"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)7Da molte ore Shadow camminava verso sud, o perlomeno sperava che fosse il sud, lungo una stradina stretta e senza indicazioni che procedeva tra i boschi del Wisconsin meridionale, sempre secondo le sue supposizioni. A un certo punto dalla direzione opposta arrivarono due jeep con i fari accesi e lui si nascose tra gli alberi. La foschia del primo mattino restava sospesa da terra fino all’altezza dei suoi fianchi. Le jeep erano nere. Quando mezz’ora più tardi sentì il rumore lontano di due elicotteri che venivano da occidente, Shadow abbandonò la pista e si gettò nella macchia. Si rannicchiò in un incavo nel terreno, sotto un albero caduto, e aspettò che gli elicotteri se ne andassero. Quando furono lontani diede una rapida occhiata al grigio cielo invernale e scoprì con una certa soddisfazione che anche gli elicotteri avevano un colore nero opaco. Aspettò tra gli alberi che tornasse il silenzio. Nel sottobosco c’era uno strato sottile di neve ghiacciata che scricchiolava sotto i suoi passi. Shadow era molto contento di avere gli scaldini chimici, perché era certo che altrimenti gli si sarebbero congelate le estremità. A parte questo senso di gratitudine nei confronti degli scaldini, era come inebetito: il cuore sordo, il cervello intorpidito, l’anima insensibile. Era uno stordimento che risaliva a molto lontano, che arrivava molto in profondità. C’era il rischio che stesse camminando in tondo. Forse avrebbe potuto continuare a camminare all’infinito fino all’esaurimento degli scaldini e delle merendine. Poi si sarebbe seduto da qualche parte per non rialzarsi più. Quando arrivò a un grosso torrente decise di seguirlo. I torrenti portano ai fiumi e tutti i fiumi portano al Mississippi. Se avesse continuato a camminare, oppure rubato una barca o costruito da solo una zattera, prima o poi avrebbe raggiunto New Orleans, dove faceva caldo, ipotesi tanto confortante quanto infondata. Gli elicotteri non tornarono. Aveva la sensazione che quei due che gli erano passati sulla testa fossero andati a ripulire il disastro sul treno merci, e non che stessero cercando lui, altrimenti sarebbero ritornati con cani poliziotto e sirene e tutto il circo della caccia all’uomo. Invece non c’era niente di niente. Ma cosa voleva, esattamente? Non voleva essere preso. Non voleva essere accusato dell’uccisione degli uomini sul treno. «Non sono stato io» si sentì dire, «è stata la mia defunta moglie.» Immaginare l’espressione degli agenti non era difficile. Poi, mentre saliva sulla sedia elettrica, la gente avrebbe continuato a discutere se era matto oppure no… Si chiese se ci fosse la pena di morte, nel Wisconsin. Si chiese se la cosa avesse qualche importanza. Voleva sapere che cosa stava succedendo, e scoprire come sarebbe andata a finire. E infine capì — e sorrise mesto, scoprendolo — che desiderava soprattutto tornare alla normalità. Voleva non essere mai andato in prigione, che Laura fosse ancora viva, che niente di tutto questo fosse mai accaduto. In lontananza, un picchio tamburellava su un tronco marcio. Shadow si sentì osservato: un gruppetto di cardinali rossi lo fissò da uno scheletrico sambuco prima di riprendere a becchettare le bacche nere. Sembrava un’illustrazione del calendario degli uccelli canori del Nordamerica. I trilli lo seguirono per un po’ lungo l’argine del torrente e infine non si sentirono più. Il cerbiatto giaceva in una radura all’ombra di un colle e un uccello nero grande come un cane era intento a sbranargli un fianco, con l’enorme becco crudele strappava brandelli di carne rossa. Gli occhi del cerbiatto non c’erano più, ma il resto della testa era intatto e sul dorso si vedeva ancora il manto di pelliccia maculata. Shadow si domandò come fosse morto. L’uccello nero piegò la testa di lato e producendo un suono che sembrava quello di due sassi sfregati tra loro disse: «Tu sei l’uomo ombra». «Sono Shadow» rispose Shadow. L’uccello saltò sul dorso del cerbiatto, alzò la testa e arruffò le penne sul collo e sulla cresta. Era un animale enorme, con gli occhi come due perle nere. C’era qualcosa che faceva paura in un uccello di quelle dimensioni appollaiato a così breve distanza. «Dice che vi rivedete al Cai-ro» disse il corvo. Shadow si chiese di quale dei due corvi imperiali di Odino si trattasse: Hugin o Munin, Memoria o Pensiero. «Al Cai-ro?» ripeté. «Egitto.» «E come ci arrivo in Egitto?» «Segui il Mississippi. Verso sud. Trova lo Sciacallo.» «Senti» disse Shadow, «non voglio sembrare come se, cazzo, senti…» Fece una pausa per cercare di riordinare le idee. Stava morendo di freddo in mezzo a un bosco e parlava con un gigantesco uccellaccio nero che faceva colazione a base di Bambi. «Va bene. Quello che sto cercando di dire è che non voglio misteri.» «Misteri» convenne il corvo. «Voglio delle spiegazioni. Sciacallo al Cai-ro. Non mi è di grande aiuto. Sembra la battuta di un brutto film di spionaggio.» «Sciacallo. Amico. «Questo me l’hai già detto. Mi piacerebbe qualche informazione in più.» L’uccello si voltò per strappare un altro brandello di carne rossa dal costato del cerbiatto. Poi volò tra gli alberi con il pezzo di carne che gli penzolava dal becco come un lungo verme sanguinante. «Ehi! Mi puoi almeno riportare sulla strada?» L’uccello volò più alto. Shadow guardò il cadavere del piccolo cervo. Decise che se fosse stato un vero boscaiolo a quel punto se ne sarebbe tagliata una bistecca da cuocere sul fuoco. Invece andò a sedersi su un tronco caduto e mangiandosi una barretta Snicker si rassegnò a non essere un vero boscaiolo. Il corvo arrivò gracchiando in fondo alla radura. «Vuoi che ti segua?» gli domandò Shadow. «Oppure Timmy è caduto in un altro pozzo?» L’uccello gracchiò di nuovo, questa volta con impazienza. Shadow si alzò e si avviò nella sua direzione. L’animale aspettò che gli fosse vicino, poi con un pesante battito d’ali raggiunse un altro albero; si sarebbe detto che volesse guidarlo a sinistra del percorso che aveva seguito prima. «Ehi, Hugin o Munin o chiunque tu sia!» Il corvo si voltò, piegò la testa sospettosamente e lo fissò con i suoi occhi lucidi. «Di’: "Mai più"». «Vaffanculo» rispose l’uccello. Poi, mentre attraversavano insieme il bosco, non disse più niente. Dopo circa mezz’ora arrivarono a una strada asfaltata alla periferia di una cittadina e il corvo volò via nel bosco. Shadow notò l’insegna di un Culvers Frozen Custard Butterburgers e, poco distante, una pompa di benzina. Entrò da Culvers, che era deserto. Alla cassa c’era un giovanotto magro con la testa rasata. Shadow ordinò due butterburger e patatine. Poi andò in bagno a ripulirsi. Era in condizioni pietose. Fece un inventario del contenuto delle tasche: qualche moneta, incluso il dollaro d’argento, uno spazzolino usa e getta con dentifricio, tre barrette Snicker, cinque scaldini chimici, un portafogli (conteneva soltanto la patente e la carta di credito… e si domandò quando sarebbe scaduta, la carta), e nella tasca interna del cappotto un migliaio di dollari in banconote da cinquanta e da venti, la sua parte del lavoretto alla banca del giorno prima. Si lavò le mani e la faccia con l’acqua calda, inumidì i capelli e li ravviò, poi tornò nel ristorante a mangiare i suoi burger con patatine e a bere il caffè. Si avvicinò al banco. «Vuole un budino?» chiese il giovane magro. «No. No, grazie. C’è qualche posto nei paraggi dove potrei noleggiare una macchina? La mia mi ha mollato definitivamente a piedi a un bel pezzo da qui.» Il giovane si grattò la testa rasata. «Non da queste parti. Se la macchina è guasta chiami Triple-A. Oppure chieda a quelli della pompa di benzina di trainargliela.» «Buona idea» disse Shadow. «Grazie.» Attraversò la strada coperta di neve fangosa e arrivò al benzinaio. Comperò qualche merendina, bastoncini di carne secca e altri scaldini chimici. «C’è un posto dove noleggiare una macchina, nei paraggi?» chiese alla cassiera. Era una donna decisamente grassoccia, con gli occhiali e una gran voglia di chiacchierare. «Mi faccia pensare» disse. «Qui siamo un po’ fuori mano. A Madison ci sono degli autonoleggi. Dov’è diretto?» «Cai-ro» disse lui. «Ovunque esso sia.» «Lo so io dov’è. Mi passi una di quelle cartine dell’Illinois lì sullo scaffale.» Shadow le