"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)Parte seconda Il mio Ainsel9Mentre si lasciavano alle spalle l’Illinois, a tarda sera, Shadow rivolse a Wednesday la sua prima domanda. Quando vide il cartello con la scritta BENVENUTI IN WISCONSIN disse: «Allora, chi erano i tizi che mi sono saltati addosso nel parcheggio? Wood e Stone. Chi erano?». I fari dell’automobile illuminavano il paesaggio invernale. Wednesday aveva annunciato che non avrebbero preso le freeway perché non sapeva da che parte si erano schierate e perciò Shadow stava guidando su strade secondarie. Non gli dava fastidio. Non era nemmeno sicuro che il suo datore di lavoro fosse matto. Wednesday grugnì. «Spioni. Membri dell’opposizione. I cattivi.» «Ho l’impressione che loro credano di essere i buoni.» «Ovvio. Nessuna guerra degna di questo nome è mai stata combattuta da qualcuno che non si credesse dalla parte giusta. La gente davvero pericolosa crede di fare quello che fa, qualsiasi cosa sia, solo ed esclusivamente perché al di là di ogni dubbio è la cosa giusta da fare. È questo che li rende davvero pericolosi.» «E tu?» chiese Shadow. «Perché stai facendo quello che fai?» «Perché mi va» rispose Wednesday. E poi sorrise. «E tanto ti basti.» «Come avete fatto a scappare?» domandò Shadow. «Sempre che siate scappati tutti.» «Sì, ci siamo riusciti» rispose Wednesday. «Per un pelo, comunque. Se non si fossero fermati per prendere te forse ci avrebbero catturati tutti quanti. È servito a convincere parecchi tra gli incerti del fatto che non sono completamente pazzo.» «Ma come avete fatto a scappare?» Wednesday scosse la testa. «Non ti pago per fare domande. Mi pare di avertelo già detto.» Shadow scrollò le spalle. Passarono la notte in un motel della catena Super 8 a sud di La Crosse. Il giorno di Natale lo trascorsero guidando, in direzione nordest. I campi coltivati lasciarono il posto ai boschi di conifere, le città erano separate l’una dall’altra da distanze sempre più grandi. Nel pomeriggio si fermarono a fare il pranzo di Natale in un’enorme trattoria nel Nord del Wisconsin. Shadow sbocconcellò senza allegria la carne di tacchino secca, la salsa di mirtilli tutta grumi rossi e dolce come marmellata, le patate arrosto dure come legno e i piselli in scatola di un verde troppo acceso. Da come mangiava e schioccava le labbra con gusto Wednesday sembrava trovare il cibo di suo gradimento, e mangiando diventava più espansivo: chiacchierava, scherzava, e quando gli veniva a tiro la cameriera, una ragazza magra e bionda che non sembrava nemmeno maggiorenne, le faceva la corte. «Scusami, cara, ti posso disturbare per un’altra tazza della tua squisita cioccolata calda? E mi auguro che non vorrai giudicarmi sfacciato se dico che il tuo vestito è molto attraente e ti dona moltissimo. È allegro, e al tempo stesso elegante.» La cameriera, che indossava una gonna rossa e verde con delle paillette argentate sull’orlo, ridacchiò, arrossì e sorrise felice affrettandosi a prendere un’altra tazza di cioccolata. «Attraente» ripeté Wednesday osservando pensieroso la ragazza. «Ha grazia.» Secondo Shadow non stava parlando del vestito. Wednesday si ficcò in bocca l’ultima fetta di tacchino, pulì la barba con il tovagliolo e allontanò il piatto. «Ah. Ottimo.» Poi si guardò intorno. In sottofondo suonava un nastro con le canzoni di Natale: «Alcune cose cambiano» esordì Wednesday di punto in bianco. «Le persone, invece… rimangono uguali. Ci sono imbrogli che funzionano sempre, altri che vengono inghiottiti anche troppo presto dal tempo e dal mondo. La mia truffa preferita non si può più fare, altre invece si adattano a ogni epoca: il Prigioniero spagnolo, L’allocco gabbato, il Trucco del leccapiedi (che sarebbe un Allocco gabbato ma con l’anello d’oro al posto del portafogli), il Violino…» «Non conosco il Violino» disse Shadow. «Le altre mi pare di averle sentite nominare, il mio vecchio compagno di cella mi ha raccontato di aver fatto il Prigioniero spagnolo personalmente. Era un imbroglione anche lui.» «Ah» esclamò Wednesday con un bagliore nell’occhio sinistro. «Quello del Violino è un trucco fantastico che nella sua versione più pura prevede la partecipazione di due persone. Il funzionamento è basato sull’avidità e sulla cupidigia, come in tutte le truffe di questo mondo. Si può sempre riuscire a ingannare un uomo onesto, ma è più difficile. Dunque. Siamo in un albergo o una locanda o in un bel ristorante e durante la cena incontriamo il nostro uomo, un tipo dimesso ma per bene, non troppo male in arnese però certo neanche in gran forma. Lo chiameremo Abraham. Quando arriva il momento di pagare il conto — non un conto enorme, bada bene, cinquanta, settanta dollari — che imbarazzo! Dov’è finito il portafogli? Buon Dio, deve averlo lasciato a casa di un amico che abita poco distante. Andrà immediatamente a riprenderselo! "Tenga, oste" dice Abraham, "le lascio in garanzia questo vecchio violino. È vecchio, come vede, ma è lo strumento con cui mi guadagno da vivere."» Quando vide la cameriera avvicinarsi Wednesday le fece un sorriso da predatore. «Ah, la cioccolata calda! Ed è il mio Angelo di Natale a portarmela! Dimmi cara, potrei avere ancora un po’ di quel pane squisito, quando trovi un momento?» La cameriera — quanti anni poteva avere: sedici, diciassette? si chiese Shadow — abbassò gli occhi e avvampò fino all’attaccatura dei capelli. Appoggiò la tazza di cioccolata con mani tremanti, andò a rifugiarsi dietro la vetrina frigorifero in cui ruotavano le torte e lì rimase a fissare Wednesday. Poi scivolò in cucina a procurare il pane. «Dunque. Il violino — vecchio, indubbiamente, forse anche un pochino malconcio — viene riposto nella sua custodia e il nostro Abraham momentaneamente squattrinato parte alla ricerca del portafogli. Un signore elegante che ha appena terminato di cenare si avvicina all’oste: potrebbe per gentilezza fargli dare un’occhiata al violino che l’onesto Abraham ha