"Il quinto giorno" - читать интересную книгу автора (Schätzing Frank)

13 marzo

Costa norvegese e mar di Norvegia

Sigur Johanson non vedeva e non sentiva Tina Lund da una settimana. Nel frattempo, aveva sostituito un professore ammalato e tenuto qualche lezione in più del previsto. Era stato anche impegnato nella stesura di un articolo per il National Geographic e si era occupato delle nuove forniture per la sua enoteca; per farlo, aveva ripreso la corrispondenza, interrotta da tempo, con un conoscente di Riquewihr, in Alsazia, un rappresentante della rinomata enoteca Hugel Fils in possesso di alcuni vini rari che Johanson prevedeva di regalarsi per il suo compleanno. Inoltre aveva scovato un vinile con un'esecuzione dell'Anello del Nibelungo diretta da Sir Georg Solti. Così le serate erano trascorse velocemente. I vermi di Tina erano finiti in secondo piano, sotto lo schiacciante predominio di Hugel e Solti, e lì sarebbero rimasti, almeno fino all'arrivo dei risultati degli esami.

Nove giorni dopo il loro incontro, finalmente Tina lo chiamò. Sembrava di ottimo umore.

«Pare proprio che ti sia rilassata», constatò lui. «Devo preoccuparmi della tua obiettività scientifica?»

«Forse», rispose Tina, tutta allegra.

«Spiegati.»

«Più tardi. Ascolta, domani la Thorvaldson sarà sul margine continentale e calerà un robot. Vuoi esserci?»

«Al mattino sono impegnato. I miei studenti devono prendere confidenza col sex appeal dei solfobatteri», disse lui.

«È un peccato. La nave salpa proprio al mattino.»

«Da dove?»

«Da Kristiansund.»

Kristiansund si trovava circa un'ora di macchina a sud-ovest di Trondheim, su una costa rocciosa battuta dal vento e dalle onde. Dal vicino aeroporto partivano gli elicotteri per le piattaforme di produzione, che si allineavano lungo lo zoccolo continentale norvegese. Solo al largo della Norvegia c'erano settecento piattaforme per l'estrazione del petrolio e del gas.

«Non posso raggiungerla dopo?» propose Johanson.

«Sì, forse», mormorò Tina dopo un istante di silenzio. «Non è una cattiva idea. Anzi, adesso che ci penso, potremmo andarci insieme. Che cosa fai dopodomani?»

«Nulla che non possa rinviare.»

«Affare fatto. Andiamo insieme e passiamo la notte sulla Thorvaldson. Avremo tutto il tempo per le osservazioni e per le analisi.»

«Ho capito bene? Vuoi venire con me?» domandò stupito Johanson.

«Certo. Io… Sì, insomma, potrei trascorrere una mezza giornata, sulla costa e tu potresti raggiungermi nel primo pomeriggio. Poi voliamo insieme sulla piattaforma petrolifera Gullfaks e da lì prendiamo il transfer per la Thorvaldson», propose lei.

«Mi piace quando segui l'impulso del momento. Ma potrei sapere perché complichi le cose?»

«Come? Te le sto rendendo più facili, no?»

«Appunto. Le stai rendendo più facili a me. Tu potresti essere a bordo già domattina», disse Johanson.

«Sono contenta di farti compagnia.»

«Che affascinante bugiarda. Okay. Allora, tu sei sulla costa. Dove ti trovo?» chiese lui.

«A Sveggesundet», rispose Tina.

«Mio dio! Quel buco di paese! Perché proprio Sveggesundet?»

«È carino, invece. Ci troviamo al Fiskehuset. Sai dov'è?»

«Ho esplorato a sufficienza la zona per conoscere i pochi elementi di civiltà presenti a Sveggesundet. Non è il ristorante sulla costa vicino alla vecchia chiesa di legno?»

«Proprio quello.»

«Alle tre?»

«Alle tre va benissimo. All'elicottero ci penso io. Verrà a prenderci direttamente là.» Tina fece una pausa, quindi chiese: «Ti sono arrivati i risultati delle analisi?»

«Purtroppo no. Probabilmente arriveranno domani.»

«Sarebbe perfetto.»

«Ci saranno. Non preoccuparti.»

Chiusero la conversazione. Johanson aggrottò la fronte. Rieccolo, il verme. Ritornava in primo piano e richiedeva tutta la sua attenzione.

In effetti era sorprendente che in un ecosistema da tempo conosciuto comparisse improvvisamente una nuova specie. I vermi in sé non avevano nulla di preoccupante. Non a tutti piacevano, ma se gli uomini diffidavano di collettività organiche c'era una spiegazione psicologica. A parte quello, i vermi erano molto utili.

Ha senso che siano lì, pensò Johanson. Se sono davvero imparentati coi vermi del ghiaccio, allora vivono grazie al metano, anche se indirettamente. E giacimenti di metano si trovano su tutta la scarpata continentale, anche davanti alla Norvegia.

Però restava una faccenda singolare.

Le analisi dei tassonomi e dei biochimici avrebbero risposto a tutte le domande. Tuttavia, finché non c'erano i risultati, lui poteva dedicarsi a scegliere tra i Gewürztraminer di Hugel. Al contrario dei vermi, in genere semplici da identificare, trovare il vino giusto era molto difficile, specialmente per certe annate.

Il giorno seguente, quando Johanson entrò nel suo ufficio, trovò due lettere con le analisi tassonomiche. Soddisfatto, scorse velocemente i risultati, con l'intenzione di metterli subito da parte. Invece li rilesse con maggiore attenzione.

Strani animali, in effetti.

Infilò tutto nella borsa e andò a lezione. Due ore dopo, era sulla jeep e stava attraversando il paesaggio collinare e i fiordi in direzione Kristiansund. Ormai era iniziato il disgelo. Gran parte della neve era sparita, lasciando posto a una campagna nera e marrone. In quei giorni, le condizioni meteorologiche rendevano difficile la scelta dell'abbigliamento. All'università, metà del personale era raffreddato. Johanson si era premunito e aveva preparato una valigia che forse era troppo pesante per il volo in elicottero, ma non aveva voglia di prendersi un raffreddore sulla Thorvaldson, e soprattutto non tollerava che la scelta del suo abbigliamento fosse dettata dal mezzo di trasporto. Tina l'avrebbe preso in giro nel vederlo con tutto quel bagaglio, ma non gli importava. Se fosse stato possibile, si sarebbe portato anche una sauna da viaggio. Inoltre nel suo bagaglio c'erano alcune cose che sarebbero state senza dubbio utili durante una notte su una nave in compagnia di una donna. Sì, erano solo amici, ma ciò non implicava che dovessero tenere le distanze.

Johanson guidava lentamente. Avrebbe potuto raggiungere Kristiansund in un'ora, ma la fretta non faceva per lui. A metà percorso, la strada costeggiava l'acqua e procedeva lungo una serie di ponti, pertanto lui si gustò la vista di quel panorama selvaggio. Nei pressi di Halsa, imboccò la strada che passava sui fiordi, scorgendo vari ponti che attraversavano l'acqua color ardesia. La stessa Kristiansund sorgeva su diverse isole. Superò la città e passò sull'isola di Averoy, un luogo carico di storia, giacché era stato uno dei primi a essere abitato subito dopo l'ultima glaciazione. Sveggesundet, un pittoresco villaggio di pescatori, sorgeva sulla punta estrema dell'isola. Durante l'alta stagione, era invaso da eserciti di turisti e le barche viaggiavano senza sosta tra le isole. In quel momento c'era poca gente, ma già s'intravedeva l'attesa dell'imminente estate, foriera di guadagni.

