"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)8Quella sera a cena Shadow apprese che la settimana prima di Natale è sempre un periodo tranquillo per le imprese di pompe funebri. Erano seduti in un ristorantino a due isolati dalla Ibis Jacquel; Shadow stava facendo una colazione completa — c’erano anche le frittelle di mais — e il signor Ibis sbocconcellava una fetta di torta. Fu il signor Ibis a spiegarglielo. «Chi ha ancora qualche giorno di vita resiste per festeggiare l’ultimo Natale» disse «o addirittura il Capodanno, mentre gli altri, quelli che trovano l’allegria e i festeggiamenti altrui troppo dolorosi ma non sono stati portati veramente all’esasperazione dall’ennesima visione di Ibis Jacquel era una piccola azienda a gestione familiare: una delle ultime imprese di pompe funebri davvero indipendenti della zona, sempre secondo il signor Ibis. «Sembra che oggigiorno si preferisca ricorrere a servizi caratterizzati da un marchio identificabile a livello nazionale» spiegò: il suo tono era professorale e a Shadow fece venire in mente un docente universitario che si allenava alla Muscle Farm e sembrava incapace di parlare in modo normale, riusciva solo a insegnare, esporre, pontificare. Shadow aveva capito subito che da una conversazione con lui il signor Ibis si aspettava di sentir dire il minor numero di parole possibile. «E ciò, io credo, perché il cliente vuole conoscere in anticipo il prodotto che sta per acquistare. Ecco spiegata l’esistenza di grosse catene come McDonald’s, Wal-Mart, F.W. Woolworth (che non finiremo mai di rimpiangere), marchi presenti e visibili in tutti gli stati del paese. Così, ovunque si vada, si può ottenere, con qualche piccola variazione locale, lo stesso identico prodotto. «Nel campo delle pompe funebri, tuttavia, le cose sono diverse. C’è il bisogno di sapere che stai pagando il servizio di una piccola impresa dove le persone lavorano con dedizione. Si desidera un’attenzione particolare per sé e per i propri cari nel momento dì una grave perdita. Si preferisce che il dolore si consumi a livello locale, non su scala nazionale. Ma in ogni settore dell’industria — e la morte è un’industria, mio giovane amico, non farti illusioni — i veri guadagni si ottengono solo lavorando in grande, acquistando la merce in grosse quantità, centralizzando i servizi. Non sarà bello, ma è pur sempre vero. Il problema è che nessuno vuole che i suoi cari viaggino stipati dentro un camion fino a un vecchio deposito trasformato in un’enorme cella frigorifera dove magari ci sono venti, cinquanta o cento cadaveri da smaltire. Nossignore. La gente vuole un ambiente familiare, qualcuno che li tratti con rispetto e che, incontrandoli per strada, li saluti levandosi il cappello.» Il signor Ibis lo portava, il cappello. Un sobrio cappello marrone intonato alla sobria giacca marrone e alla sobria faccia marrone. Appollaiato sul naso, un paio di occhialini con la montatura d’oro. Nell’immagine che si era fatto Shadow, il signor Ibis era un uomo di bassa statura, ma quando poi gli si trovava accanto doveva ricredersi: in realtà era alto più di un metro e ottanta e camminava un po’ curvo, come un airone. Lì seduto di fronte a lui al tavolo di lucida plastica rossa, Shadow si accorse che i loro occhi erano alla stessa altezza. «Perciò, quando subentra una grande società che compera il nome della piccola impresa, paga il direttore perché ne mantenga la gestione, creando un’apparente diversificazione dell’offerta. Ma questa è soltanto la punta della lastra tombale. In verità le imprese sono locali come un Burger King. Ora invece noi, per ragioni nostre, siamo davvero indipendenti. Ci occupiamo personalmente dell’imbalsamazione, ed è la migliore del paese, benché nessuno, eccetto noi, se ne possa rendere conto. Non facciamo le cremazioni, però. Potremmo guadagnare di più, se avessimo un forno crematorio, ma questo andrebbe a scapito del ramo in cui eccelliamo. Come dice il mio socio: Se il Signore ti concede un talento o un’abilità, hai l’obbligo di sfruttarla nel migliore dei modi. Non sei d’accordo?» «Mi sembra sensato» disse Shadow. «Il Signore ha concesso al mio socio il dominio sui morti, esattamente come a me ha dato l’abilità con le parole. Bella cosa, le parole. Scrivo libri di storie, sai? Non grande letteratura. Per divertirmi. Resoconti di esistenze.» Fece una pausa e quando Shadow avvertì che a quel punto avrebbe dovuto chiedergli di leggere qualcosa, l’opportunità era svanita. «Comunque ciò che noi offriamo è la continuità; la Ibis Jacquel è qui da quasi duecento anni. Non siamo sempre stati un’impresa di pompe funebri, però. Prima eravamo necrofori.» «E prima ancora?» «Ebbene» rispose il signor Ibis con un sorriso appena compiaciuto, «bisogna risalire a molto tempo addietro. Certo fu solo dopo la guerra tra Nord e Sud che trovammo la nostra nicchia in questo stato, e diventammo le pompe funebri per tutta la gente di colore dei dintorni. Prima di allora nessuno aveva pensato a noi come a persone di colore: stranieri, magari, esotici e con la pelle scura, ma non neri. Appena finita la guerra, quasi subito dopo, non c’era nessuno che non ci percepisse come neri. Il mio socio ha sempre avuto la pelle più scura della mia. La transizione è stata automatica. Uno è soprattutto ciò che gli altri pensano che sia. È strano quando parlano degli afroamericani, mi fa pensare ai popoli del Punt, dell’Ofir, della Nubia. Noi non ci siamo mai considerati africani, noi eravamo il popolo del Nilo.» «Allora siete egiziani» disse Shadow. Il signor Ibis sporse il labbro inferiore, fece oscillare la testa da un lato all’altro come mossa da una molla, soppesando i pro e i contro, esaminando le cose da ogni punto di vista. «Ebbene, sì e no. "Egiziani" mi fa pensare alla popolazione attuale dell’Egitto. Agli uomini che costruiscono le città sulle nostre tombe e i nostri palazzi. Mi somigliano, forse?» Shadow scrollò le spalle. Aveva visto vecchi neri che gli assomigliavano. Aveva visto anche vecchi bianchi e abbronzati che assomigliavano al signor Ibis. «Com’è il suo dolce?» chiese la cameriera riempiendo di nuovo le tazze di caffè. «Il migliore che abbia mai mangiato» rispose il signor Ibis. «Porta i miei saluti alla mamma.» «Lo farò» rispose la ragazza correndo via. «È meglio non informarsi sulla salute della gente, se si dirige un’impresa di pompe funebri. Possono credere che tu stia cercando lavoro» spiegò il signor Ibis in tono sommesso. «Vogliamo andare a vedere se la tua stanza è pronta?» Nell’aria della notte il loro respiro era una nuvoletta visibile. Le luci delle decorazioni natalizie brillavano intermittenti nelle vetrine dei negozi. «È gentile da parte sua ospitarmi» disse Shadow. «Gliene sono grato.» «Dobbiamo alcuni favori al tuo datore di lavoro. E, il Signore lo sa, la stanza è libera. È una vecchia e grande casa. Eravamo più numerosi, un tempo. Adesso siamo soltanto noi tre. Non ci darai nessun disturbo.» «Ha idea di quanto tempo dovrò passare con voi?» Il signor Ibis scosse la testa. «Non l’ha detto. Ma siamo lieti di ospitarti, e possiamo trovarti qualcosa da fare. Se non sei schizzinoso. Se tratti i morti con rispetto.» «Ma insomma» domandò Shadow, «come mai proprio a Cairo? Ci siete venuti per il nome?» «No. Al contrario, in effetti è la regione che prende il nome da noi, benché siano in pochi a saperlo. Ai vecchi tempi era una base commerciale.» «Ai tempi della frontiera?» «Diciamo così» rispose il signor Ibis. «Buonasera signorina Simmons! E Buon Natale anche a lei! La gente che mi ha portato qui aveva navigato il Mississippi molto tempo prima.» Shadow si fermò in mezzo alla strada e fissò il suo interlocutore. «Sta cercando di dirmi che cinquemila anni fa gli antichi egizi venivano in America a commerciare?» Il signor Ibis sorrise compiaciuto. Poi disse: «Tremila e cinquecentotrenta anni fa. Uno più, uno meno». «Va bene» disse Shadow. «Diciamo che ci credo. E che cosa commerciavano?» «Niente di che. Pelli di animali. Generi alimentari. Rame dalle miniere dell’attuale Michigan. L’intera faccenda si rivelò deludente, nel complesso. Non ne valeva la pena. Si trattennero abbastanza per credere in noi, per offrirci sacrifici, un pugno di mercanti che poi morirono di febbre e vennero seppelliti qui lasciandoci in eredità alla terra.» Si interruppe dì colpo nel bel mezzo del marciapiede e si voltò spalancando le braccia. «Questo paese è stato trafficato come la stazione di Grand Central per diecimila anni o più. Tu mi dirai: e Colombo?» «Già» lo assecondò Shadow. «Cosa mi dice di Colombo?» «Cristoforo Colombo ha fatto ciò che altri facevano da migliaia d’anni. Arrivare in America non è stato niente di speciale. Di tanto in tanto scrivo una storia sull’argomento.» Ripresero a camminare. «Storie vere?» «Vere fino a un certo punto. Posso leggertene qualcuna, se ti fa piacere. È tutto lì per chi ha occhi per vedere. Personalmente — e ti parlo da abbonato a "Scientific American" — mi dispiaccio