passò una cartina plastificata. Lei l’aprì e indicò trionfante un punto nell’angolo più basso dello stato. «Eccolo qui.» «Il Cairo?» «Quella è in Egitto. Ma a Little Egypt c’è Cairo. C’è anche una Thebes, e non solo. Mia cognata è di Thebes. Un giorno le ho chiesto se sapeva niente della Tebe in Egitto e lei mi ha guardato come se mi mancasse una rotella.» La donna ridacchiò come una matta. «Ci sono anche le piramidi?» La città si trovava a più di settecento chilometri a sud. «Non che io sappia. Lo chiamano Little Egypt perché cento o forse centocinquant’anni fa c’è stata una carestia. Tutti i raccolti rovinati. Laggiù invece i campi stavano bene e così tutti ci andavano a comperare da mangiare. Come nella Bibbia. Come nel musical «Al mio posto, dovendo arrivare fin lì, come ci andrebbe?» «Ci andrei in macchina.» «La mia si è rotta a qualche chilometro da qui. Era un rottame di merda, scusi l’espressione.» «Erre-di-emme» disse lei. «Già. Così le chiama mio cognato. Compra e vende macchine, ma in piccolo. Arriva e dice: Mattie, ho appena venduto un’altra erre-di-emme. Magari è interessato alla sua. Per recuperare i pezzi, o qualcosa del genere.» «È del mio capo» rispose Shadow sorprendendosi della disinvoltura con cui sciorinava una bugia dietro l’altra. «In realtà dovrei chiamarlo e dirgli di venire a riprendersela.» Fu folgorato da un’idea. «Vive nei paraggi suo cognato?» «Sta a Muscoda. A dieci minuti da qui. Dall’altra parte del fiume. Perché?» «Be’, può darsi che abbia un’erre-di-emme da vendermi per, diciamo, cinque o seicento dollari.» La donna sorrise con dolcezza. «Caro lei, mio cognato non na niente di niente, nel suo parcheggio, che costi più di cinquecento dollari con il pieno di benzina. Però non gli dica che gliel’ho detto io.» «Potrebbe telefonargli?» «Fatto» rispose lei, e alzò il ricevitore. «Tesoro? Sono Mattie. Vieni subito. C’è qui un cliente che vuole comprare una macchina.» Il rottame scelto da Shadow era una Chevy Nova del 1983 e la comperò, con il pieno, per quattrocentocinquanta dollari. Sul contachilometri c’era scritto duecentocinquantamila, e puzzava leggermente di bourbon e tabacco e, soprattutto, di banane. Non avrebbe saputo dire di che colore fosse, sotto lo strato di sporcizia e di neve. Eppure, di tutti i veicoli a disposizione nel parcheggio del cognato di Mattie, gli era sembrata l’unica capace di fare ancora settecento chilometri. La compravendita venne conclusa in contanti e il cognato di Mattie non si sognò nemmeno di chiedergli un documento o il codice fiscale. Shadow guidò verso ovest, poi verso sud, con cinquecentocinquanta dollari in tasca, tenendosi lontano dall’Interstate. Il rottame era fornito di radio, ma quando la si accendeva non dava segni di vita. Un cartello gli annunciò che aveva lasciato il Wisconsin e adesso si trovava in Illinois. Passò davanti a una miniera a cielo aperto, enormi archi di luce azzurra che bruciavano nel pallido chiarore di un mattino d’inverno. Si fermò a mangiare in un posto che si chiamava Mom’s, appena in tempo prima che chiudessero per la pausa pomeridiana. In ogni città che attraversava, accanto al cartello con la scritta benvenuti a Our Town (720 ab.), ce n’era un altro che informava che la locale squadra under 14 di pallacanestro era arrivata terza nel campionato nazionale, oppure che la cittadina aveva dato i natali alle semifinaliste della squadra di wrestling under 16. Continuò a guidare, malgrado gli ciondolasse la testa, sentendosi più esausto a ogni minuto che passava. Prese un rosso rischiando di essere travolto da una Dodge guidata da una donna. Appena arrivato in aperta campagna si infilò in un sentiero laterale usato dai trattori ma deserto, a quell’ora, e si fermò sul ciglio di un campo coperto di stoppie spruzzate di neve. Una lunga fila di tacchini selvatici grassi e neri lo stava attraversando lentamente, sembravano i dolenti dietro al carro funebre; Shadow spense il motore, si sdraiò sul sedile posteriore e si addormentò. Oscurità, la sensazione di cadere… sembrava che stesse capitombolando in un grande buco, come Alice. Cadde per cent’anni nell’oscurità. Tante facce gli passarono accanto, fluttuanti nel buio, ma furono strappate via prima che le potesse toccare… Brutalmente, aveva smesso di cadere. Adesso era in una caverna e non era più solo. Fissò dentro due occhi che gli erano familiari: grandi, liquidi, neri. Gli occhi si chiusero esi riaprirono. Sottoterra: sì. Ricordava quel luogo. L’odore di vacca bagnata. Il fuoco vacillava sulle pareti umide della caverna, illuminando la testa di bufalo, il corpo d’uomo, la pelle del colore dei mattoni d’argilla. «Non potete lasciarmi in pace?» chiese Shadow. «Voglio soltanto dormire.» L’uomo-bufalo annuì lentamente. Non mosse la labbra, ma una voce nella testa di Shadow domandò: «Dove vai?». «A Cairo.» «Perché?» «Dove potrei andare? È lì che mi manda Wednesday. Ho bevuto il suo idromele.» Nel sogno, dove regnava la logica onirica, il vincolo sembrava incontestabile: aveva bevuto l’idromele di Wednesday tre volte, suggellando il patto. Cos’altro avrebbe potuto fare? Quando l’uomo con la testa di bufalo mise una mano nel fuoco per muovere rami e tizzoni, si alzò una fiammata. «C’è tempesta, in arrivo» disse. Si pulì sul petto glabro le mani sporche di cenere, lasciandovi strisce nere di fuliggine. «Non fate che ripetermelo. Posso chiedere una cosa?» Durante la pausa di silenzio che seguì una mosca andò ad appoggiarsi sulla fronte pelosa dell’uomo-bufalo che la scacciò con una mano. «Chiedi.» «Ma è vero? Queste persone sono davvero dèi? È tutto talmente…» Si interruppe. Poi aggiunse: «impossibile», che non era esattamente la parola che stava cercando, ma gli sembrava la meno peggio. «Cosa sono gli dèi?» chiese l’uomo-bufalo. «Non so» rispose Shadow. Si sentivano dei colpi, implacabili e monotoni. Shadow aspettò che l’uomo-bufalo dicesse ancora qualcosa, che gli spiegasse cos’erano gli dèi, che sbrogliasse tutto l’intricato incubo che era diventato la sua vita. Aveva freddo. Aprì gli occhi e faticosamente si mise seduto. Era intirizzito e fuori il cielo aveva assunto quella luminosa tonalità di rosso profondo che separa il crepuscolo dalla notte. «Ti senti bene? Sei malato? Hai bevuto?» Era una voce acuta, da donna o da ragazzo. «Sto bene» rispose Shadow. «Aspetta.» Aprì la portiera e uscì stirandosi gli arti rattrappiti e il collo. Poi strofinò le mani una contro l’altra per far circolare il sangue e riscaldarle. «Cavoli. Sei altissimo.» «Così dicono» rispose Shadow. «Tu chi sei?» «Mi chiamo Sam» disse la voce. «Sam maschio o Sam femmina?» «Sam femmina. Prima scrivevo Sammi con la i, e sopra la i disegnavo una faccina sorridente, ma poi mi sono stufata perché lo facevano assolutamente tutti, così ho smesso.» «Va bene, Sam femmina. Adesso vai là in fondo e guarda la strada.» «Perché? Sei un folle assassino o qualcosa del genere?» «No» rispose Shadow, «devo fare pipì e mi piacerebbe un momento di privacy.» «Ah. Bene. D’accordo. Ho capito. Non c’è problema. Anch’io sono come te. Non posso fare pipì nemmeno se c’è qualcuno nel gabinetto vicino. È una forma grave di sindrome della vescica timida.» «Allora?» La ragazza si allontanò e Shadow fece qualche passo verso i campi, abbassò la cerniera dei jeans e orinò contro un palo della recinzione per un tempo molto lungo. Poi tornò alla macchina. L’ultima fioca luce dell’imbrunire aveva ceduto alla notte. «Sei ancora lì?» le chiese. «Sì» rispose lei. «La tua vescica deve avere la capienza del lago Erie. Nel tempo che hai impiegato a fare pipì sono sorti e caduti alcuni imperi. Il rumore si sentiva fin qui.» «Grazie. Volevi qualcosa?» «Be’, volevo sapere se stavi bene. Cioè, se eri morto o qualcosa del genere avrei chiamato la polizia. Ma siccome i finestrini erano appannati ho pensato che fossi ancora vivo.» «Abiti da queste parti?» «No. Sono venuta in autostop da Madison.» «Non è una cosa sicura da fare.» «Sono tre anni che lo faccio, cinque volte l’anno. Sono ancora viva. Tu dove sei diretto?» «Arrivo fino a Cairo.» «Perfetto» disse lei. «Io vado a El Paso. A passare le vacanze da mia zia.» «Non ti posso portare fin là» disse Shadow. «Non a El Paso in Texas. L’altro, quello in Illinois. È a poche ore a sud. Sai dove siamo, adesso?» «No» rispose