino ciò che aveva veduto in sogno non si avverasse.

Era la verità. Una verità impossibile. Ma…

Era accaduto ieri. Era accaduto a lui.

Era rincasato tardi, d'accordo, ma gli succedeva di tornare anche più tardi. Persino i suoi genitori, che secondo la ferma convinzione di Egor ancora non accettavano che lui avesse quasi tredici anni, erano tranquilli su questo punto.

Quando era uscito dalla piscina con gli altri ragazzi… erano già le dieci. Tutti insieme si erano infrattati da McDonald's e si erano fermati là una ventina di minuti. Di solito dopo l'allenamento chi poteva permetterselo andava da Mac. Poi… poi avevano raggiunto tutti insieme il metrò. Non era lontano. La strada illuminata. In sette o otto.

Allora era ancora tutto normale.

Nel metrò chissà perché aveva cominciato a sentirsi inquieto. Aveva guardato l'orologio e scrutato la gente intorno. Non c'era niente di sospetto.

Ma Egor aveva udito quella musica.

E aveva avuto inizio quel qualcosa che non sarebbe dovuto esistere.

Aveva svoltato chissà perché nell'androne buio e maleodorante. Gli erano venuti incontro una ragazza e un ragazzo che erano lì ad aspettarlo. Che l'avevano stregato. E lui stesso aveva porto il collo alle labbra sottili, taglienti, non umane della ragazza.

Persino ora che era a casa, da solo, Egor avvertiva un brivido gelido, dolce, seducente corrergli lungo la pelle e solleticarlo. Ne provava desiderio! Aveva paura, ma desiderava accostarsi a quei canini risplendenti, a quel dolore momentaneo, dopo il quale, dopo il quale… dopo il quale qualcosa sarebbe probabilmente avvenuto…

E nessuno in tutto il mondo poteva aiutarlo. Egor non aveva dimenticato lo sguardo di quella donna che portava a passeggio il cane. Quello sguardo che l'aveva trapassato, sospettoso ma nient'affatto indifferente. Non si era spaventata, solo non aveva visto ciò che stava avvenendo… A salvare Egor era stata solo l'apparizione del terzo vampiro. Quel ragazzo pallido col walkman che non l'aveva mollato fin dal metrò. Si erano buttati su di lui come lupi affamati su un cervo catturato ma non ancora ucciso.

E a quel punto tutto si confondeva: era accaduto troppo in fretta. Le urla su una certa Guardia e su un certo Crepuscolo. Un lampo di luce blu e un vampiro aveva cominciato a dissolversi sotto i suoi occhi, come al cinema. Il combattimento della vampira cui avevano schizzato qualcosa sul volto.

E la corsa in preda al panico…

La comprensione graduale, terribile, sempre più terribile di ciò che era accaduto: non poteva raccontare nulla a nessuno. Nessuno l'avrebbe creduto. Capito.

I vampiri non esistono!

Non si può attraversare con lo sguardo le persone senza vederle!

Nessuno brucia nel vortice di un fuoco blu, trasformandosi in mummia, in scheletro, in un pugno di cenere!

"Non è vero" pensò Egor. — Sì che si può. Succede!

Quasi non riusciva a credere a se stesso…

Non era andato a scuola, ma in compenso aveva rassettato l'appartamento. Aveva voglia di fare qualcosa. Parecchie volte si era avvicinato alla finestra e aveva scrutato nel cortile.

Nulla di sospetto.

Ma sarebbe stato in grado di vederli?

Sarebbero venuti. Egor non ne aveva dubitato neppure un secondo. Lo sapevano che lui non li aveva dimenticati. L'avrebbero ucciso come testimone.

E non si sarebbero limitati a ucciderlo! Avrebbero bevuto il suo sangue e l'avrebbero trasformato in un vampiro.

Il ragazzo si avvicinò alla libreria dove metà dei ripiani era occupata dalle videocassette. Forse poteva trovare consiglio. Dracula, morto e contento… No, è una commedia. Amore all'ultimo morso. Tutte sciocchezze… La notte dei morti viventi. Egor trasalì. Questo film se lo ricordava. E ormai non rischiava più nulla a rivederlo. Com'è che dicevano nel film? «La croce ti aiuta se hai fede…»

Ma come poteva aiutarlo la croce se lui non era neppure battezzato? E se non credeva neppure in Dio? Non ci aveva mai creduto.