quando gli esperti trovano l’ennesimo cranio che contraddice ogni loro convinzione, qualcosa che sembra appartenere alla popolazione sbagliata; oppure quando statue o manufatti non corrispondono a ciò che sanno, perché allora si mettono a parlare dell’evento eccezionale, ma non affrontano mai l’impossibile, ed è per questo che mi dispiaccio per loro, perché non appena qualcosa diviene impossibile entra nella sfera della fede, indipendentemente dal fatto che sia vero oppure no. Intendo dire, per esempio, prendiamo un cranio di ainu, gli aborigeni giapponesi, ebbene questo cranio ci dimostra che gli ainu erano in America già novemila anni orsono. Ed eccone un altro che prova la presenza dei polinesiani in California circa duemila anni più tardi. E allora gli studiosi borbottano perplessi e si interrogano su chi sia disceso da chi, perdendo completamente di vista il nocciolo della questione. Il Cielo sa cosa accadrebbe se scoprissero le gallerie di emergenza degli hopi. Quelle sì che farebbero vacillare qualche convinzione, aspetta e vedrai. «E gli irlandesi, vuoi sapere, sono forse venuti in America nell’Alto Medioevo? Senza dubbio, insieme alle genti di Cornovaglia, e ai vichinghi, mentre gli africani della Costa Occidentale — quella che in seguito sarebbe stata chiamata Costa degli Schiavi, o Costa d’Avorio — commerciavano con il Sudamerica, e i cinesi andarono in Oregon un paio di volte, lo chiamavano Fu Sang. I baschi stabilirono le loro zone segrete di pesca sacra al largo delle coste di Terranova milleduecento anni fa. Ora immagino che tu stia per dirmi: ma signor Ibis, quelle erano popolazioni primitive, non avevano i telecomandi, le vitamine e i reattori.» Shadow non aveva parlato, e nemmeno ne aveva avuto l’intenzione, ma sentendosi interpellato domandò: «Ebbene sì, erano popoli primitivi, non è vero?». Le ultime foglie dell’autunno scricchiolavano sotto i loro passi con la rigidità già tipica dell’inverno. «L’errore consiste nel ritenere che prima di Colombo la gente non potesse percorrere lunghe distanze via mare. La Nuova Zelanda e Tahiti e innumerevoli isole del Pacifico furono colonizzate da popoli la cui abilità di navigatori avrebbe fatto arrossire Colombo di vergogna; e la ricchezza dell’Africa era fondata sul commercio, benché soprattutto con l’Oriente, con l’India e la Cina. La mia gente, il popolo del Nilo, scoprì molto presto che con un’imbarcazione di giunco e dosi sufficienti di pazienza e giare d’acqua dolce poteva circumnavigare il mondo,. Vedi, il problema più grosso dei viaggi in America era che, considerata la distanza, non si trovava niente di così interessante da scambiare.» Erano arrivati davanti a una grande casa in stile Queen Ann. Shadow si domandò chi fosse, la Regina Anna, e perché le piacessero tanto quelle case da famiglia Addams. Era l’unico edificio in tutto l’isolato che non avesse le finestre sprangate. Superarono il cancello e passarono dalla porta sul retro. Il signor Ibis aprì le grandi porte doppie con una chiave che portava appesa alla catena ed entrarono in un’ampia stanza non riscaldata occupata da due persone: un uomo molto alto con la pelle scura che stringeva in mano un grosso bisturi, e una ragazza di vent’anni cadavere, sdraiata su un lungo tavolo di porcellana che sembrava una via di mezzo tra un lastrone e un lavandino. Sulla parete dietro il cadavere c’era un pannello di sughero al quale erano appese alcune fotografie. In una la ragazza sorrideva, era un’istantanea scattata al liceo. In un’altra era insieme a tre compagne, tutte vestite per il ballo studentesco, e portava i capelli scuri legati in una crocchia intricata. Cadavere sulla porcellana, adesso, li aveva sciolti, sporchi di sangue secco. «Questo è il mio socio, il signor Jacquel» disse Ibis. «Ci siamo già incontrati» disse Jacquel. «Scusa se non ti stringo la mano.» Shadow guardò la ragazza sul tavolo. «Cosa le è capitato?» chiese. «Ha dimostrato un gusto tremendo in fatto di fidanzati» rispose Jacquel. «Non sempre è fatale» aggiunse il signor Ibis con un sospiro. «Questa volta lo è stato. Lui era ubriaco e aveva un coltello, e lei gli ha detto che pensava di essere incinta. Lui non credeva che il figlio fosse suo.» «È stata pugnalata…» aggiunse Jacquel, e cominciò a contare. Quando premette un pulsante con il piede si sentì un «Allora lei è anche medico legale?» domandò Shadow. «Da queste parti quello del medico legale è un incarico politico» disse Ibis. «Il suo lavoro consiste nel prendere a calci il cadavere. Se il cadavere non glieli restituisce allora lui firma il certificato di morte. Jacquel è quello che chiamano un prosettore. Lavora per il medico legale della contea. Fa le autopsie e conserva campioni dei vari tessuti per le analisi. Ha già fotografato le ferite.» Jacquel continuava il suo lavoro. Con il grosso bisturi praticò una profonda incisione a V che cominciava dalle clavlcole e terminava in fondo allo sterno, poi trasformò la V in una Y con un’altra profonda incisione che dallo sterno arrivava al pube. Prese un oggetto di metallo cromato che sembrava un trapano, piccolo ma pesante, con una sega circolare, lo mise in funzione e segò le costole. La ragazza si aprì come una borsetta. Shadow avvertì subito un odore leggero, sgradevolmente penetrante e pungente. «Credevo che l’odore fosse più forte» disse. «È piuttosto fresca» rispose Jacquel. «E siccome gli intestini non sono stati perforati non c’è puzza di merda.» Shadow distolse lo sguardo, non per un senso di ripulsa, come si sarebbe aspettato, bensì per lo strano desiderio di concedere alla ragazza un po’ di intimità. Più nudi di così, più spalancati, non si poteva essere. Jacquel estrasse gli intestini luccicanti e serpentini annidati nel ventre e nella pelvi. Li fece scorrere tra le dita centimetro dopo centimetro, descrivendoli come "normali" al microfono, poi li infilò in un secchio appoggiato sul pavimento. Con una pompa aspirò tutto il sangue dal petto della ragazza e ne misurò il volume. Poi ispezionò la cavità toracica. Disse: «Tre lacerazioni del pericardio, sangue coagulato e liquido». Le afferrò il cuore, lo staccò dalle arterie e lo rigirò tra le mani per esaminarlo. Premette il pulsante con il piede e disse: «Due lacerazioni del miocardio; una di un centimetro e mezzo nel ventricolo destro e una di un centimetro e otto nel ventricolo sinistro». Estrasse i polmoni, uno dopo l’altro. Il sinistro era stato perforato ed era mezzo collassato. Li pesò, pesò il cuore e fotografò le ferite. Dai due polmoni tagliò una fettina, il campione di tessuto, che mise dentro un barattolo. «Formaldeide» sussurrò il signor Ibis desideroso di rendersi utile. Jacquel continuava a parlare nel microfono, descrivendo ogni fase dell’operazione, man mano che rimuoveva fegato, stomaco, milza, pancreas, reni, utero e ovaie. Pesò tutti gli organi, normali e intatti. Da ciascuno tagliò un campione che mise in un contenitore con formaldeide. Dal cuore, dal fegato e da uno dei reni tagliò un altro pezzetto che si infilò in bocca e cominciò a masticare lentamente, facendoli durare, mentre lavorava. Stranamente a Shadow sembrò una cosa giusta: un gesto rispettoso, per niente osceno. «Dunque starai con noi per un po’?» domandò Jacquel mentre masticava la fettina di cuore della ragazza. «Se mi volete» rispose Shadow. «Certamente» disse il signor Ibis. «Non vedo perché dire di no con tutte le buone ragioni che abbiamo per dire sì. Finché resterai qui sarai sotto la nostra protezione.» «Spero che dormire sotto lo stesso tetto con i defunti non ti disturbi» disse Jacquel. Shadow pensò alle labbra fredde e amare di Laura. «No» disse. «Finché rimangono defunti.» Jacquel si voltò a guardarlo: i suoi occhi scuri erano interrogativi e freddi come quelli di un cane del deserto. «Qui i morti restano morti» si limitò a dire. «Io ho l’impressione che riescano a tornare indietro con una certa facilità.» «Niente affatto» intervenne Ibis. «Anche gli zombie sono fatti a partire dai vivi. Un po’ di polvere, qualche incantesimo, qualche stimolo ed ecco lo zombie. Vivono, ma credono di essere morti. Riportare davvero alla vita un defunto, con il corpo e tutto, richiede molto potere.» Esitò, poi aggiunse: «Ai vecchi tempi, nella vecchia terra, era più facile». «Si poteva legare il «Ho bisogno di una birra» disse Jacquel. Si sfilò i guanti e li gettò nel recipiente. In una cesta lasciò cadere il camice marrone e poi prese il vassoio con i barattoli dei campioni degli organi: fettine rosse, marroni e violacee. «Venite con me?» Salirono le scale che portavano in cucina. Era una stanza tutta marrone e bianca, sobria e rispettabile, che a Shadow sembrò molto anni Venti. Appoggiato a una parete c’era un enorme frigorifero Kelvinator che ronzava con fragore. Jacquel lo aprì, infilò su un ripiano i barattoli con i pezzetti di milza, rene, fegato e cuore e tirò fuori tre bottiglie scure. Ibis prese tre bicchieri alti da una credenza con le antine di vetro. Poi fece segno a