"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)

11

Tre uomini possono tenere un segreto, se due di loro sono morti. BEN FRANKLIN, Poor Richard’s Almanack

Passarono tre giornate molto fredde. Il termometro non salì mai sopra i meno venti nemmeno a mezzogiorno. Shadow si chiedeva in quanti sopravvivessero a un tempo simile prima dell’elettricità, prima delle maschere e della biancheria di materiale termico, prima dei viaggi facili.

Era nel negozio di video, canne da pesca ed esche, e Hinzelmann gli stava mostrando le mosche fatte a mano per la pesca alla trota. Erano più interessanti di quel che aveva immaginato: colorate imitazioni della realtà, costruite con piume e filo, ciascuna con un amo celato all’interno.

Lo domandò a Hinzelmann.

«Vuoi sapere la verità?»

«La verità».

«Be’» disse il vecchio, «a volte non sopravvivevano all’inverno, e morivano. Camini malfunzionanti, stufe con una cattiva ventilazione ed escursioni termiche ne uccidevano almeno quanti ne uccideva il freddo. Erano tempi duri e la gente passava l’estate e l’autunno ad ammucchiare provviste e scorte di legna. La cosa peggiore era la follia. L’ho sentito alla radio, dicevano che è una cosa legata alla mancanza di luce, perché in inverno non ce n’è abbastanza. Mio padre diceva che la gente dava fuori di matto, la chiamavano pazzia invernale. A Lakeside non è mai stato grave, ma alcune città qui intorno se la sono vista brutta. Quand’ero bambino era ancora comune un modo di dire: se la domestica non ha cercato di ucciderti entro febbraio, significa che non ha spina dorsale.

«I libri di storie valevano oro; qualsiasi cosa da leggere era considerata un tesoro, prima che ci fosse una biblioteca pubblica. Quando mio nonno ricevette un libro da suo fratello in Baviera, tutti i tedeschi si incontrarono nel municipio per sentirglielo leggere, e i finnici e gli irlandesi e tutti gli altri si facevano poi raccontare le storie dai tedeschi.

«A trenta chilometri da qui, a Jibway, trovarono una donna completamente nuda che camminava con un bambino morto al seno, e non permise a nessuno di prenderglielo.» Scosse la testa con aria meditativa e chiuse l’armadietto delle esche con un clic. «Brutta storia. Vuoi una tessera per il noleggio delle videocassette? Prima o poi apriranno un Blockbuster e noi chiuderemo. Per il momento abbiamo ancora una bella scelta di titoli.»

A Shadow tornò in mente che Hinzelmann non aveva né televisore né videoregistratore. Gli piaceva la sua compagnia: le reminiscenze, le storie, il sorriso da folletto. Le cose si sarebbero messe in modo strano però se Shadow avesse ammesso di sentirsi a disagio in presenza di un televisore da quando qualcuno aveva iniziato a parlargli dallo schermo.

Hinzelmann rovistò in un cassetto e ne estrasse una scatola di latta, sembrava una vecchia scatola natalizia, di quelle che contengono cioccolatini o biscotti: un Babbo Natale screziato con un vassoio pieno di bottiglie di Coca-Cola sorrideva dal coperchio. Hinzelmann lo aprì mettendo in mostra un quaderno e blocchetti di biglietti bianchi e disse: «Quanti ne vuoi?».

«Quanti di cosa?»

«Biglietti della bagnarola. Oggi la mettiamo sul lago, perciò è cominciata la vendita dei biglietti. Ogni biglietto costa cinque dollari, se ne prendi dieci spendi quaranta, venti costano settantacinque. Un biglietto ti dà diritto a cinque minuti. Ovviamente non è detto che andrà giù proprio nei tuoi cinque, ma quello che ci va più vicino vince cinquecento testoni, e se va giù proprio nei tuoi cinque minuti ne vinci mille. Prima comperi i biglietti e più hai possibilità di scelta. Vuoi vedere il foglietto informativo?»

«Certo.»

Hinzelmann gli tese un foglio fotocopiato. La bagnarola era una vecchia macchina privata del motore e del serbatoio della benzina che veniva lasciata sul lago ghiacciato per tutto l’inverno. A un certo momento della primavera il ghiaccio cominciava a sciogliersi e quando diventava troppo sottile per reggerne il peso la macchina andava a fondo. La volta in cui era affondata prima risaliva al 27 febbraio 1998. («Non credo che lo si potesse nemmeno definire inverno, quell’anno»), la volta in cui invece era affondata più tardi era il primo maggio («Eravamo nel 1950. Sembrava che quell’anno l’unico modo per far finire l’inverno fosse di piantargli un palo nel cuore»). L’inizio di aprile era il periodo più prevedibile, in genere a metà pomeriggio.