Ora, forse, avrebbe dovuto…

Se esistono i vampiri, allora vuol dire che esiste anche il diavolo; se esiste il diavolo, allora esiste anche Dio?

Se esistono i vampiri, allora esiste anche Dio?

Se esiste il Male, allora esiste anche il Bene?

— Non esiste nulla — disse Egor. Ficcò le mani nelle tasche dei jeans e andò in corridoio. Si guardò allo specchio. Forse aveva l'aria un po' troppo cupa, ma era esattamente un ragazzo come tanti altri. Voleva dire che per ora era tutto normale. Non avevano fatto in tempo a morderlo.

A ogni modo girò su se stesso, cercando di esaminarsi la nuca. No, non c'era nulla. Nessuna traccia. Il collo era inagrissimo e non proprio pulito…

L'idea gli era venuta all'improvviso. Egor si fiondò in cucina, spaventando il gatto che si era acciambellato sulla lavatrice. Prese a rovistare tra i sacchetti con le patate, le cipolle e le carote.

Eccolo. L'aglio.

Dopo averne pulito in fretta una testa, Egor si mise a masticarla. L'aglio era cattivo, e lui aveva la bocca in fiamme. Si versò un bicchiere di tè. Non lo aiutò più di tanto: la lingua bruciava, le gengive gli pizzicavano. Eppure avrebbe dovuto aiutarlo, no?

Il gatto lanciò un'occhiata in cucina. Fissò perplesso il ragazzo, miagolò deluso e si allontanò. Non capiva come si potesse mangiare una simile porcheria. Egor sputò nel palmo della mano e prese a spalmarsi la saliva sul collo. Anche a lui sembrava ridicolo, ma ormai non poteva più fermarsi.

Anche il collo cominciava a pizzicargli. Ottimo aglio. Qualunque vampiro sarebbe crepato al solo sentirne l'odore.

Il gatto si mise a strillare nell'anticamera. Egor si allarmò e sbirciò fuori dalla cucina. Niente. La porta era chiusa a tre mandate e con la catenella.

— Non urlare, Gresik! — intimò al gatto. — Altrimenti do l'aglio pure a te.

Valutata la minaccia, il gatto fuggì nella stanza da letto dei genitori.

Che cosa poteva fare ancora? L'argento, a quanto pare, aiutava. Spaventando una seconda volta il gatto, Egor entrò nella camera da letto e aprì l'armadio guardaroba. Sotto le lenzuola e gli asciugamani trovò una scatolina dove la mamma teneva i gioielli. Tolse una catenina d'argento e se la mise al collo. Avrebbe puzzato d'aglio e in ogni caso se la sarebbe dovuto togliere prima di sera. Era il caso che svuotasse il salvadanaio e si comprasse una catenina con la croce? E la portasse senza mai toglierla? Poteva dire che credeva in Dio. Succede: uno prima non credeva e poi all'improvviso crede!

Passò nel salotto e sedette sul divano allungando le gambe, gettando uno sguardo pensieroso tutt'attorno. Ce l'avevano in casa un ramo di frassino? In teoria no. E come era fatto un ramo di frassino? E se fosse andato all'orto botanico e si fosse ricavato un pugnale da un ramo?

Sarebbe andato benissimo, naturalmente. Ma l'avrebbe aiutato? E se di nuovo fosse risuonata quella musica… quella musica sommessa, irresistibile…? Si sarebbe strappato la catenina, avrebbe spezzato il pugnale e si sarebbe lavato il collo spalmato d'aglio?

Una musica sommessa, una musica sommessa… Nemici invisibili. Forse erano già lì accanto. Solo che lui non li vedeva. Non era in grado di vederli. E il vampiro sedeva lì e sogghignava, fissando quell'ingenuo ragazzo pronto a difendersi. E non gli faceva paura il ramo di frassino, né lo spaventava l'aglio. Come combattere un nemico invisibile?

— Gresik! — chiamò Egor. Il gatto non rispose, aveva un carattere difficile. — Vieni qui, Gresik!