Dopo due ore di viaggio, svoltò nel parcheggio ghiaioso del Fiskehuset, un ristorante la cui terrazza offriva una bella vista sul mare. Era chiuso e non c'era anima viva. Tina era seduta a un tavolo di legno, all'aperto, incurante del freddo, ed era in compagnia di un giovane che Johanson non conosceva. Il modo in cui i due se ne stavano vicini sulla panca gli fece però sorgere un sospetto. Si avvicinò e tossicchiò. «Sono in anticipo?»

Lei sollevò lo sguardo. Nei suoi occhi c'era uno straordinario luccichio. Johanson osservò l'uomo che le stava vicino — un trentenne di corporatura atletica, coi capelli biondo scuro e con un viso dai bei lineamenti — e il sospetto divenne certezza. «Posso tornare più tardi», disse cortesemente.

Lei fece le presentazioni. «Kare Sverdrup… Sigur Johanson.»

Il biondo sorrise a Johanson e gli tese la mano destra. «Tina mi ha raccontato molte cose di lei.»

«Spero nulla che la possa inquietare.»

Kare sorrise. «Al contrario, so che lei è un intrattenitore straordinariamente affascinante.»

«Un vecchiaccio straordinariamente affascinate», lo corresse Tina.

«Un libidinoso vecchiaccio», completò Johanson. Si sedette sulla panca di fronte ai due, sollevò il colletto della giacca a vento e appoggiò vicino a sé la borsa contenente le analisi. «La parte tassonomica. Molto esauriente. Posso fare una sintesi, se vuoi.» Guardò Kare. «Non vorremmo annoiarla. Tina le ha raccontato di cosa si tratta oppure si è limitata a guardarla, sospirando d'amore?»

Tina gli gettò un'occhiataccia.

«Capisco.» Johanson aprì la borsa e tirò fuori le buste. «Allora, ho mandato uno dei tuoi vermi al Forschunginstitut di Francoforte e un altro allo Smithsonian Institute: ci lavorano i migliori tassonomi che io conosca e sono specialisti nel campo dei vermi. Un altro verme è andato a Kiel, per essere analizzato col microscopio elettronico a scansione lineare, ma non ho ancora i risultati. Manca anche l'analisi dello spettrometro di massa. Anzitutto ti posso dire su che cosa sono d'accordo gli esperti.»

«Davvero?»

Johanson si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. «Sono d'accordo sul fatto che non sono d'accordo.»

«Illuminante.»

«Sostanzialmente hanno confermato la mia prima impressione. Si tratta, con un certo margine di verosimiglianza, di Hesiocaeca methanicola, noto anche come 'verme del ghiaccio'.»

«Il mangiametano?»

«La definizione non è corretta, mia cara, ma fa lo stesso. Questa è la prima parte. La seconda è che le mascelle enormemente pronunciate e le numerose file di denti fanno sorgere dei dubbi. Queste caratteristiche fanno pensare a un predatore, oppure a uno scavatore o a un macinatore. E questo è strano.»

«Perché?»

«Perché ai vermi del ghiaccio non servono apparati tanto grandi. È vero che hanno le mascelle, ma sono decisamente più piccole.»

Kare ridacchiò, imbarazzato. «Mi scusi, dottor Johanson, io non capisco molto di questi animali, però m'interessano. Perché non hanno bisogno delle mascelle?» chiese.

«Perché vivono in maniera simbiotica», spiegò Johanson. «Assumono batteri che a loro volta vivono negli idrati di metano…»

«Negli idrati?» chiese Kare.

Johanson gettò una fugace occhiata a Tina e lei scrollò le spalle, borbottando: «Spiegaglielo».

«È semplice. Forse ha sentito dire che gli oceani sono pieni di metano», cominciò.

«Sì, in questo periodo non si legge altro.»

«Il metano è un gas. Si trova in grandi quantità sul fondale marino lungo la scarpata continentale. La superficie del fondale è gelata. Acqua e metano si uniscono in una sorta di ghiaccio, che resiste solo se sottoposto a pressioni elevate e basse temperature. Ecco perché si trova solo a una certa profondità. Questo ghiaccio si chiama 'idrato di metano'. Fin qui tutto chiaro?»

Kare annuì.

«Bene. Nell'oceano ci sono batteri ovunque. Alcuni assimilano il metano: lo mangiano e separano l'acido solfidrico. È vero che i batteri sono microscopici, però la loro quantità è tale che essi ricoprono il fondale marino come un tappeto. Infatti parliamo di 'tappeti di batteri'. Questi tappeti si trovano prevalentemente dove ci sono idrati di metano. Domande?»

«Non ancora», disse Kare. «Presumo che ora entrino in gioco i vermi.»

«Esatto. Ci sono vermi che vivono dei prodotti di rifiuto dei batteri. Hanno un legame simbiotico con loro. In alcuni casi, il verme mangia i batteri e li tiene dentro di sé; in altri casi, essi vivono su di lui. In un modo o nell'altro, procurano il nutrimento ai vermi. Per questo il verme vive sugli idrati. Si mette comodo, si concede un bel boccone di batteri e non fa molto altro. Per esempio, non ha bisogno di scavare perché non mangia il ghiaccio, ma i batteri che ci stanno sopra. Si limita a rotolare su se stesso per sciogliere un avvallamento e poi se ne sta lì, tutto soddisfatto.»

«Capisco», disse Kare lentamente. «Il verme non ha nessun motivo di spingersi in profondità. Ma gli altri vermi lo fanno?»

«Ci sono specie diversissime. Alcune mangiano i sedimenti o i tessuti presenti sui sedimenti, oppure elaborano il detritus», rispose Johanson.

«E cos'è?»

«È tutto ciò che, dalla superficie, affonda negli abissi marini. Cadaveri, particelle, resti di ogni genere. Ci sono vermi che non vivono in simbiosi coi batteri e quindi hanno potenti mascelle per afferrare la preda o scavare.»

«In ogni caso, i vermi del ghiaccio non hanno bisogno di mascelle», disse Kare.

«Certo, hanno piccole mascelle per triturare minuscole quantità di idrati o per filtrare i batteri. Ma non dei dentoni come quelli degli esemplari di Tina», rispose Johanson.

Quell'argomento sembrava appassionare sempre più Kare. «Se i vermi scoperti da Tina vivono in simbiosi coi batteri che mangiano il metano…»

«… dobbiamo chiederci a che cosa serve quell'arsenale di mandibole e denti», confermò Johanson. «Adesso la questione diventa ancora più intrigante. I tassonomi hanno trovato un secondo verme che sembra avere una struttura mandibolare simile. Si chiama Nereis, ed è un predatore che si trova a tutte le profondità. Il piccoletto di Tina, dunque, ha le mandibole e i denti del Nereis, ma il suo aspetto fa pensare a un antenato preistorico del Nereis. Per così dire, un Tyrannereis rex.»

«Sembra inquietante», fu il commento di Kare.

«Più che altro sembra un ibrido», lo corresse Johanson. «Dobbiamo aspettare le analisi al microscopio e quelle genetiche.»

«Sulla scarpata continentale ci sono idrati di metano a non finire», intervenne Tina, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Potrebbe essere.»

«Aspettiamo.» Johanson tossicchiò e osservò Kare. «E lei, di che cosa si occupa? Anche lei nel ramo del petrolio?»

L'altro scosse la testa. «No», rispose allegramente. «M'interesso di tutto ciò che si può mangiare. Faccio il cuoco.»

«Che piacere! Lei non sospetta neppure quanto sia snervante avere sempre a che fare con gli accademici.»

«Cucina da dio», precisò Tina.