Shadow di sedersi al tavolo. Versò la birra e porse un bicchiere a Shadow, poi a Jacquel. Era un’ottima birra, amara e scura. «Buona» disse Shadow. «La facciamo noi» spiegò Ibis. «Ai vecchi tempi erano le donne a prepararla. Erano più brave. Ma adesso siamo rimasti solo in tre: io, lui, e lei.» Indicò la piccola gatta scura che dormiva placida dentro una cesta in un angolo. «Eravamo più numerosi, all’inizio. Ma Seth se n’è andato per esplorare il mondo, quando, duecento anni fa? Sì, devono essere almeno duecento. Ci ha mandato una cartolina da San Francisco nel 1905 o nel 1906. Poi più niente. Mentre il povero Horus…» Lasciò la frase in sospeso, sospirò e scosse la testa. «Mi capita di incontrarlo, ogni tanto» disse Jacquel, «quando vado a ritirare un corpo.» Sorseggiò la sua birra. «Vorrei provvedere al mio mantenimento» disse Shadow «finché resto qui. Ditemi di cosa avete bisogno e io lo faccio.» «Ti troveremo un lavoro» convenne Jacquel. La gattina scura aprì gli occhi e si alzò stiracchiandosi. Attraversò la cucina e andò a strusciare la testa contro uno stivale di Shadow che allungò la mano per darle una grattatina sulla fronte, dietro le orecchie e sulla nuca. Lei inarcò estatica la schiena e poi gli saltò in grembo, si issò sul suo petto e gli sfiorò la punta del naso con il suo, freddo. Infine si acciambellò sulle ginocchia di Shadow e si riaddormentò. Lui le accarezzò il pelo morbido; era un peso caldo e piacevole sulle ginocchia, aveva l’aria di sentirsi nel posto più sicuro del mondo e Shadow lo trovò consolatorio. La birra gli aveva lasciato un piacevole ronzio nella testa. «La tua stanza è in cima alle scale, vicino al bagno» disse Jacquel. «Troverai appesi nell’armadio gli abiti da lavoro… Prima vorrai lavarti e farti la barba, immagino.» Shadow si lavò e sbarbò. Fece la doccia in piedi nella vasca di ghisa e si fece la barba con un rasoio a mano libera che gli aveva prestato Jacquel. Era affilato in maniera oscena, e aveva un manico di madrcperla, e Shadow sospettò che venisse usato per dare ai cadaveri l’ultima rasatura. Era la prima volta in vita sua che usava un rasoio di quel tipo, tuttavia non si tagliò. Sciacquò quel che restava della schiuma da barba e nello specchio del bagno coperto dì puntini scuri osservò se stesso nudo. Era coperto di ecchimosi: lividi nuovi sul petto e sulle braccia e, sotto, quelli ormai sbiaditi, ricordo di Mad Sweeney. Lo specchio gli restituì uno sguardo sospettoso. E poi, come se qualcuno gli guidasse la mano, alzò il rasoio e se l’appoggiò con la lama aperta sulla gola. Una soluzione, pensò. Una via d’uscita. E se al mondo c’era qualcuno capace di occuparsi del caso, di ripulire il disastro e sistemare tutto erano proprio i due tizi seduti a bere birra al piano di sotto, in cucina. Farla finita con le preoccupazioni. Farla finita con Laura. Farla finita con i misteri e le cospirazioni. Con i brutti sogni. Soltanto pace e quiete ed eterno riposo. Un colpo secco, da un orecchio all’altro. Non era difficile. Rimase lì in piedi con il rasoio puntato alla gola. Dove la lama toccava la pelle uscì una goccia di sangue. Non si era nemmeno accorto di essersi tagliato. In quel momento la porta del bagno si aprì di pochi centimetri, sufficienti a lasciar passare la gattina che sporgendo la testa dalla soglia lo guardò con aria incuriosita e fece le fusa. «Ehi» le disse Shadow. «Credevo di aver chiuso a chiave.» Ripiegò il rasoio, lo appoggiò sul lavandino e tamponò il piccolo taglio sulla gola con un pezzetto di carta igienica. Poi si avvolse un asciugamano intorno ai fianchi e andò nella stanza. Come la cucina anche la sua camera da letto sembrava essere stata arredata negli anni Venti: c’era un lavamano con una brocca accanto alla cassettiera e allo specchio. Qualcuno gli aveva già preparato i vestiti sul letto: abito nero, camicia bianca, maglietta e mutande bianche, calzini neri. Sul vecchio tappeto persiano accanto al letto c’era anche un paio di scarpe nere. Si vestì. Erano indumenti di buona qualità, benché non nuovi. Si domandò a chi fossero appartenuti. Stava mettendosi i calzini di un morto? Si sarebbe infilato le scarpe di un morto? Annodò la cravatta guardandosi allo specchio e adesso ebbe l’impressione che il suo riflesso gli sorridesse sardonico. Gli sembrava inconcepibile di aver potuto anche solo pensare di tagliarsi la gola. Mentre sistemava la cravatta il suo riflesso continuava a sorridere. «Ehi» gli disse. «Forse tu sai qualcosa che io non so?» e immediatamente si sentì sciocco. La porta si aprì e la gatta scivolò tra stipite e battente, attraversò la stanza e saltò sul davanzale della finestra. «Ehi» le disse Shadow. «Quella porta l’avevo chiusa sul serio. Sono sicuro.» Lei lo guardò con aria interessata. Aveva gli occhi color giallo scuro, come l’ambra. Poi dal davanzale balzò sul letto, dove si acciambellò in una massa di pelo e si addormentò sopra il vecchio copriletto. Shadow uscì lasciando la porta aperta, perché la gatta potesse andarsene e anche per arieggiare in po’, e scese al pianterreno. Le scale cigolavano e scricchiolavano, protestando sotto il suo peso, implorando di essere lasciate in pace. «Accidenti, come stai bene» disse Jacquel. Lo stava aspettando nell’atrio vestito di tutto punto con un abito nero come quello di Shadow. «Hai mai guidato un carro funebre?» «No.» «C’è una prima volta per tutto. E parcheggiato qui davanti.» Era morta una vecchia signora che si chiamava Lila Goodchild. Seguendo le indicazioni di Jacquel, Shadow portò la barella pieghevole di alluminio su per le strette scale e la aprì accanto al letto. Prese un sacco di plastica azzurro e traslucido, lo spiegò accanto alla morta e aprì la cerniera fino in fondo. La donna indossava una camicia da notte rosa e una vestaglia trapuntata. Shadow la sollevò e l’avvolse, fragile e leggera come una piuma, in un lenzuolo, prima di metterla nel sacco azzurro. Chiuse la cerniera e adagiò il sacco sulla barella. Nel frattempo Jacquel parlava con un uomo vecchissimo, il vedovo di Lila Goodchild. O meglio, lo ascoltava. Mentre Shadow impacchettava la signora, il vecchio era impegnato a spiegare quant’erano ingrati e cattivi i suoi figli, per non parlare dei nipoti, anche se non era colpa loro, ma dei genitori, perché la mela non cade lontano dall’albero, e lui credeva di aver fatto di tutto per allevarli come si deve. Shadow e Jacquel spinsero la barella fino alla stretta scala seguiti dal vecchio, che continuava a parlare di soldi, soprattutto, di avidità e ingratitudine. Ai piedi portava un paio di pantofole. Shadow iniziò a scendere le scale facendosi carico di quasi tutto il peso della barella, poi la trascinò lungo il marciapiede gelato fino al carro funebre. Jacquel aprì lo sportello posteriore e quando vide che Shadow esitava gli disse: «Spingila dentro. I supporti con le ruote si ripiegano automaticamente». Shadow eseguì e infatti la barella scivolò sul pianale. Jacquel gli mostrò come si faceva ad assicurarla e mentre Shadow richiudeva il portellone prestò ancora ascolto alle parole del vecchio vedovo di Lila Goodchild che, indifferente al freddo, protetto dai rigori invernali soltanto da un paio di pantofole e da un accappatoio, raccontava dei figli, nient’altro che avvoltoi in attesa di impossessarsi di quel poco che lui e Lila erano riusciti a risparmiare, e di come avevano vissuto prima a St. Louis, poi a Memphis, a Miami e infine a Cairo, e di quanto fosse sollevato del fatto che Lila non fosse morta in un ospizio, dove aveva paura di finire lui, invece. Lo riaccompagnarono su per le scale fin dentro l’appartamento. In un angolo della camera da letto c’era un piccolo televisore acceso. Passando, Shadow vide che lo speaker del telegiornale sorrideva e gli faceva l’occhiolino. Dopo essersi assicurato che nessuno lo stesse osservando si girò verso lo schermo e gli fece un gesto osceno. «Soldi non ne hanno» disse Jacquel quando furono tornati sul carro funebre. «Domani verrà a parlare con Ibis. Sceglierà il tipo di funerale più economico. Le amiche di lei lo convinceranno a fare una cosa ben fatta per darle un addio nella sala principale, immagino. Lui brontolerà. Non ha soldi. Oggigiorno nessuno ne ha, da queste parti. Comunque nel giro di sei mesi sarà morto anche lui. Un anno al massimo.» Nella luce dei fanali i fiocchi di neve cadevano volteggiando. Il maltempo era arrivato al Sud. «È malato?» «Non c’entra, questo. Le donne sopravvivono ai mariti. Gli uomini — quelli come lui — quando le mogli li lasciano non tirano avanti molto. Vedrai… comincerà a vaneggiare, tutte le cose familiari gli sembreranno estranee senza di lei. Si stancherà, si spegnerà lentamente e quando smetterà di lottare sarà finita. Magari se lo porterà via una polmonite o magari un cancro, oppure gli si fermerà il cuore. È la vecchiaia, quando tutte le forze ti abbandonano. E allora muori.» Shadow rifletté per qualche istante. «Ehi, Jacquel?» «Sì?» «Lei ci crede all’anima?» Non era quella, la