Tutte le ore di metà pomeriggio di aprile erano già state vendute e registrate sul quaderno di Hinzelmann. Shadow acquistò sei biglietti, trenta minuti per il mattino del 23 marzo, dalle nove alle nove e mezzo. Pagò i trenta dollari.

«Vorrei che fossero tutti facili da convincere come te» disse Hinzelmann.

«È un modo per ringraziarla del passaggio che mi ha dato la sera del mio arrivo.»

«No, Mike» disse l’altro. «Questi soldi sono per i bambini.» Per un momento ebbe un’aria seria, senza traccia dell’abituale espressione da diavoletto. «Se vieni nel pomeriggio puoi darci una mano a spingere la bagnarola.»

Consegnò a Shadow sei cartoncini blu con la data scritta nella sua calligrafia antiquata, poi trascrisse dettagliatamente gli orari nel quaderno.

«Hinzelmann» disse Shadow, «ha mai sentito parlare delle pietre aquiline?»

«Su a nord di Rhinelander? No, quello è un fiume, Eagle River. No, non mi pare di averle mai sentite.»

«E degli uccelli del tuono?»

«Be’, c’era la Thunderbird Framing Gallery sulla Quinta Strada, ma ha chiuso. Non sono di molto aiuto, vero?»

«No.»

«Senti, perché non vai a dare un’occhiata in biblioteca? Sono brave persone, anche se magari questa settimana saranno un po’ distratti dalla svendita di libri. Ti ho fatto vedere dov’è, no?»

Shadow annuì e si congedò. Avrebbe dovuto arrivarci da solo all’idea della biblioteca. Salì sulla 4-Runner rossa e imboccò la Main Street diretto a sud, costeggiando il lago fino alla sua punta più meridionale, per raggiungere l’edificio a forma di castello che ospitava la biblioteca comunale. Entrò. Un cartello indicava il seminterrato: VENDITA DI LIBRI, recitava. La biblioteca vera e propria si trovava al pianterreno e Shadow batté gli stivali a terra per scrollare via la neve.

Una donna torva con un rossetto cremisi gli chiese bruscamente che cosa volesse.

«Credo di aver bisogno della tessera per consultare i libri. Cerco notizie sugli uccelli del tuono.»

Tradizioni religiose e miti dei nativi americani occupavano un solo scaffale in una delle torri. Shadow prese alcuni volumi e sedette vicino alla finestra. Nel giro di pochi minuti aveva scoperto che gli uccelli del tuono erano gigantesche creature mitologiche che vivevano sulle vette delle montagne, scatenavano i fulmini e provocavano i tuoni battendo le ali. Lesse che secondo il credo di alcune tribù gli uccelli del tuono avevano creato il mondo. Mezz’ora di lettura non fruttò tuttavia ulteriori informazioni e Shadow non riuscì a trovare le pietre aquiline nemmeno nell’indice generale per argomenti.

Stava riponendo l’ultimo volume sullo scaffale quando si accorse di essere fissato. Un esserino lo spiava tutto serio da dietro i pesanti scaffali. Quando si voltò la faccina era scomparsa. Voltò la schiena al bambino, poi gettò un’occhiata intorno e capì di essere osservato di nuovo.

In tasca aveva il dollaro con la testa della Statua della Libertà. Lo prese tra le dita della mano destra alzandolo in modo che il bambino lo vedesse bene. Lo fece scomparire nella sinistra, mostrò entrambe le mani vuote, portò la sinistra alla bocca e tossì facendo cadere la moneta dalla sinistra alla destra.

Il bambino sgranò gli occhi e sgambettò via per tornare pochi istanti dopo con una poco sorridente Marguerite Olsen. La donna guardò Shadow con aria sospettosa e disse: «Buongiorno, signor Ainsel. Leon mi ha detto che gli ha fatto delle magie».

«Solo un giochetto di prestigio, signora. A proposito, non l’ho mai ringraziata per i suoi consigli su come riscaldare l’appartamento. Adesso è caldo come una cuccia.»

«Bene.» Il gelo dell’espressione della donna non dava segno di volersi sciogliere.