Il gatto stava sulla soglia della camera da letto. Il pelo era ritto, gli occhi fiammeggianti. Fissava un punto oltre Egor, in direzione della poltrona dove stava il tavolino delle riviste. La poltrona era vuota…

Il ragazzo sentì corrergli lungo il corpo il solito brivido gelido. Fece un tale scatto che dal divano finì sul pavimento. L'appartamento era vuoto e chiuso a chiave. Intorno si era fatto buio, come se dietro la finestra il sole si fosse oscurato…

Lì accanto c'era qualcuno.

— No! — gridò Egor, strisciando via. — Lo so, lo so che ci siete!

Il gatto mandò un grido rauco e si precipitò sotto il letto.

— Ti vedo! — gridò Egor. — Non toccarmi!

Il portone anche così era tetro e parecchio sudicio. Ma, a guardarlo dal Crepuscolo, pareva una vera catacomba. Le pareti di cemento, che nella realtà ordinaria erano soltanto sporche, nel Crepuscolo sembravano coperte da un muschio grigio. Uno schifo. Si vedeva che qui non c'era un Altro a ripulire la casa… Passai il palmo della mano su un grumo particolarmente spesso, e il muschio si mosse allontanandosi dal calore.

— Brucia! — intimai.

Non amavo i parassiti. Anche quando non erano nocivi e si limitavano a succhiare le emozioni altrui. La teoria secondo cui ingenti colonie di muschio blu possono scuotere la psiche umana provocando stati depressivi o euforici non è stata ancora dimostrata. Ma io ho sempre preferito cautelarmi.

— Brucia! — ripetei, convogliando sul palmo della mano un po' di forza.

La fiamma, diafana e ardente, avvolse l'arruffata lanugine blu. Di lì a un istante bruciava tutto il portone. Indietreggiai verso l'ascensore, pigiai il pulsante ed entrai nella cabina. Era più pulita.

— Ottavo piano — suggerì Ol'ga. — Perché sprechi le forze?

— Piccolezze…

— Potresti avere bisogno di tutte quelle che possiedi. Lascia che cresca.

Tacqui. L'ascensore continuava a salire lentamente. Era l'ascensore del Crepuscolo, una copia identica a quello che stava a pianterreno.

— Come ben sai — dichiarò Ol'ga — la giovinezza… l'incapacità di scendere a compromessi…

Le porte si spalancarono. All'ottavo piano il fuoco era già spento, il muschio blu era cenere. Faceva caldo, più caldo di quanto facesse di solito nel Crepuscolo. C'era un leggero sentore di bruciato.

— La porta è questa… — disse Ol'ga.

— Lo vedo.

In effetti avevo percepito l'aura del ragazzo davanti alla porta. Non aveva neppure osato uscire di casa quel giorno. Magnifico. Stava lì legato alla fune come un capretto in attesa della tigre.

— Penso che entrerò — decisi. E spinsi la porta.

Non si aprì.

Impossibile!

Nella realtà le porte possono essere chiuse con i chiavistelli. Il Crepuscolo invece ha le sue leggi. Solo i vampiri hanno bisogno di essere invitati per entrare in casa d'altri, è il loro pedaggio per le energie in eccesso e per il loro approccio gastronomico agli esseri umani.

Per chiudere a chiave una porta nel Crepuscolo, si deve quanto meno essere in grado di entrarvi.

— La paura — disse Ol'ga. — Ieri il ragazzino era terrorizzato. È appena stato nel mondo del Crepuscolo. Ha chiuso dietro di sé la porta… e, senza rendersene conto, l'ha fatto in tutti e due i mondi.

— E che cosa facciamo?

— Entra più in profondità. Seguimi.

Mi guardai la spalla. Non c'era nessuno. Creare il Crepuscolo, quando ci si trova nel Crepuscolo, non è un gioco da ragazzi. Sollevai la mia ombra da terra parecchie volte prima che acquisisse volume e cominciasse a ondeggiare al contrario.

— Su, su che ce la fai — mormorò Ol'ga.

Entrai nell'ombra e il Crepuscolo si infittì. Lo spazio si riempì di una nebbia fitta. I colori si dissolsero. L'unico suono rimasto era il battito del mio cuore, greve e lento, rimbombante come quello di un tamburo percosso dal fondo di un burrone. Il vento sibilava, l'aria s'insinuava nei polmoni, spianando lentamente i bronchi. Sulla mia spalla apparve la civetta bianca.

— Non resisterò a lungo qui — mormorai, aprendo la porta.