domanda che aveva pensato di fare, e lo sorprese sentire la propria voce che la formulava. Voleva chiedere qualcosa di meno diretto, ma in fondo non c’era niente di meno diretto di così. «Dipende. Ai miei tempi era tutto organizzato. Quando morivi ti mettevi in fila e rispondevi per le buone e le cattive azioni, e se il peso delle cattive azioni superava di una piuma il peso di quelle buone gettavamo la tua anima e il tuo cuore in pasto ad Ammet, il Mangiatore di Anime.» «Deve aver mangiato un sacco.» «Non tanto come potresti pensare. Era una piuma molto pesante. Ce l’eravamo fatta fare apposta. Dovevi essere davvero malvagio per far muovere quella bilancia. Fermati qui dal benzinaio. Riempiamo il serbatoio.» Le strade erano tranquille, come sono tranquille le strade quando cade la prima neve. «Sarà un bianco Natale» disse Shadow mentre faceva benzina. «Già. Accidenti. Quel ragazzo era un fortunato figlio di vergine.» «Gesù?» «Un ragazzo molto fortunato. Capace di cadere in un pozzo nero e uscirne profumato come una rosa. Diavolo, lo sapevi che non è neanche il suo vero compleanno? L’ha preso da Mitra. Hai già incontrato Mitra? Con il berretto rosso? Simpatico?» «No, non mi pare.» «In effetti… da queste parti non l’ho mai visto. Era un tipaccio da esercito. Forse è tornato in Medio Oriente a spassarsela, anche se temo che a questo punto non ci sia più. Succede. Un giorno tutti i soldati dell’impero devono bagnarsi nel sangue del toro sacrificale. L’indomani non si ricordano neanche quand’è il tuo compleanno.» Un semaforo giallo si trasformò rapidamente in rosso e Shadow frenò di colpo. Il carro funebre sbandò, fermandosi con un testacoda. Verde. Shadow ripartì e si mantenne sui quindici chilometri orari, più che sufficienti su una strada così scivolosa. In seconda il motore girava bello morbido: Shadow pensò che doveva aver passato molto tempo in quella marcia e a quella velocità, bloccando il traffico. «Molto bene» disse Jacquel. «Dunque, sì, dicevamo, Gesù se la passa piuttosto bene da queste parti. Ma ho incontrato un tale che mi ha detto di averlo visto fare l’autostop in Afghanistan e nessuno si fermava a tirarlo su. Sai com’è, tutto dipende dal contesto.» «Penso che stia per arrivare una vera tempesta» disse Shadow. Si riferiva al tempo atmosferico. Quando, parecchi minuti dopo, Jacquel si decise a rispondere non parlò affatto del tempo. «Guarda noi due, me e Ibis» disse. «Nel giro di pochi anni saremo senza lavoro. Abbiamo messo qualcosa da parte per gli anni di magra, ma gli anni di magra sono già arrivati da un pezzo, e ogni anno sembra, se possibile, addirittura più magro del precedente. Horus è pazzo, un pazzo fuori di testa, passa il suo tempo sotto le sembianze di un rapace e mangia tutto quello che viene investito in autostrada. Che razza di vita è? Bast l’hai vista. E noi ce la caviamo meglio di tutti, quasi. Perlomeno un filino di fede c’è ancora. La maggior parte dei poveracci in giro per il mondo non ha neanche quella. È come l’impresa di pompe funebri: un giorno o l’altro le grosse compagnie ci compreranno, che tu lo voglia o no, perché sono più grandi ed efficienti e perché funzionano. Lottare non cambierà un bel niente perché la battaglia l’abbiamo perduta venendo in questa terra verdeggiante cento, mille o diecimila anni fa. Noi siamo arrivati e all’America non glien’è importato niente. Veniamo svenduti, o ignorati, oppure finiamo su una strada. Quindi sì, hai ragione. C’è tempesta in arrivo.» Shadow svoltò sulla strada dove tutte le case, salvo una, avevano le finestre sprangate, case vuote, chiuse per sempre. «Prendi il vicolo sul retro» disse Jacquel. Shadow manovrò in retromarcia in modo da accostare all’ingresso. Ibis aprì il carro funebre e le porte dell’obitorio, Shadow sganciò la barella e la tirò fuori. I supporti con le rotelle si aprirono appena superato il paraurti. La spinse fino al tavolo dell’imbalsamazione. Sollevò Lila Goodchild, tenendola tra le braccia nel suo opaco sacco azzurro come una bambina addormentata, con attenzione, quasi avesse paura di svegliarla, e l’appoggiò sul tavolo di quella stanza gelida. «Abbiamo il lettino per trasferirla» disse Jacquel. «Non è necessario portarla a braccia.» «Non è gran cosa» rispose Shadow. Cominciava a parlare come Jacquel. «Sono grande e grosso. Non mi costa fatica.» Era stato un bambino piccolo e magro, tutto pelle e ossa. L’unica sua foto che Laura aveva trovato abbastanza bella da incorniciarla mostrava un ragazzino dall’aria solenne con i capelli spettinati e gli occhi scuri, in piedi accanto a un tavolo coperto di torte e dolciumi. Doveva essere stata scattata in un’ambasciata a qualche festa di Natale, visto che portava un vestito elegante e il cravattino. Avevano cambiato troppe case, lui e sua madre, prima in giro per l’Europa, da un’ambasciata all’altra, dove lei lavorava come addetta alle comunicazioni degli Affari esteri, trascrivendo e inviando telegrammi cifrati in tutto il mondo, e quando lui aveva otto anni erano tornati negli Stati Uniti. La madre, ormai troppo spesso ammalata per riuscire a conservare un lavoro fisso, aveva continuato a trasferirsi da una città all’altra, senza pace, un anno qua e uno là, accettando impieghi temporanei, quando la salute glielo permetteva. Non si fermavano mai abbastanza per permettere a Shadow di farsi degli amici, di sentirsi a casa, di rilassarsi. Ed era un bambino gracile… Era cresciuto di colpo. Nella primavera del suo tredicesimo compleanno i ragazzi lo tormentavano, coinvolgendolo in risse che erano sicuri di vincere e dalle quali Shadow finiva per scappare via arrabbiato e spesso in lacrime, chiudendosi in bagno a lavarsi il fango o il sangue dalla faccia, prima che qualcuno se ne accorgesse. Poi era arrivata l’estate, la sua lunga magica tredicesima estate, che Shadow trascorse cercando di stare lontano dai ragazzi più grandi, nuotando in piscina e leggendo i libri presi in prestito dalla biblioteca. All’inizio dell’estate sapeva nuotare appena. Alla fine d’agosto era in grado di farsi una vasca dopo l’altra con un bel crawl, di tuffarsi dal trampolino più alto, e la sua pelle esposta al sole e all’acqua aveva preso una bella abbronzatura dorata. A settembre, tornato a scuola, aveva scoperto che i ragazzi che lo avevano reso tanto infelice erano piccole creature flaccide che ormai non lo preoccupavano più. I due che ci provarono ricevettero una lezione succinta ma molto dolorosa e cambiarono subito atteggiamento. Shadow trovò una nuova definizione di se stesso: non poteva più essere il ragazzino tranquillo che faceva del suo meglio per restarsene in disparte senza dare nell’occhio. Era troppo alto ormai, troppo visibile. Alla fine dell’anno faceva parte della squadra di nuoto e di sollevamento pesi, e l’allenatore di triathlon lo voleva a tutti i costi nella sua squadra. Essere grande e forte gli piaceva. Gli dava un’identità. Era stato un bambino timido e tranquillo, dedito alla lettura, e si era rivelata un’esperienza penosa; adesso era un ragazzone sciocco e nessuno si aspettava da lui altro che di vedergli spostare da solo il divano da una stanza all’altra. Nessuno fino a Laura, perlomeno. Il signor Ibis aveva preparato la cena: riso e verdure bollite per sé e Jacquel. «Non mangio carne» spiegò «e Jacquel si procura il suo fabbisogno di proteine durante il lavoro.» Accanto al piatto di Shadow c’era una confezione di pollo fritto KFC e una bottiglia di birra. Nel cartone c’era più pollo di quanto Shadow potesse mangiare e alla fine, dopo aver tolto la pelle e l’impanatura e ridotto la carne a pezzettini, diede quel che restava alla gatta. «In prigione c’era un tizio che si chiamava Jackson» disse mentre mangiava, «lavorava nella biblioteca. Mi ha raccontato che hanno cambiato in KFC il nome Kentucky Fried Chicken perché quello che cucinano non è vero pollo. È una specie di mutante geneticamente modificato, una gigantesco millepiedi senza testa, un’infinità di segmenti composti da zampe, petto e ali che viene nutrito attraverso tubicini. Secondo Jackson è per questo che il governo non gli ha più fatto usare la parola pollo.» Il signor Ibis inarcò un sopracciglio. «Credi che sia vero?» «No. Secondo il mio vecchio compagno di cella, Low Key, hanno cambiato nome perché la parola Dopo cena Jacquel si ritirò per scendere all’obitorio. Ibis andò nello studio a scrivere e Shadow si trattenne ancora un po’ in cucina sorseggiando birra e nutrendo la gattina scura con i pezzetti di pollo. Finiti la birra e il pollo lavò piatti e posate, li mise sullo scolapiatti ad asciugare e salì di sopra. Quando entrò nella stanza la gattina stava già dormendo acciambellata ai piedi del letto come una mezza luna pelosa. Nel cassetto di mezzo della toletta trovò alcuni pigiama a righe di cotone. Sembravano vecchi di almeno settant’anni ma profumavano di fresco e pulito: ne indossò uno che gli calzava, come l’abito nero, alla perfezione. Sul tavolino accanto al letto c’era una pila