lasciato in pegno? "Ma certamente." Il nostro oste gli dà lo strumento e il signore ben vestito — lo chiameremo Barrington — rimane a bocca spalancata, poi si riprende e la chiude, esamina il violino con un atteggiamento rispettoso, come un uomo appena ammesso nel sacrario a esaminare le ossa del profeta. "Santo Gelo!" esclama, "Questo è… deve… non può… eppure è, sì, sì… Ossignore! Ma è incredibile!" e indica il marchio del liutaio sulla striscia di carta scura incollata alla cassa del violino… e comunque lo avrebbe capito anche senza vedere la firma, dal colore della vernice, dal ricciolo, dalla forma. «A questo punto Barrington tira fuori dalla tasca un raffinato biglietto da visita dove si legge che lui è un importante antiquario specializzato in strumenti musicali. "Allora questo è un violino raro?" chiede l’oste. "Può ben dirlo" risponde Barrington che continua ad ammirare lo strumento in preda a grande meraviglia, "e vale più di centomila dollari, se non mi sbaglio. Essendo del mestiere pagherei cinquanta — no, fino a settantacinquemila dollari sull’unghia — per un pezzo di così squisita fattura. Ho un cliente sulla costa occidentale che sarebbe pronto ad acquistarlo subito, senza nemmeno vederlo, basterebbe un telegramma, per qualsiasi cifra gli chiedessi." A questo punto Barrington consulta l’orologio e assume un’espressione triste. "Il mio treno parte tra poco" dice. "Se voglio prenderlo devo affrettarmi! Brav’uomo, quando torna il proprietario di questo inestimabile strumento, avrebbe la cortesia di dargli il mio biglietto da visita? Purtroppo io devo partire." E ciò detto Barrington se ne va come un uomo che sa che il tempo e i treni non aspettano nessuno. «Il bravo oste esamina il violino, mentre nelle sue vene scorrono insieme curiosità e cupidigia e a poco a poco va formulando un piano. Però il tempo passa, e Abraham non ritorna. Si sta facendo tardi quand’ecco sulla soglia, malandato ma dignitoso, il nostro violinista. Stringe tra le mani un portafogli che ha visto giorni migliori, un portafogli che nei suoi giorni migliori avrà contenuto al massimo un centinaio di dollari e ne estrae il denaro per pagare la cena o la camera e chiede di riavere il suo strumento. «Il bravo oste ripone il violino nella custodia appoggiata sul bancone e Abraham la solleva come farebbe una madre per prendere tra le braccia il suo bambino. "Dimmi" lo apostrofa l’oste (mentre nel taschino gli brucia il biglietto da visita di un uomo disposto a pagare cinquantamila dollari), "quanto vale un violino come questo? Mia nipote si è messa in testa di imparare a suonarlo e tra una settimana è il suo compleanno." «"Questo violino?" risponde Abraham. "Non potrei mai venderlo. Ce l’ho da vent’anni, l’ho suonato in tutti gli stati dell’Unione. E a dire la verità quando l’ho comprato mi era costato ben cinquecento dollari." «Il bravo oste non smette di sorridere. "Cinquecento dollari? E se te ne offrissi subito mille?" «In un primo momento il violinista si illumina, poi lo guarda con aria avvilita, e dice: "Ma signore, io sono un violinista, è il mio mestiere. Questo violino mi conosce, mi è affezionato, le mie dita lo conoscono talmente bene che potrei suonarlo anche al buio. Dove vado a trovarne uno così? Mille dollari sono una bella cifra, ma suonare il violino mi dà da campare. Né per mille né per cinquemila, lo venderei." «Il bravo oste vede ridursi il margine di profitto, ma siccome gli affari sono affari e se si vuole guadagnare bisogna anche investire, "Ottomila dollari" dice. "Non li vale, ma mi sono messo in testa di averlo e voglio così bene a mia nipote, la vizio appena posso." «Al pensiero di separarsi dall’amato strumento Abraham è quasi in lacrime, ma come si fa a rifiutare ottomila dollari? Soprattutto quando il bravo oste si avvicina alla cassaforte e non ne prende otto ma novemila ben legati dalle fascette, pronti a scivolare dentro la logora tasca del violinista. "Siete un brav’uomo" dice all’oste. "Un santo! Ma dovete giurare che lo tratterete bene!" e con riluttanza gli consegna il violino.» «E se il bravo oste si fosse limitato a dargli il biglietto da visita di Barrington spiegandogli quale colpo di fortuna gli era capitato?» domandò Shadow. «In quel caso avremmo investito male i soldi di due cene» rispose Wednesday. Con una fetta di pane pulì il piatto dalla salsa e dalle briciole rimaste e la mangiò con evidente piacere schioccando le labbra. «Fammi vedere se ho capito» disse Shadow. «A quel punto Abraham se ne va, con novemila dollari in tasca, a incontrare Barrington nel parcheggio o alla stazione. Dividono i soldi, salgono sulla Ford Model A di Barrington e partono diretti verso la città più vicina. Nel baule devono avere uno scatolone pieno di violini da cento dollari.» «Personalmente mi sono sempre imposto di non pagarli più di cinque» disse Wednesday. Poi si rivolse alla cameriera che stava gironzolando intorno al tavolo. «E adesso, mia cara, dilettaci con la descrizione dei sontuosi dolci disponibili nel giorno della nascita di Nostro Signore.» La fissava — quasi con lascivia — come se niente potesse essere più appetitoso di un morsetto alla sua carne. Shadow si sentiva profondamente a disagio: era come guardare un vecchio lupo che fa la posta a una cerbiatta troppo giovane per sapere che se non si metterà a correre, e subito, finirà sbranata dai corvi in fondo alla radura. La ragazza arrossì un’altra volta e annunciò che i dolci erano l’apple pie à la mode — «Cioè, sarebbe con una pallina di gelato alla vaniglia» — la torta di Natale à la mode, o il pudding rosso-e-verde con gelatina. Wednesday la fissò negli occhi e le disse che avrebbe provato la torta di Natale à la mode. Shadow rinunciò al dolce. «Dunque, tornando alle truffe» riprese Wednesday, «quella del violino risale a trecento anni fa o più. E se scegli bene il tuo pollo la puoi rifare anche domani, in questo paese.» «Avevo capito che il tuo imbroglio preferito non si