Probabilmente non è l'unica cosa che fa da dio, pensò Johanson. Peccato. Si consolò pensando che avrebbe gustato con Tina le prelibatezze che aveva portato con sé. A pensarci bene, si sentiva sollevato. A volte provava attrazione per Tina Lund, ma ringraziava il destino ogni volta che si lasciavano senza che fosse successo niente. Era una donna troppo impegnativa per lui. «E come vi siete conosciuti?» chiese poi, benché non gliene importasse nulla.

«L'anno scorso ho rilevato il Fiskehuset», spiegò Kare. «Tina è stata qui qualche volta, ma non avevamo fatto altro che salutarci.» Le mise il braccio sulle spalle e lei gli si avvicinò. «Fino alla settimana scorsa.»

«Già», borbottò Johanson, levando gli occhi al cielo. «Si vede.»

Mezz'ora dopo, si trovavano sull'elicottero, insieme con una dozzina di operai petroliferi. Johanson guardava fuori, in silenzio. Sotto di loro scorreva la superficie del mare, uniformemente grigia e frastagliata. Sorvolavano in continuazione cargo, traghetti, petroliere e navi che trasportavano gas. Infine comparvero le piattaforme. Da quando una compagnia petrolifera americana, in una tempestosa notte invernale del 1969, aveva scoperto il petrolio, il mare del Nord si era trasformato in una bizzarra zona industriale, poggiata su enormi pali ed estesa dall'Olanda fino alla piattaforma Haltenbank, davanti a Trondheim. Nelle giornate limpide, si potevano scorgere dozzine di gigantesche piattaforme. Viste dall'elicottero, sembravano giocattoli per giganti.

Raffiche di vento scuotevano il velivolo, che si alzava e si abbassava. Johanson si sistemò meglio le cuffie antirumore. Tutti portavano cuffie e tute protettive; stavano così stretti che le loro ginocchia si toccavano e ogni movimento doveva essere coordinato. A causa del rumore, poi, era impossibile parlare. Tina aveva chiuso gli occhi. Era troppo abituata a quei voli per esserne disturbata.

L'elicottero virò e proseguì verso sud-ovest. La sua meta, Gullfaks, era un insieme di piattaforme di proprietà della società petrolifera statale Statoil. L'impianto di estrazione Gullfaks C era una delle più grandi piattaforme della parte settentrionale del mare del Nord. Con le sue duecentottanta persone, formava una piccola comunità. A dirla tutta, Johanson non avrebbe potuto atterrare lì. Erano passati anni da quando aveva fatto il corso per ottenere il permesso di salire su una piattaforma e, nel frattempo, le norme di sicurezza si erano fatte più severe. Ma Tina aveva i contatti giusti. Comunque quello sarebbe stato solo uno scalo intermedio, perché sarebbero saliti immediatamente a bordo della Thorvaldson, che, da almeno un'ora, si trovava nei pressi della Gullfaks C.

Una violenta turbolenza fece abbassare improvvisamente l'elicottero. Johanson si aggrappò ai braccioli, ma nessun altro reagì. I passeggeri, in prevalenza uomini, erano abituati a ben altre tempeste. Tina voltò la testa, aprì per un attimo gli occhi e gli fece l'occhiolino.

In un certo senso, Kare Sverdrup era proprio fortunato. Chissà se sarebbe stato in grado di reggere il passo di Tina…

L'elicottero si abbassò ancora e fece un'altra virata, dando l'impressione che stesse precipitando in mare. Poi comparve un grattacielo bianco, che sembrava svettare sull'acqua, e il velivolo si preparò all'atterraggio. Per un momento, dal finestrino, si vide tutta la Gullfaks C: un colosso su quattro piloni di cemento armato, pesante un milione e mezzo di tonnellate, con un'altezza complessiva di quasi quattrocento metri, di cui oltre la metà era sott'acqua, dove i pilastri si ergevano in mezzo a un intrico di serbatoi. Il grattacielo bianco, l'ala residenziale, occupava solo una piccola parte di quella gigantesca costruzione. Il corpo principale si presentava al profano come un caos di ponti invasi da strumenti tecnologici e da macchinari misteriosi, collegati da fasci di condutture, affiancati da gru e sormontati dalla cattedrale dei lavoratori petroliferi, la torre d'estrazione. Sulla punta di un gigantesco braccio metallico, proteso verso il mare, ardeva una fiamma che non si spegneva mai, alimentata dal gas separato dal petrolio.

L'elicottero si abbassò sulla pista in cima all'ala residenziale e atterrò in modo sorprendentemente dolce. Tina sbadigliò, si stiracchiò per quanto lo consentiva lo spazio angusto e attese che i rotori si fermassero. «È stato un bel volo», disse.

Qualcuno rise. Gli sportelli si aprirono e i passeggeri scesero. Johanson si avvicinò al bordo della pista d'atterraggio e guardò in basso. Almeno centocinquanta metri sotto di lui, le onde schiumavano. Un vento tagliente gli gonfiava la tuta. «Esiste qualcosa che possa affondare questo affare?» chiese.

«Non c'è nulla che non possa essere affondato. Su, vieni. Non vorrai mettere radici, eh?» Tina lo prese sottobraccio e lo trascinò nella direzione degli altri passeggeri, che erano spariti nella parte opposta della pista. Sul pianerottolo della scala d'acciaio c'era un uomo piccoletto e tarchiato, con folti baffi bianchi. «Tina, hai nostalgia del petrolio?» gridò, gesticolando.

«Quello è Lars Jörensen», spiegò lei. «È il responsabile del traffico aereo e marittimo della Gullfaks C. Ti piacerà, è un provetto giocatore di scacchi.»

Nel frattempo Jörensen li aveva raggiunti. Indossava una T-shirt della Statoil e a Johanson sembrò un benzinaio.

«Avevo nostalgia di te.» disse Tina, ridendo.

Jörensen sorrise. La strinse al petto e i suoi baffi sparirono sotto il mento della donna. Poi strinse la mano a Johanson. «Avete scelto una pessima giornata», borbottò. «Col bel tempo si vede tutto l'orgoglio dell'industria petrolifera norvegese. Isola per isola.»

«Non c'è movimento?» chiese Johanson, mentre scendeva la scala a chiocciola.

Jörensen scosse la testa. «Non più del solito. Sei mai stato su una piattaforma?» Come la maggior parte degli scandinavi, anche Jörensen aveva adottato subito il «tu».

«Un po' di tempo fa. Quanto estraete?»

«Sempre meno, temo. Da parecchio tempo alla Gullfaks la quantità è stabile: duecentomila barili da ventun pozzi petroliferi. Adire la verità, potremmo essere soddisfatti, ma non lo siamo. Già si vede la fine.» Indicò il mare. A qualche centinaio di metri, Johanson scorse una petroliera ormeggiata a una boa. «La stiamo giusto riempiendo. Ne deve arrivare ancora una, poi per oggi è finita. Prima o poi cominceranno a diminuire. La roba si esaurisce lentamente e nessuno ci può fare nulla.»

I punti di estrazione non erano direttamente sotto la piattaforma, ma tutt'intorno a essa e a una certa distanza. Quando il petrolio arrivava in superficie, veniva depurato dall'acqua e dal sale, separato dal gas e immagazzinato nei serbatoi intorno ai piloni della piattaforma. Da lì, veniva pompato alle boe di carico attraverso gli oleodotti. Intorno alla piattaforma c'era una zona di sicurezza di cinquecento metri, che non poteva essere oltrepassata da nessun mezzo, a eccezione delle navi fabbrica della piattaforma stessa.

Johanson sbirciò oltre il parapetto metallico. «Non dovrebbe esserci la Thorvaldson?» chiese.

