"Le fontane del Paradiso" - читать интересную книгу автора (Clarke Arthur C.)4 La Montagna del MalignoQuello spettacolo intelligente, basato su luci e suoni, riusciva ancora a toccare Rajasinghe, anche se lo aveva visto una dozzina di volte e ne conosceva ogni particolare. Si trattava di una tappa obbligata per tutti coloro che si recavano in visita alla Montagna, anche se gli spiriti critici come il professor Sarath dicevano che era solo storia in pillole per turisti. Ad ogni modo la storia in pillole era sempre meglio di niente, e assolveva ancora la sua funzione mentre Sarath e i suoi colleghi litigavano aspramente sulla successione esatta degli avvenimenti che si erano verificati lì duemila anni prima. Il piccolo anfiteatro era dirimpetto alla parete ovest di Yakkagala. Le duecento poltroncine erano orientate in modo che ogni spettatore vedesse le proiezioni laser dall'angolo esatto. Lo spettacolo, per tutto l'anno, iniziava sempre alla stessa ora precisa: le 19, quando gli ultimi bagliori dell'immutabile tramonto equatoriale morivano in cielo. Era già così buio che la Montagna era invisibile. La sua presenza era solo un'enorme ombra scura che eclissava le prime stelle. Poi da quel buio nacque il battito lento di un tamburo smorzato; e una voce calma, spassionata, cominciò a dire: — Questa è la storia di un re che uccise suo padre e fu assassinato da suo fratello. Non è certo niente di nuovo nelle vicende del genere umano, che grondano sangue. Ma "questo" re ha lasciato un monumento eterno; e una leggenda che sopravvive da secoli… Rajasinghe lanciò un'occhiata a Vannevar Morgan, seduto nell'oscurità alla sua destra. Vedeva solo di profilo la faccia del suo ospite, ma non gli era difficile capire che era già stato catturato dalla magia del racconto. Sulla sinistra, gli altri due ospiti (vecchi amici del tempo delle manovre diplomatiche) erano altrettanto presi. Aveva assicurato Morgan che non avevano riconosciuto il "dottor Smith"; oppure, se lo avevano riconosciuto, si erano gentilmente prestati alla commedia. — Il suo nome era Kalidas, e nacque cento anni dopo Cristo a Ranapur, la Città d'Oro, capitale per secoli dei re di Taprobane. Ma sulla sua nascita gravava un'ombra… La musica divenne più alta. Al battito del tamburo si unirono flauti e violini, che intrecciarono nell'aria notturna una melodia incalzante, regale. Sulla superficie della Montagna cominciò a bruciare un punto di luce; poi, d'improvviso, s'ingrandì, e parve d'un tratto che una finestra magica si fosse spalancata sul passato, per rivelare un mondo più vivido e ricco di colori della vita stessa. La rappresentazione, pensò Morgan, è eccellente. Era contento che, per una volta, la cortesia avesse avuto il sopravvento sul desiderio di lavorare. Vide la gioia del Re Paravana quando la concubina preferita gli presentò il suo primogenito; e capì come quella gioia potesse aumentare e diminuire al tempo stesso quando, solo ventiquattr'ore dopo, la Regina diede alla luce un erede più legittimo al trono. Kalidas era nato per primo, ma non era il primo in linea di diritto; e così la scena era pronta per il dramma. — Eppure, nei primi anni della fanciullezza, Kalidas e il fratellastro Malgara furono amici perfetti. Crebbero assieme, ignari delle rivalità riservate dal destino e degli intrighi che si tessevano intorno a loro. Il primo motivo di discordia non aveva niente a che vedere con le circostanze della loro nascita. Si trattò di un dono innocente, fatto in buona fede. "Alla corte di Re Paravana giungevano convogli che recavano tributi da molte terre: seta dal Catai, oro dall'Indostan, armature lucenti dalla Roma imperiale. E un giorno un semplice cacciatore della giungla si avventurò nella grande città, recando un dono che sperava gradito alla famiglia reale…" Tutt'attorno, Morgan udì un coro di "Ohh" e "Ahh" involontari emessi dagli spettatori. Gli animali non gli erano mai piaciuti troppo, però doveva ammettere che la scimmietta bianca come la neve che riposava, serena e fiduciosa, tra le braccia del giovane Principe Kalidas era davvero tenerissima. Da quella sua piccola faccia rugosa, due occhi si protendevano sui secoli trascorsi e sul misterioso, anche se non del tutto invalicabile, abisso che divide l'uomo dalle bestie. — Secondo