«È una bella biblioteca.»

«È un edificio stupendo. Però la città avrebbe bisogno di qualcosa di meno bello e più efficiente. Va a dare un’occhiata ai libri al piano di sotto?»

«Non era nei miei programmi.»

«Invece dovrebbe. È per una buona causa.»

«Allora ci andrò senz’altro.»

«Torni all’ingresso e prenda le scale. Piacere di averla rivista, signor Ainsel.»

«Mi chiami Mike» disse lui.

Lei non rispose, limitandosi a prendere Leon per mano e ad accompagnarlo nel reparto bambini.

«Ma mamma» sentì che le diceva, «non era un gioco di prestigio. No. Ho visto la moneta sparire e poi cadere dal suo naso. L’ho vista con i miei occhi.»

C’era un ritratto a olio di Abraham Lincoln che lo fissava dal muro, quando Shadow imboccò la scala di marmo e quercia che conduceva al seminterrato. Oltrepassò una porta entrando in una grande sala piena di tavoli carichi di libri d’ogni genere mescolati alla rinfusa: edizioni tascabili e rilegate, narrativa e saggistica, periodici ed enciclopedie ammucchiati senza ordine sui tavoli, di costa o di piatto.

Shadow arrivò fino a un tavolo in fondo coperto di vecchi libri rilegati in pelle con un numero di catalogo scritto in bianco sulla costa. «Lei è il primo che si avvicina a quest’angolo» gli disse l’uomo seduto accanto alla pila di scatole vuote e sacchetti e a una cassettina di metallo aperta. «La gente compera i gialli, i libri per bambini e i romanzi Harlequin. Jenny Kerton, Danielle Steel, quel genere lì.» Lui stava leggendo L’assassinio di Roger Ackroyd, di Agatha Christie. «Costano cinquanta centesimi l’uno, tre per un dollaro.»

Shadow lo ringraziò e continuò a curiosare. Trovò una copia delle Storie di Erodoto con una rilegatura di pelle marrone screpolata. Gli fece tornare in mente il libro che aveva lasciato in prigione. C’era un volume intitolato Perplexing Parlour Illusions, che forse conteneva qualche giochetto con le monete. Li portò entrambi dall’uomo con la cassettina.

«Ne scelga un altro, il prezzo è lo stesso. Oltretutto ci fa un favore, se prende un libro in più. Abbiamo bisogno di spazio sugli scaffali.»

Shadow tornò al tavolo con i volumi rilegati in pelle, deciso a prendersi quello con l’aria meno accattivante, e si trovò incerto tra Common Diseases of the Urinary Tract with Illustrations by a Medical Doctor e Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884. Dopo aver dato un’occhiata alle illustrazioni nel testo di medicina pensò che in città c’era sicuramente un adolescente che poteva usarle per scandalizzare gli amici. Portò Minutes all’uomo vicino alla porta che incassò il dollaro e infilò i tre volumi in un sacchetto di carta del negozio di alimentari.

Shadow uscì dalla biblioteca. Tornando a casa si godeva una bella vista del lago. Oltre il ponte si vedeva perfino casa Pilsen, una specie di casa di bambola. E vicino al ponte c’era qualcuno sul ghiaccio, quattro o cinque uomini che spingevano sulla distesa bianca un’automobile color verde scuro.

«Ventitré marzo» disse sottovoce Shadow al lago. «Dalle nove alle nove e mezzo del mattino.» Si chiese se il lago o la bagnorola potessero sentirlo… e, in caso affermativo, se gli avrebbero prestato ascolto. Ne dubitava.

Il vento gli pungeva naso e guance.

Chad Mulligan lo stava aspettando sotto casa. A Shadow cominciò a battere forte il cuore, quando vide la macchina della polizia, ma notando che Mulligan, seduto davanti, stava riempiendo dei moduli, si rilassò.

Si avvicinò con il suo sacchetto di libri.

Il poliziotto abbassò il finestrino. «Sei stato alla svendita della biblioteca?»

«Sì.»

«Due o tre anni fa ho comprato un’intera cassa di romanzi di Robert Ludlum. Devo ancora cominciarli. Mia cugina dice che sono fantastici. Forse se finissi su un’isola deserta con la mia cassa di libri potrei riguadagnare il tempo perduto.»

«Posso fare qualcosa per te, capo?»