«È all'altra boa. Da qui non potete vederla», spiegò Jörensen.

«Non possono avvicinarsi neppure le navi oceanografiche?»

«No, la Thorvaldson non è della Gullfaks ed è troppo grossa per i nostri gusti. Non vogliamo altri guai! Ne abbiamo già abbastanza coi pescatori, che non vogliono capire di spostare altrove il loro maledetto culo.»

«Avete difficoltà coi pescatori?»

«Eccome. La settimana scorsa ne abbiamo beccati alcuni che avevano inseguito un banco di pesci fin sotto la piattaforma. Ne capitano in continuazione, di grane simili. Recentemente c'è stata una situazione critica alla Gullfaks A. Una piccola nave cisterna con un guasto ai motori stava andando sotto la piattaforma. Abbiamo mandato giù alcuni dai nostri per allontanarla, ma l'equipaggio è riuscito a riprendere in tempo il controllo.»

Quello che Jörensen raccontava con tanto distacco in realtà era la catastrofe che tutti temevano: una nave cisterna piena fino all'orlo che si staccava dall'ormeggio e finiva contro una piattaforma. Una collisione avrebbe potuto far vacillare le isole più piccole, ma il vero pericolo era rappresentato dall'esplosione. Sebbene la piattaforma fosse dotata di un sistema antincendio che alla minima presenza di fuoco sprigionava tonnellate d'acqua, l'esplosione di una petroliera sarebbe stata la fine. Simili incidenti erano rari e accadevano per lo più nel Sudamerica, dove le norme di sicurezza erano applicate con minor rigore. Nel mare del Nord ci si atteneva alle prescrizioni. Quando il vento soffiava troppo forte, le navi non venivano caricate.

«Sei dimagrito», disse Tina a Jörensen, mentre lui le teneva aperta la porta. Entrarono nella zona residenziale e attraversarono un corridoio ai cui lati si aprivano porte identiche che conducevano agli alloggi. «Non fanno da mangiare bene, qui?»

«Troppo bene», ridacchiò Jörensen. «Il cuoco è davvero bravo. Dovresti vedere la nostra mensa», proseguì, rivolto a Johanson. «Il Ritz al confronto è un chiosco da spiaggia. No, il direttore della piattaforma ha dichiarato guerra alle pance, altrimenti c'è il licenziamento.»

«Davvero?»

«Direttive della Statoil. Non so se si arriverà a tanto, ma la minaccia funziona. Nessuno vuole perdere il lavoro.» Raggiunsero una scala stretta e scesero. Vennero loro incontro alcuni uomini, diretti verso il fondo della piattaforma. Mentre i loro passi risuonavano nel vano d'acciaio, Jörensen li salutò, poi disse ai visitatori: «Eccoci, capolinea. Ora la scelta è vostra. A sinistra, beviamo insieme un caffè e chiacchieriamo ancora per una mezz'oretta. A destra, si va alla nave».

«Berrei volentieri un caffè…» disse Johanson.

«Grazie», lo interruppe Tina. «Ma abbiamo poco tempo.»

«La Thorvaldson non salpa senza di voi», mugugnò Jörensen. «Potreste tranquillamente…»

«Non voglio arrivare a bordo all'ultimo momento», lo interruppe lei. «La prossima volta mi prenderò più tempo, promesso. E porterò con me anche Johanson. È tempo che qualcuno ti batta a scacchi.»

Jörensen rise e uscì all'aperto, scrollando le spalle. Tina e Sigur lo seguirono e furono investiti da una folata di vento. Si trovavano sul bordo più basso del blocco residenziale. Il fondo della passerella su cui procedevano era formato da fitte grate di acciaio e, attraverso le maglie, si scorgeva il mare mosso. C'era molto più rumore che sulla pista di atterraggio degli elicotteri; l'aria esplodeva di sibili e rimbombi. Jörensen si avviò lungo la passerella, dove si trovava un gommone arancione coperto e appeso a una gru.

«Che cosa dovete fare a bordo della Thorvaldson? Ho sentito che la Statoil vuole costruire ancora più al largo.»

«Possibile», rispose Tina.

«Una piattaforma?»

«Non c'è ancora nulla di definitivo. Forse anche una SWOP»

SWOP era l'acronimo di Single Well Offshore Production System. Per trivellazioni fino a una profondità di trecentocinquanta metri venivano usate le SWOP, navi simili a gigantesche petroliere dotate di un sistema di estrazione, legate con un tubo di trivellazione alla testa del pozzo petrolifero. Così risucchiavano direttamente dal fondale marino il petrolio greggio e servivano anche come deposito provvisorio.

Jörensen diede un buffetto sulla guancia di Tina. «Allora non farti venire il mal di mare, piccola.»

Salirono sull'imbarcazione, che era grande e spaziosa, con pareri rigide e file di panche. A bordo con loro c'era solo il timoniere. Un leggero tremolio attraversò lo scafo non appena la fune della gru si mise in movimento, facendo abbassare la barca. Dai finestrini laterali vedevano scorrere la grigia superficie screpolata di cemento. Poi improvvisamente si ritrovarono a dondolare tra le onde. I venti li arpionarono come uncini e li portarono sotto la piattaforma.

Faticando a stare in piedi, Johanson si sistemò dietro il timoniere e si mise a osservare la Thorvaldson. La poppa della nave oceanografica era caratterizzata dai tipici scalmi, con cui venivano calati in mare i batiscafi e gli altri strumenti per la ricerca. Poi il timoniere accostò. Ormeggiarono e salirono su una scala a pioli d'acciaio assicurata allo scafo. Per un attimo, mentre si trascinava appresso il bagaglio, Johanson pensò che forse non era stata un'idea così brillante portare con sé metà del suo guardaroba. Tina, che si stava arrampicando davanti a lui, si voltò e disse: «Dalla valigia sembra che tu abbia intenzione di trascorrere qui le vacanze…»

Johanson sospirò, rassegnato. «Mi ero già illuso che non te ne fossi accorta.»

Nel mondo, ogni grande costa è circondata da una zona d'acqua relativamente bassa, la zona dello zoccolo continentale, profonda al massimo duecento metri. In sostanza, lo zoccolo continentale non è altro che la prosecuzione sottomarina della placca continentale. In alcune parti del mondo si estende solo per un breve tratto; in altre per centinaia di chilometri, finché il fondale non sprofonda negli abissi marini, in certi punti di colpo e in verticale, in altri con terrazze che digradano dolcemente. Al di là del mare dello zoccolo continentale, comincia l'universo sconosciuto di cui gli scienziati sanno ancora meno che dello spazio. Gli uomini tengono totalmente sotto controllo lo zoccolo continentale, ma non gli abissi marini. Sebbene i mari poco profondi costituiscano circa l'otto per cento della superficie marina, quasi tutto il pescato mondiale proviene da lì. L'animale terrestre uomo viveva d'acqua: ecco perché due terzi dei suoi esemplari si sono insediati su una stretta striscia di costa larga appena sessanta chilometri.

Sulle carte oceanografiche, la regione dello zoccolo continentale davanti al Portogallo e nel nord della Spagna appare come una sottile striscia. Invece circonda ampiamente le isole britanniche e la Scandinavia, al punto che le due regioni s'incontrano a formare il mare del Nord, mediamente profondo tra i venti e i centocinquanta metri, quindi molto basso. Il piccolo mare dell'Europa settentrionale, che nella forma attuale esiste da diecimila anni, non sembra avere nulla di particolare, a parte le difficili condizioni determinate dal freddo e dalle correnti. Tuttavia ha un ruolo centrale per l'economia mondiale. È una delle zone più trafficate della Terra, su cui si affacciano nazioni industriali molto sviluppate e il più grande porto di tutti i tempi, Rotterdam. Il canale della Manica è diventato una delle rotte più frequentate del mondo. In quello strettissimo spazio manovrano cargo, petroliere e traghetti.