potesse più fare.» «Infatti. Comunque quello del violino non è il mio preferito. No, a me piaceva la truffa detta il Gioco del Vescovo. C’era tutto: eccitazione, sotterfugio, effetto sorpresa, e poteva essere fatto ovunque. Forse, mi viene da pensare ogni tanto, con qualche piccola modifica si potrebbe…» rifletté un istante, poi scosse la testa. «No… Il suo momento è finito. Finito diciamo nel 1920, in una città medio-grande tipo Chicago, magari, oppure New York o Philadelphia. Siamo in una gioielleria. Un uomo vestito da prete — non un prete qualsiasi ma un vescovo imporporato — entra e sceglie una collana: uno stupendo gingillo di perle e diamanti che paga con una dozzina di fragranti banconote da cento dollari. «Sulla prima banconota c’è una macchietta di inchiostro verde e il proprietario della gioielleria si scusa ma insiste con fermezza per mandare a controllare tutte le banconote nella banca all’angolo. Poco dopo il suo dipendente torna dicendo che le banconote sono tutte buone, secondo la banca. Il gioielliere offre di nuovo le sue scuse e il vescovo risponde con cortesia; capisce bene il problema, oggigiorno ci sono tante persone senza legge e senza Dio, tanta immoralità e dissolutezza nel mondo… per non parlare delle donne svergognate, e adesso che anche la malavita esce dalle fogne per finire sugli schermi dei cinematografi che altro ci toccherà sopportare? La collana viene riposta nell’astuccio, e il gioielliere si sforza di non chiedersi perché mai un vescovo voglia acquistare una collana di diamanti da milleduecento dollari, né tantomeno perché voglia pagarla in contanti. «Il vescovo lo saluta calorosamente ed esce, ma appena fuori della porta una mano gli si inchioda pesante sulla spalla. "Allora, Soapy, vecchia canaglia, ci riproviamo, eh?" e il poliziotto di ronda, un omone grande e grosso con un’onesta faccia irlandese, costringe il vescovo a rientrare nel negozio. «"Chiedo scusa" dice, "quest’uomo ha forse comperato qualcosa da voi?" "Certo che no" ribatte il vescovo. "Ditegli che non ho comperato niente." "Invece sì" dice il gioielliere. "Gli ho venduto una collana di perle e diamanti… l’ha pagata in contanti." "Avete ancora il denaro?" domanda il poliziotto. «Il padrone del negozio prende i milleduecento dollari dalla cassa e li dà al poliziotto che li guarda controluce scuotendo meravigliato la testa. "Oh Soapy, Soapy" dice, "sono le più belle che tu abbia mai fatto! Sei veramente un artista!" «Il vescovo sorride soddisfatto. "Non puoi dimostrare niente. E poi alla banca hanno detto che erano buone. Non sono false." "Certo che non se ne sono accorti" dice il poliziotto di ronda, "probabilmente non sanno che Soapy Sylvester è in città e non sono stati informati sulla qualità delle banconote false da cento dollari che ha spacciato a Denver e St Louis." E ciò detto infila una mano nella tasca del vescovo e prende la collana. "Milleduecento dollari di perle e diamanti in cambio di cinquanta centesimi di carta e inchiostro" dice il poliziotto che è evidentemente un filosofo. "E spacciarti per un uomo di Chiesa, poi! Vergogna." E così dicendo ammanetta il vescovo, che ovviamente vescovo non è, e lo porta via con sé, ma non prima d’aver dato al gioielliere una ricevuta per la collana e i milleduecento dollari falsi. Sono prove a carico, dopotutto.» «Erano davvero falsi?» chiese Shadow. «No, naturalmente! Si trattava di banconote nuove appena uscite dalla banca, con un’impronta più scura e una macchietta di inchiostro verde su un paio tanto per renderle più interessanti.» Shadow sorseggiò il suo caffè. Era più cattivo di quello che facevano in prigione. «Quindi il poliziotto non è un poliziotto. E la collana?» «Prova a carico» disse Wednesday. Svitò il tappo della saliera e versò un mucchietto di sale sul tavolo. «Comunque il gioielliere prende la ricevuta, garanzia del fatto che appena la causa sarà discussa in tribunale gli verrà restituita. Riceve anche le congratulazioni per essersi comportato da cittadino modello e rimane a guardare — già pensando tutto soddisfatto alla storia che racconterà l’indomani sera alla riunione dell’Oddfellows — il poliziotto che trascina il finto vescovo con sé, milleduecento dollari in una tasca e la collana in un’altra, verso un comando di polizia che di loro non vedrà nemmeno l’ombra.» La cameriera era tornata a sparecchiare. «Dimmi, cara» la apostrofò Wednesday, «sei sposata?» Lei scosse la testa. «È incredibile che si siano lasciati sfuggire una giovane di così grande bellezza.» Wednesday muoveva in tondo un polpastrello nel mucchietto di sale tracciando segni tozzi che somigliavano a rune. La cameriera, in piedi accanto a lui, aveva un atteggiamento passivo; adesso più che una cerbiatta sembrava un coniglietta paralizzato dalle luci di un Tir, raggelato dalla paura. Wednesday abbassò la voce al punto che Shadow, a pochi centimetri da lui, riuscì a sentirlo a stento. «A che ora finisci?» «Alle nove» disse lei, e deglutì. «Nove e mezzo al massimo.» «E qual è il motel migliore della zona?» «C’è un Motel 6» rispose lei. «Non è niente di che.» Wednesday le sfiorò il dorso della mano con la punta delle dita lasciandovi qualche granello di sale. Lei non cercò nemmeno di ripulirsi. «Per noi» disse lui, la sua voce un rombo così basso da risultare quasi impercettibile, «sarà il palazzo del piacere.» La cameriera lo guardò. Si morse le labbra, e dopo un attimo di esitazione annuì e scappò in cucina. «Ma dai, Wednesday» disse Shadow. «Non è neanche maggiorenne, è illegale.» «La legalità non mi ha mai interessato molto. E ho bisogno di lei, non come fine in sé ma per svegliarmi un po’. Anche il re David sapeva qual è il modo più semplice per far scorrere di nuovo il sangue in un vecchio: datemi una vergine e lasciatemi in pace fino a domani.» Shadow si ritrovò a chiedersi se la ragazza del turno di notte all’albergo di Eagle Point fosse stata vergine. «Ma non ti preoccupi di prendere delle malattie? E se