«Niente di niente. Sono passato a vedere come ti eri sistemato. Ti ricordi quel detto cinese secondo cui quando salvi la vita di un uomo poi ne diventi responsabile? Ecco, non dico di averti proprio salvato la vita, la settimana scorsa, però mi sembrava giusto lo stesso venire a dare un’occhiata. Come si comporta la Gunthermobile rossa?»

«Bene. È in ottime condizioni.»

«Mi fa piacere.»

«Ho visto la mia vicina, in biblioteca» disse Shadow. «La signora Olsen. Mi stavo chiedendo…»

«Che cosa le si è infilato su per il sedere e poi ci è morto?»

«Se vuoi metterla così.»

«È una storia lunga. Se vieni con me te la racconto.»

Shadow ci pensò un istante, poi disse: «D’accordo». Salì accanto al posto di guida e Mulligan si diresse a nord della città. Spense le luci e parcheggiò sul ciglio di una strada.

«Darren Olsen conobbe Margie all’università di Stevens Point e la portò quassù a Lakeside. Lei si stava specializzando in giornalismo. Lui studiava gestione alberghiera, qualcosa del genere. Quando arrivarono qui restarono tutti a bocca aperta. Questo succedeva tredici o quattordici anni fa. Lei era bellissima… con quei capelli neri…» si interruppe. «Darren dirigeva il Motel America a Camden, trenta chilometri a ovest. Solo che nessuno si voleva fermare a Camden e a un certo punto il motel chiuse. Nel frattempo avevano avuto due figli. All’epoca Sandy aveva undici anni. Il piccolino — Leon — era ancora un bebè.

«Darren Olsen non era un uomo coraggioso. Al liceo giocava bene a football, ed è stata l’ultima volta che ha combinato qualcosa di buono. Comunque. Non riuscì a trovare il coraggio di dire a Margie che era rimasto senza lavoro. Per un mese o due continuò a uscire, la mattina, per tornare a casa la sera tardi e lamentarsi della dura giornata al motel.»

«E cosa faceva, invece di lavorare?» chiese Shadow.

«Mmm. Non so di preciso. Immagino che arrivasse fino a Ironwood, o magari giù a Green Bay. Probabilmente all’inizio avrà cercato lavoro, ma nel giro di poco tempo si è messo a bere, a fumare erba e magari ad accompagnarsi ogni tanto con qualche donna in cerca di un po’ di piacere. Magari giocava d’azzardo. Quello che so per certo è che prosciugò il conto di entrambi nel giro di dieci settimane. Che Margie venisse a scoprirlo era solo questione di tempo… pronti, via!»

Mise in moto, accese luci e sirene e fece vedere i sorci verdi a un ometto con una macchina targata Iowa che era sceso dalla collina a centoventi all’ora.

Fatta la multa al furfante dello Iowa, Mulligan riprese il racconto.

«Dov’ero arrivato? Ah sì. Allora Margie lo butta fuori e chiede il divorzio. La causa si trasforma in una feroce battaglia sull’affidamento. Così le chiamano sui settimanali scandalistici. "Feroce Battaglia sull’Affidamento dei Figli." Li affidarono a lei. Darren ottenne il permesso di andarli a trovare e poco altro. Leon all’epoca era molto piccolo. Sandy era un bravo ragazzino, il tipico figlio che adora il padre. Non permetteva che Margie dicesse niente contro di lui. Avevano perso la casa, una bella casa in Daniels Road. Lei si trasferì nell’appartamento vicino al tuo e lui lasciò la città per tornare ogni sei mesi a rendere infelici tutti quanti.

«Andò avanti così per anni. Darren tornava, spendeva soldi per i ragazzi, e Margie piangeva. La maggior parte di noi cominciò ad augurarsi che non tornasse più. I suoi, quando erano andati in pensione, si erano trasferiti in Florida perché dicevano di non poter sopportare più gli inverni del Wisconsin. L’anno scorso lui se ne è venuto fuori con la storia che voleva portare i ragazzi in Florida a passare il Natale. Margie gli ha risposto picche, di sparire. Una scena piuttosto spiacevole, e a un certo punto sono stato costretto a intervenire. Lite domestica. Al mio arrivo Darren era in mezzo al cortile che urlava insulti, con i bambini spaventati a morte, e Margie in lacrime.