Sono passati trecento milioni di anni da quando sono spariti gli enormi acquitrini che legavano il continente all'Inghilterra, l'oceano si espandeva e si ritirava. Fiumi impetuosi trascinavano fango, piante e resti di animali nel bacino settentrionale che, col passare del tempo, si era trasformato in una coperta di sedimenti spessa chilometri. Mentre il terreno si abbassava, nascevano filoni di carbone. Nuovi strati si addossavano gli uni sugli altri e pressavano i sedimenti di arenaria e pietra calcarea sottostanti. Contemporaneamente, nelle profondità, la temperatura si alzava. I resti organici nella roccia subivano processi chimici complessi e, sotto l'effetto della pressione e del calore, si trasformavano in petrolio e gas. Una parte era filtrata attraverso la roccia porosa sul fondale marino, perdendosi nell'acqua. La maggior parte, però, era rimasta nei giacimenti sotterranei.

Per milioni di anni lo zoccolo continentale era stato tranquillo.

Era stato il petrolio a portare il cambiamento. La Norvegia, una nazione di pescatori ormai in declino, si era gettata sui tesori appena scoperti nei fondali marini — come l'Inghilterra, l'Olanda e la Danimarca — e, nel giro di trent'anni, era diventata la seconda esportatrice mondiale di petrolio. Il grosso dei giacimenti, e quindi circa la metà di tutte le risorse europee, si trovala al di sotto dello zoccolo continentale norvegese. E le riserve di gas norvegesi avevano più o meno le stesse dimensioni. Si costruirono piattaforme dopo piattaforme. I problemi tecnici erano risolti senza curarsi dei costi per l'ambiente. Così si era trivellato sempre più in profondità, e le semplici strutture dei primi anni si erano trasformate in torri di trivellazione alte come l'Empire State Building. Progetti di piattaforme sottomarine completamente telecomandate stavano ormai diventando realtà. Sembrava che la festa non dovesse mai finire.

E invece sarebbe finita, e pure in fretta. La quantità di pescato e le estrazioni di petrolio erano diminuite in tutto il mondo. Quello che si era formato in milioni di anni sarebbe scomparso in meno di quarant'anni. Molti giacimenti nel mare dello zoccolo continentale erano pressoché esauriti. Cominciava a delinearsi il fantasma di un gigantesco deposito di rottami: non si sapeva che cosa fare delle piattaforme abbandonate, perché nessuna forza al mondo sarebbe stata in grado di smuoverle. Solo una via di salvezza sembrava ancora aperta: al di là dello zoccolo continentale, sulla scarpata continentale e negli estesi bacini abissali, si trovavano giacimenti inviolati. Tuttavia le piattaforme tradizionali non erano adatte a sfruttarle, così Tina e il suo gruppo stavano progettando impianti di altro tipo. Non sempre la scarpata era ripida, infatti c'erano punti in cui digradava in terrazze che offrivano un terreno ideale per stazioni sottomarine. Ciò nonostante, a causa dei rischi legati a un progetto che prevedeva una simile distanza dal margine continentale, bisognava prevedere una forza lavoro ridotta al minimo. In fondo, con la diminuzione della quantità di estratto, aveva subito una battuta d'arresto anche la fortuna dei lavoratori petroliferi che, nel corso degli anni '70 e '80, erano stati assai richiesti e ben retribuiti. Per la Gullfaks C, per esempio, si progettava una riduzione del personale fino a due dozzine di unità. E c'erano piattaforme come quella chiamata «L'uomo sulla luna», un impianto nel canale norvegese, che ormai funzionavano quasi completamente in automatico.

Alla fine gli affari petroliferi del mare del Nord erano diventati deficitari. Ma interromperli avrebbe comportato problemi ancora più gravi.

Quando Johanson uscì dalla sua cabina, a bordo della Thorvaldson regnava un'atmosfera tranquilla. La nave non era particolarmente grande. Un gigante delle ricerche come la Polarstern, del porto di Brema, avrebbe permesso anche l'atterraggio di un elicottero, ma la Thorvaldson aveva bisogno di spazio per le attrezzature e così Sigur e Tina l'avevano raggiunta via mare. Johanson andò verso il parapetto e guardò fuori. Nelle due ore precedenti, si erano lasciati alle spalle tutto l'insediamento di piattaforme, le cui isole erano collegate da trasporti aerei. Ormai si trovavano oltre le isole Shetland, al di là del margine continentale e, così al largo, non c'erano più costruzioni. Si riconoscevano in lontananza i profili delle isolate torri di perforazione, ma non si aveva più l'impressione di essere in una sovraffollata zona industriale. Sotto la nave, poi, si stendevano approssimativamente settecento metri d'acqua. La scarpata continentale era misurata e cartografata, ma si aveva solo una vaga idea della zona delle tenebre eterne. Grazie alla luce di potenti proiettori, era stato possibile osservarne alcuni settori, però il quadro generale ancora mancava. Era come se in tutta la Norvegia, la notte, fosse stato acceso un unico lampione.

Johanson pensò al suo Bordeaux e alla piccola «collezione» di formaggi francesi e italiani che aveva in valigia. Si mise alla ricerca di Tina e la trovò impegnata nelle operazioni di controllo del robot. L'automa era appeso al braccio della gru: era un aggeggio rettangolare con un telaio di tubi, alto almeno tre metri e tecnologicamente all'avanguardia. Sulla parte superiore, chiusa, c'era scritto il nome: Victor. Nella parte anteriore, Johanson vide una telecamera e un braccio prensile ritratto.

Tina lo guardò, raggiante. «Impressionato?»

Johanson girò intorno a Victor. «Un grande aspirapolvere giallo», commentò.

«Sei un disfattista.»

«Va bene, ne sono affascinato. Quanto pesa questo affare?» chiese Johanson.

«Quattro tonnellate. Ehi, Jean!»

Un uomo magro, coi capelli rossi, sbucò da dietro un groviglio di cavi. Tina gli fece un cenno. «Jean-Jacques Alban è il primo ufficiale di questo rottame galleggiante. Senti, Jean, devo sistemare ancora alcune cose. Ma Sigur è spaventosamente curioso e vuole sapere tutto su Victor. Occupati di lui, per favore.»

Tina sparì di corsa e Alban la seguì con lo sguardo in cui si leggeva un'aria di divertita rassegnazione.

«Credo che lei abbia di meglio da fare che raccontarmi la storia di Victor», borbottò Johanson.

«Nessun problema.» Alban sorrise. «Un giorno Tina riuscirà anche a superare se stessa. Lei è l'uomo dell'NTNU, vero? È lei quello che ha esaminato i vermi.»

«Ho solo espresso la mia opinione. Come mai quegli animaletti vi creano tanti problemi?»

Alban fece cenno di no. «Ci preoccupiamo della composizione del suolo qui sulla scarpata. I vermi li abbiamo scoperti per caso e occupano quasi esclusivamente le fantasie di Tina.»

«Pensavo che immergeste il robot per i vermi», si meravigliò Johanson.

«Gliel'ha detto Tina?» Alban guardò l'automa e scosse la testa. «No, quella è solo una parte della missione. Naturalmente qui non prendiamo nulla alla leggera: stiamo preparando l'installazione di una stazione di misurazione di lungo periodo. La piazziamo esattamente sopra il giacimento petrolifero che abbiamo rilevato. Se arriviamo alla conclusione che il luogo è sicuro, allora ci mettiamo una stazione di estrazione sottomarina.»