Shadow. «Non ne ho idea. Da qualche parte sull’autostrada Cinquantadue?» «La prossima uscita è Perù» disse Sam. «Non quella in Perù. Quella in Illinois. Fatti annusare. Piegati.» Shadow si piegò e la ragazza gli annusò l’alito. «Va bene. Non sento odore di alcol. Puoi guidare. Andiamo.» «Perché ti dovrei dare un passaggio?» «Perché sono una donzella in difficoltà» disse lei. «E tu sei un cavaliere in… in una macchina molto sporca. Sai che qualcuno ha scritto "Lavami!" sul lunotto?» Shadow salì a bordo e aprì la portiera per la ragazza. La lucina che normalmente si accende in questi casi non funzionava. «No» rispose. «Non lo sapevo.» Sam salì. «Sono stata io» disse. «L’ho scritto io. Quando c’era ancora abbastanza luce.» Shadow mise in moto, accese i fari e tornò verso la strada da cui era venuto. «Gira a sinistra» gli suggerì lei provvidenziale. Shadow svoltò a sinistra e continuò a guidare. Dopo qualche minuto il riscaldamento si mise in funzione e un piacevole tepore invase l’abitacolo. «Non hai ancora detto niente» riprese Sam. «Di’ qualcosa.» «Sei umana? Un autentico essere umano fatto di carne e ossa e nato da uomo e donna?» «Certo.» «Va bene. Era solo una domanda. Allora, che cosa vuoi che ti dica?» «Qualcosa di rassicurante, direi. Improvvisamente mi è venuta quella sensazione tipo "oh merda, sono nella macchina sbagliata con l’uomo sbagliato".» «Ah sì» disse lui. «La conosco. E cos’è che troveresti rassicurante?» «Be’, sapere che non sei un evaso o un pluriomicida o roba del genere.» Shadow rifletté per un momento. «Non sono niente del genere, davvero.» «Però ci hai dovuto pensare.» «Mi hanno rilasciato. Non ho mai ucciso nessuno.» «Ah.» Entrarono in una cittadina con le strade illuminate e le case coperte di decorazioni natalizie e Shadow gettò un’occhiata alla sua destra. La ragazza aveva i capelli neri, corti e arruffati e una faccia che risultava al tempo stesso attraente e leggermente mascolina, come se i suoi tratti fossero stati scolpiti nella roccia. Anche lei lo stava osservando. «Perché sei stato in prigione?» «Ho fatto molto male a un paio di persone. Ero arrabbiato.» «Se lo meritavano?» Shadow rifletté, prima di rispondere. «All’epoca pensavo di sì.» «Lo rifaresti?» «No, accidenti. Ho perso tre anni della mia vita in galera.» «Mmm. Hai sangue indiano, nelle vene?» «Non che io sappia.» «Sembrerebbe.» «Mi spiace deluderti.» «Figurati. Hai fame?» Shadow annuì. «Potrei mettere qualcosa sotto i denti» disse. «Dopo il prossimo semaforo c’è un posto dove si mangia bene per poco.» Shadow si fermò nel parcheggio. Scesero dalla macchina. Non si preoccupò di chiuderla ma infilò le chiavi in tasca. Poi prese qualche moneta per comperare un giornale. «Ti puoi permettere di mangiare qui?» chiese. «Sì» rispose lei alzando il mento. «Posso pagarmi la cena.» Shadow annuì. «Facciamo una cosa. Facciamo testa o croce» disse. «Testa mi inviti tu, croce pago io per tutti e due.» «Fammi vedere la moneta» rispose lei con aria sospettosa. «Un mio zio ne aveva una truccata.» Esaminò la moneta di Shadow, soddisfatta di scoprire che non aveva niente di strano. Lui la lanciò in modo che roteasse su se stessa, poi la prese al volo, la fece cadere sul dorso della mano sinistra e alzò la destra per scoprirla. «Croce» disse lei tutta contenta. «Paghi tu.» «Vabbè» rispose Shadow. «Bisogna saper perdere.» Ordinò il polpettone, mentre Sam scelse le lasagne, poi sfogliò il giornale per vedere se parlavano dei cadaveri sul treno merci. Non ne parlavano. L’unica storia di qualche interesse era in copertina: la città era infestata da un numero straordinario di corvi. I coltivatori della zona pensavano di appenderne alcuni esemplari morti in cima agli edifici pubblici più alti per spaventare gli altri, ma secondo gli ornitologi quel sistema non avrebbe funzionato perché gli animali vivi si sarebbero limitati a mangiarseli. I contadini erano determinati. «Quando vedranno i loro amici morti» dichiarò il portavoce dei coltivatori «capiranno che qui non ce li vogliamo.» Arrivarono i piatti colmi di cibo fumante, porzioni più generose di quelle che chiunque avrebbe potuto affrontare. «Allora, che cosa c’è a Cairo?» «Non ne ho idea. Ho ricevuto dal mio capo il messaggio di andarci.» «Che lavoro fai?» «Lavoro per mio zio.» Sam sorrise. «Be’» disse, «con l’aspetto che hai e il rottame che guidi non puoi certo essere della mafia. A proposito, perché la tua macchina puzza di banana?» Shadow scrollò le spalle e continuò a mangiare. Sam socchiuse gli occhi. «Forse sei un contrabbandiere di banane» disse. «Non mi hai ancora chiesto che cosa faccio io.» «Frequenterai l’università.» «U.W. Madison.» «Dove sicuramente studi storia dell’arte, storia del movimento femminile e, con ogni probabilità, ti fondi da sola le tue sculture in bronzo. Ah, forse per pagare l’affitto fai la cameriera in un bar.» La ragazza appoggiò la forchetta sul tavolo; aveva le narici frementi, gli occhi sbarrati. «Come cazzo fai a saperlo?» «Cosa? Adesso tu devi dire, no, in realtà frequento i corsi di letteratura romanza e di ornitologia.» «Vuoi dire che hai tirato a indovinare?» «Cosa?» Lei lo fissò con occhi cupi. «Sei un tipo molto strano, signor… Non so come ti chiami.» «Mi chiamano Shadow». La ragazza fece una smorfia, come se avesse assaggiato qualcosa con un cattivo sapore. Smise di parlare, chinò la testa e finì il piatto di lasagne. «Ma tu lo sai perché si chiama Little Egypt?» chiese Shadow quando la ragazza ebbe finito. «La zona intorno a Cairo? Sì. Perché si trova sul delta dell’Ohio e del Mississippi. Come Il Cairo in Egitto, sul delta del Nilo.» «Sembra ragionevole.» Sam si appoggiò allo schienale, ordinò un caffè e una fetta di torta con crema e cioccolato e si ravviò i capelli con le dita. «Sei sposato, signor Shadow?» E poi, dopo un attimo di esitazione: «Cavoli. Devo aver fatto un’altra domanda sbagliata». «L’hanno sepolta giovedì» rispose lui scegliendo con cura le parole. «È morta in un incidente automobilistico.» «Oddio santo. Cavoli. Mi dispiace.» «Anche a me.» Seguì una pausa imbarazzata, poi Sam disse: «La mia sorellastra ha perso il figlio, mio nipote, alla fine dell’anno scorso. È dura.» «Sì. Lo è. Di cosa è morto?» Sam sorseggiò il caffè. «Non lo sappiamo. In effetti non sappiamo neanche se è veramente morto. E scomparso nel nulla. Aveva tredici anni. Nel cuore dell’inverno. Mia sorella è ancora a pezzi.» «Nessuna traccia?» Parlava come un poliziotto in un telefilm. Provò a fare di meglio. «C’è il sospetto di violenza?» Così era addirittura peggio. «Si è sospettato di quello stronzo irresponsabile di mio cognato, il padre del bambino. Uno capace di rapirlo. E probabilmente è andata così. Ma tutto questo è successo in una cittadina nei North Woods. Una bella cittadina gentile dove nessuno chiude la porta di casa.» Sospirò e scosse la testa. Teneva la tazza di caffè con tutte e due le mani. «Sei sicuro di non avere un po’ di sangue indiano?» «Non che io sappia. È possibile. Non so molto sul conto di mio padre. La mamma me l’avrebbe detto se fosse stato un nativo. Però non si può mai sapere.» Sam fece un’altra smorfia e a metà del dolce decise di rinunciare: le avevano servito una fetta grande come metà della sua testa. Allungò il piatto verso Shadow. «La vuoi?» Lui sorrise, disse: «certo», e la mangiò tutta. Quando la cameriera portò il conto Shadow pagò. «Grazie» gli disse Sam. Ora faceva più freddo e prima di mettersi in moto il motore tossicchiò un paio di volte. Shadow ritornò sulla strada e riprese a guidare verso sud. «Hai mai letto Erodoto?» chiese. «Cosa?» «Erodoto. Hai mai letto le sue «Sai una cosa» disse lei in tono sognante, «io non ti capisco. Non capisco come parli né le parole che usi. Prima sembri un gigante tonto, il momento dopo mi leggi nel pensiero, e adesso siamo qui a parlare di Erodoto. Comunque no. Non l’ho letto. So chi è. Ne ho sentito parlare alla radio, in una trasmissione educativa, credo. Non è quello che chiamano il padre delle menzogne?» «Credevo che quello fosse il diavolo.» «Sì, anche. Ho sentito parlare di Erodoto a proposito delle formiche giganti e dei grifoni a guardia delle miniere d’oro, tutte cose che aveva inventato.» «Non credo che inventasse. Scriveva quello che gli veniva raccontato. Scriveva storie, insomma, in genere