le Cronache, non si era mai visto niente del genere: il suo pelo era bianco come latte, i suoi occhi rossi come rubini. Qualcuno la ritenne un buon segno; altri un cattivo segno, perché il bianco è il colore della morte e del lutto. E i loro timori, purtroppo, erano ben fondati. "Il Principe Kalidas adorava la scimmietta. La chiamò Hanuman, in onore del nobile dio-scimmia del 'Ramayana'. Il gioielliere reale costruì un piccolo carro d'oro su cui Hanuman, con aria solenne, sedeva mentre sfilava davanti alla corte, fra il divertimento e la delizia di tutti i presenti. "Da parte sua, Hanuman amava Kalidas, e non si lasciava toccare da nessun altro. In particolare era acerrima nemica del Principe Malgara, quasi presentisse la futura rivalità. E poi, in un giorno luttuoso, la scimmia morse l'erede al trono. "Quel morso fu una sciocchezza, ma ebbe conseguenze immense. Pochi giorni dopo Hanuman fu avvelenata, senza dubbio per ordine della Regina. Questo evento segnò la fine dell'infanzia di Kalidas; e si dice che in seguito lui non amò più nessun essere umano, e che a nessuno concesse la sua fiducia. E l'amicizia per Malgara si trasformò in una spietata rivalità. "E questa non fu l'unica disgrazia generata dalla morte di una scimmietta. Per ordine del Re, venne costruita per Hanuman una tomba speciale che aveva la tradizionale forma a campana del reliquiario o "dagoba". Era una decisione del tutto straordinaria, che suscitò immediatamente l'ostilità dei monaci. I 'dagoba' erano riservati alle reliquie del Buddha, e quell'atto parve un sacrilegio deliberato. "È possibile che l'intenzione fosse proprio quella, poiché Re Paravana si trovava allora sotto l'influenza di una Swami indù e si stava allontanando dalla fede buddista. Il principe Kalidas era ancora troppo giovane per essere coinvolto in quella questione, ma l'odio dei monaci si diresse soprattutto contro di lui. Così ebbe inizio un'ostilità che negli anni successivi avrebbe dilaniato il regno. "Come molti degli altri racconti che ci vengono narrati dalle antiche cronache di Taprobane, per quasi duemila anni non è esistita prova che la storia di Hanuman e del giovane Principe Kalidas fosse qualcosa di più d'una deliziosa leggenda. Poi, nel duemilaquindici, un gruppo di archeologi di Harvard ha scoperto le fondamenta di un piccolo reliquiario situato all'interno dell'antico palazzo di Ranapur. Il reliquiario doveva essere stato distrutto deliberatamente, perché l'intera muratura della parte superiore non esisteva più. "La consueta sala delle reliquie, a livello delle fondamenta, era vuota, spogliata d'ogni contenuto già da secoli. Ma quegli studiosi possedevano strumenti che i ladri di tombe di un tempo non potevano nemmeno sognare. I rilevamenti al neutrino hanno svelato la presenza di 'un'altra' sala delle reliquie, a profondità molto maggiore. La sala superiore serviva solo a mascherare la seconda, e aveva assolto egregiamente il suo compito. La sala inferiore conteneva ancora il fardello di amore e d'odio che aveva preservato nel corso dei secoli, e che oggi riposa nel museo di Ranapur." Morgan si era sempre ritenuto, a buon diritto, ragionevolmente freddo e poco sentimentale, non incline a scoppi improvvisi d'emozione. Eppure adesso, terribilmente imbarazzato, sperando che gli altri non se ne accorgessero, sentì che i suoi occhi si riempivano di lacrime impreviste. "Com'è ridicolo" si disse rabbiosamente "che una musica dolciastra e un racconto sdolcinato possano avere un effetto del genere su un uomo intelligente!" Non avrebbe mai creduto che la vista di un gioco per bambini potesse farlo piangere. E d'improvviso seppe, in un accecante lampo di ricordi che lo riportò a un momento lontano più di quarant'anni nel tempo, perché si era sentito tanto commosso. Rivide il suo adorato aquilone, che si tuffava e veleggiava al di sopra del parco di Sydney, dove aveva trascorso gran parte dell'infanzia. Sentiva ancora il calore del sole, il vento dolce che gli carezzava la schiena nuda, quel vento traditore che all'improvviso era caduto, facendo precipitare l'aquilone verso terra. Il giocattolo si era impigliato fra i rami della quercia gigante che doveva essere più antica della terra stessa, e lui, ingenuamente, aveva dato uno strattone allo