"Il quinto giorno" - читать интересную книгу автора (Schätzing Frank)

20 aprile

Lione, Francia

Bernard Roche si rimproverava per aver lasciato passare troppo tempo prima di analizzare i campioni d'acqua. Ma ormai non c'era nulla da fare. Come avrebbe potuto sospettare che un astice potesse uccidere un uomo? E probabilmente più d'uno?

Jean Jérôme, il cuoco del Troisgros, a Roanne, non si era più svegliato dal coma ed era morto ventiquattr'ore dopo che un astice bretone contaminato gli era scoppiato in faccia. Non si conoscevano ancora le cause del decesso, l'unica cosa certa era che il suo sistema immunitario non aveva funzionato, evidentemente in seguito a uno shock da sostanze altamente tossiche. Anche se non era facile dimostrarlo, sembrava proprio che la responsabilità fosse dell'astice, e in particolare della sostanza al suo interno. Anche altri membri del personale di cucina si erano ammalati: il più grave era l'apprendista che aveva toccato e conservato quella strana sostanza. Soffrivano tutti di vertigini, nausea, mal di testa e difficoltà di concentrazione. Già quello delineava un quadro molto grave, specialmente per il Troisgros, che si era trovato in una situazione imbarazzante. Ma Roche era molto preoccupato per il numero di persone che si presentavano dai medici lamentando, seppure in forma attenuata, gli stessi sintomi che avevano condotto alla morte Jérôme. E temeva il peggio da quando aveva scoperto dov'era finita l'acqua in cui il cuoco aveva riposto gli astici.

La stampa aveva smorzato i toni, anche per riguardo al ristorante, ma naturalmente l'annuncio era stato dato. E Roche aveva sentito notizie analoghe giungere anche da altri luoghi, a dimostrazione che, evidentemente, non era stato colpito solo il Troisgros. A Parigi erano morte allo stesso modo diverse persone che avevano consumato carne di astice avariata… Almeno così si diceva, ma Roche sospettava che la causa fosse un'altra. Le notizie arrivavano da Le Havre, Cherbourg, Caen, Rennes e Brest. Roche aveva incaricato un assistente di continuare le ricerche. Poi, siccome cominciava a delinearsi un quadro in cui gli astici bretoni giocavano un ruolo inglorioso, mise da parte tutto il resto e si dedicò esclusivamente all'analisi dei campioni di acqua.

Di nuovo si trovò di fronte a legami insoliti, che lo lasciavano perplesso. Era indispensabile avere altri campioni, così fece prendere contatti con le città colpite. Sfortunatamente a nessuno era venuto in mente di conservare un po' di quella sostanza. Non erano esplosi altri astici oltre a quello di Roanne; si parlava sempre di animali immangiabili, la cui carne era stata buttata via, e di esemplari che avevano fatto una pessima impressione già prima della cottura perché c'era qualcosa che fluiva dal loro interno. Roche si augurava che qualcuno si fosse dimostrato intelligente come l'apprendista, ma pescatori, commercianti all'ingrosso e personale di cucina non avevano mai lavorato in un laboratorio. Fu il primo ad accreditare certe speculazioni: ipotizzò che nella corazza dell'astice non ci fosse un solo organismo, bensì due. Uno dei quali, gelatinoso, si era decomposto ed era sparito completamente; l'altro, invece, era vivo, presente in quantità notevole e a Roche risultava funestamente noto.

Osservò nel microscopio.

Migliaia di sfere trasparenti, simile a palline da tennis, formicolavano l'una sull'altra. Se la sua ipotesi era vera, all'interno di quelle sfere doveva trovarsi un pedunculus arrotolato su se stesso, una specie di proboscide.

Era stato quell'essere a uccidere Jean Jérôme?

Roche prese un ago sterile e se lo infilò nella punta del pollice, facendone uscire una gocciolina di sangue. Con cautela la iniettò nel campione sul vetrino e tornò a guardare attraverso la lente del microscopio. Ingranditi di settecento volte, i globuli di Roche sembravano petali rosso rubino. Si spostavano barcollando nell'acqua, tutti pieni di emoglobina. Immediatamente le sfere trasparenti si attivarono, estrassero le loro proboscidi e balzarono fulmineamente sulle cellule umane. I peduncoli s'infilarono come aghi. Quegli inquietanti microbi si coloravano lentamente di rosso, mentre i globuli si prosciugavano. Quando un globulo era prosciugato, balzavano su un altro, e intanto s'ingrossavano. Era proprio quello che Roche temeva. Ognuno di quegli esseri poteva contenere fino a dieci globuli: al massimo in tre quarti d'ora avrebbero terminato il loro lavoro. Continuò a guardare, affascinato, e si accorse che tutto procedeva più velocemente di quanto avesse pensato, molto più velocemente.

La scena finì dopo quindici minuti.

Roche rimase immobile davanti al microscopio. Poi annotò: «Si tratta probabilmente di Pfiesteria piscicida».

Il «probabilmente» l'aveva messo per scrupolo, poiché era sicuro di aver appena classificato l'agente patogeno responsabile delle malattie e delle morti. Ciò che lo turbava era l'impressione di avere a che fare con un esemplare mostruoso della Pfiesteria piscicida. Si andava di superlativo in superlativo, perché in sé la Pfiesteria piscicida era già mostruosa: un mostro che misurava un centesimo di millimetro, uno dei più piccoli predatori del mondo. E nel contempo uno dei più pericolosi. Si trattava di un vampiro.