la mettessi incinta? Se avesse un fratello?» «No» rispose Wednesday. «Delle malattie non mi preoccupo perché non le prendo. Sfortunatamente quelli come me — quasi sempre — sparano a salve, perciò non succede quasi mai che si producano incroci. Ai vecchi tempi succedeva. Adesso è possibile ma talmente improbabile da essere inimmaginabile. Quindi nessuna preoccupazione sotto questo aspetto. E poi molte ragazze hanno fratelli, e padri. È un problema che non mi riguarda. Novantanove volte su cento io sono già da un’altra parte.» «Allora passiamo la notte qui?» Wednesday si accarezzò il mento. «Io sarò al Motel 6» disse. Poi infilò una mano nella tasca della giacca e prese una chiave color bronzo con un’etichetta su cui era scritto un indirizzo: 502 Northridge Road, interno 3. «Tu, invece, hai un appartamento che ti aspetta in una città lontana.» Wednesday chiuse gli occhi per un momento. Poi li riaprì, occhi grigi e scintillanti e leggermente male assortiti, e disse: «Il Greyhound arriverà tra venti minuti. Si ferma davanti al benzinaio. Questo è il biglietto.» Tirò fuori un biglietto piegato e lo allungò sul tavolo. Shadow lo prese e lo guardò. «Chi è Mike Ainsel?» chiese. Era il nome scritto sul biglietto. «Sei tu. Buon Natale.» «E Lakeside?» «Sarà la tua felice dimora per i prossimi mesi. E adesso, siccome le buone notizie arrivano tre a tre…» Estrasse dalla tasca anche un pacchettino avvolto in una carta natalizia e lo spinse verso Shadow. Si fermò accanto alla bottiglia di ketchup con l’incrostazione di salsa secca e nera intorno al tappo. Shadow non si mosse. «Dunque?» Shadow lo prese con riluttanza e quando lo scartò vide che conteneva un portafogli di pelle chiara, lucida per l’uso. Era ovviamente di qualcun altro. Dentro c’era una patente con la sua fotografia intestata a Michael Ainsel, un indirizzo del Milwaukee, una MasterCard, sempre di M. Ainsel, e venti banconote nuove da cinquanta dollari. Shadow lo chiuse e lo infilò nella tasca interna. «Grazie» disse. «Consideralo una gratifica natalizia. Allora, lascia che ti accompagni alla fermata del Greyhound. Resterò a fare ciao con la manina mentre il vecchio levriero ti porta a settentrione.» Uscirono dal ristorante. Era incredibile quanto fosse scesa la temperatura in quelle poche ore. Sembrava troppo freddo per nevicare. Un gelo aggressivo. Era proprio un inverno duro. «Ehi, Wednesday. I due trucchi di cui mi hai parlato — quello del violino e l’altro, del vescovo con il poliziotto…». Esitò, cercando di dare una forma ai pensieri, di metterli a fuoco. «Cosa vuoi sapere?» Ecco, l’aveva capito. «Sono tutti e due trucchi per i quali servono due uomini. Avevi un socio?» Il respiro gli usciva dalla bocca a nuvolette. Si ripromise che appena arrivato a Lakeside avrebbe speso una parte della gratifica natalizia per comperare la giacca più calda e pesante esistente sul mercato. «Sì» rispose Wednesday. «Avevo un socio. Un socio più giovane. Quei tempi sono passati, ahimè. Ecco la pompa di benzina ed ecco lì, se l’occhio non mi inganna, l’autobus.» Il Greyhound aveva già messo la freccia per svoltare. «L’indirizzo è attaccato alla chiave» disse Wednesday. «Se qualcuno dovesse farti delle domande io sono tuo zio e rispondo all’improbabile nome di Emerson Borson. Ti troverai bene a Lakeside, nipote Ainsel. Verrò da te entro una settimana e viaggeremo insieme. Andremo dalle persone che devo incontrare. Nel frattempo comportati bene e sta’ alla larga dai guai.» «E la mia macchina…?» «Me ne occuperò io. Buon soggiorno a Lakeside.» Wednesday tese la mano e Shadow gliela strinse. Era fredda come la mano di un cadavere. «Sei gelato» gli disse Shadow. «Prima vado in una camera tranquilla del Motel 6 a fare la bestia a due teste con l’eccellente ragazzina del ristorante e meglio sarà.» Allungò l’altra mano e diede una stretta sulla spalla di Shadow. Per un istante Shadow provò un senso di vertigine e vide doppio: davanti a lui c’era l’uomo con i capelli e la barba grigi, che gli stringeva una spalla, ma c’era anche qualcos’altro: un’infinità di inverni, centinaia e centinaia di inverni, e un uomo grigio con un cappello dalla tesa larga che peregrinava a piedi da un insediamento all’altro, appoggiandosi al bastone, che fissava da dietro le finestre stanze illuminate dal fuoco, la gioia e la vita splendente che non avrebbe mai potuto avere, che non avrebbe mai potuto condividere… «Vai» disse Wednesday con una voce che risuonò come un ringhio rassicurante. «Tutto va bene, tutto va bene e tutto andrà bene.» Shadow mostrò il biglietto all’autista. «Brutta giornata per viaggiare» disse la donna. E poi, con un sorriso quasi soddisfatto aggiunse: «Buon Natale». Il Greyhound era semivuoto. «Quando arriviamo a Lakeside?» «Tra due ore. Forse un pochino di più. Dicono che stia arrivando un’ondata di gelo.» Premette un pulsante e le porte si chiusero con un sibilo e un tonfo. Shadow scelse un posto a metà corridoio, abbassò più che poté lo schienale del sedile e cominciò a riflettere. Il movimento dell’autobus e il calore lo cullavano, e prima di rendersi conto di avere sonno si assopì. Nella terra, e sottoterra. I segni sui muri erano di rossa argilla ancora umida: impronte di mani, di dita e, qui e là, rozze raffigurazioni di animali, uomini e uccelli. Il fuoco era sempre acceso e l’uomo-bufalo sedeva ancora dall’altra parte. Fissava Shadow con occhi enormi, due pozzanghere di fango nero. Le sue labbra, contornate da un’arruffata peluria marrone, non si mossero mentre diceva: «Ebbene, Shadow? Ci credi, ora?». «Non so» rispose. Nemmeno lui, notò, aveva mosso la bocca. Le parole che passavano tra loro non venivano pronunciate, non nel senso in cui Shadow intendeva la comunicazione verbale. «Ma tu esisti?» «Credi» rispose l’uomo-bufalo. «Ma tu…» Dopo un attimo di esitazione Shadow chiese: «Sei un dio anche tu?». L’uomo-bufalo infilò una mano tra le fiamme e afferrò un tizzone ardente stringendolo proprio nel mezzo. Fiamme