Sotto i miei piedi sfrecciò un gatto grigio scuro. Per i gatti non esistono il mondo ordinario e quello del Crepuscolo, essi vivono contemporaneamente in tutti i mondi. Che bello che non siano dotati di ragione!

— Micio, micio! — bisbigliai. — Non aver paura, micino…

Più che altro per sperimentare le mie forze, chiusi a chiave la porta dietro di me. Ecco qua, ragazzo, ora sei molto più al sicuro. Ma ti servirà quando sentirai il Richiamo?

— Esci — disse Ol'ga. — Stai perdendo molto in fretta le forze. A questo livello di Crepuscolo fa fatica anche un mago esperto. Uscirò anch'io più su.

Con sollievo toccai la superficie. Già, io non sono un operativo, in grado di vagabondare per le tre fasce del Crepuscolo. E poi non ho neppure bisogno di farlo.

Il mondo si fece un po' più luminoso. Mi guardai intorno: l'appartamento era accogliente e non particolarmente profanato dalle emanazioni del mondo del Crepuscolo. Qualche strato di muschio blu davanti alla porta… Non era terribile, sarebbe crepato da solo, dato che la colonia principale era stata annientata. Si udirono anche dei rumori dalla cucina. Diedi un'occhiata.

Il ragazzino stava accanto al tavolo e mangiava aglio, bevendo tè bollente.

— Luce e Tenebre… — mormorai.

Ora il ragazzino sembrava ancora più piccolo e più indifeso di ieri. Goffo, magro, anche se non si poteva dire gracile: si vedeva che faceva sport. Portava jeans azzurri scoloriti e maglietta blu.

— Povero — dissi.

— Molto commovente — concordò Ol'ga. — Diffondere quelle voci sulle proprietà magiche dell'aglio è stata una bella mossa per i vampiri. Dicono che sia stato Bram Stoker a inventarle…

— L'aglio è utile — dissi.

— Sì, e protegge dai virus dell'influenza — aggiunse Ol'ga. — Come muore in fretta la verità, come è tenace invece la menzogna… Ma il ragazzo è davvero forte. Un nuovo operativo non guasterebbe alla Guardia del Giorno.

— Ma lui è dei nostri?

— Per il momento non è di nessuno. Il suo destino non è ancora formato, lo vedi anche tu.

— E quali sono le sue inclinazioni?

— Non si capisce. Per ora non si capisce. È troppo spaventato. Ora è pronto a fare qualunque cosa pur di salvarsi dai vampiri. È pronto a diventare un agente delle Tenebre o anche un agente della Luce.

— Non posso giudicarlo per questo.

— Certo. Andiamo.

La civetta spiccò il volo verso il corridoio. Io seguii le tracce. Ora andavamo tre volte più veloce degli esseri umani: uno dei tratti distintivi del Crepuscolo era il mutamento del corso del tempo.

— Aspetteremo qui — ordinò Ol'ga, comparendo in salotto. — Ci sono luce, calore, comfort.

Io sedetti in una soffice poltrona accanto al tavolino. Gettai un'occhiata al giornale, abbandonato lì sopra.

Non c'è nulla di più allegro che leggere la stampa attraverso il Crepuscolo.

CROLLANO I PROFITTI DEI CREDITI recitava il titolo a caratteri cubitali.

Nella realtà la frase appariva del tutto diversa: "Nel Caucaso cresce la tensione".

Adesso si poteva prendere il giornale e leggere la verità. Quella autentica. Leggere ciò che pensava davvero il giornalista che aveva abborracciato l'articolo sul tema commissionatogli. Quelle briciole d'informazione che aveva avuto da fonti non ufficiali. La verità sulla vita e la verità sulla morte.

Ma perché?

Da un pezzo ormai avevo imparato a infischiarmene del mondo degli esseri umani. Quel mondo era stato il nostro fondamento. La nostra culla. Ma noi eravamo Altri. Passavamo attraverso porte chiuse e tutelavamo l'equilibrio tra Bene e Male. Noi eravamo pochi e non eravamo in grado di moltiplicarci… La figlia di un mago non diventava necessariamente una maga, il figlio di un lupo mannaro non imparava necessariamente a trasformarsi nelle notti di luna piena.

Noi non siamo tenuti ad amare il mondo ordinario.

Noi lo tuteliamo solo perché viviamo grazie a esso come parassiti.