di "Reader’s Digest", tutti antecedenti il marzo del 1960. Il carcerato addetto alla bilioteca, Jackson, lo stesso che spacciava per vera la storia del pollo mutante del Kentucky Fried Chicken, e che gli aveva raccontato che il governo trasferiva i prigionieri politici nei campi di concentramento nel nord della California su treni merci con i vagoni tutti neri nel cuore della notte, gli aveva anche detto che la Cia usava le redazioni del "Reader’s Digest" come copertura delle loro filiali sparse in tutto il mondo. Secondo lui le redazioni del "Reader’s Digest" erano in realtà tutti uffici della Cia. "Ho sentito una barzelletta" disse la voce del defunto Wood nel ricordo. "Come facciamo a essere sicuri che la Cia non fosse coinvolta nell’assassinio di Kennedy?" Shadow socchiuse la finestra abbastanza per far entrare un po’ d’aria e dare la possibilità alla gatta di uscire sul balcone. Accese la lampada sul comodino e, per distogliere la mente dai fatti accaduti negli ultimi giorni, decise di leggere, scegliendo a questo scopo gli articoli più noiosi. A metà di In seguito non fu più in grado di ricostruire la sequenza e i dettagli del sogno: qualsiasi tentativo di ricordare ebbe soltanto l’effetto di produrre un groviglio intricato di immagini. C’era una ragazza. L’aveva incontrata chissà dove, e adesso stavano attraversando un ponte sopra un piccolo lago nel centro di una città. Il vento increspava la superficie dell’acqua formando ondine bordate di bianco che a Shadow sembravano minuscole mani protese verso di lui. «Laggiù» disse la donna. Indossava una gonna leopardata che si alzava al vento lasciando scoperta la zona di pelle sopra le calze che era chiara e morbida e nel sogno sul ponte, davanti a Dio e al mondo, Shadow si mise in ginocchio e affondò la testa nel suo inguine inspirando l’intossicante afrore femminile. Si rese conto di avere un’erezione anche nella vita reale, un’erezione pulsante e mostruosa come quelle che gli capitavano durante la pubertà. Si ritrasse e guardò in alto senza tuttavia riuscire a vedere la ragazza in faccia. Ma la sua bocca cercava quella di lei e le sue labbra erano morbide e le aveva preso i seni nelle mani e accarezzava la sua soffice pelle serica, scostando la pelliccia che le copriva i fianchi, scivolando dentro quella meravigliosa fenditura che era calda e bagnata, aperta per lui, come un fiore che gli sbocciava in mano. La donna si strinse a lui facendo le fusa estatica, allungando una mano sul suo pene, stringendoglielo. Lui allontanò le lenzuola e le fu sopra, aprendole con una mano le cosce, mentre lei lo guidava dentro di sé con una sola magica spinta… Adesso era insieme a lei nella sua cella in prigione, e la stava baciando con desiderio. Lei lo stringeva tra le braccia, lo avvinghiava con le gambe perché non si potesse allontanare, non potesse scivolare fuori nemmeno se l’avesse voluto. Non aveva mai baciato labbra così morbide. Non aveva mai immaginato che esistesse, una simile morbidezza. La lingua, però, era come carta vetrata contro la sua. «Chi sei?» le chiese. Lei non rispose, lo respinse sul letto e con un movimento flessuoso gli si sedette sopra e cominciò a cavalcarlo. No, non a cavalcarlo, a insinuarsi in lui con una serie di morbidi movimenti ondulatori, via via sempre più potenti, colpi e spinte e ritmi che si frangevano contro il corpo e la mente come sulla riva del lago si frangono le onde mosse dal vento. Le sue unghie erano come aghi quando affondarono nei fianchi e lo graffiarono; non provò dolore ma soltanto piacere, ogni sensazione veniva trasformata da un processo alchemico in attimi di puro piacere. Lottò per ritrovare se stesso, lottò per parlare, la testa spazzata dai venti del deserto sulle dune. «Chi sei?» ripeté, annaspando nel tentativo di tirar fuori la voce. Lei lo fissò con i suoi occhi color ambra scura, poi si abbassò e lo baciò sulla bocca con passione, con una profondità e un abbandono tali che quasi quasi, lì sul ponte sul lago, nella sua cella in prigione, nel letto di un’impresa di pompe funebri di Cairo, Shadow fu sul punto di venire. Si abbandonò alla sensazione come un aquilone si lascia portare dall’uragano, cavalcandolo, nella speranza che non arrivi al culmine, nella speranza che non esploda, nella speranza che non finisca mai. Riuscì a riprendere il controllo. Doveva mettere in guardia quella donna. «Mia moglie Laura. Ti ammazzerà.» «Non può ammazzarmi» disse lei. Da un angolo del cervello affiorò un ricordo assurdo: nel Medioevo si diceva che una donna sopra l’uomo, durante il coito, avrebbe concepito un papa. Così veniva detta quella posizione: cercare il papa… Avrebbe voluto sapere come si chiamava, ma non osava chiederglielo una terza volta, e la strinse a sé sentendo i capezzoli duri e sporgenti e lei ricambiò l’abbraccio attirandolo sempre più dentro di sé e questa volta lui non riusciva né a cavalcare l’onda né a farcisi portare, questa volta l’ondata lo travolse mandandolo a capitombolare e mentre si inarcava per riaffiorare affondava più profondamente di quanto avrebbe mai immaginato possibile, come se lui e la donna fossero tutt’uno, un’unica creatura che assaporava, beveva, abbracciava, «Lascia che sia» gli disse con un sordo ruggito. «Abbandonati a me. Lascia che sia.» E Shadow venne, sciogliendosi tra spasmi, la mente stessa prima dissolta, poi, attraverso la fase di sublimazione, piano piano dallo stato liquido a quello gassoso. Chissà dove, in fondo in fondo, prese un respiro, una limpida boccata d’aria che scese nei polmoni, e allora capì che aveva trattenuto il fiato per troppo tempo. Tre anni, almeno. Forse di più. «Ora riposa» gli disse lei, e posò le labbra morbide sulle sue palpebre in un bacio. «Lascia che sia. Lascia che tutto sia come dev’essere.» Il sonno che lo accolse era pesante e senza sogni, consolatorio, e Shadow vi si tuffò con abbandono. C’era una luce strana. Le sei e quarantacinque, diceva l’orologio, e fuori faceva ancora buio, benché la stanza fosse invasa da un pallido chiarore azzurrastro. Scese dal letto. Era sicuro di essere andato a dormire con il pigiama, invece adesso era nudo e l’aria sulla sua pelle sembrava fredda. Andò a chiudere la finestra. C’era stata una tormenta, durante la notte: quindici centimetri di neve, forse di più. L’angolo sudicio e fatiscente di città che Shadow riusciva a vedere dalla finestra era stato trasformato in un panorama pulito, molto diverso; le case non avevano più l’aria abbandonata e dimenticata, erano eleganti rivestite di bianco. Le strade invece erano scomparse del tutto sotto un candido manto di neve. Al confine della capacità di percezione indugiava un’idea, qualcosa che aveva a che fare con la transitorietà. Svanì rapida come un baluginio. Vedeva benissimo, come se il sole fosse già alto. Notò qualcosa di strano allo specchio e si avvicinò a guardare stupito: tutti i lividi erano spariti. Si toccò il fianco, premendo forte con i polpastrelli in cerca di una fitta lancinante che gli ricordasse l’incontro con il signor Stone e il signor Wood, o dei lividi verdastri che Mad Sweeney gli aveva lasciato in omaggio. Più niente. La faccia era pulita, senza segni. Però i fianchi e la schiena (dovette contorcersi per vedere) erano coperti di graffi che sembravano prodotti da artigli acuminati. Dunque non l’aveva sognato. Non del tutto. Aprì i cassetti e indossò gli indumenti che trovò: un paio di antiquati Levi’s azzurri, una camicia, un maglione blu pesante e un cappotto nero da necroforo che trovò appeso nella cabina armadio. Infilò le sue vecchie scarpe. La casa dormiva ancora. Scese lentamente, sperando che il pavimento di legno non scricchiolasse, e uscì; si incamminò nella neve lasciando profonde impronte sul marciapiede. Fuori, anche grazie al riflesso della neve, c’era più luce di quanto avesse immaginato dalla camera. Dopo un quarto d’ora arrivò a un ponte accanto al quale un grande cartello lo informava che stava uscendo dalla Cairo storica. Sotto il ponte c’era un uomo alto e curvo che fumava nervosamente una sigaretta scosso dai brividi. Gli sembrava di conoscerlo. Gli arrivò abbastanza vicino da distinguere nella fioca luce invernale il livido rossastro intorno all’occhio. «Buongiorno, Mad Sweeney» disse. Il mondo era molto silenzioso. Nemmeno un’automobile disturbò il silenzio ovattato. «Ehi, amico.» Mad Sweeney non alzò lo sguardo. La sigaretta era fatta a mano. «Se continui a stare sotto i ponti» disse Shadow «la gente comincerà a pensare che sei un troll.» Questa volta Mad Sweeney alzò la testa e Shadow vide gli occhi stralunati. L’irlandese sembrava spaventato. «Stavo cercando proprio te. Mi devi dare un mano, amico. L’ho fatta grossa.» Inspirò dalla sigaretta, ma quando l’allontanò dalla bocca sul labbro inferiore era rimasto appiccicato un pezzetto di carta e la sigaretta si aprì lasciando cadere sulla barba rossa e sul davanti già sudicio della camicia i fili di tabacco. Mad Sweeney spazzò via tutto con un gesto convulso