azzurre e gialle gli accarezzavano la mano rossa senza bruciarla. «Questa non è una terra adatta agli dèi» disse l’uomo-bufalo. Ma non era più lui che parlava. Shadow lo sapeva, nel sogno: era il fuoco a parlare, era il crepitio della fiamma che gli parlava in quel luogo buio sotto la terra. «Questo paese è stato fatto emergere dalle profondità dell’oceano da un palombaro» disse il fuoco. «E stato tessuto da un ragno con la sua bava. È stato cagato da un corvo. È il corpo di un padre caduto le cui ossa sono diventate montagne, i cui occhi sono laghi.» «Questa è una terra di sogni e di fuoco» disse la fiamma. L’uomo-bufalo ripose il tizzone tra le fiamme. «Perché mi dici queste cose?» chiese Shadow. «Io non sono importante. Non sono nessuno. Ero un allenatore discreto, un ladro a tempo perso davvero fetente e forse un marito non così bravo come credevo…» Non riuscì a concludere. «Come faccio ad aiutare Laura?» chiese all’uomo-bufalo. «Vuole tornare viva. Le ho detto che l’avrei aiutata. Glielo devo.» L’uomo-bufalo non parlò. Indicò il soffitto della caverna. Shadow lo seguì con gli occhi. C’era una sottile lama di luce fredda che entrava da un’apertura nella sommità lontana. «Lassù?» chiese rimpiangendo che le sue domande non trovassero mai risposta. «Dovrei andare lassù?» Allora il sogno lo sollevò, poiché l’idea era diventata azione, e Shadow si ritrovò schiacciato contro la roccia e la terra. Era una specie di talpa che cercava di aprirsi un varco, un tasso che scavava, una marmotta che sollevava la terra con le zampe, un orso, ma era terra troppo dura, troppo compatta; respirava con affanno e ben presto non riuscì più ad avanzare, né a scavare o arrampicarsi, e capì che sarebbe morto, lì nelle profondità sotto il mondo. Da solo non avrebbe potuto farcela. Ogni sforzo era vano. Sapeva che, anche se il suo corpo stava viaggiando in un autobus riscaldato attraverso le foreste invernali, se avesse smesso di respirare lì, sotto il mondo, avrebbe smesso di respirare anche sull’autobus, stava già ansimando con brevi respiri mozzi. Lottò cercando di spingere, sempre più debole, consumando, a ogni movimento, aria preziosa. Era in trappola: non poteva avanzare e non poteva tornare da dove era venuto. «Adesso scendi a patti» gli disse una voce nella mente. «Che cosa ho da offrire?» domandò. «Non ho niente.» Sentiva in bocca il sapore dell’argilla, denso e polveroso sotto i denti. Poi disse: «Eccetto me stesso. Ho me stesso, non è forse vero?». Fu come se ogni cosa trattenesse il respiro. «Offro me stesso» disse. La reazione fu immediata. Le rocce e la terra che lo avevano avvolto cedettero schiacciandolo sotto il loro peso fino a svuotargli i polmoni dell’ultimo soffio. La pressione divenne dolore, un peso che lo comprimeva da ogni parte. Raggiunse l’apogeo della sofferenza e lì rimase, sospeso, sapendo che di più non avrebbe potuto sopportare. In quel momento la contrazione si allentò e Shadow ricominciò a respirare. La luce sopra di lui era diventata più forte. Qualcosa lo spingeva verso la superficie. Quando lo spasmo successivo arrivò, Shadow cercò di assecondarlo. Questa volta si sentì spinto in alto. Il dolore era incredibile, durante quell’ultima terribile contrazione, e si sentì schiacciato, stritolato e spinto attraverso una rigida fessura rocciosa che gli faceva scricchiolare le ossa e gli spappolava i muscoli. Quando la bocca e la testa martoriata emersero dalla soglia cominciò a gridare di paura e dolore. Mentre gridava si chiese se non stesse per caso gridando anche nel mondo della veglia, se non stesse gridando anche nel sonno su quell’autobus immerso nell’oscurità. E quando l’ultima contrazione finì, Shadow si ritrovò per terra, le mani che stringevano la rossa argilla. Si mise seduto, ripulì la faccia e guardò in cielo. Era il tramonto, un lungo tramonto purpureo, già le stelle spuntavano a una a una, stelle più luminose di qualsiasi stella mai vista o immaginata. «Presto cadranno» disse alle sue spalle la voce crepitante della fiamma. «Presto cadranno e il popolo delle stelle incontrerà il popolo della terra. Tra loro vi saranno eroi, uomini che sconfiggeranno mostri e porteranno la luce della conoscenza, ma nessuno diventerà un dio. Questo è un posto sbagliato per gli dèi.» Una ventata d’aria, fredda in maniera scioccante, lo investì in pieno. Era come una doccia ghiacciata. Sentì la voce dell’autista che annunciava l’arrivo a Pinewood: «Chi ha bisogno di fumare una sigaretta o di sgranchirsi le gambe può scendere. Sosta di dieci minuti, poi si riparte». Shadow barcollò giù dall’autobus. Erano davanti a un’altra pompa di benzina, un piccolo spiazzo praticamente identico a quello da cui era partito. L’autista stava aiutando due adolescenti a sistemare i borsoni nel bagagliaio. «Ehi» chiamò rivolgendosi a Shadow. «Lei scende a Lakeside, giusto?» Semiaddormentato, Shadow rispose di sì. «Accidenti, quella sì che è una bella città» disse la donna. «Qualche volta penso che se mi dovessi trasferire armi e bagagli da qualche parte, andrei proprio a Lakeside. La città più carina che abbia mai visto in vita mia. Ci abita da molto?» «È la prima volta che ci vado.» «Mangi una pasty per me da Mabel’s, mi raccomando.» Shadow decise di non chiedere spiegazioni. «Senta» le domandò invece, «ho forse parlato nel sonno?» «Io non ho sentito niente.» La donna guardò l’ora. «A bordo. Quando arriviamo a Lakeside la chiamo.» Le due ragazze salite a Pinewood — Shadow dubitò che avessero più di quattordici anni — si erano sedute nei due sedili davanti al suo. Erano amiche, dedusse Shadow origliando senza volere la conversazione, non sorelle. Una delle due non sapeva niente del sesso però sapeva un sacco di cose sugli animali perché lavorava o passava molto tempo in una specie di rifugio per animali abbandonati, mentre l’altra non era interessata agli animali ma, armata di centinaia di brandelli di informazione carpiti su Internet o dai programmi