spago, nel tentativo di liberarlo. Era la prima lezione che riceveva sulla resistenza della materia, e non l'avrebbe mai dimenticata. Lo spago si era spezzato proprio quando lui stava per riprendere l'aquilone, e l'aquilone si era allontanato pigramente nel cielo estivo, perdendo quota poco per volta. Lui era corso alla sponda dell'acqua, sperando che il giocattolo cadesse sulla terraferma; ma il vento non ascolta le preghiere di un ragazzo. Era rimasto a piangere per molto tempo, guardando i frammenti dell'aquilone che, come resti di una nave smantellata, galleggiavano sul grande porto e poi scomparivano verso il mare aperto, fino a essere invisibili. Quella era stata la prima delle tragedie così banali che forgiano l'infanzia di un uomo, le si ricordi o meno. Eppure Morgan aveva perso solo un giocattolo inanimato; le sue erano state lacrime di frustrazione, non di vero dolore. Il Principe Kalidas aveva motivi d'angoscia ben più profondi. Sul piccolo carro d'oro, che pareva appena uscito dalla bottega dell'artigiano, riposava un mucchietto di piccole ossa bianche. Morgan perse una parte della vicenda successiva. Quando si fu asciugato gli occhi erano trascorsi una dozzina d'anni, era in corso una complicata disputa familiare, e lui non capiva bene chi erano gli assassini e chi le vittime. Dopo che gli eserciti ebbero cessato di combattere e l'ultimo pugnale si fu abbattuto, il Principe Malgara e la Regina Madre fuggirono in India. Kalidas s'impossessò del trono e imprigionò il padre. Il fatto che l'usurpatore si fosse astenuto dall'assassinare Paravana non dipendeva dalla devozione filiale, bensì dalla certezza che il vecchio Re possedesse ancora un tesoro segreto, tenuto da parte per Malgara. Paravana sapeva di essere al sicuro finché Kalidas continuava a crederlo; ma alla fine si stancò dell'inganno. — Ti mostrerò le mie vere ricchezze — disse al figlio. — Preparami un cocchio e ti ci condurrò. Ma quell'ultimo viaggio, a differenza di Hanuman, Paravana lo fece su un decrepito carro da buoi. Le Cronache dicevano che possedeva una ruota mezzo rotta, che cigolò per l'intero percorso: un particolare che doveva essere vero, perché nessuno storico si sarebbe preso il disturbo d'inventarlo. Con sorpresa di Kalidas, suo padre ordinò di essere condotto al grande lago artificiale che irrigava la parte centrale del regno. Per portarlo a compimento aveva speso quasi tutti gli anni di regno. S'incamminò lungo la riva dell'enorme specchio d'acqua e fissò la statua che lo rappresentava, a grandezza doppia di quella naturale. — Addio, vecchio amico — disse, rivolto alla grande figura di pietra che simboleggiava la gloria e il potere perduti, e che stringeva fra le mani, per l'eternità, la mappa in pietra di quel mare artificiale. — Proteggi quello che lascio. Poi, sotto la sorveglianza di Kalidas e delle guardie, discese gli scalini che portavano in basso, senza fermarsi dove iniziava l'acqua. Quando fu immerso sino alla cintura raccolse l'acqua con le mani e se la versò in testa, poi si girò verso Kalidas, pieno d'orgoglio e di trionfo. — Qui, figlio mio — gridò, indicando la distesa d'acqua pura, portatrice di vita — qui, qui sono tutte le mie ricchezze! — Uccidetelo! — urlò Kalidas, folle di rabbia e delusione. E i soldati ubbidirono. Fu così che Kalidas divenne padrone di Taprobane, ma a un prezzo che pochi uomini avrebbero accettato di pagare. Perché, come narravano le Cronache, visse sempre "nel timore dell'altro mondo, e di suo fratello". Presto o tardi, Malgara sarebbe tornato a reclamare il trono che gli spettava. Per qualche anno, come la lunga serie di re che lo aveva preceduto, Kalidas tenne corte a Ranapur. Poi, per motivi su cui la storia non dice niente, abbandonò la capitale reale in favore dell'isolato monolito di roccia di Yakkagala, lontano quaranta chilometri e in mezzo alla giungla. Qualcuno sostenne che stesse cercando una fortezza inespugnabile, al sicuro dalla vendetta di suo fratello. Eppure, alla resa dei conti, ne disdegnò la protezione; e poi, se si trattava solo di una roccaforte, perché mai Yakkagala era circondata da quegli immensi giardini la cui costruzione doveva aver richiesto lo stesso lavoro dei bastioni e del fossato? Soprattutto: "perché gli affreschi?". Quando il narratore