«Tina ha accennato a una SWOP.»

Alban lo guardò come se non sapesse cosa dire. «Non credo. È ormai praticamente certo che si farà una stazione sottomarina. Se poi è cambiato qualcosa, mi deve essere sfuggito.»

Ah-ah. Non ci sarà una piattaforma galleggiante, allora, pensò Johanson. Ma forse era meglio non approfondire l'argomento. Allora rivolse ad Alban alcune domande sul robot subacqueo.

«È un Victor 6000, un Remotely Operated Vehicle, abbreviato in ROV», spiegò l'altro. «Può arrivare fino a seimila metri e lavorare alcuni giorni a quella profondità. Lo guidiamo dalla superficie e riceviamo i dati in tempo reale per mezzo di cavi. Stavolta resterà sott'acqua quarantott'ore. Tra le altre cose, naturalmente, deve anche prendere una bella bracciata di vermi. La Statoil non vuole essere accusata di minacciare la biodiversità.» Fece una pausa. «Che cosa ne pensa di quelle bestiole?»

«Nulla, per ora», rispose Johanson, evasivo. Poi sentì un rumore di macchinari e vide che il braccio della gru si metteva in movimento, sollevando Victor.

«Venga», disse Alban. A metà della nave passarono davanti a cinque container alti come un uomo. «La maggior parte delle navi non è attrezzata per l'utilizzo di Victor. L'abbiamo preso a noleggio dalla Polarstern, perché è proprio quello che ci serve.»

«Cosa c'è nei container?» domandò Johanson.

«Le unità idrauliche per l'argano, i gruppi motore, tutte le carabattole possibili. In quello davanti, si trova la sala di controllo del ROV. Stia attento alla testa.»

Entrarono nell'angusto container attraverso una porta bassa. Johanson si guardò intorno. Più della metà dello spazio era occupato dal quadro di comando, con due file di monitor; alcuni erano spenti, altri mostravano i dati del ROV e informazioni sulla navigazione. Davanti a essi c'erano diverse persone, tra cui anche Tina.

«Quello al posto di guida è il pilota», spiegò Alban a voce bassa. «Alla sua destra c'è il copilota, che si occupa anche del braccio prensile. Victor è sensibile e preciso, ma bisogna essere molto abili per farlo funzionare come si deve. La postazione successiva è quella del coordinatore. Tiene i contatti con l'ufficiale di guardia sul ponte in modo che la nave e il robot possano lavorare in sincronia. Dall'altra parte siedono gli scienziati. Questo è il posto di Tina, che si occuperà della telecamera e di salvare le immagini. Siamo pronti?»

«Potete immergerlo», disse Tina.

L'uno dopo l'altro, anche gli ultimi monitor si accesero. Johanson vide parte della poppa, del braccio della gru, il cielo e il mare.

«Ora vede quello che vede Victor», gli spiegò Alban. «Dispone di otto telecamere: una telecamera principale con lo zoom, due obiettivi di pilotaggio per la navigazione e cinque telecamere supplementari. La qualità delle immagini è straordinaria: anche a diverse migliaia di metri di profondità riceviamo immagini nitide e dai colori brillanti.»

L'inquadratura cambiò. Il robot veniva abbassato. Il mare si avvicinava, poi l'acqua sciabordò sull'obiettivo e infine Victor s'inabissò. I monitor mostravano un mondo verde-azzurro che si faceva via via più torbido.

Nel container giunsero gli uomini e le donne che fino a poco prima avevano lavorato alla gru. Lo spazio si fece ancora più ristretto.

«Accendere il faro», disse il coordinatore.

Di colpo, lo spazio intorno a Victor divenne luminoso. Era una luce diffusa. Il verde-azzurro impallidì e al suo posto, nella zona al di fuori del fascio del proiettore, il nero aumentò. Nell'inquadratura entrarono alcuni piccoli pesci, poi tutto sembrò pieno di minuscole bollicine. Johanson sapeva che in realtà si trattava di plancton, composto da miliardi di microscopiche forme di vita. Passarono meduse rosse e ctenofori trasparenti.

Dopo un po', lo sciame di particelle divenne più denso. Il barimetro indicava cinquecento metri.

«Che compito deve svolgere Victor?» chiese Johanson.

«Deve raccogliere campioni d'acqua, dei sedimenti e anche delle forme di vita», rispose Tina senza voltarsi. «E soprattutto deve girare materiale video.»

Nell'inquadratura entrò qualcosa di frastagliato. Victor si stava inabissando lungo una ripida parete. Aragoste rosse e arancione muovevano le loro lunghe antenne. Il mare era già molto buio, ma i riflettori e le telecamere riportavano i colori naturali con tonalità sorprendentemente intense. Victor passò davanti a spugne e cetrioli di mare, poi il terreno cominciò a farsi progressivamente più piano.

«Ci siamo», disse Tina. «680 metri.»

«Okay.» Il pilota si chinò in avanti. «Facciamo una virata.» La scarpata sparì dagli schermi. Per un po' videro solo l'acqua, poi improvvisamente, nell'oscurità nera e blu, si delineò il fondale marino.

«Victor è preciso al millimetro», disse Alban, visibilmente orgoglioso. «Se vuole può anche fargli infilare la cruna di un ago.»

«Grazie, a quello ci pensa il mio sarto. Dove si trova esattamente?» chiese Johanson.

«Proprio sopra un plateau. Nel sottosuolo c'è molto petrolio.»

«Ci sono anche idrati di metano?»

Alban lo fissò, pensieroso. «Sì, certo. Perché me lo chiede?»

«Così. E la Statoil vuole costruire lì una stazione?»

«È il luogo ideale. Ameno che non ci sia qualche controindicazione.»

«Per esempio i vermi.»

Alban scrollò le spalle. Johanson notò che al francese quell'argomento non piaceva. Osservarono il robot che sorvolava un mondo sconosciuto, superando ragni marini che camminavano con le zampe rigide e pesci che razzolavano tra i sedimenti. Le telecamere riprendevano colonie di spugne, meduse luminose e seppie. In quelle zone non c'erano molti esseri; in compenso, sul fondale, si trovava una grande varietà di forme di vita. Dopo un po', il paesaggio assunse un aspetto bitorzoluto e screpolato. Dal fondo si levavano strutture stratificate.

«Sono smottamenti ricoperti di sedimenti», spiegò Tina. «Sulla scarpata norvegese ci sono già stati diversi scivolamenti.»

«Che cosa sono quelle strutture a scogliera?» chiese Johanson. Il fondale era cambiato di nuovo.

«Sono formazioni create dalle tempeste. Ci stiamo dirigendo verso il bordo del plateau», rispose Tina. «I vermi li abbiamo trovati non lontano da lì.»

Fissarono i monitor. Nella luce dei riflettori era comparsa una macchia di grandi dimensioni e di colore più chiaro.

«Un tappeto di batteri», osservò Johanson.

«Sì. Segno della presenza di idrati di metano.»

«Là», disse il pilota.

Sul monitor comparvero gigantesche macchie bianche. Erano i punti in cui il metano congelato s'immagazzinava direttamente sul fondale. Poi, però, Johanson vide un'altra cosa e si accorse subito che l'avevano notata anche gli altri. Nella sala di controllo scese una cappa di silenzio.

Parte degli idrati era sparita sotto un brulichio rosa. In un primo momento fu ancora possibile riconoscere i singoli vermi, poi la massa di corpi aggrovigliati divenne inestricabile. Tubi rosa con ciuffi bianchi si attorcigliavano l'uno sull'altro.