televisivi pomeridiani, era convinta di saperla lunga sul comportamento sessuale dei bipedi. Shadow ascoltò con orrore e divertimento la ragazza che si credeva esperta delle faccende del mondo raccontare nei dettagli il meccanismo dell’uso di Alka-Seltzer per migliorare il sesso orale. Shadow si sforzò di non ascoltarle, respingendo ogni suono eccetto il rumore del Greyhound sull’asfalto, e adesso gli giungevano soltanto saltuari frammenti di conversazione. Poi i freni sibilarono, l’autista gridò: «Lakeside!», e le porte si spalancarono. Shadow seguì le ragazze nel parcheggio illuminato di un negozio di video e di un centro abbronzatura ancora aperti, che svolgevano anche la funzione di stazione del Greyhound. L’aria era terribilmente fredda, un freddo piacevole che lo svegliò. Rimase a fissare le luci della città da sud fino a ovest e, a oriente, la grande distesa chiara del lago ghiacciato. Le due ragazze battevano i piedi e si soffiavano vistosamente sulle mani. La più giovane gettò un’occhiata di soppiatto a Shadow e rendendosi conto che lui l’aveva vista gli sorrise imbarazzata. «Buon Natale» disse Shadow. «Già» rispose l’altra, che forse aveva un anno di più, «Buon Natale anche a lei.» Aveva i capelli color carota e il naso, camuso, coperto di lentiggini. «Bella città» disse lui. «Noi ci stiamo bene» rispose la più giovane. Era quella a cui piacevano gli animali. Sorrise timida mettendo in mostra gli elastici azzurri dell’apparecchio per i denti. «Assomiglia a qualcuno» gli domandò seria: «lei non è fratello, o figlio di qualcuno, o qualcosa del genere?» «Sei fuori, Alison» le disse l’amica. «Tutti hanno un padre o un fratello o qualche altro parente.» «Non era quello che volevo dire» ribatté Alison. Per un luminoso istante si trovarono dentro il cono di luce di due fanali. Era una station wagon con una madre al volante che dopo aver preso a bordo le ragazze e i bagagli scomparve rapida lasciando Shadow solo nel parcheggio. «Giovanotto? Posso esserti utile?» Il vecchietto stava chiudendo il negozio di video. Infilò in tasca le chiavi. «A Natale il negozio è chiuso» disse in tono allegro. «Però sono venuto a vedere l’arrivo dell’autobus per accertarmi che fosse tutto a posto. Non sopporterei l’idea che qualche povera anima si trovasse a piedi il giorno di Natale.» Gli era venuto così vicino che Shadow riusciva a vederlo in faccia: vecchio ma soddisfatto, aveva l’aria di un uomo che ha bevuto fino in fondo il calice dell’esistenza e nel complesso lo ha trovato colmo di whiskey, di quello buono. «Be’, potrebbe darmi il numero dei taxi» disse Shadow. «Potrei» rispose il vecchio con aria dubbiosa, «ma temo che a quest’ora Tom sia già a letto; l’ho visto poco fa, giù al Buck Stops Here, ed era molto allegro. Allegrissimo, in effetti. Dove sei diretto, giovanotto?» Shadow gli mostrò la targhetta con l’indirizzo attaccata al portachiavi. «Bene, è una camminata di dieci o forse venti minuti dall’altra parte del ponte. Con questo freddo non è una bella passeggiata, e se poi non si conosce la strada sembra ancora più lunga, l’hai mai notato? La prima volta il percorso dura un’eternità e poi lo si fa in un attimo.» «Sì» rispose Shadow. «Non ci avevo mai riflettuto ma credo sia vero.» Il vecchio annuì e la faccia si aprì in un sorriso. «Che diavolo, è Natale. Ti accompagno io con la mia Tessie.» Shadow lo seguì fino alla strada dov’era parcheggiata un’enorme automobile scoperta, il tipo di vettura che ostentavano i gangster negli anni Venti, completa di predellino e tutto. La carrozzeria era verniciata di un colore scuro che alle luci a vapori di sodio sembrava a volte rosso e a volte verde. «Questa è Tessie. Non è una meraviglia?» Il vecchio accarezzò con aria di possesso una curva del cofano. «Che marca è?» «È una Wendt Phoenix. La Wendt ha chiuso nel ’31, il marchio è stato comprato dalla Chrysler però poi non le hanno prodotte più. Harvey Wendt, il fondatore, era di queste parti. Poi è andato ad ammazzarsi in California nel… vediamo, 1941 o ’42. Una terribile tragedia.» L’auto odorava di cuoio e fumo stantio, come se nel corso degli anni la gente avesse fumato una quantità tale di sigarette da far diventare la puzza di tabacco bruciato tutt’uno con il tessuto dei rivestimenti. Il vecchio girò la chiave dell’accensione e Tessie partì immediatamente. «Domani se ne va in garage. La copro per proteggerla dalla polvere e la lascio al riparo fino a primavera. In effetti oggi non dovrei guidarla, con la neve.» «Non tiene la strada, con la neve?» «La tiene benissimo, il problema è il sale che spargono dappertutto. Fa arrugginire queste bellezze in quattro e quattr’otto. Vuoi che facciamo la strada più veloce o preferisci il grand tour della città al chiaro di luna?» «Non vorrei approfittare…» «Nessun disturbo. Quando si arriva alla mia età dormire diventa difficile. Mi considero già fortunato se riesco a chiudere occhio per cinque ore a notte, ormai, altrimenti sto sveglio con i pensieri che mi frullano nella testa. Che maleducato! Mi chiamo Hinzelmann. Il mio nome è Richie, ma la gente qui mi chiama Hinzelmann e basta. Ti stringerei la mano, però ho bisogno di tutt’e due per guidare Tessie. Se ne accorge quando non le presto tutta l’attenzione.» «Mike Ainsel» disse Shadow. «Piacere di conoscerla, Hinzelmann.» «Allora facciamo il giro del lago. Il grand tour.» La Main Street che stavano percorrendo era una strada graziosa anche di sera, con un’aria antiquata nel senso migliore del termine, come se per cent’anni gli abitanti se ne fossero presi gran cura e non avessero nessuna fretta di perdere ciò che amavano. Hinzelmann indicò a Shadow i due ristoranti della città (uno tedesco che descrisse come: «in parte greco, in parte norvegese, e ogni piatto viene servito con un panino dolce»); poi gli indicò la panetteria e la libreria («Secondo me una città non è una città senza una libreria. Magari pretende di chiamarsi città lo stesso, ma se non ha una libreria