storie molto interessanti, con un sacco di dettagli strani: tipo, lo sapevi che in Egitto se moriva una ragazza particolarmente bella o la moglie di un signore aspettavano tre giorni prima di farla imbalsamare? Lasciavano il corpo a decomporsi un po’ al sole.» «Perché? Aspetta. Sì, ho capito. Oh, ma è disgustoso.» «Nelle sue storie Erodoto racconta battaglie, e un sacco di altri eventi. E poi ci sono gli dèi. Un tizio torna di corsa a fare rapporto sugli esiti di una battaglia; corre, corre, e in una radura incontra il dio Pan. Pan gli dice: "Di’ alla tua gente di erigermi un tempio in questo punto". L’uomo risponde va bene e ricomincia a correre. Riferisce le notizie sulla battaglia e poi aggiunge: "Oh, a proposito, Pan vuole che gli costruiate un tempio". Così, come se fosse una cosa naturale, capisci?» «Quindi ci sono storie che parlano di dèi. Che cosa stai cercando di dire? Che quella gente aveva le allucinazioni?» «No» rispose Shadow. «Assolutamente no.» Sam si mordicchiò la pellicina di un’unghia. «Ho letto un libro sul cervello. Ce l’aveva la mia compagna di stanza e continuava a sbandierarlo in giro. Parlava di quando cinquemila anni fa i lobi del cervello si sono fusi mentre prima la gente pensava che quando il lobo destro diceva qualcosa fosse la voce di un dio a ordinargli di fare questo e quello. È solo una questione di cervello, insomma.» «Preferisco la mia teoria» disse Shadow. «E quale sarebbe?» «Che una volta alla gente capitava di incontrare gli dèi, ogni tanto.» «Ah.» Silenzio. La macchina sferragliava, si sentivano il rombo del motore e i borbottii poco rassicuranti della marmitta. Poi: «Pensi che siano ancora lì?». «Dove?» «In Grecia, in Egitto. Nelle isole. In quei posti lì. Pensi che ripercorrendo le strade percorse da quegli uomini li vedremmo anche noi?» «Forse. Ma credo che non li riconosceremmo.» «Scommetto che li scambieremmo per alieni» disse lei. «Di questi tempi la gente vede gli alieni. Una volta vedevano gli dèi. Forse gli alieni vengono dal lato destro del cervello.» «Secondo me gli dèi non facevano esplorazioni rettali per studiare gli abitanti della terra. Né uccidevano gli animali personalmente. Avevano esseri umani che svolgevano certi lavoretti per loro.» Lei ridacchiò. Proseguirono per qualche minuto in silenzio e poi Sam disse: «Ehi, questo mi fa venire in mente una delle mie storie di dèi preferite, dal corso di religione comparata del primo anno. Vuoi che te la racconti?». «Certo.» «D’accordo. Parla di Odino. Il dio degli antichi scandinavi, hai presente? Allora, c’è un re vichingo su una nave vichinga — siamo all’epoca dei vichinghi, ovviamente — e siccome sono bloccati dalla bonaccia, il re dice che sacrificherà uno dei suoi uomini a Odino se il dio manda un vento che li porti fino a terra. Una volta arrivati tirano a sorte per decidere chi dev’essere sacrificato… — e tocca al re. Be’, il re non è contento, così si inventano di impiccarlo in effigie, in modo da risparmiarlo. Prendono le viscere di un vitello e gliele avvolgono intorno al collo, mentre fissano l’altra estremità su un rametto sottile, poi con un giunco, al posto della lancia, lo pungolano nel fianco dicendo: "Ecco, sei stato impiccato, il sacrificio a Odino sì è compiuto".» La strada curvò: Another Town (300 ab.), patria dei secondi arrivati nel campionato di pattinaggio in velocità under 12, due enormi imprese di pompe funebri a prezzi popolari sui due lati della strada, e di quante imprese di pompe funebri si può aver bisogno, si domandò Shadow, con trecento abitanti… «bene. Appena pronunciano il nome di Odino il giunco si trasforma in una lancia e apre una ferita nel fianco del re, l’intestino del vitello diventa una corda spessa, il rametto diventa un grosso ramo che lo tira su, e la terra sfugge ai piedi del re che rimane lì appeso a morire con una ferita nel fianco e la faccia che diventa nera. Fine della storia. I bianchi hanno degli dèi fuori di testa, signor Shadow.» «Sì» rispose lui. «Tu non sei bianca?» «Sono cherokee.» «Cento per cento?» «No. Cinquanta. La mamma era bianca. Mio padre era un vero indiano della riserva. È venuto da questa parte del mondo, ha sposato mia madre, sono nata io e quando si sono separati è tornato in Oklahoma.» «È tornato nella riserva?» «No. Con dei soldi presi in prestito ha aperto un locale, un’imitazione di Taco Bell che ha chiamato Taco Bill’s. Se la passa bene. Io non gli piaccio. Dice che sono una mezzosangue.» «Peccato.» «È un fesso. Io sono orgogliosa del mio sangue indiano. Mi permette anche di pagare la retta universitaria. Un giorno mi servirà perfino a trovare un lavoro, se non riuscirò a vendere i miei bronzi.» «Già, le tue sculture.» Si fermarono a El Paso, Illinois (2500 ab.) per far scendere Sam davanti a una casa male in arnese alla periferia della città. Nel cortile c’era la grossa sagoma metallica di una renna coperta di luci natalizie. «Vuoi entrare?» chiese lei. «La zia ti prepara volentieri un caffè.» «No» rispose Shadow. «Devo andare.» Lei gli sorrise, e di colpo, per la prima volta, sembrò vulnerabile. Gli batté una pacca sul braccio. «Sembri sconnesso, signor Shadow. Ma sembri anche uno che ce la mette tutta.» «Dev’essere la condizione umana» disse lui. «Grazie per la compagnia.» «È stato un piacere. Se sulla strada per Cairo incontri qualche dio ricordati di salutarmelo.» Scese dalla macchina e si avviò al portone di casa. Suonò il campanello senza voltarsi indietro. Shadow aspettò fino a quando il portone non venne aperto e poi premette il piede sull’acceleratore e tornò verso l’autostrada. Attraversò le cittadine di Nomai, Bloomington e Lawndale. Alle undici di sera cominciò a tremare. Era appena entrato a Middletown. Decise che aveva bisogno di dormire, o perlomeno di smettere di guidare, e si fermò davanti a un Night’s Inn, pagò trentacinque dollari in contanti e in anticipo per una stanza al pianterreno e andò nel bagno. Un triste scarafaggio giaceva sul dorso in mezzo al pavimento piastrellato. Shadow prese un asciugamano e pulì la vasca, poi aprì l’acqua. In camera si liberò dei vestiti e li appoggiò sul letto. I lividi sul torso erano diventati scuri e tumescenti. Entrò nella vasca e rimase seduto a guardare l’acqua diventare scura. Poi, tutto nudo, lavò i calzini, le mutande e la maglietta nel lavandino, li strizzò e li appese al filo sospeso proprio sopra la vasca. Lasciò lo scarafaggio dov’era in segno di rispetto per i defunti. Si infilò sotto le coperte. Gli venne l’idea di guardare un film per adulti, ma per usare la pay-per-view c’era bisogno della carta di credito, troppo rischioso. Inoltre non era convinto che fosse salutare guardare qualcuno fare del sesso che lui non poteva fare. Accese la televisione per avere un po’ di compagnia, schiacciò il pulsante per lo spegnimento automatico tre volte, in modo che l’apparecchio si spegnesse dopo quarantacinque minuti. Mancava un quarto d’ora a mezzanotte. Come spesso succede negli alberghi, l’immagine sullo schermo era indistinta e i colori nuotavano confusi. Shadow passò da uno spettacolo notturno all’altro in quella terra desolata che era il panorama televisivo, senza riuscire a concentrarsi su niente. Qualcuno stava dimostrando un oggetto che faceva chissà cosa in cucina e sostituiva una decina di utensili dei quali Shadow non aveva mai posseduto nemmeno un esemplare. Shadow non ne vedeva una un sacco di tempo, ma trovava qualcosa di confortante in quel mondo anni Sessanta dipinto in bianco e nero e, appoggiato il telecomando accanto al letto, spense la luce. Rimase a guardare lo show, con gli occhi che si chiudevano dal sonno, avvertendo qualcosa di strano. Non aveva visto molti episodi del I personaggi, i normali, erano preoccupati perché Rob beveva. Non si presentava più in ufficio. Andavano a casa sua: si era barricato in camera da letto e convincerlo a uscire non era facile. Era ubriaco marcio ma ancora piuttosto divertente. I suoi amici, interpretati da Maury Amsterdam e Rose Marie, se ne andavano dopo qualche scenetta comica. Poi, quando la moglie di Rob andava a rimproverarlo per l’accaduto, lui la picchiava, un forte manrovescio sulla faccia. Lei si metteva seduta per terra a piangere, non con quei famosi lamenti alla Mary Tyler, ma singhiozzando disperata, proteggendosi con