pose questa domanda, dalle tenebre si materializzò l'intera facciata ovest della montagna, non com'era ridotta adesso, ma come doveva essere duemila anni addietro. Una fascia che partiva a un centinaio di metri dal suolo, e che correva per l'intera altezza della montagna, era stata levigata e ricoperta di gesso. Sopra vi era dipinta una gran quantità di donne bellissime, a grandezza naturale, ritratte dalla cintura in su. Alcune erano di profilo, altre no, e tutte seguivano lo stesso modello di base. La pelle color ocra, il seno rigoglioso, erano vestite di soli gioielli oppure di abiti trasparentissimi. Alcune portavano i capelli acconciati secondo fogge alte e complicate; altre indossavano quelle che sembravano corone. Molte reggevano vasi di fiori, oppure tenevano fra il pollice e l'indice, con delicatezza estrema, un solo bocciolo. Circa metà delle donne erano di pelle più scura delle altre e sembravano schiave, ma non per questo le loro pettinature e i gioielli erano meno eleganti. — Un tempo esistevano più di duecento figure. Ma le piogge e i venti dei secoli le hanno distrutte tutte tranne venti, protette da una sporgenza di roccia… L'immagine balzò avanti in primo piano. Ad una ad una, le ultime superstiti del sogno di Kalidas emersero dalle tenebre, accompagnate dalla musica un po' troppo sfruttata, eppure singolarmente adatta, della "Danza di Anitra". Per quanto sfigurate dal tempo, dal decadimento naturale e dai vandali, non avevano perso niente della loro bellezza dopo tanti secoli. I colori erano ancora vivaci, non smorzati dalla luce di più di mezzo milione di tramonti. Fossero dee o donne, avevano tenuto in vita la leggenda della Montagna. — Nessuno sa chi fossero, cosa rappresentassero, e perché siano state create con tanta fatica, in un luogo così inaccessibile. La teoria più in voga sostiene che si trattasse di creature celestiali e che tutti gli sforzi di Kalidas siano stati rivolti alla creazione di un paradiso sulla terra, popolato da dee. Forse si riteneva un Re-Dio, come già avevano pensato i faraoni d'Egitto; forse è per questo che da loro ha ripreso l'immagine della sfinge, messa a guardia dell'entrata del palazzo. Adesso la proiezione laser mostrava la Montagna vista da lontano, riflessa nel laghetto alla sua base. L'acqua tremò, il profilo di Yakkagala tremolò e si dissolse. Quando l'immagine si riformò, la Montagna era coronata di mura e bastioni e spirali che ne occupavano l'intera superficie. Era impossibile vedere tutto chiaramente: le cose erano atrocemente sfumate, come le immagini di un sogno. Nessuno avrebbe mai saputo quale fosse il "vero" aspetto del palazzo di Kalidas prima di essere distrutto da coloro che volevano cancellare il nome stesso del re. — E lui visse qui per quasi vent'anni, in attesa della tragedia che sapeva inevitabile. Le sue spie devono averlo informato che, con l'aiuto dei re dell'Indostan del sud, Malgara stava pazientemente raccogliendo un esercito. "E finalmente Malgara giunse. Dall'alto della Montagna Kalidas vide gli invasori che marciavano da nord. Forse si riteneva inespugnabile, ma non volle mettere alla prova la fortezza. Lasciò il sicuro rifugio della grande cittadella e corse incontro al fratello, sul terreno neutro fra i due eserciti. Molti pagherebbero una fortuna per sapere quali parole si dissero in quell'ultimo incontro. Alcuni dicono che prima di dividersi si siano abbracciati. Potrebbe essere vero. "Poi gli eserciti, come onde del mare, si scontrarono. Kalidas combatteva sul proprio territorio, con uomini che conoscevano il terreno, e in un primo tempo parve certo che la vittoria dovesse andare a lui. Ma poi si verificò un altro di quegli incidenti che determinano il destino delle nazioni. "Il grande elefante da guerre di Kalidas, bardato delle insegne reali, girò su se stesso per evitare un acquitrino. I difensori di Yakkagala pensarono che il re battesse in ritirata. Il loro morale andò a pezzi. Fuggirono, raccontano le Cronache, come fuscelli di paglia davanti al decuscutatore. "Kalidas venne ritrovato sul campo di battaglia, morto di propria mano. Malgara diventò re. E Yakkagala fu abbandonata alla giungla, per essere riscoperta solo dopo millesettecento anni." |
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