Detesto i parassiti!

— A cosa stai pensando? — chiese Ol'ga. In salotto comparve il ragazzino. Si precipitò in camera da letto, rendendosi conto di essere nel mondo ordinario. Prese a rovistare nell'armadio.

— Mah, niente. Sono triste.

— Succede. I primi anni succede a tutti. — La voce di Ol'ga era del tutto umana. — Poi ci farai l'abitudine.

— Per questo mi rattristo.

— Dovresti rallegrarti che siamo ancora vivi. All'inizio del secolo il popolo degli Altri raggiunse il suo minimo storico. Sai che si discusse allora dell'unificazione tra le Forze delle Tenebre e le Forze della Luce? Che si elaborarono dei programmi eugenetici?

— Sì, lo so.

— Per poco la scienza non ci uccise. Non credevano in noi, non volevano credere in noi. Fintanto che si è ritenuto che la scienza potesse migliorare il mondo.

Il ragazzo tornò in salotto. Sedette sul divano, si aggiustò sul collo la catenina d'argento.

— Che c'è di meglio? — chiesi io. — Siamo stati originati dagli uomini. Abbiamo imparato a muoverci nel Crepuscolo, a mutare la nostra natura di cose e persone. Che cosa è cambiato, Ol'ga?

— Che i vampiri almeno non vanno a caccia senza licenza.

— Dillo a un essere umano a cui hanno succhiato il sangue…

Sulla soglia comparve il gatto. Ci fissò, cacciò un urlo, guardando adirato la civetta.

— È una reazione a te — dissi. — Ol'ga, penetra più profondamente nel Crepuscolo.

— Ormai è tardi — rispose lei. — Scusa… avevo smesso di vigilare…

Il ragazzo balzò su dal divano. Nel modo più rapido possibile consentito nel mondo degli umani. Goffamente — ancora non capiva che cosa gli stesse accadendo — entrò nella sua ombra e cadde sul tappeto, fissandomi. Ormai nel Crepuscolo.

— Me ne vado… — bisbigliò la civetta, svanendo. Mi conficcò dolorosamente gli artigli nella spalla.

— No! — si mise a gridare il ragazzo. — Lo so, lo so che ci siete!

Mi alzai, allargando le braccia.

— Ti vedo! Non toccarmi!

Era nel Crepuscolo. Tutto qui. Era accaduto. Senza aiuto, senza corsi né attività stimolatrici, senza la guida di un mago tutor, il ragazzino aveva varcato la barriera tra il mondo ordinario e il mondo crepuscolare.

Ciò che vedi, ciò che senti la prima volta che entri nel Crepuscolo dipende per la gran parte da ciò che diventerai.

Agente delle Tenebre o agente della Luce.

"Non abbiamo il diritto di assegnarlo alle Forze delle Tenebre, l'equilibrio di Mosca s'infrangerebbe definitivamente."

Ragazzo, sei proprio al limite estremo.

E questo fa più paura di una vampira inesperta.

Boris Ignat'evič ha il diritto di deciderne l'eliminazione.

— Non temere — dissi io, senza muovermi dal mio posto. — Non temere. Sono un amico, non ti farò del male.

Il ragazzino strisciò in un angolo e si zittì. Non distoglieva lo sguardo da me ed era evidente che non aveva capito di trovarsi nel Crepuscolo. Per lui nella stanza si era fatto semplicemente buio, era calato il silenzio e dal nulla ero apparso io…

— Non temere — ripetei. — Mi chiamo Anton. E tu come ti chiami?

Taceva. A tratti deglutiva. Poi strinse la mano al collo, tastò la catenina e parve calmarsi un poco.

— Non sono un vampiro — gli dissi.

— Chi è lei? — Il ragazzino gridava. Meno male che nella realtà ordinaria questo grido penetrante non si poteva udire.

— Anton. Agente della Guardia della Notte.

Sbarrò gli occhi, come per il dolore.

— Il mio compito consiste nel proteggere gli esseri umani dai vampiri e da altre forze impure.

— Non è vero…

— Perché?

Si strinse nelle spalle. Era un bene. Cercava di valutare le sue azioni, di argomentare la sua opinione. Significava che la paura non l'aveva del tutto privato della capacità di ragionare.