delle mani sporche, come se si trattasse di insetti pericolosi. «Le mie disponibilità sono ridotte all’osso» disse Shadow, «comunque perché non mi dici cosa ti serve? Ti offro un caffè?» Mad Sweeney scosse la testa. Da una tasca del giubbotto di jeans prese una busta di tabacco e un pacchetto di cartine e cominciò a rollare un’altra sigaretta. Intanto sembrava che gli si fosse rizzata la barba e mosse la bocca, anche se non ne uscì nessuna parola. Leccò la colla della cartina e fece scorrere il cilindretto tra le dita. Il risultato somigliava solo vagamente a una sigaretta. Poi disse: «Io non sono un troll. Cazzo. Quei bastardi sono stronzi e cattivi». «Lo so che non sei un troll, Sweeney» rispose Shadow in tono gentile. «Cosa posso fare per te?» Mad Sweeney fece scattare lo Zippo di ottone e i primi due centimetri abbondanti di sigaretta presero fuoco riducendosi istantaneamente in cenere. «Ti ricordi che ti ho insegnato a prendere una moneta? Ti ricordi?» «Sì» disse Shadow. Gli sembrò di rivedere la moneta d’oro che rotolava sulla bara di Laura, che le scintillava al collo. «Ricordo.» «Hai preso la moneta sbagliata, amico.» Un’automobile si avvicinò alla zona buia sotto il ponte accecandoli con i fari. Rallentò, si fermò, e qualcuno abbassò un finestrino. «Tutto a posto, signori?» «Tutto a postissimo, grazie» disse Shadow. «Siamo usciti per una passeggiata mattutina.» «Allora va bene» rispose il poliziotto. Non aveva per niente l’aria di credere che andasse bene. Non ripartì. Shadow appoggiò una mano sulla spalla di Mad Sweeney e gli diede una spinta, allontanandolo dalla macchina di pattuglia, verso la periferia. Sentì il ronzio del finestrino che veniva chiuso ma vide che il poliziotto non si decideva a ripartire. Shadow continuò a camminare. Anche Mad Sweeney continuò a camminare, ma ogni tanto barcollava. La macchina della polizia li superò lentamente, poi fece inversione e tornò verso la città accelerando lungo la discesa coperta di neve. «Perché non mi dici che cosa ti preoccupa?» disse Shadow. «Ho fatto come aveva detto lui. Ho fatto tutto quello che mi aveva detto di fare ma ti ho dato la moneta sbagliata. Non era quella. Quella è per i re. Hai capito? In teoria non dovevo nemmeno essere in grado di prenderla. È la moneta che si dà al re d’America in persona. Non a un bastardo ubriacone come me o come te. E adesso sono in un grosso casino. Ridammela, amico. Non mi rivedrai mai più, se me la restituisci, lo giuro su quella testa di cazzo del re Bran, hai capito? Lo giuro su tutti gli anni che ho passato sopra quegli alberi di merda.» «Chi ti ha detto di fare quello che hai fatto?» «Grimnir. Il tizio che chiami Wednesday. Sai chi è? Lo sai chi è veramente?» «Credo di sì.» Negli occhi folli dell’irlandese passò un’espressione di panico. «Non c’era niente di male. Niente che tu… niente di male. Mi aveva detto di trovarmi in quel bar e di fare a botte con te. Diceva che voleva vedere di che pasta eri fatto.» «Non ti ha detto di fare altro?» Sweeney era scosso da brividi e contrazioni. Per un attimo Shadow pensò che tremasse di freddo, poi si rese conto di aver già visto quel modo particolare di rabbrividire, quando era in prigione: un drogato. Sweeney era in astinenza da qualcosa e Shadow avrebbe scommesso che si trattava di eroina. Un leprecauno tossicomane? Mad Sweeney staccò la brace della sigaretta, la gettò a terra e si infilò il mozzicone in tasca. Poi sfregò le mani annerite di sporcizia e ci soffiò sopra per scaldarle. Adesso la sua voce era un gemito lamentoso: «Senti, dammi quella moneta, amico. Te ne darò un’altra in cambio, altrettanto bella. Te ne do una carrettata di quelle cazzo di monete». Si tolse il berretto da baseball bisunto e con la mano destra fece il gesto di ravviarsi i capelli producendo una grossa moneta d’oro. La lasciò cadere nel berretto. Ne materializzò un’altra da un ricciolo di respiro condensato nell’aria, e poi un’altra ancora, tutte afferrate dall’aria immobile del mattino fino a riempire il berretto, così pesante ormai che Sweeney doveva usare tutte e due le mani per tenerlo. Lo tese verso Shadow. «Tieni» gli disse. «Prendile, amico. Basta che mi restituisci quella che ti ho dato al bar.» Shadow guardò il berretto e si chiese a quanto ammontasse il contenuto. «Dove potrei spenderle, Mad Sweeney?» domandò. «Ci sono tanti posti dove cambiare monete d’oro in contanti?» Per un momento pensò che l’irlandese volesse picchiarlo, ma quell’istante passò e Mad Sweeney rimase lì in piedi con il berretto teso davanti a sé come Oliver Twist. E gli occhi azzurri gli si riempirono di lacrime che rotolarono lungo le guance. Si mise il berretto — ormai vuoto di tutto, fatta eccezione per una fascia madida di sudore — sui capelli radi. «Me la devi dare, amico. Non ti ho fatto vedere come si fa? Ti ho fatto vedere come si prendono le monete dalla riserva. Ti ho fatto vedere dov’è la riserva. Dammi solo quella prima moneta. Non è mia.» «Non ce l’ho più.» Mad Sweeney smise di piangere e sulle sue guance comparvero alcune chiazze rosse. «Tu, pezzo di…» cominciò prima che le parole gli mancassero; la bocca si aprì e si chiuse in una scena muta. «Ti sto dicendo la verità» disse Shadow. «Mi dispiace. Se ce l’avessi te la ridarei, ma l’ho regalata.» La mano lercia di Sweeney gli strinse la spalla in una morsa e i suoi pallidi occhi azzurri lo fissarono. Le lacrime gli avevano rigato le guance coperte di sporcizia. «Merda» disse. Shadow sentì l’odore del tabacco, della birra stantia e del sudore acre del bevitore di whiskey. «Stai dicendo la verità, pezzo di merda. L’hai data via di tua spontanea volontà. Maledetti siano i tuoi occhi scuri, l’hai data via veramente.» «Mi dispiace.» Shadow risentì il tonfo soffocato della moneta che atterrava sulla bara di Laura. «Che tu sia dispiaciuto o no, io sono dannato e condannato.» Sweeney si asciugò il naso e gli occhi con la manica della giacca coprendosi la faccia di strani disegni grigiastri. Shadow gli diede una stretta al bicipite, un impacciato gesto maschile di solidarietà. «Meglio sarebbe stato se non fossi mai nato» disse l’irlandese dopo un lungo silenzio. Poi alzò gli occhi. «Il tipo a cui l’hai data. Me la restituirebbe, secondo te?» «È una donna. E non so dove sia. Comunque no, non credo che sarebbe disposta a ridartela.» Sweeney sospirò tristemente. «Quand’ero appena un pivello, un giorno ho incontrato una donna, sotto le stelle, che mi ha lasciato giocare con le sue tette e mi ha letto il destino. Mi ha detto che sarei finito abbandonato a ovest del tramonto, e che l’amore di una morta per i gingilli avrebbe deciso la mia sorte. E io ho riso e mi sono versato altro vino d’orzo e ho giocato ancora un po’ con le sue tette e l’ho baciata su quella bocca graziosa. Erano i bei tempi… il primo monaco grigio non aveva ancora messo piede sulla nostra terra, non avevano ancora attraversato il verde mare diretti a Occidente. E adesso…». Si interruppe, lasciando la frase a mezzo. Voltò la testa e guardò Shadow con aria concentrata. «Non ti dovresti fidare di lui» disse in tono di rimprovero. «Di chi?» «Wednesday. Non fidarti.» «Non devo fidarmi. Lavoro per lui.» «Ti ricordi come si fa?» «Cosa?» Shadow aveva l’impressione di parlare con almeno sei persone diverse. Il cosiddetto leprecauno saltava confusamente da un personaggio all’altro, da un argomento all’altro, come se le sue cellule cerebrali superstiti stessero prendendo fuoco un’ultima volta prima di spegnersi per sempre. «Le monete, amico. Le monete. Te l’ho fatto vedere, non ti ricordi?» Avvicinò due dita alla faccia, le fissò e prese dalla bocca una moneta d’oro. La lanciò a Shadow che allungò una mano per prenderla, ma non gli arrivò niente. «Ero ubriaco» disse Shadow. «Non ricordo.» Sweeney attraversò la strada barcollando. Adesso si era fatto giorno e il mondo era bianco e grigio. Shadow lo seguì. Sweeney camminava a lunghi passi sbilenchi, come se fosse sempre sul punto di cadere, ma il movimento glielo impediva, le gambe lo spingevano in avanti. Quando arrivarono al ponte l’irlandese si appoggiò con una mano ai mattoni della volta, si girò e disse: «Hai qualche dollaro? Non ho bisogno di molto. Per un biglietto di sola andata venti dollari basterebbero. Ce li hai venti miserabili dollari?». «Dove vuoi andare con un biglietto dell’autobus da venti dollari?» «Via di qui» rispose Sweeney. «Posso andarmene prima che scoppi la tempesta. Lontano da un mondo dove l’oppio è diventato la religione dei popoli. Lontano.» Si interruppe e si asciugò il naso con il dorso della mano che ripulì sulla manica. Shadow prese dalla tasca una banconota da venti dollari e gliela diede. «Tieni.» Sweeney l’accartocciò e la spinse in fondo al taschino del giubbotto di jeans tutto macchiato d’unto, sotto una toppa con due avvoltoi appollaiati su un ramo secco e la scritta PAZIENZA UN CORNO! ADESSO AMMAZZO QUALCOSA! Annuì. «Basteranno per portarmi dove devo andare.» Si appoggiò al muro rovistando nelle