le braccia e implorando: «Non picchiarmi, ti prego, faccio tutto quello che vuoi, ma non picchiarmi». «Che cosa cazzo succede?» esclamò Shadow a voce alta. L’immagine sullo schermo si dissolse in una foschia di puntini fosforescenti. Quando tornò, il Shadow rimase zitto. Lei aprì la borsetta e prese una sigaretta, la accese con un lussuoso accendino d’argento che rimise via. «Sto parlando con te. Allora?» «Ma questa è roba da pazzi» disse lui. «Perché, il resto della tua vita è normale? Ma fammi il piacere.» «Be’… Lucille Ball che mi parla dal televisore è di parecchi ordini di grandezza più strano di qualsiasi cosa mi sia successa fino a oggi.» «Non sono Lucille Ball. Mi chiamo Lucy Ricardo. E sai una cosa… non sono nemmeno Lucy. È più semplice pensare che lo sia, data la situazione. Tutto qui.» Si mosse sul divano, a disagio. «Chi sei?» «D’accordo» rispose lei. «È una buona domanda. Sono la scatola scema. Sono la Tv. Sono l’occhio che tutto vede e il mondo del tubo catodico. Sono la grande sorella. Sono il tempietto intorno a cui si riunisce la famiglia per pregare.» «Sei la televisione? O qualcuno alla televisione?» «La Tv è l’altare. Io sono ciò a cui il pubblico offre i suoi sacrifici.» «E che cosa sacrificano?» chiese Shadow. «Il loro tempo, soprattutto» disse Lucy. «A volte le persone che hanno vicino.» Alzò due dita e soffiò dai polpastrelli il fumo immaginario uscito da una pistola. Poi strizzò l’occhio, un bella strizzata d’occhio proprio nello stile di «Sei una dea?» le chiese Shadow. Lucy sorrise con aria furba e fece un tiro dalla sigaretta in modo molto femminile. «Puoi ben dirlo.» «Sam ti manda i suoi saluti» disse Shadow. «Cosa? Chi è Sam? Che cosa stai dicendo?» Shadow guardò l’ora. Erano le dodici e venticinque. «Non fa niente» disse. «Allora, Lucy-alla-Tv. Di che cosa dobbiamo parlare? Ultimamente c’è troppa gente che vuole parlare con me. In genere finisce che le prendo.» La macchina da presa si avvicinò per un primo piano: Lucy aveva un’aria preoccupata, le labbra corrucciate. «Mi dispiace tanto. Mi dispiace quando ti fanno del male, Shadow. Io non te ne farei mai, caro. No, quello che ti voglio proporre è un lavoro.» «Cosa dovrei fare?» «Lavorare per me. Ho sentito che hai passato dei guai con gli Spioni e sono rimasta colpita da come hai risolto la situazione. Con efficienza, razionalità ed efficacia. Chi l’avrebbe detto che saresti stato capace di una cosa simile? Sono veramente incazzati.» «Ah sì?» «Ti avevano sottovalutato, dolcezza. Un errore che io non intendo ripetere. Voglio averti dalla mia parte.» Si alzò e si avvicinò alla macchina. «Guardiamola in questo modo, Shadow: noi siamo il futuro. Noi siamo i centri commerciali, e i tuoi amici sono sgangherate attrazioni per turisti. Siamo gli acquisti in rete, accipicchia, mentre i tuoi amici se ne stanno ancora seduti sul ciglio della strada a vendere i prodotti dell’orto su un carretto. No, non sono nemmeno fruttivendoli. Vendono fruste per vecchi calessi. Riparano le stecche di balena dei corsetti. Noi siamo il presente e il futuro. I tuoi amici non rappresentano più nemmeno il passato.» Era un discorso che a Shadow sembrava di aver già sentito. «Conosci un ragazzino grasso con una limousine?» Lei allargò le braccia e fece roteare comicamente gli occhi, Lucy Ricardo che si lavava in modo buffo le mani dopo un disastro. «Il ragazzo tecnologico? Hai incontrato il ragazzo tecnologico? Guarda, dammi retta, è un bravo ragazzo. È uno di noi. Solo che non è gentile con quelli che non conosce. Una volta che comincerai a lavorare per noi vedrai com’è divertente.» «E se non volessi lavorare per voi, I-Love-Lucy?» Qualcuno bussò alla porta dell’appartamento di Lucy, e dalle quinte si sentì la voce di Ricky domandare a Luuucy che cosa la stesse trattenendo, perché dovevano registrare la scena al club. La faccia da cartone animato di lei fu attraversata da un fremito di irritazione. «Accipicchia» disse. «Senti, qualsiasi cosa ti paghino i vecchi io posso darti il doppio. Il triplo. Cento volte quello che prendi adesso. Posso darti infinitamente di più.» Sorrise, un perfetto sorriso smaliziato alla Lucy Ricardo. «Chiedimi quello che vuoi, dolcezza. Che cosa ti serve?» Cominciò a slacciare i bottoni della camicetta. «Ehi» disse, «ti va di vedere le tette di Lucy?» Lo schermo si oscurò. Il comando di spegnimento automatico si era attivato. Shadow guardò l’ora: mezzanotte e mezzo. «Assolutamente no.» Si girò su un fianco e chiuse gli occhi. Gli venne in mente che la ragione per cui Wednesday, il signor Nancy e tutti gli altri gli piacevano più dei loro nemici era abbastanza semplice: magari erano sporchi e male in arnese e mangiavano robaccia, ma perlomeno non si esprimevano per luoghi comuni. E riteneva di preferire una meta turistica, per quando scalcagnata, perversa e triste, a un qualsiasi centro commerciale. Il mattino trovò Shadow in viaggio lungo un paesaggio scuro e morbidamente ondulato, coperto di erbacce rinsecchite e alberi spogli. Era scomparsa anche l’ultima neve. Shadow fece il pieno al rottame in una cittadina che aveva dato i natali alla squadra under 16 femminile seconda classificata nei trecento metri piani al campionato dello stato e, augurandosi che non fosse la sporcizia e tenere insieme la macchina, decise di infilarla sotto i rulli di lavaggio. Scoprì con sorpresa che una volta pulita era bianca — contrariamente a ogni aspettativa — e con la vernice in buone condizioni. Si rimise in marcia. Il cielo aveva un azzurro impossibile e il fumo industriale e biancastro che saliva dalle ciminiere era immobile come in una fotografia. Da un albero rinsecchito un falco si lanciò verso di lui con le ali che lampeggiavano nel sole come in una fotografia scattata con il dispositivo d’arresto. A un certo punto Shadow finì all’uscita di St Louis Est. Tentò di evitarlo, ma si trovò ad attraversare il quartiere a luci rosse di un parco industriale. C’erano tir e autocarri con rimorchi lunghissimi parcheggiati davanti a edifici che sembravano magazzini prefabbricati con la scritta NIGHT CLUB 24 ORE SU 24 e, in un caso, IL MIGLIOR PEEP SHOW DELLA CITTÀ. Shadow scosse la testa e proseguì. A Laura piaceva ballare vestita e nuda (e, in alcune serate memorabili, passando da una condizione all’altra) e a lui piaceva guardarla. Per pranzo prese un panino e una lattina di Coca in una cittadina che si chiamava Red Bud. Attraversò una vallata coperta dei rottami di migliaia di bulldozer gialli, trattori e cingolati. Si domandò se per caso non fosse il cimitero dei bulldozer, il posto dove i bulldozer andavano a morire. Superò il Pop-a-Top Lounge e attraversò Chester ("Città natale di Braccio di Ferro"). Notò che le case adesso avevano i porticati, sulla facciata, anche la più piccola e cadente sfoggiava un piccolo portico sostenuto da colonne bianche che la proclamava palazzo, agli occhi dei passanti. Superò un grosso fiume fangoso e rise forte scoprendo che si chiamava Big Muddy River, secondo il cartello. Sopra tre alberi rinsecchiti dal freddo vide un intricato ammasso di kudzu scuro, la pianta rampicante li costringeva ad assumere forme strane, quasi umane: sembravano streghe, tre fattucchiere curve e pronte a leggergli che cosa aveva in serbo il futuro. Costeggiò il Mississippi. Non aveva mai visto il Nilo, ma il sole accecante del pomeriggio sulla grande distesa d’acqua scura lo fece pensare al corso limaccioso del Nilo: non il Nilo di oggi ma quello di tanto tempo fa, un’ arteria vitale tra gli acquitrini dove cresceva fitto il papiro, rifugio di cobra e sciacalli e vacche selvatiche… Un cartello segnalava la deviazione per Thebes. Era una strada sopraelevata circa quattro metri, sospesa sulla palude. Stormi di uccelli volavano avanti e indietro in una specie di disperato moto browniano a caccia di cibo, puntolini neri contro l’azzurro del cielo. Più tardi il sole cominciò a tramontare, avvolgendo il mondo in una luce dorata, elfica, una luce color crema, calda e intensa, che dava a tutto un’apparenza di irrealtà, e fu in questa luce che Shadow superò il cartello che annunciava "Siete entrati nella Cairo storica". Passò sotto un ponte e si trovò in una cittadina portuale. L’imponente struttura del tribunale e l’ancor più imponente edificio del dazio avevano