— Come ti chiami? — ripetei. Si poteva intervenire sul ragazzino per togliergli la paura. Ma sarebbe stata un'interferenza magica e quindi proibita.

— Egor…

— Un bel nome. E io mi chiamo Anton. Capisci? Sono Anton Sergeevič Gorodeckij. Agente della Guardia della Notte. Ieri ho ucciso il vampiro che aveva cercato di aggredirti.

— Solo lui?

Magnifico. Si cominciava a dialogare.

— Sì, la vampira se n'è andata. Ora la stanno cercando. Non temere, sono qui per proteggerti… per annientare la vampira.

— Perché tutt'intorno è grigio? — chiese a un tratto il ragazzo.

Bravo! Davvero bravo!

— Te lo spiegherò. Solo, voglio precisare, io non sono tuo nemico. Va bene?

— Vedremo.

Si aggrappava alla sua assurda catenina come se avesse potuto salvarlo. Ragazzo, ragazzo, se fosse tutto così facile a questo mondo! Non ti salveranno né l'argento, né il ramo di frassino, né la croce benedetta. La vita si contrappone alla morte, l'amore all'odio… e la forza si contrappone alla forza, perché la forza non ha categorie morali. È tutto molto semplice. Ci ho messo due o tre anni a capirlo.

— Egor — mi avvicinai lentamente a lui. — Ascolta quello che ho da dirti…

— Fermo! — m'intimò, come se avesse avuto in mano un'arma. Sospirai e mi fermai.

— Va bene. Allora ascolta. Oltre al mondo ordinario degli esseri umani, visibile, ne esiste un altro oscuro, quello del Crepuscolo.

Era assorto. Malgrado la sua paura e aveva una paura nera — ero investito da ondate di angoscioso terrore — il ragazzino cercava di capire. Ci sono persone che restano paralizzate dalla paura. E altre a cui la paura dà forza.

Speravo ardentemente che lui fosse tra questi ultimi.

— Un mondo parallelo?

Ecco qua. Eravamo al fantasy. E sia, certe parole erano solo innocui suoni.

— Sì, e in questo possono entrare solo coloro che sono dotati di superpoteri.

— I vampiri?

— Non solo. Anche i lupi mannari, le streghe, i maghi neri…

I maghi bianchi, i guaritori, i profeti…

— Ma esiste davvero?

Era bagnato fradicio. I capelli erano appiccicaticci, la maglietta gli si era incollata al corpo, lungo le guance scorrevano rivoli di sudore. E tuttavia il ragazzo non distoglieva lo sguardo da me ed era pronto a fronteggiarmi. Come se ne avesse avuto la forza.

— Sì, Egor. Qualche volta tra gli esseri umani ve ne sono alcuni capaci di accedere al mondo del Crepuscolo. Essi passano dalla parte del Bene o del Male. Della Luce o delle Tenebre. Costoro si definiscono Altri. E così ci chiamiamo tra noi: Altri.

— Lei è un Altro?

— Sì, e anche tu.

— Perché?

— Tu ti trovi nel mondo del Crepuscolo, piccolo. Guardati intorno, ascolta. I colori si sono dissolti. I suoni si sono spenti. La lancetta dei secondi striscia appena sull'orologio. Sei entrato nel mondo del Crepuscolo… tu hai voluto vedere il pericolo e hai varcato il confine tra i mondi. Qui il tempo procede più lento, tutto è diverso. È il mondo degli Altri.

— Non ci credo. — Egor si voltò di scatto e mi fissò di nuovo. — E perché Gresik è qui?

— Il gatto? — Sorrisi. — Gli animali hanno le loro leggi, Egor. I gatti vivono in tutte le dimensioni spaziali simultaneamente, per loro non fa differenza.

— Non ci credo. — La voce gli tremava. — È soltanto un sogno, lo so. La luce si sta affievolendo… Sto dormendo. Mi è già successo.

— Hai forse sognato che accendevi la luce e la lampadina non si illuminava? — Conoscevo la risposta e oltretutto la lessi negli occhi del ragazzino. — O si illuminava debolmente come una candela? E tu camminavi e intorno fluttuavano le tenebre, e quando tendevi la mano non riuscivi a distinguere le dita?

Taceva.