Uno degli uomini al quadro di comando emise un gridolino di disgusto. Come siamo condizionabili, pensò Johanson. Rabbrividiamo davanti a tutto ciò che striscia e brulica, ma è una cosa del tutto normale. Rabbrividiremmo di noi stessi se potessimo vedere le orde di acari che si muovono sui nostri pori e si nutrono di sebo, i milioni di microscopici acari che si mettono comodi nei nostri materassi, per non parlare dei miliardi di batteri presenti nelle nostre viscere. Tuttavia quello che stava vedendo non piaceva neppure a lui. Le fotografie scattate nel golfo del Messico avevano mostrato una popolazione altrettanto grande, ma gli ammali erano più piccoli e vivevano inattivi nelle loro nicchie. Quelli, invece, si spostavano, strisciavano sul ghiaccio: un'imponente massa brulicante che copriva completamente il fondale.

«Procedere a zig-zag», ordinò Tina.

Il ROV cominciò a nuotare in una specie di slalom. L'immagine era sempre la stessa: vermi ovunque.

Improvvisamente il terreno s'inabissò. Il pilota riportò subito il robot sul bordo del plateau. I potenti fasci luminosi permettevano una visibilità di pochi metri, ma si aveva l'impressione che quelle creature coprissero tutta la scarpata. A Johanson sembravano ancora più grandi degli esemplari che Tina gli aveva fatto esaminare.

Un attimo dopo, l'immagine divenne nera. Ma, superato il bordo che cadeva a strapiombo per un centinaio di metri, Victor proseguì a tutta velocità.

«Girare», disse Tina. «Osserviamo la parete del precipizio.»

Il pilota manovrò Victor, facendolo ruotare. Nella luce dei proiettori formicolavano delle particelle.

Qualcosa di grande e chiaro s'inarcò davanti all'obiettivo della telecamera, lo occupò interamente per un attimo e poi si ritirò, fulmineo.

«Che cos'era? Ritornare alla posizione precedente», gridò Tina.

Il ROV si girò dalla parte opposta.

«Se n'è andato.»

«Movimento circolare!»

Victor si fermò, poi si mise a ruotare sul proprio asse. Si vedevano solo tenebre impenetrabili e il plancton illuminato dai riflettori.

«C'era qualcosa», confermò il coordinatore. «Forse un pesce.»

«Allora doveva essere un pesce maledettamente grosso», brontolò il pilota. «Ha riempito completamente l'inquadratura.»

Tina si voltò e guardò Johanson, che scosse la testa. «Non ho idea di che cosa fosse.»

«Okay, andiamo a dare un'occhiata più in basso.»

Il ROV si mantenne vicino alla scarpata. Dopo pochi secondi, apparve un terreno scosceso. Alcuni blocchi di sedimenti spuntavano dal terreno, ma il resto era coperto di corpi rosa.

«Sono ovunque», mormorò Tina.

Johanson le andò vicino. «Avete un'idea della consistenza dei giacimenti di idrati presenti in questa zona?»

«Qui è tutto pieno di metano. Idrati, sacche di gas all'interno del terreno, gas che fuoriesce…» rispose lei.

«Mi riferisco in particolare al ghiaccio in superficie.»

Tina premette alcuni tasti del suo terminale e, su un monitor, apparve una carta del fondale marino. «Le macchie chiare sono i giacimenti che abbiamo cartografato.»

«Mi puoi indicare l'attuale posizione di Victor?»

«All'incirca qui.» La donna indicò una zona di grandi dimensioni, contrassegnata da un colore diverso rispetto al resto.

«Bene. Portatelo là e fatelo salire in diagonale», ordinò Johanson.

Tina passò le indicazioni al pilota e i riflettori ritrovarono il fondale libero dai vermi. Dopo un po', tuttavia, il terreno riprese a salire e, dall'oscurità, sbucò di colpo una parete verticale.

«Più in alto», disse Tina. «Molto lentamente.»

Dopo qualche metro, si ripresentò la stessa immagine. Corpi rosa, di forma tubolare, con ciuffi bianchi.

«Un classico», disse Johanson.

«Che vuoi dire?»

«Se la vostra carta è giusta, la maggiore estensione di idrati è proprio qui. Vale a dire che i batteri sono sul ghiaccio e trasformano il metano, e i vermi mangiano i batteri», spiegò lui.

«È un classico pure che siano milioni?» domandò Tina.

Johanson scosse la testa.

Tina si appoggiò allo schienale. «Va bene», disse all'uomo che controllava il braccio prensile. «Mettiamo Victor all'opera. Deve prendere un bel mucchio di quegli animaletti e poi dare un'occhiata al terreno, ammesso che con quella massa di vermi si possa parlare ancora di terreno.»

Erano già le dieci passate quando qualcuno bussò alla cabina di Johanson. Lui aprì la porta e Tina entrò, lasciandosi cadere sulla piccola sedia che, insieme con un tavolo minuscolo e col letto, costituiva l'unico mobilio della stanza. «Ho gli occhi che mi bruciano», disse. «Alban mi sostituisce per un po'.» Poi scorse il piatto di formaggi e la bottiglia aperta di Bordeaux. «Avrei dovuto immaginarlo.» Rise. «È per questo che te la sei svignata, eh?»

Johanson aveva lasciato la sala di controllo mezz'ora prima per prepararsi lo spuntino. «Brie des Meaux, taleggio, munster, formaggio di capra stagionato e un po' di fontina piemontese», presentò i formaggi seguendone l'ordine sul piatto. «Inoltre ho una baguette e del burro.»

«Sei matto.»

«Ne vuoi un bicchiere?»

«Certo che ne voglio un bicchiere. Cos'è?»

«Un Pauillac. Devi perdonarmi se non posso decantarlo, ma la Thorvaldson è caratterizzata dalla sgradevole mancanza di bicchieri di cristallo. Avete visto qualcos'altro d'interessante?»

Tina prese il bicchiere e lo vuotò per metà. «Quegli animaletti di merda sono adagiati sugli idrati. Ovunque.»

Johanson si accomodò di fronte a lei sul bordo del letto e prese a spalmare il burro sulla baguette. «Davvero singolare.»

Tina prese il formaggio. «Ormai anche gli altri sono convinti che ci sia da preoccuparsi. Soprattutto Alban.»

«Durante la vostra ultima ricognizione non erano così tanti?»

«No… Be', sì, erano fin troppi per i miei gusti, però in quella occasione erano troppi solo per i miei gusti, non per quelli degli altri.»

Johanson le sorrise. «Lo sai, chi ha gusto si trova sempre in minoranza.»

«Va bene, comunque domattina riportiamo su Victor con una bella scorta di vermi. Così, se ne avrai voglia, potrai giocare con loro.» Si alzò, masticando il formaggio, e guardò fuori dall'oblò. Il cielo si era rasserenato. La luce della luna scivolava sulle onde e si rifrangeva. «Ho già guardato il video centinaia di volte. Quella cosa chiara… Alban pensa che sia un pesce, ma, se fosse così, allora dovrebbe avere le dimensione di una manta o di qualcosa di ancora più grande. Inoltre non aveva una forma riconoscibile.»

«Forse era un riflesso di luce», ipotizzò Johanson.

Tina si girò verso di lui. «No. Era distante alcuni metri, proprio al confine della zona illuminata. Era enorme e piatto e si è ritirato come un fulmine, come se non potesse sopportare la luce, oppure avesse paura di essere scoperto.»

«Potrebbe essere qualsiasi cosa.»

«No, non qualsiasi cosa.»

«Anche un banco di pesci può tirarsi indietro fulmineamente. Se poi nuota tenendosi molto serrato può dare l'impressione di un….», insistette lui.