l’aria di enormi biscotti appena sfornati nella luce color oro sciropposo del finire del giorno. Parcheggiò in una strada laterale e si avviò verso l’argine del fiume, incerto se stesse guardando l’Ohio o il Mississippi. Un piccolo gatto marrone spuntò con un balzo dai bidoni dell’immondizia sul retro di un palazzo: in quella luce anche i bidoni sembravano magici. Un gabbiano solitario sorvolava l’argine mantenendosi in rotta con uno sporadico colpo d’ala. Shadow si accorse di non essere solo. Una bimba con un paio di vecchie scarpe da tennis e un maglione da uomo di lana grigia come vestito era in piedi sul marciapiede, a tre metri da lui, e lo fissava con la serietà malinconica di cui sono capaci i bambini di sei anni. Aveva i capelli neri, lunghi e diritti, la pelle scura come le acque del fiume. Lui le sorrise, ma lei si limitò a fissarlo con aria di sfida. Si sentì un miagolio e un ululato, e il gattino marrone schizzò fuori da un bidone rovesciato inseguito da un cane nero con il muso lungo. Il gatto si rifugiò sotto un’automobile. «Ehi» disse Shadow alla bambina. «Hai mai visto la polvere invisibile?» Lei esitò, poi scosse la testa. «Va bene. Allora guarda qui.» Shadow le mostrò una moneta da un quarto di dollaro con la sinistra, la tenne in alto girandola da una parte all’altra e poi fece il gesto di lanciarla nella mano destra, chiudendola e tendendola in avanti. «Adesso» disse «prendo un po’ di polverina magica dalla tasca…» infilò la sinistra nel taschino interno, lasciandovi cadere nel frattempo la moneta «… la spruzzo sulla mano con dentro la moneta…» e finse di spargere qualcosa «guarda qui: adesso anche la moneta è invisibile.» Aprì la destra e la sinistra fingendosi sbalordito: erano entrambe vuote. La bambina continuava a fissarlo. Shadow scrollò le spalle, infilò le mani nelle tasche richiudendo una moneta da venticinque centesimi in una e, nell’altra, una banconota da cinque dollari ben piegata. Voleva farle comparire dal nulla e poi dare alla bambina i cinque dollari: sembrava averne bisogno. «Ehi» disse, «abbiamo un pubblico.» Anche il cane nero e il gattino marrone adesso lo stavano osservando, fermi accanto alla bambina lo fissavano con estrema attenzione. Il cane aveva le orecchie all’insù, enormi, che gli davano un’aria comicamente attenta. Un uomo che somigliava a una gru, con un paio di occhiali con la montatura dorata, si stava avvicinando lungo il marciapiede, gettava occhiate a destra e a sinistra come se stesse cercando qualcosa. Shadow si chiese se non fosse per caso il padrone del cane. «Come ti è sembrato?» chiese all’animale nel tentativo di mettere la bambina a suo agio. «Ti è piaciuto il trucco?» Il cane nero si leccò il lungo naso. Poi, con una voce profonda e distaccata disse: «Una volta ho visto Harry Houdini e, credimi, ne hai di strada da fare». La bambina guardò gli animali, guardò Shadow e poi cominciò a correre come se tutti i diavoli dell’inferno la stessero inseguendo. I due animali rimasero a osservarla. L’uomo che somigliava a una gru si era avvicinato al cane. Si chinò a grattargli le orecchie appuntite. «Dai» gli disse, «era soltanto un giochetto con le monete. Non è che stesse facendo chissà quale numero sott’acqua.» «Oggi no» rispose il cane. «Ma lo farà.» La luce dorata era scomparsa cedendo al grigio del crepuscolo. Shadow lasciò cadere nella tasca la moneta e la banconota ripiegata. «Va bene» disse. «Chi di voi due è Sciacallo?» «Adopera gli occhi» rispose il cane nero con il muso lungo. E si incamminò per il marciapiede di fianco all’uomo con gli occhiali dalla montatura dorata e, dopo un attimo di esitazione, Shadow li seguì. Il gatto non c’era più. Arrivarono davanti a un antico palazzo in una strada dove tutti gli edifici sembravano disabitati. Sul cartello vicino alla porta c’era scritto IBIS JACQUEL. POMPE FUNEBRI. IMPRESA FAMILIARE FONDATA NEL 1863. «Io sono il signor Ibis» disse l’uomo con gli occhiali dalla montatura dorata. «Credo di doverle offrire un boccone per cena. Temo che il mio amico qui abbia del lavoro da sbrigare.» Chissà dove, sempre in America Salim ha paura di New York, perciò stringe al petto la valigetta del campionario con tutte e due le mani, come per proteggerla. Ha paura dei neri, del modo in cui lo fissano, ha paura degli ebrei -quelli tutti vestiti di nero con i capelli e le barbe e i riccioli che riesce a riconoscere, e chissà quanti altri ebrei non riconosce — e ha paura dell’enorme quantità di gente, gente di tutte le forme e misure, che si riversa sui marciapiedi dagli altissimi palazzi sudici; ha paura del fracasso del traffico e ha paura anche dell’aria che odora insieme di sporcizia e di qualcosa di dolce, e non somiglia per niente all’aria dell’Oman. Salim è a New York, in America, da una settimana. Ogni giorno visita due o qualche volta tre uffici diversi, apre la valigetta, mostra i ninnoli di rame, gli anelli, le bottigliette e le minuscole torce elettriche, i modellini dell’Empire State Building, della Statua della Libertà, della Torre Eiffel, con il rame scintillante all’interno; ogni sera scrive un fax a suo cognato Fuad, nella casa di Muscat, per dirgli che non ha ricevuto ordinazioni oppure, in una felice occasione, di aver fatto alcuni ordini (ma ancora insufficienti — Salim ne è dolorosamente consapevole — a coprire le spese del biglietto aereo e dell’albergo). Per motivi che a Salim risultano oscuri i soci d’affari del cognato lo hanno sistemato all’Hotel Paramount, sulla Quarantaseiesima. Salim è disorientato in un posto così costoso ed estraneo, soffre di claustrofobia. Fuad è il marito di sua sorella. Non è ricco, però è comproprietario di una piccola fabbrica di cianfrusaglie, oggetti prodotti per l’esportazione in altri paesi arabi, in Europa, in America. Salim lavora per il cognato da sei mesi. Fuad gli fa un po’ paura. Il tono dei suoi fax diventa ogni giorno più duro. La sera Salim se ne sta seduto nella stanza d’albergo a leggere il Corano, a dirsi che tutto passa, e anche il suo soggiorno in questo nuovo mondo è limitato nel tempo. Suo cognato gli ha dato mille dollari per le spese di viaggio, e sembravano una somma enorme, in un primo momento, ma adesso si stanno volatilizzando sotto i suoi occhi increduli. Appena arrivato dava la mancia a chiunque, banconote da un dollaro a tutti quelli che incontrava, per timore di essere giudicato un arabo pezzente; poi si era reso conto che si approfittavano di lui, che forse gli ridevano addirittura dietro, e aveva smesso di dare mance del tutto. La prima e unica volta che aveva preso la metropolitana si era perso ed era arrivato troppo tardi all’appuntamento; ora prende il taxi solo se è necessario, e per il resto del tempo si sposta a piedi. Incespica dentro uffici surriscaldati, le guance insensibili per il freddo, sudato sotto il cappotto, le scarpe inzuppate di pioggia fangosa, e quando il vento soffia lungo le avenue (che vanno da nord a sud, mentre le strade vanno da ovest a est, tutto molto semplice, così Salim sa sempre dov’è La Mecca) il freddo che lo colpisce sulle parti di pelle più esposta è così intenso da fargli credere che lo stiano picchiando. Non mangia mai in albergo (perché la camera è pagata dai soci di Fuad, ma al cibo deve provvedere da sé) e compera qualcosa nei negozi di falafel o in qualche piccola rosticceria, e per giorni lo porta su in camera nascondendolo sotto il cappotto, prima di capire che non gliene importa niente a nessuno. Eppure continua a fargli uno strano effetto entrare negli ascensori fiocamente illuminati con il sacchetto della spesa (deve sempre chinarsi e socchiudere gli occhi per trovare il pulsante del suo piano) e percorrere il corridoio fino alla stanzetta bianca dove è alloggiato. Salìm è scombussolato. Il fax che lo ha accolto al suo risveglio era conciso e a toni alterni: sarcastico, severo, ferito. Salim li sta deludendo: sua sorella, Fuad, i soci di Fuad, il Sultanato dell’Oman, l’intero mondo arabo. Se non riesce a ottenere ordinazioni di merce Fuad non si sentirà più obbligato a tenerlo al proprio servizio. Era tutto nelle sue mani. L’albergo è troppo caro. Che cosa sta facendo Salim con i loro soldi, vive in America come un nababbo? Salim legge il fax in camera (in genere troppo calda e soffocante, ma siccome la