tasche fino a quando non scovò il mozzicone di sigaretta riposto qualche minuto prima. L’accese facendo attenzione a non bruciarsi le dita o la barba. «Voglio dirti una cosa» cominciò, come se non avesse ancora aperto bocca. «Tu sei sulla strada del patibolo, intorno al collo hai già la corda e su ogni spalla un corvo appollaiato che aspetta solo di cavarti gli occhi, e l’albero della forca ha radici profonde perché va dal cielo all’inferno e il nostro mondo non è che il ramo da cui penzola la corda.» Fece una pausa. «Mi fermo un po’ qua» disse accovacciandosi con la schiena appoggiata ai mattoni neri. «Buona fortuna». «Cazzo, sono fottuto» disse l’irlandese. «Comunque grazie.» Shadow tornò verso la città. Erano le otto del mattino e Cairo si stava svegliando. Si voltò a guardare e sotto il ponte vide la faccia pallida di Sweeney rigata di lacrime e sudiciume che lo osservava allontanarsi. Non lo avrebbe più visto vivo. Le brevi giornate d’inverno che precedono il Natale erano come istanti luminosi nella tenebra e nella dimora dei morti volarono via in fretta. Il ventitré dicembre Jacquel e Ibis erano intenti al loro ruolo di ospiti alla veglia di Lila Goodchild. La cucina era affollata di donne indaffarate con pentole e tegami e contenitori di plastica, mentre la defunta era esposta dentro la bara circondata da fiori di serra nella sala principale dell’impresa di pompe funebri. Sul lato opposto della sala c’era un tavolo coperto di enormi quantità di insalata di cavolo, fagioli e frittelle di granturco, pollo e costolette e fagioli dall’occhio, e a metà pomeriggio la casa era piena di gente che piangeva e rideva e stringeva le mani al pastore, tutto grazie all’organizzazione ferrea e sotto l’occhio vigile dei sobriamente vestiti signori Jacquel e Ibis. La defunta sarebbe stata seppellita l’indomani mattina. Quando il telefono dell’ingresso squillò (era di bachelite nera e aveva il bel vecchio disco rotante di una volta), rispose il signor Ibis. Poi prese Shadow in disparte. «Era la polizia. Potresti andare a ritirare un corpo?» «Certo.» «Sii discreto. Tieni.» Scrisse l’indirizzo su un foglietto di carta e lo diede a Shadow che lesse il bel corsivo chiaro e regolare, lo ripiegò e lo infilò in tasca. «Ci sarà una macchina della polizia» aggiunse Ibis. Shadow andò a prendere il carro funebre. Jacquel e Ibis ci avevano tenuto a spiegare, separatamente, che in realtà il carro andava usato soltanto per i funerali, e che per ritirare i cadaveri avevano un furgone, ma al momento il furgone era dal meccanico, erano già tre settimane ormai, perciò che facesse molta attenzione con il carro funebre. Shadow guidò con cautela. Gli spazzaneve avevano ripulito le strade ma gli piaceva guidare piano. Sembrava l’unica cosa giusta da fare con un veicolo di quel tipo, anche se quasi non ricordava l’ultima volta che ne aveva visto uno per strada. La morte era scomparsa dalle strade d’America, pensò; era un evento che si verificava negli ospedali o nelle ambulanze. Non bisogna spaventare i vivi. Il signor Ibis gli aveva raccontato che in alcuni ospedali mettono i morti sul ripiano basso delle barelle e poi le coprono per farle sembrare vuote, così i defunti percorrono la loro ultima strada sotto mentite spoglie. Un’automobile blu della polizia era ferma sul ciglio della strada e Shadow parcheggiò subito dietro. A bordo c’erano due poliziotti che bevevano caffè dai coperchi dei thermos. Non avevano spento il motore per tenere acceso il riscaldamento. Shadow picchiò sul finestrino. «Che c’è?» «Mi manda l’impresa di pompe funebri.» «Stiamo aspettando il medico legale» disse il poliziotto. Shadow si domandò se fosse lo stesso che gli aveva parlato sotto il ponte. L’uomo, di colore, scese dalla macchina lasciando il collega al volante e accompagnò Shadow verso i bidoni dell’immondizia. Mad Sweeney era seduto nella neve vicino a un bidone. In grembo aveva una bottiglia verde; faccia, berretto e spalle erano coperti da uno strato sottile di neve. Non dava segni di vita. «Ubriaco morto» disse il poliziotto. «Così parrebbe» rispose Shadow. «Non toccare niente» disse il poliziotto. «Il medico legale dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Se vuoi la mia opinione questo qui era ubriaco perso e si è congelato il culo.» «Sì» convenne Shadow. «A vederlo sembrerebbe proprio così.» Si accovacciò davanti a Sweeney e guardò l’etichetta della bottiglia. Whiskey irlandese Jameson: un biglietto da venti dollari di sola andata. Una piccola Nissan verde si fermò e ne scese un uomo di mezza età dall’aria esausta, con i capelli e i baffi brizzolati. Si avvicinò al corpo e lo toccò sul collo. «È morto» dichiarò il medico. «Sapete chi è?» «Tizio o Caio» rispose il poliziotto. Il medico legale guardò Shadow. «Lei lavora per Jacquel Ibis?» «Sì.» «Dica a Jacquel di prendere il calco dei denti e le impronte digitali, oltre alle foto. Dell’autopsia non c’è bisogno. Basta un esame del sangue per le analisi tossicologiche. Ha capito? Vuole che glielo scriva?» «No» disse Shadow. «Va bene così. Me lo ricordo.» L’uomo aggrottò per un istante le sopracciglia, poi prese dal portafogli un biglietto da visita, vi scrisse qualcosa e glielo diede. «Lo dia a Jacquel» disse, aggiunse «Buon Natale a tutti» e se ne andò. I poliziotti si tennero la bottiglia vuota. Shadow firmò per il ritiro di Tizio e lo adagiò sulla barella. Il corpo era molto rigido e Shadow non riuscì a smuoverlo dalla posizione seduta. Manovrò la barella in modo da rialzarne un’estremità e vi legò Tizio seduto in fondo al carro con la faccia rivolta nel senso di marcia. Avrebbe viaggiato bene lo stesso. Chiuse le tendine e partì diretto verso l’impresa di pompe funebri. Il carro era fermo a un semaforo quando Shadow sentì una voce gracchiare: «E la veglia la voglio fatta come si deve, con tutto il meglio e donne bellissime che piangono e si strappano le vesti per il dolore e gli uomini più coraggiosi che mi ricordano narrando le mie gesta dei bei tempi». «Sei morto, Mad Sweeney» disse Shadow. «I morti si devono accontentare.» «Ahimè, dovrò per forza» sospirò il cadavere seduto in fondo al carro funebre. Adesso nella sua voce non si sentiva più il tono lamentoso da drogato e c’era invece una rassegnazione laconica; come se le parole giungessero via radio da molto, molto lontano, parole morte trasmesse su una frequenza morta. Il semaforo diventò verde e Shadow appoggiò delicatamente il piede sul pedale dell’acceleratore. «Ma fammi lo stesso una veglia» disse Mad Sweeney. «Metti un posto a tavola anche per me e fammi una bella veglia alcolica. Mi hai ammazzato, Shadow. Me lo devi.» «Non ho fatto niente del genere, Sweeney» rispose Shadow. Non seguì nessuna risposta e il resto del tragitto si svolse in silenzio. Dopo aver parcheggiato, Shadow spinse la barella dentro l’obitorio. Rovesciò Mad Sweeney sul tavolo come se fosse un quarto di bue. Lo coprì con un lenzuolo e lo lasciò lì con accanto le carte della polizia. Salendo le scale gli sembrò di sentire una voce, bassa e soffocata, come una radio accesa in una stanza lontana, che gli diceva: «E come avrebbero potuto whiskey e freddo uccidere me, un leprecauno di pura razza? No, è stata la perdita di quel piccolo sole d’oro a uccidermi, Shadow, a uccidermi per sempre, sicuro com’è sicuro che l’acqua è bagnata e i giorni lunghi e com’è sicuro che prima o poi c’è un amico che finisce per deluderti». Shadow avrebbe voluto far notare a Mad Sweeney che quella era una filosofia molto amara, ma aveva il sospetto che il fatto d’essere morto amareggiasse chiunque. Salì nella casa affollata di signore di mezza età indaffarate a coprire con la pellicola di plastica le casseruole con gli avanzi degli sformati, a tappare i contenitori di plastica pieni di patate fritte ormai fredde e di pasta al forno. Il signor Goodchild, consorte della defunta, aveva messo il signor Ibis con le spalle al muro e gli stava raccontando di non essere sorpreso che nessuno dei figli fosse venuto a dire addio alla madre. Le mele non cadono lontano dagli alberi, ripeteva a chiunque lo volesse ascoltare. Le mele non cadono lontane dagli alberi. Quella sera Shadow aggiunse un posto a tavola. Davanti a ogni piatto sistemò un bicchiere e in mezzo al tavolo una bottiglia di Jameson Gold. Era il whiskey irlandese più costoso che fosse riuscito a trovare nel negozio di liquori. Finito di cenare (con un grande vassoio pieno d’avanzi lasciati dalle pie donne), Shadow versò nei bicchieri una dose generosa di liquore; nel suo, in quello di Ibis, di Jacquel e di Mad Sweeney. «Che importa se è seduto sulla barella nel sotterraneo» disse mentre versava il whiskey «in attesa di essere sepolto in una fossa comune? Questa sera brinderemo a lui e gli faremo la veglia che desiderava.» Shadow alzò il bicchiere in un brindisi in direzione del posto vuoto. «L’ho incontrato solo due volte, da vivo. La prima ho pensato che fosse uno stronzo di prima categoria e anche un pazzo forsennato. La seconda