«Non era un banco di pesci, Sigur! Era piatto. Una superficie che si muove, in un certo senso… vitrea. Come una grande medusa», esclamò Tina.

«Una grande medusa. Allora hai scoperto cos'era.»

«No, no!» La donna fece una pausa e tornò a sedersi. «Va' a guardarti le riprese. Non era una medusa.»

Proseguirono a mangiare per un po' in silenzio.

«Hai mentito a Jörensen», disse improvvisamente Johanson. «Non ci sarà nessuna SWOP. Perlomeno nessuna che possa occupare operai petroliferi.»

Tina sollevò lo sguardo, si portò il bicchiere alle labbra, sorseggiando il vino, e poi lo posò con cautela. «È vero.»

«Perché? Temevi di spezzargli il cuore?»

«Forse.»

Johanson scosse la testa. «Il cuore glielo spezzerete comunque. Non c'è più lavoro per gli operai petroliferi, vero?»

«Ascolta, Sigur, non volevo mentirgli, ma… Maledizione, tutto questo settore industriale si sta trasformando e la forza lavoro rimane tagliata fuori. Che ci posso fare? Jörensen sa che è così. Sa anche che il personale della Gullfaks C sarà ridotto a un decimo di quello attuale. Costa meno convertire tutta la piattaforma che continuare a impiegare duecentottanta persone. La Statoil sta pensando di eliminare completamente il personale della Gullfaks B. Possiamo farla funzionare guidandola da un'altra piattaforma, ma anche così i margini di guadagno sarebbero risicati.»

«Mi stai dicendo che il vostro business non rende più?» disse lui.

«L'affare offshore ha reso soltanto finché l'OPEC non ha fatto una politica di rialzo dei prezzi, cioè fino all'inizio degli anni '70. Dalla metà degli anni '80, i prezzi sono crollati. E quando i giacimenti saranno esauriti, crollerà anche l'Europa settentrionale, se non sfrutteremo i giacimenti più al largo… Però essi si trovano a grande profondità, dove si può lavorare solo con l'aiuto dei ROV e degli AUV.»

AUV era un'altra sigla del vocabolario delle esplorazioni negli abissi marini e, da qualche tempo, era sulla bocca di tutti. Gli Autonomous Underwater Vehicles funzionavano di fatto come Victor, ma non erano più legati alla nave madre dal cordone ombelicale artificiale. Le industrie offshore guardavano con grande interesse allo sviluppo di quel robot da immersione. Era come un esploratore planetario in grado di spingersi nelle zone più inospitali, era estremamente flessibile e manovrabile e, entro certi limiti, si rivelava persino in grado di prendere decisioni autonome. Con l'aiuto degli AUV si concretizzava la possibilità d'installare stazioni di estrazione del petrolio a cinque o seimila metri di profondità e di sorvegliarle.

«Non ti devi giustificare», disse Johanson, mentre si versava del vino. «Non puoi farci nulla.»

«Io non mi giustifico», ribatté Tina, in tono seccato. «Inoltre tutti potremmo fare qualcosa. Se l'umanità non consumasse tanto combustibile, il problema non esisterebbe.»

«Be', non subito, ma in futuro sì. Comunque la tua sensibilità ecologica ti fa onore.»

«E allora?» replicò lei, acida. Non le era sfuggito il tono ironico della voce di Sigur. «Forse ti sembrerà impossibile, ma le industrie del petrolio sanno anche imparare.»

«Sì, ma che cosa?»

«Nei prossimi decenni dovremo occuparci dello smantellamento di oltre seicento piattaforme perché non sono più economicamente convenienti e ormai si sono rivelate inadatte alle nuove tecnologie! Lo sai che cosa costa? Miliardi! Nel frattempo lo zoccolo continentale sarà completamente esaurito! Quindi non trattarci come se fossimo gentaglia.»

«Va bene.»

«Naturalmente adesso tutti si scagliano contro le stazioni sottomarine senza personale. Ma, se non le costruiamo, domani l'Europa dipenderà completamente dagli oleodotti del Medio Oriente e del Sudamerica e a noi rimarrà solo un cimitero in mare», continuò Tina.

«Non ho nulla in contrario. Mi chiedo solo se siete perfettamente consapevoli di quello che fate.»

«Che vuoi dire?»

«I problemi tecnici per mettere in funzione stazioni automatizzate sono enormi», disse Johanson.

«Sì, certo.»

«Voi progettate l'estrazione di enormi quantità di petrolio in zone caratterizzate da una pressione estrema, utilizzando miscele altamente corrosive e, oltretutto, con strutture prive di manutenzione.» Johanson esitò. «Fate grandi progetti, ma in realtà non avete la più pallida idea di come sia realmente laggiù.»

«Lo stiamo scoprendo.»

«Come oggi? Ne dubito. È un po' come la nonna che va in vacanza e scatta un po' d'istantanee, convinta che le permettano di conoscere il Paese in cui è stata. Avete la tendenza a individuare una zona e a esaminarla solo finché non vi sembra che possa essere quella giusta. Ma non cercate di comprendere il complesso sistema di relazioni in cui v'inserite.»

«Rieccoci», si lamentò Tina.

«Ho forse torto?»

«Conosco così bene il concetto di 'ecosistema' che potrei scriverci sopra una canzone e cantarla pure al contrario. O nel sonno. Dimmi un po', sei contro le ricerche petrolifere?»

«No, penso solo che si debba conoscere bene il mondo in cui ci s'inserisce.»

«E, secondo te, perché siamo su questa nave?»

«Sono sicuro che ripeterete i vostri errori. Alla fine degli anni '70, vi siete fatti contagiare dalla febbre dell'oro e avete riempito di costruzioni il mare del Nord. E ora tutta quella roba è soltanto un fastidio. Dovreste evitare di agire in maniera affrettata anche negli abissi marini», rispose Johanson.

«Se fossimo frettolosi come dici, perché ti avrei mandato quei maledetti vermi?» gli chiese Tina.

«Hai ragione. Ego te absolvo.» Lei si morse il labbro inferiore e Johanson decise di cambiare argomento. «Per parlare di cose più piacevoli, Kare Sverdrup mi sembra un tipo a posto.»

Tina aggrottò la fronte. Poi si rilassò e sorrise. «Credi?»

«Assolutamente.» Johanson allargò le braccia. «Non è stato molto gentile da parte tua tenermelo nascosto, ma posso capire.»

Tina fece girare il vino nel bicchiere. «È tutto così bello», sussurrò.

Per un po' non dissero nulla.

«È amore?» chiese poi lui, rompendo il silenzio.

«Per chi? Per me o per lui?»

«Per te.»

«Mmm.» Tina sorrise. «Credo di sì.»

«Credi?»

«Sono una ricercatrice. E prima devo fare delle ricerche», fu la risposta di lei.

Se ne andò a mezzanotte passata. Sulla porta si voltò, lanciando uno sguardo ai bicchieri vuoti e alle croste di formaggio. «Qualche settimana fa, con tutto questo mi avresti conquistata», mormorò. Sembrava quasi dispiaciuta.

Johanson la spinse dolcemente nel corridoio. «Alla mia età, riesco a farmene una ragione… Ma adesso va'! Va' a fare ricerche!»

Lei si chinò in avanti e gli diede un bacio sulla guancia. «Grazie per il vino.» Poi uscì.

La vita consiste nel cercare compromessi tra un'occasione perduta e l'altra, pensò Johanson, mentre chiudeva la porta. Poi sorrise e scacciò quel pensiero. Non poteva proprio lamentarsi: di occasioni ne aveva sfruttate sin troppe.