sera prima aveva aperto la finestra, adesso è gelida), rimane seduto a lungo, sul volto un’espressione di infelicità totale. Poi Salim va a piedi downtown con il campionario stretto al petto come se si trattasse di rubini e diamanti, si trascina nel freddo per un isolato dopo l’altro fino a quando, tra Broadway e la Diciannovesima, non raggiunge un tozzo edificio sopra un deli. Sale i quattro piani a piedi fino alla Panglobal Imports. Gli uffici sono squallidi, però Salim sa che la Panglobal tratta la metà dei souvenir che entrano negli Stati Uniti dall’Estremo Oriente. Un vero ordine, un ordine significativo da parte della Panglobal, potrebbe riscattarlo, basterebbe a trasformare un fallimento in successo, e per questo lui prende posto su una scomoda sedia di legno nella saletta d’attesa con la valigetta del campionario in equilibrio sulle ginocchia, di fronte a una donna di mezza età con i capelli tinti di un rosso troppo forte che siede a sua volta dietro una scrivania e si soffia continuamente il naso nei kleenex. Dopo essersi soffiata il naso lo tampona, poi lascia cadere il fazzolettino di carta nel cestino. Salim è arrivato alle dieci e mezzo del mattino, mezz’ora prima dell’appuntamento. Se ne sta seduto, tutto paonazzo e tremante, chiedendosi se non gli sia venuta la febbre. Il tempo passa molto lentamente. Salim guarda l’ora. Poi si schiarisce la gola. La donna dietro la scrivania gli lancia un’occhiataccia. «Sì?» dice. Però suona "Di". «Sono le undici e trentacinque» annuncia Salim. La donna guarda l’orologio a parete e ripete «Dì. È dodì.» «Avevo un appuntamento per le undici» dice Salim con un sorriso conciliatorio. «Il signor Blanding sa che lei è qui» gli risponde la donna in tono di riprovazione. ("Il didor Bladding da che lei è qui.") Salim prende dal tavolino una vecchia copia del "New York Post". Parla l’inglese meglio di quanto lo legga, e arranca da un articolo all’altro come se facesse le parole crociate. Aspetta, giovanotto paffuto con lo sguardo da cucciolo abbandonato, e studia l’orologio, il giornale e l’orologio a muro. Alle dodici e mezzo alcuni uomini escono da un ufficio. Parlano a voce alta, farfugliano tra loro in americano. Un uomo grande e grosso con la pancia tiene in bocca un sigaro spento. Uscendo getta un’occhiata a Salim. Raccomanda alla donna dietro la scrivania di provare con succo di limone e zinco, perché sua sorella dice che la combinazione di zinco e vitamina C fa miracoli. Lei promette che lo farà e gli consegna alcune buste. L’uomo se le infila in tasca ed esce insieme agli altri. L’eco delle loro risate si dissolve lungo le scale. È l’una. La donna dietro la scrivania apre un cassetto e ne estrae un sacchetto di carta marrone da cui sfila alcuni panini imbottiti, una mela e una merendina Milky Way. Tira fuori anche una bottiglietta di plastica che contiene spremuta d’arancia. «Mi scusi» dice Salim, «potrebbe dire al signor Blanding che sto ancora aspettando?» La donna lo guarda come se fosse sorpresa di vederlo ancora lì, come se non fossero stati seduti per due ore e mezzo a poco più di un metro di distanza. «È andato a mangiare» dice. ("E addato a maddare.") Salim lo sa, sa per istinto che Blanding era l’uomo con il sigaro spento in bocca. «Quando torna?» La donna scrolla le spalle, addenta il panino. «Sa, ha da fare per il resto della giornata» dice. ("Addare ber il reddo della domata.") «Mi riceverà, quando torna?» domanda Salim. Lei scrolla le spalle, si soffia il naso. Salim ha fame, è sempre più affamato, frustrato e impotente. Alle tre la donna lo guarda e dice: «Dod doderà.» «Prego?» «Il didor Bladdig. Oddi dod dodderà.» «Posso prendere un appuntamento per domani?» La donna si asciuga il naso. «Debe dedefonade. Li abbundamendi di prendono doldando per dedefono.» «Capisco» risponde Salim. E poi sorride: un rappresentante, gli ha ripetuto Fuad prima che partisse da Muscat, in America è nudo, senza il suo sorriso. «Telefonerò domani» dice. Prende la valigetta del campionario e percorre tutte le rampe di scale fino alla strada, dove la pioggia gelata si sta trasformando in nevischio. Salim medita sulla lunga camminata fino all’albergo sulla Quarantaseiesima, sul peso del campionario, e scende dal marciapiede per chiamare con un cenno tutti i taxi gialli che passano, indipendentemente dal fatto che abbiano la luce accesa o spenta, ma nessuno si ferma. Un taxi addirittura accelera, passandogli davanti, schizzandolo di fangosa acqua gelata sui pantaloni e sul cappotto. Per un attimo Salim prende in considerazione l’idea di gettarsi sotto le ruote di una di quelle vetture che avanzano goffe, però si rende conto che il cognato si preoccuperebbe più della sorte del campionario che della sua, e sa che nessuno, a parte l’amata sorella, soffrirebbe per la sua perdita (Salim ha sempre costituito ragione di lieve imbarazzo per i genitori, e i suoi incontri romantici sono sempre stati necessariamente brevi e piuttosto clandestini); inoltre dubita del fatto che quelle macchine vadano abbastanza veloci per mettere fine alla sua vita. Un malconcio taxi giallo si avvicina e si ferma, Salim sale, lieto di poter abbandonare quel corso di pensieri. Il rivestimento del sedile posteriore è stato rattoppato con nastro adesivo grigio; la barriera di plexiglas, semiaperta, è coperta di cartelli "Vietato fumare", e di altri che indicano i costi delle corse per i diversi aeroporti. La voce registrata di qualcuno famoso che Salim non ha mai sentito nominare gli ricorda che deve mettersi la cintura di sicurezza. «All’Hotel Paramount, per favore» dice. Il tassista si lancia nel traffico con un grugnito. Ha la barba lunga e porta un maglione pesante, color polvere, e un paio di occhiali neri di plastica. È una giornata grigia, e sta scendendo la sera: Salim si domanda se l’uomo abbia qualche problema agli occhi. I tergicristallo trasformano la strada in una macchia confusa di grigio e colpi di luce. Proprio davanti a loro spunta dal nulla un camion e il tassista impreca per la barba del Profeta. Salim cerca di leggere il nome sul cruscotto, ma non riesce a decifrarlo. «Da quanto tempo fai questo lavoro, amico?» gli chiede nella sua lingua. «Dieci anni» risponde l’altro nello stesso idioma. «Da dove vieni?» «Da Muscat» dice Salim. «Nell’Oman.» «Oman. Ci sono stato, nell’Oman. Tanto tempo fa. Hai sentito parlare della città di Ubar?» «Certamente» risponde Salim. «La Città Perduta delle Torri. Ne hanno trovato i resti nel deserto cinque o dieci anni fa, non ricordo. Eri nella spedizione che ha fatto gli scavi?» «Diciamo di sì. Era una bella città» dice il tassista. «Certe notti c’erano fino a tre o quattromila persone accampate: tutti i viaggiatori si fermavano a Ubar, e si faceva musica e il vino scorreva come acqua e anche l’acqua scorreva abbondante dando alla città la possibilità di esistere.» «L’ho sentito anch’io» dice Salim. «Quando è caduta? Mille o duemila anni fa?» Il tassista non risponde. Sono fermi a un semaforo. Quando la luce diventa verde però il tassista non riparte malgrado l’immediato coro discordante di clacson alle loro spalle. Esitante, Salim fa passare un braccio attraverso il buco nel plexiglas e gli tocca una spalla. L’uomo alza di scatto la testa e preme l’acceleratore per attraversare lentamente l’incrocio. «Cazzocazzomerda» esclama in inglese. «Devi essere molto stanco, amico.» «Guido questo taxi-dimenticato-da-Allah da trenta ore» dice il tassista. «È troppo. E prima avevo dormito cinque ore, e prima ancora avevo guidato per quattordici ore. Siamo a corto di personale, sotto Natale.» «Spero che tu stia guadagnando un sacco di soldi» dice Salim. L’uomo sospira. «Non molti. Stamattina ho portato un cliente dalla Cinquantunesima fino all’aeroporto di Newark. Appena arrivati è saltato giù e si è messo a correre e non sono riuscito a trovarlo. Una corsa da cinquanta dollari persa e rientrando in città ho dovuto pagare il pedaggio del tunnel di tasca mia.» Salim annuisce. «Io ho passato la giornata aspettando di essere ricevuto da un uomo che non aveva nessuna intenzione di ricevermi. Mio cognato mi odia. Sono in America da una settimana e non ho fatto altro che spendere soldi. Non riesco a vendere niente.» «Che cosa vendi?» «Porcherie» dice Salim. «Inutili gingilli e brutti