sa bene di non poter ingannare nessuno»). Rallentò quando passarono davanti alla biblioteca, affinché Shadow potesse ammirarla. Davanti al portone tremolava la luce di antichi lampioni a gas… Hinzelmann li fece notare a Shadow con un certo orgoglio. «Costruita negli anni Settanta del 1800 da John Henning, locale magnate del legname. Avrebbe voluto che si chiamasse Henning Memorial Library, ma alla sua morte la gente cominciò a chiamarla Lakeside Library e credo che così continuerà a chiamarsi fino alla fine dei tempi. Non è fantastica?» Se l’avesse costruita con le sue mani il vecchio non avrebbe potuto sembrare più fiero. A Shadow faceva pensare a un castello. Quando glielo disse l’altro rispose: «Esatto. Con le torri e tutto. Henning voleva che sembrasse proprio un castello. Dentro hanno conservato le scaffalature originali di abete. Miriam Shultz vorrebbe ristrutturare e rimodernare, ma siccome è un monumento cittadino non si può toccare niente». Aggirarono l’argine meridionale del lago. La cittadina si sviluppava intorno al lago, che era una decina di metri più in basso del livello stradale. A Shadow sembrò di distinguere le lastre opache di ghiaccio e qualche macchia scintillante d’acqua che rifletteva le luci della città. «Sta gelando completamente» disse. «È gelato da un mese, ormai» spiegò Hinzelmann. «Dove vede opaco sono cumuli di neve ammucchiata dal vento e il lucido è ghiaccio. È gelato in una sola notte subito dopo il Ringraziamento, un bello strato di ghiaccio liscio come vetro. Hai mai pescato nel ghiaccio?» «Non l’ho mai fatto.» «È la cosa più bella che esista. Non per il pesce che prendi ma per la pace mentale che ti riporti a casa.» «Lo terrò presente.» Shadow guardava il lago dal finestrino di Tessie. «Ci si può davvero camminare sopra?» «Si può. Ci si può andare perfino in macchina, ma forse è un po’ prematuro. Qui è freddo già da sei settimane ma bisogna riconoscere che nel Wisconsin settentrionale il ghiaccio si forma più in fretta ed è più duro che da qualsiasi altra parte. Una volta ero a caccia, caccia al cervo, quand’è stato… trenta o quarant’anni fa, e sparo a questo maschio, lo manco e lo vedo correre nel bosco -stiamo parlando della parte più settentrionale del lago, vicino a dove vivrai tu, Mike. Dunque, era il più bel cervo che avessi mai visto, con le corna molto ramificate, alto come un cavallino, parola. Dunque, io ero molto più giovane e avventato di quanto sia ora e benché avesse cominciato a nevicare già prima di Halloween, quell’anno, era il Ringraziamento e per terra c’era neve fresca, perciò potevo vedere le impronte. Il grosso cervo mi dava l’impressione di essere diretto al lago in preda al panico. «Be’, solo un matto cercherebbe di correre dietro a un cervo, e invece eccomi lì, matto come un cavallo, che gli corro dietro e te lo vedo fermo in mezzo al lago, in dieci o quindici centimetri d’acqua, che mi fissa. In quel preciso momento una nuvola nasconde il sole e arriva la gelata, la temperatura dev’essere scesa di dieci gradi di colpo, è la pura verità. E quando il vecchio maschio cerca di scappare non riesce a muoversi. È intrappolato nel ghiaccio. «Io mi avvicino piano piano. Si capisce che vorrebbe scappare ma è bloccato e quindi non ce la farà mai. D’altra parte niente al mondo mi farebbe sparare a una creatura indifesa: che razza di uomo sarei se facessi una cosa simile, eh? Così alzo la canna del fucile e sparo un colpo in aria. «Be’, il rumore dello sparo e lo shock sono sufficienti a far scappare il cervo fuori dalla sua pelle ed è proprio quello che fa, lasciando la pelle e le corna nel ghiaccio mentre corre a nascondersi nel bosco, rosa come un neonato e tutto un tremito. «Sicome mi dispiaceva per lui sono andato a chiedere alle signore del Circolo di Lavori Femminili di confezionargli una cosetta calda per l’inverno e loro gli hanno fatto una specie di tuta di lana in modo che non congelasse. Ovviamente si erano prese gioco di noi perché preparandogli una tuta di un bell’arancione acceso nessun cacciatore avrebbe potuto sparargli per sbaglio. Dalle nostre parti i cacciatori si vestono di arancione» aggiunse per chiarire. «E se pensi che ci sia anche una piccola parte di menzogna in quello che ti ho detto posso dimostrarti che è tutto vero. Ho ancora le corna appese al muro del mio studiolo.» Shadow rise e il vecchio si concesse il sorriso soddisfatto dell’artigiano fiero del proprio capolavoro. Si fermarono davanti a un edificio di mattoni con un porticato di legno a cui erano appese le decorazioni natalizie che si accendevano a intermittenza. «Il cinquecentodue è questo» disse Hinzelmann. «L’appartamento numero tre è all’ultimo piano, dall’altra parte, affacciato sul lago. Ben arrivato, Mike.» «Grazie, signor Hinzelmann. Posso pagarle la benzina?» «Chiamami solo Hinzelmann. No, non mi devi niente. Buon Natale da parte mia e di Tessie.» «È sicuro di non poter accettare niente?» Il vecchio si grattò il mento. «Sta’ a sentire, la settimana prossima verrò a venderti un biglietto della nostra lotteria di beneficenza. Per il momento, giovanotto, pensa solo a metterti sotto le coperte.» Shadow sorrise. «Buon Natale, Hinzelmann.» Il vecchio gli strinse la mano; aveva le nocche arrossate, una mano dura e callosa come il ramo di una quercia. «Sta’ bene attento a dove metti i piedi perché si scivola, sul sentiero. Da qui vedo la tua porta, la vedi? Aspetto in macchina fino a quando non sei dentro. Fammi un cenno quando sei arrivato e io me ne vado.» Rimase con il motore acceso fino a quando Shadow non fu al sicuro sul portico di legno e non ebbe aperto la porta dell’appartamento. La porta si spalancò. Shadow si voltò a fare un cenno con i pollici alzati e il vecchio sulla Wendt — Tessie, pensò, e il pensiero che un’automobile avesse un nome di donna gli strappò un altro sorriso — Hinzelmann e Tessie, fecero inversione e tornarono in direzione del ponte. Shadow chiuse la porta. La stanza era