— Succede a tutti noi, Egor. Gli Altri fanno sogni di questo tipo. È il mondo del Crepuscolo che s'insinua in noi, ci chiama, ci ricorda della sua esistenza. Tu sei un Altro. Anche se sei ancora piccolo, sei un Altro. E dipende solo da te…

Non capii subito che aveva gli occhi chiusi e la testa reclinata di lato.

— Idiota — mi bisbigliò Ol'ga dalla spalla. — È la prima volta che entra da solo nel Crepuscolo! Non ha la forza per farlo! Trascinalo fuori immediatamente o resterà qui per sempre!

Il coma crepuscolare è una tipica malattia dei neofiti. Me ne ero quasi scordato, non mi era mai capitato di lavorare con Altri così giovani.

— Egor! — Feci un balzo verso di lui, lo scrollai, lo afferrai per le ascelle. Era leggero, leggerissimo: nel mondo crepuscolare non cambiava solo il corso del tempo. — Svegliati!

Non reagiva. Così il ragazzo era riuscito in un'impresa che ad altri costa mesi di allenamento: entrare da solo nel Crepuscolo.

— Trascinalo! — Ol'ga prese il comando della situazione. — Trascinalo, presto! Non si sveglierà da solo!

Era la cosa più difficile. Avevo seguito delle lezioni di pronto soccorso, ma non mi era mai capitato di trascinar fuori qualcuno dal Crepuscolo.

— Egor, torna in te! — Lo schiaffeggiai sulle guance. Prima piano, poi assestandogli sonori ceffoni. — E allora, ragazzo? Stai uscendo dal Crepuscolo! Svegliati!

Diventava sempre più leggero, svaniva tra le mie braccia. Il Crepuscolo gli aveva prosciugato la vita, tolto le ultime deboli forze, stava modificando il suo corpo e lo trasformava in uno dei suoi abitanti. Che cosa avevo combinato?

— Mettiti al riparo! — La voce di Ol'ga era fredda, severa. — Mettiti al riparo con lui… Guardiano!

Di solito impiegavo più di un minuto a creare la sfera. Ora me la cavai in cinque secondi. Un'esplosione di dolore, come se nella testa mi fosse scoppiata una minuscola carica. La sfera di protezione fuoriuscì dal mio corpo, avvolgendomi in una bolla iridata, che cresceva, si gonfiava, inglobando suo malgrado dentro di sé anche me e il ragazzino.

— Adesso trattienila! Io non posso aiutarti in nessun modo, Anton! Trattieni la sfera!

Ol'ga aveva torto. Coi suoi suggerimenti mi era già stata di aiuto. Con tutta probabilità sarebbe venuto in mente anche a me di creare la sfera, ma avrei perso altri secondi preziosi.

A un tratto tornò la luce. Il Crepuscolo continuava a prosciugare le nostre forze, da me stentatamente, dal ragazzino copiosamente, però ora aveva a disposizione solo qualche metro cubo di spazio. Qui le normali leggi fisiche non esistevano, ma ce n'erano di analoghe. Ora nella sfera si stava stabilendo un equilibrio tra i nostri corpi vivi e il Crepuscolo.

O il Crepuscolo si dissolveva liberando la sua preda, o il ragazzino si sarebbe trasformato in un abitante del mondo crepuscolare. Per sempre. È ciò che succede ai maghi che si concedono incondizionatamente, per imprudenza o per necessità. E capita anche ai neofiti privi delle cognizioni adeguate per difendersi dal Crepuscolo e che gli si sono concessi più del dovuto.

Guardai Egor: il suo viso ingrigiva. Si stava allontanando nelle infinite distese del mondo delle ombre.

Spostando il ragazzino sul braccio destro, col sinistro tolsi dalla tasca il temperino. Estrassi la lama con i denti.

— È pericoloso — mi avvertì Ol'ga.

Non risposi. Mi colpii sui polsi.

Il Crepuscolo sfrigolò, come una padella arroventata, quando sprizzò il sangue. La vista mi si offuscò. Il problema non era tanto la perdita di sangue, quanto la vita che defluiva insieme a esso. Avevo violato il mio sistema di autodifesa nel Crepuscolo.

In compenso il Crepuscolo aveva ricevuto una dose di energie che non sarebbe stato più in grado di assimilare.

Il mondo s'illuminò, la mia ombra crollò sul pavimento e io l'attraversai. L'iridata membrana della sfera di protezione cadde, espellendoci nel mondo ordinario.