mi è sembrato un rovinato totale e gli ho dato i soldi per uccidersi. Mi ha insegnato un trucco con le monete che non riesco a ricordare, mi ha lasciato qualche livido in ricordo e diceva di essere un leprecauno. Riposa in pace, Mad Sweeney.» Sorseggiò il whiskey assaporandone il gusto affumicato. Gli altri due bevvero con lui dopo aver brindato al posto vuoto. Il signor Ibis infilò una mano in tasca e ne estrasse un quaderno che sfogliò fino alla pagina che cercava, dalla quale lesse un succinto resoconto della vita di Sweeney. Secondo Ibis, Mad Sweeney aveva esordito più di tremila anni prima come guardiano di una roccia sacra in una piccola radura irlandese. Raccontò le faccende amorose di Sweeney, le sue inimicizie, la follia che gli dava potere («sì narra anche una versione più tarda delle sue gesta, benché la sua natura sacra, l’origine antica e gran parte dei versi dell’epopea siano stati dimenticati da tempo immemorabile»), parlò del culto di Mad Sweeney che nel luogo d’origine si era a poco a poco trasformato in un cauto rispetto, poi in un atteggiamento divertito; raccontò della ragazza di Bantry che era venuta nel Nuovo Mondo portando con sé la fede in Mad Sweeney il leprecauno, perché una notte l’aveva visto vicino allo stagno, e non le aveva forse sorriso chiamandola per nome? La ragazza aveva dovuto emigrare viaggiando nella stiva di una nave zeppa di gente che aveva visto le proprie patate diventare una nera poltiglia nei campi, che aveva visto amici e amanti morire di fame, che sognava una terra di pance piene. In particolare la ragazza di Bantry sognava una città dove una giovane donna potesse guadagnare a sufficienza per far venire tutta la famiglia nel Nuovo Mondo. Molti irlandesi venuti in America si definivano cattolici, anche se del catechismo non sapevano niente, anche se di religioso conoscevano soltanto la Bean Sidhe, la banshee, lo spirito di donna il cui lamento era presagio di morte, e Saint Bride, che una volta era Bridget delle due sorelle (tutte e tre erano Brigid, una e trina) e le storie di Finn, di Oisin, di Conan il calvo, perfino dei leprecauni, i mezzi uomini (senso dell’umorismo irlandese, visto che all’epoca i leprecauni erano più alti della gente dei tumuli)… Tutto questo e altro ancora narrò il signor Ibis quella notte in cucina. L’ombra che gettava sul muro era allungata come quella di un uccello, e man mano che il whiskey scorreva Shadow trovava sempre più facile immaginare che fosse la testa di un enorme uccello acquatico, il becco lungo e ricurvo, e fu a un certo punto a metà del secondo bicchiere che Mad Sweeney stesso cominciò ad aggiungere dettagli e particolari irrilevanti al racconto di Ibis («… e che ragazza, con il petto color crema, tutto coperto di lentiggini, con i capezzoli del rosa intenso dell’alba di un giorno in cui pioverà a catinelle prima di mezzodì ma nel pomeriggio splenderà il sole…») e poi si avventurò, ricorrendo a entrambe le mani, nella storia degli dèi irlandesi, giunti a ondate da Gallia, Spagna e chissà dove, che a ogni ondata successiva si trasformavano in troll e tutte le dannate creature, fino a quando la Santa Madre Chiesa non arrivò e senza preavviso trasformò tutti gli dèi d’Irlanda in fate, santi o in re morti… Il signor Ibis pulì gli occhiali e spiegò — pronunciando le parole con una chiarezza e una precisione perfino maggiore del solito e rivelando con ciò di essere ubriaco (il modo di parlare e il sudore che gli imperlava la fronte nella casa fredda erano gli unici indizi del suo stato di ubriachezza) — agitando un indice ammonitore, che lui era un artista e che i suoi racconti non andavano considerati resoconti letterali ma creazioni della fantasia, più veri del vero. «Ti faccio vedere io la mia fantasia creativa» disse Mad Sweeney, «e con un pugno ti rifaccio quel muso di merda, tanto per cominciare», e il signor Jacquel ringhiò scoprendo i denti, il ringhio di un grosso cane che non vuole combattere ma che potrebbe attaccarti alla gola senza difficoltà, e Sweeney raccolse il messaggio e dopo essersi rimesso seduto si versò un altro bicchiere di whiskey. «Ti è tornato in mente il mio trucchetto?» chiese a Shadow con un sorriso. «No.» «Se provi a indovinare» disse Mad Sweeney con le labbra di un rosso acceso e gli occhi azzurri offuscati «io ti aiuto.» «Non è un palmaggio, vero?» chiese Shadow. «Non lo è.» «Adoperi qualche attrezzo? Qualcosa che infili nella manica o non so dove e che spara fuori le monete quando fai finta di prenderle al volo?» «Non è un attrezzo. Qualcuno vuole ancora whiskey?» «Ho letto in un libro che c’è un modo di eseguire il Sogno dell’Avaro con un guanto trasparente, facendo una specie di sacchetto color pelle dove si tengono le monete.» «Oh che triste veglia per il Grande Sweeney venuto a volo d’uccello fin dall’Irlanda e che nella sua follia ha mangiato crescione: è morto e nessuno lo piange salvo un uccello, un cane e un cretino. No, non si tratta di una sacca nel guanto di gomma.» «Be’, altre idee non me ne vengono» disse Shadow. «Secondo me le prendi dall’aria e basta.» L’aveva detto con sarcasmo, ma quando vide l’espressione di Sweeney aggiunse: «È così. Fai davvero così». «Be’, non le prendo esattamente dall’aria. Ma ci sei vicino. Bisogna prenderle dalla riserva.» «La riserva» ripeté Shadow che cominciava a ricordare. «Certo.» «Devi soltanto tenerla a mente, e puoi attingerci finché ti pare. È il tesoro del sole. C’è nei momenti in cui il mondo produce un arcobaleno. C’è quando cominciano l’eclisse e la tempesta.» E mostrò a Shadow come si faceva. Questa volta Shadow capì. La testa gli doleva e pulsava, e la lingua aveva la consistenza e il sapore della carta moschicida. Shadow socchiuse gli occhi per difendersi dalla luce. Si era addormentato con la testa appoggiata sul tavolo della cucina; era vestito di tutto punto, anche se chissà quando doveva essersi levato la cravatta. Scese nell’obitorio nel seminterrato e fu sollevato, anche se non sorpreso, di vedere che Tizio era ancora seduto sul tavolo dell’imbalsamazione. Prese la bottiglia vuota di Jameson Gold dalle dita bloccate dal rigor mortis e la gettò via. Al piano di sopra qualcuno si stava muovendo. Quando Shadow tornò in cucina, seduto al tavolo trovò Wednesday intento a divorare con un cucchiaio di plastica gli avanzi dell’insalata di patate da un contenitore. Indossava un vestito grigio scuro, una camicia bianca e una cravatta color ferro: il sole del mattino scintillava sulla spilla d’argento a forma d’albero. Vedendo Shadow sorrise. «Ah ragazzo mio, mi fa piacere vedere che sei sveglio. Credevo che saresti andato avanti a dormire per sempre.» «Mad Sweeney è morto.» «L’ho saputo» disse Wednesday. «Un vero peccato. Naturalmente presto o tardi toccherà a tutti.» Fece il gesto di dare uno strattone a una corda immaginaria, più o meno a livello dell’orecchio, poi piegò la testa di lato tirando fuori un palmo di lingua e strabuzzando gli occhi. Per essere una rapida pantomima, fu piuttosto inquietante. Poi lasciò andare la corda immaginaria e sorrise con la sua solita smorfia. «Vuoi un po’ di insalata di patate?» «Preferirei di no.» Shadow diede un’occhiata intorno e verso l’ingresso. «Sai dove sono Ibis e Jacquel?» «Ma certo. Stanno seppellendo la signora Lila Goodchild, un’attività nella quale avrebbero gradito il tuo aiuto ma io ho chiesto che non ti svegliassero. Ti aspetta un lungo viaggio.» «Siamo in partenza?» «Appena sei pronto.» «Mi piacerebbe salutarli.» «I saluti sono un genere sopravvalutato. Li rivedrai, non ne dubito, prima che questa faccenda sia conclusa.» Per la prima volta dopo la sua prima notte nella casa, Shadow notò la gatta, acciambellata nella cesta. L’animale aprì gli occhi color ambra e rimase a guardarlo uscire con aria indifferente. Così Shadow lasciò la casa dei morti. Gli alberi e gli arbusti, coperti di brina, sembravano isolati dalla realtà, presenze oniriche. Sul sentiero si scivolava. Wednesday lo precedette verso la Chevy Nova bianca di Shadow, parcheggiata sul ciglio della strada. Era stata pulita di recente e qualcuno aveva sostituito le targhe del Wisconsin con altre del Minnesota. I bagagli di Wednesday erano già stati caricati sul sedile posteriore. Wednesday aprì la portiera con un duplicato della chiave che Shadow aveva in tasca. «Guido io» disse. «Ci vorrà almeno un’ora prima che tu sia in grado di renderti utile.» Si diressero a nord, tenendosi il Mississippi a sinistra, un largo nastro d’argento sotto il cielo grigio. Appollaiato su un albero spoglio e spettrale lungo la strada Shadow vide un enorme sparviero bianco e marrone che li fissava con sguardo da folle, e quando furono più vicini spiegò le ali e si alzò in un volo circolare, possente. Shadow si rendeva conto che quel periodo nella dimora dei morti era stato solo una sospensione momentanea; cominciava già a sembrargli un evento accaduto a qualcun altro, tanto tempo prima. |
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