Era un argomento di cui aveva letto molto. Il primo incontro della scienza con la Pfiesteria non risaliva a molto tempo prima. Era avvenuto negli anni '80, con la morte di cinquanta pesci di laboratorio nella North Carolina State University. L'acqua in cui nuotavano i pesci era pulita, ma si registrava la presenza nell'acquario di nuvole di organismi unicellulari in sospensione. Poi l'acqua era stata cambiata e altri pesci erano stati immessi nell'acquario. Quei pesci, tuttavia, non erano sopravvissuti neppure un giorno: qualcosa li aveva uccisi, e pure con grande efficienza. Pesciolini rossi, spigole macchiate, tilapia africane… Tutti morivano, spesso nel giro di qualche ora, a volte di minuti. Gli scienziati avevano inoltre osservato che le vittime, prima di morire tra mille tormenti, erano scosse da contrazioni. E che ogni volta comparivano come dal nulla quei misteriosi microbi e altrettanto improvvisamente sparivano.

Progressivamente il quadro si era fatto più chiaro. Una botanica aveva identificato il sinistro organismo come un flagellato, appartenente a una specie sconosciuta fino a quel momento. Un dinoflagellato, un'alga. Ce n'erano molte specie: la maggior parte era innocua, ma alcune ormai da tempo si erano rivelate vere e proprie pesti. Contaminavano interi allevamenti di molluschi. Erano insomma i dinoflagellati a provocare la pericolosissima «marea rossa», che colorava il mare di rosso sangue o di marrone. E si sapeva che attaccavano i crostacei. Tuttavia quegli esemplari sembravano del tutto inoffensivi rispetto all'organismo appena scoperto.

Perché la Pfiesteria piscicida si differenziava dai suoi simili; la sua aggressività era impressionante e, in un certo senso, ricordava le zecche. Non per la forma, ma perché mostrava una pazienza simile. Stava appostata, apparentemente priva di vita, sul fondo delle acque. Ogni singolo organismo aveva intorno una capsula, una specie di ciste che lo proteggeva. In tal modo, la Pfiesteria poteva resistere anni senza cibo. Finché non passava in zona un banco di pesci, i cui escrementi arrivavano sul fondo e risvegliavano l'appetito degli organismi unicellulari.

Quello che succedeva in seguito poteva essere descritto solo come un attacco lampo. Le alghe si staccavano a miliardi dalle loro cisti e risalivano, utilizzando i due flagelli all'estremità del corpo come sistema di locomozione: uno ruotava come un'elica; l'altro guidava l'organismo nella direzione desiderata. La Pfiesteria si attaccava al corpo di un pesce e liberava un veleno che paralizzava il sistema nervoso dell'animale e, nel contempo, faceva buchi grandi come una moneta nella pelle. Poi infilava la proboscide nelle ferite e assumeva gli umori della preda morente. Quand'era sazia, si staccava dalla vittima e si lasciava cadere di nuovo sul fondo, tornando a incapsularsi.

In sé, le alghe tossiche erano fenomeni normali, come i funghi in un bosco. Alcune di esse erano note fin dai tempi biblici. Nell'Esodo veniva descritto un fenomeno che sembrava corrispondere con sorprendente esattezza a una «marea rossa»: «Aronne alzò il bastone, percosse le acque che erano nel fiume sotto gli occhi del faraone e sotto gli occhi dei suoi servitori; e tutte le acque che erano nel Fiume furono cambiate in sangue. I pesci che erano nel fiume morirono e il fiume fu inquinato, tanto che gli egiziani non potevano più bere l'acqua del fiume. Vi fu sangue in tutto il Paese d'Egitto». Quindi non c'era nulla di straordinario nel fatto che le alghe uccidessero alcuni pesci… La novità era nel modo, nella brutalità con cui lo facevano. Era come se una malattia fosse uscita dall'acqua e avesse attaccato il mondo, una malattia il cui sintomo più spettacolare si chiamava Pfiesteria piscicida. Attacchi velenosi ad animali marini, nuove malattie dei coralli… tutto ciò esprimeva le condizioni in cui versavano i mari in tutto il mondo: indeboliti dagli scarichi di sostanze dannose, afflitti dall'overfishing, soggetti alla cementizzazione irresponsabile delle coste e al riscaldamento del clima. Si discuteva se le invasioni di alghe fossero un evento periodico o un fenomeno del tutto nuovo, intanto però era certo che invasioni di quelle dimensioni non si erano mai viste e che la natura era maestra nella creazione di nuove specie. Gli europei esultavano perché non erano toccati dalla Pfiesteria, ma in Norvegia morivano migliaia di pesci e l'allevamento di salmoni era sull'orlo della rovina. Stavolta l'assassino si chiamava Chrysochromulina polypeis, una sorta di zelante fratellino della Pfiesteria, e nessuno osava prevedere quali altri organismi sarebbero comparsi.

Ora la Pfiesteria piscicida aveva attaccato gli astici bretoni.

Ma era davvero Pfiesteria piscicida?

Il dubbio tormentava Roche. Il comportamento delle cellule non lasciava dubbi, anche se la Pfiesteria appariva molto più aggressiva di quanto descritto nella letteratura scientifica. Soprattutto lui si chiedeva come mai l'astice fosse sopravvissuto così a lungo. Le alghe provenivano dal suo interno? Insieme con quella sostanza? La massa gelatinosa che si decomponeva all'aria sembrava essere qualcosa di completamente diverso dalle alghe, qualcosa di assolutamente sconosciuto. Provenivano entrambe dall'interno dell'astice? Ma cos'era successo alla carne dell'astice?

Si trattava davvero di un astice?

Roche cadde in un profondo smarrimento. Di una cosa però era assolutamente certo: qualunque cosa fosse, adesso si trovava nell'acqua potabile di Roanne.