souvenir. Porcherie ignobili, brutte, cretine.» Il tassista sterza sulla destra, aggira un ostacolo e prosegue. Salim si chiede come faccia a guidare con la pioggia, al buio e con gli occhiali neri. «Cerchi di vendere porcherie?» «Sì» dice Salim, eccitato e insieme orripilato all’idea di aver finalmente dichiarato ciò che pensa del campionario del cognato. «E non te le comprano?» «No.» «Strano. Se guardi le vetrine dei negozi, sembra che non si venda altro.» Salim sorride nervosamente. Un camion sta bloccando la strada: un poliziotto con la faccia rossa in piedi davanti al mezzo gesticola, grida e fa segno di imboccare un’altra strada. «Andiamo fino all’Ottava e risaliamo verso uptown da quella parte» dice il tassista. Svoltano e scoprono che il traffico è completamente bloccato. Risuonano cacofonici i clacson, ma le automobili rimangono ferme. Il tassista ciondola sul sedile e il mento gli si piega contro il petto, una, due, tre volte. Poi, gentilmente, comincia a russare. Salim si protende per toccarlo, per svegliarlo, augurandosi di fare la cosa giusta. Mentre lo scuote per una spalla l’uomo si sposta e la mano di Salim gli sfiora la faccia, facendogli inavvertitamente cadere gli occhiali in grembo. Il tassista apre gli occhi, riprende gli occhiali e se li rimette, ma è troppo tardi. Salim ha visto i suoi occhi. La macchina avanza di pochi metri sotto la pioggia. I numeri scattano sul tassametro. «Mi ucciderai?» chiede Salim. L’uomo tiene le labbra strette e Salim lo osserva attraverso lo specchietto retrovisore. «No» gli dice a voce bassissima. Sono di nuovo fermi. La pioggia picchietta sul tetto. Salim comincia a parlare. «Una sera tardi mia nonna è tornata a casa raccontando di aver visto un ifrit, o forse un marid, nel deserto. Noi le abbiamo detto che doveva essersi trattato di una tempesta di sabbia, o del vento, ma lei giurava, diceva di no, diceva di averlo visto in faccia e che nei suoi occhi bruciavano fiamme, come nei tuoi.» Il tassista sorride, ma siccome gli occhiali scuri gli nascondono gli occhi Salim non sa dire se in quel sorriso ci sia davvero un po’ di buon umore. «Anche le nonne vengono qui» dice. «Ci sono molti jinn a New York?» chiede Salim. «No. Non siamo in molti.» «Ci sono gli angeli, e ci sono gli uomini, che Allah ha creato dal fango, poi c’è il popolo del fuoco, i jinn» dice Salim. «In questo posto la gente non sa niente di noi» dice il tassista. «Credono che possiamo esaudire i desideri. Pensi che starei al volante di un taxi, se fossi capace di esaudire i desideri?» «Non capisco.» Il tassista sembra depresso. Salim lo fissa nello specchietto, osservando le sue labbra scure, mentre parla. «Credono che possiamo esaudire i desideri. Come fanno a credere una cosa simile? Io dormo in una lurida stanzetta a Brooklyn. Guido questo taxi per qualsiasi lurido scombinato che abbia i soldi per pagarsi una corsa e anche per quelli che i soldi non ce li hanno. Li porto dove devono andare e qualche volta mi danno la mancia. A volte mi pagano.» Il suo labbro inferiore ebbe un fremito. Sembrava esausto. «Un giorno un cliente mi ha cacato sul sedile. L’ho dovuto ripulire, prima di riportare la macchina nell’autorimessa. Perché mi ha fatto una cosa simile? Ho dovuto togliere la merda dal sedile. Ti sembra giusto?» Salim allunga una mano e gli dà una pacca sulla spalla. Sotto il maglione sente una muscolatura solida. L’ifrit stacca una mano dal volante e l’appoggia per un momento su quella di Salim. Salim pensa al deserto: sabbia rossa soffiata dal vento tra i suoi pensieri, e la seta scarlatta delle tende montate intorno alla perduta città di Ubar sbatte e gli si agita nella mente. Arrivano all’Ottava Avenue. «I vecchi credono. Non pisciano nei buchi perché il Profeta ha detto che lì vivono i jinn. Sanno che gli angeli ci tirano addosso le stelle infuocate, quando cerchiamo di ascoltare i loro discorsi. Ma anche per i vecchi, quando arrivano in questo paese, noi diventiamo molto, molto distanti. In patria non ero costretto a guidare un taxi.» «Mi dispiace» dice Salim. «È un brutto momento. C’è tempesta, in arrivo. Sono spaventato. Farei qualsiasi cosa per potermene andare via.» Mentre si avvicinavano all’albergo non dissero più niente. Quando scese dal taxi Salim diede all’ifrit una banconota da venti dollari dicendogli di tenere il resto. Poi, in un inaspettato impeto di coraggio, gli disse anche il numero della sua camera. Il tassista non rispose. Una giovane donna salì sulla macchina che ripartì nel freddo, sotto la pioggia. Le sei di sera. Salim non ha ancora scritto il fax al cognato. Torna fuori nella pioggia, si compera kebab e patatine per la cena. È qui da una settimana appena, ma ha già l’impressione che questa terra newyorkese lo stia facendo diventare più grassoccio, più flaccido. Quando rientra in albergo è sorpreso di vedere il tassista nell’ingresso, in piedi, con le mani affondate nelle tasche, che osserva le cartoline in bianco e nero. Quando vede Salim l’uomo sorride, imbarazzato. «Ti ho fatto chiamare» dice, «ma in camera non rispondeva nessuno. Così ho pensato di aspettarti.» Salim ricambia il sorriso e gli sfiora un braccio. «Sono arrivato.» Entrano insieme nell’ascensore illuminato fiocamente da una luce verdastra e salgono fino al quinto piano tenendosi per mano. L’ifrit gli chiede di usare il bagno. «Mi sento sporchissimo.» Salim fa segno di sì con la testa. Siede sul letto, che occupa gran parte della piccola camera bianca e rimane ad ascoltare il rumore dell’acqua che scorre nella doccia. Si toglie le scarpe, le calze, il resto. Il tassista esce dalla doccia ancora umido e con un asciugamano avvolto intorno ai fianchi. Non porta gli occhiali e nella debole luce della stanza le fiamme nei suoi occhi bruciano scarlatte. Salim respinge le lacrime. «Vorrei che tu potessi vedere quello che vedo io» dice. «Non posso esaudire i desideri» sussurra l’ifrit lasciando cadere per terra l’asciugamano e spingendo Salim con gentilezza, ma irresistibilmente, sul letto. È passata più di un’ora quando l’ifrit gli viene in bocca con colpi violenti. Salim è già venuto due volte. Il seme del jinn ha un sapore strano, è infuocato e gli brucia la gola. Salim va in bagno a sciacquarsi la bocca. Quando torna, il tassista sta russando tranquillo nel letto bianco. Salim gli si rannicchia vicino, immaginando il deserto sulla sua pelle. Mentre sta per addormentarsi gli viene in mente che non ha ancora scritto a Fuad e prova un senso di colpa. Dentro si sente vuoto, e solo: allunga una mano e la posa sul cazzo dell’ifrit, ancora tumido e, un po’ confortato, si addormenta. Nel cuore della notte si svegliano e fanno l’amore. A un certo punto Salim si accorge di piangere e l’ifrit gli asciuga le lacrime con baci infuocati. «Come ti chiami?» chiede al tassista. «Sulla licenza del taxi c’è un nome, ma non è il mio» risponde l’ifrit. Salim non riuscì a ricordare, dopo, dov’era finito il sesso e dov’era cominciato il sogno. Quando si sveglia un sole freddo illumina la camera bianca ed è solo. Inoltre è sparito il campionario, tutti i souvenir, le bottigliette e gli anelli e le torce elettriche di rame, tutto scomparso insieme a valigia, portafogli, passaporto e biglietto di ritorno per l’Oman. Per terra trova un paio di jeans, una maglietta e il maglione di lana color polvere. Sotto gli indumenti c’è una patente con il nome di Ibrahim bin Irem, la licenza del taxi con lo stesso nome e un portachiavi con l’indirizzo scritto su un pezzettino di carta, in inglese. L’uomo nelle fotografie sulla patente e sulla licenza non gli somiglia, ma del resto non somigliava nemmeno all’ifrit. Squilla il telefono: è la reception, comunicano che Salim ha lasciato l’albergo e anche il suo ospite dovrebbe liberare la stanza, in modo che il personale possa provvedere a pulirla e prepararla per il prossimo cliente. «Io non posso esaudire i desideri» dice Salim assaporando il suono delle parole. Mentre si veste sente la testa stranamente leggera. New York è molto semplice, le avenue vanno da nord a sud, le strade da ovest a est. Lancia per aria le chiavi e le riprende al volo. Poi si infila gli occhiali da sole di plastica che ha trovato in una tasca ed esce per andare a cercare il suo taxi. |
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