gelida. Odorava di gente che se n’era andata a vivere altrove, e di tutto ciò che avevano mangiato e sognato. Trovò il termostato e lo alzò a venti gradi; entrò nella minuscola cucina, aprì i cassetti e il frigorifero color avocado, vuoto. Nessuna sorpresa. Perlomeno l’interno del frigorifero aveva un odore di pulito, non puzzava di muffa. C’era una piccola camera da letto, accanto alla cucina, con un nudo materasso e un bagno ancora più angusto occupato in gran parte dalla doccia. Nella tazza del water galleggiava un vecchio mozzicone di sigaretta che aveva tinto l’acqua di marrone. Shadow tirò lo sciacquone. Nell’armadio trovò lenzuola e coperte e preparò il letto. Poi si sfilò gli stivali, la giacca e l’orologio e si sdraiò tutto vestito, chiedendosi quanto tempo avrebbe impiegato a riscaldarsi. Le luci erano spente e regnava un silenzio pressoché totale, fatta eccezione per il ronzio del frigorifero e, in lontananza, una radio accesa in un altro appartamento. Rimase sdraiato al buio domandandosi se sul Greyhound non avesse per caso già soddisfatto tutto il suo bisogno di sonno, se la fame e il freddo e il letto nuovo e la follia delle ultime settimane lo avrebbero tenuto sveglio tutta la notte. Nell’immobilità generale sentì risuonare un colpo secco, come uno sparo. Un ramo, pensò, o il ghiaccio. Fuori il mondo stava gelando. Chissà quanto avrebbe dovuto aspettare l’arrivo di Wednesday. Un giorno? Una settimana? Sapeva di doversi concentrare su qualcosa, perché l’attesa poteva essere lunga. Decise che avrebbe ripreso a fare ginnastica e a esercitarsi con giochetti e palmaggi fino a ottenere una grande scioltezza ( Però Lakeside era una bella cittadina. Lo sentiva. Ripensò al sogno, se di un sogno s’era trattato, della prima notte a Cairo. Ripensò a Zarja… come diavolo si chiamava? La sorella di mezzanotte. E poi pensò a Laura… Pensare a lei fu come spalancare una finestra della mente. Gli sembrava di vederla. In qualche modo riusciva a vederla. Era a Eagle Point, nel cortile della grande casa di sua madre. In piedi al freddo, un freddo che non sentiva più o che sentiva fin troppo, in piedi davanti alla casa che sua madre aveva comperato nel 1989 con i soldi dell’assicurazione sulla vita del marito, Harvey McCabe, morto d’infarto seduto sulla tazza del cesso, e guardava dentro la casa, le mani fredde premute contro la finestra non appannata dal suo fiato, guardava la madre, la sorella con i figli e il marito arrivati dal Texas per Natale. Fuori al buio, ecco dov’era Laura, incapace di non guardare il quadretto familiare. Shadow sentì salire le lacrime agli occhi e si girò su un fianco. Gli sembrava di essere un guardone e cercò di respingere quei pensieri, di riportarli a sé: vedeva la grande distesa ghiacciata del lago mentre il vento soffiava dall’Artico facendo diventare le dita di chiunque cento volte più fredde di quelle di un cadavere. Adesso Shadow respirava a fatica. Sentiva il vento ululare intorno alla casa e per un momento gli sembrò di riconoscere alcune parole. Se proprio doveva essere da qualche parte, pensò, tanto valeva essere lì, poi si addormentò. Nel frattempo. Una conversazione «Signorina Crow?» «Sì?» «La signorina Samantha Black Crow?» «Sì.» «Le dispiace se le facciamo qualche domanda?» «Siete poliziotti? Chi siete?» «Io sono Town. Il mio collega si chiama Road. Stiamo investigando sulla scomparsa di due colleghi.» «E come si chiamano?» «Prego?» «Ditemi come si chiamano. Voglio sapere i loro nomi. Il nome dei colleghi. Ditemi come si chiamano e forse potrò aiutarvi.» «… Okay. Si chiamavano Stone e Wood. Allora, possiamo farle qualche domanda sì o no?» «Ma cosa fate, prendete i nomi dal primo oggetto che vi capita a tiro? "Oh, ecco il signor Marciapiede e il signor Tappeto, dite ciao al signor Aeroplano"?» «Molto spiritosa, signorina. Prima domanda: dobbiamo sapere se ha mai visto quest’uomo. Tenga. Guardi la fotografia.» «Accidenti. Di fronte e di profilo, con una fila di numeri sotto… E grande e grosso. Bello, però. Cos’ha fatto?» «Ha partecipato a una rapina alla banca di una cittadina, guidava la macchina, qualche anno fa. I due soci hanno deciso di tenersi il malloppo e l’hanno piantato in asso. Lui si è arrabbiato. Li ha trovati. Li ha quasi uccisi a mani nude. L’accusa ha patteggiato con le vittime: hanno testimoniato contro di lui. Shadow si è beccato sei anni. Ne ha scontati tre. Se vuole sapere la mia opinione, tipi così dovrebbero chiuderli in cella e buttare via la chiave.» «Non l’avevo mai sentito dire nella vita vera. Non a voce alta.» «Che cosa, signorina Crow?» «"Malloppo". Non è una parola che si usa spesso. Forse nei film. Non nella vita.» «Questo non è un film, signorina Crow.» «Black Crow. Mi chiamo Black Crow. Sam, per gli amici.» «Abbiamo capito, Sam. Allora, a proposito di quest’uomo…» «Voi non siete miei amici. Chiamatemi signorina Black Crow.» «Senti, mocciosetta…» «Tranquillo, Road. Sam — mi scusi, signora — volevo dire… la signorina Black Crow vuole aiutarci. E una cittadina timorata della legge.» «Signorina, noi sappiamo che lei ha aiutato Shadow. E stata vista con lui a bordo di una Chevy Nova bianca. Le ha dato un passaggio. Le ha offerto la cena. Ha detto niente che potrebbe risultare utile alle indagini? Due dei nostri uomini migliori sono stati uccisi.» «Non l’ho mai visto.» «L’ha visto eccome. La prego di non commettere l’errore di giudicarci stupidi. Non lo siamo.» «Mmm. Incontro un sacco di gente. Magari l’ho conosciuto e dimenticato subito dopo.» «Signorina, le conviene cooperare.» «Altrimenti mi presenterete il signor Tenaglia e il signor Pentothal?» «Signorina, lei sta peggiorando la sua posizione.» «Cavoli. Mi dispiace. Abbiamo finito? Perché adesso vorrei salutarvi e chiudere la porta e immagino che una volta saliti sul signor Furgone ve ne andrete.» «Abbiamo preso nota della sua volontà di non cooperare, signorina.» «Ciao ciao.» |
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