«Ho detto a Darren che si stava cercando una notte in guardina. Per un momento ho creduto che volesse picchiarmi, ma era abbastanza sobrio per trattenersi. L’ho accompagnato al campo delle roulotte a sud della città e gli ho detto di darsi una calmata. Che l’aveva fatta soffrire abbastanza… Il giorno dopo se n’è andato.

«Due settimane dopo è sparito Sandy. Non è salito sul pulmino per andare a scuola. Aveva raccontato al suo migliore amico che presto avrebbe rivisto il padre, che Darren gli avrebbe portato un regalo speciale per consolarlo del mancato viaggio in Florida. Da allora non lo ha più visto nessuno. L’accusa potrebbe essere quella di rapimento da parte di un genitore. È difficile trovare un ragazzo che non vuole farsi trovare, capisci?»

Shadow disse che capiva. Ma aveva capito anche qualcos’altro: che Chad Mulligan era innamorato di Marguerite Olsen. Si chiese se l’altro si rendesse conto di com’era palese.

Mulligan rimise in moto con le luci accese e costrinse due ragazzini che correvano a novanta all’ora a fermarsi. Non li multò, limitandosi a "farli diventare timorati di Dio".


Quella sera Shadow sedette al tavolo della cucina per cercare di capire come trasformare un dollaro d’argento in un penny. Aveva trovato il trucco nel Perplexing Parlour lllusions, ma le istruzioni erano inutili e vaghe in maniera esasperante. Quasi in ogni frase comparivano espressioni come "fate sparire il penny nel solito modo". In cosa consisteva il solito modo? In una caduta alla francese? Nell’infilarlo nella manica? Nel gridare "Oh mio Dio, guardate là! C’è un leone di montagna!" e ficcare la moneta in tasca mentre l’attenzione del pubblico è rivolta alla finestra?

Lanciò il dollaro in aria, lo afferrò al volo ripensando alla luna e alla donna che gliel’aveva regalato, poi provò a eseguire il trucco. Non funzionava. Entrò in bagno per provare davanti allo specchio e capì che non aveva senso. Così com’era descritto, quel giochetto non poteva funzionare e basta. Sospirò, infilò le due monete in tasca e sedette sul divano. Si coprì le ginocchia con il plaid di acrilico e cominciò a sfogliare il Minutes of the Lakeside City Council 1872-1884. Il testo era su due colonne e il carattere così minuscolo da risultare praticamente illeggibile. Sfogliò il volume osservando le vecchie fotografie e le diverse incarnazioni dei consiglieri comunali di Lakeside: uomini con lunghe basette e pipe d’argilla, con i cappelli, sciupati o nuovi, calcati su facce in gran parte stranamente familiari. Non lo sorprese vedere che nel 1882 il robusto presidente del consiglio comunale era un certo Patrick Mulligan: opportunamente sbarbato e fatto dimagrire di dieci chili non sarebbe risultato il sosia sputato di Chad Mulligan, il suo… cosa… bis-bis-nipote? Shadow si domandò se in quelle foto avrebbe trovato anche il nonno pioniere di Hinzelmann, ma a quanto pareva non aveva mai rivestito cariche pubbliche. Mentre sfogliava le immagini gli era sembrato di vedere il nome Hinzelmann tra le righe, ma quando tornò indietro a cercarlo non lo trovò, e i caratteri così piccoli gli facevano venire il mal di testa.

Si appoggiò il libro sul petto: la testa gli ciondolava. Ragionevolmente decise che addormentarsi sul divano era una sciocchezza. La camera da letto si trovava a pochi passi. D’altra parte la camera da letto e il letto sarebbero stati a pochi passi anche tra cinque minuti, e comunque voleva soltanto chiudere gli occhi un momento, non dormire…

Un’oscurità fragorosa.

Era in mezzo a una pianura aperta. Accanto c’era il luogo da cui era emerso, il punto dove la terra l’aveva gettato fuori. Le stelle cadevano ancora dal cielo, e ogni stella che toccava la terra rossa diventava un uomo o una donna. Gli uomini avevano lunghi capelli scuri e zigomi pronunciati. Le donne somigliavano tutte a Marguerite Olsen. Era il popolo delle stelle.

Lo guardavano con gli occhi scuri e fieri.

«Parlatemi degli uccelli del tuono» disse Shadow. «Ve ne prego. Non è per me. È per mia moglie.»

A una a una le donne gli voltarono le spalle, e quando non le vide più in faccia erano già scomparse, diventando tutt’uno con il paesaggio. Ma l’ultima, con i capelli striati di ciocche grigio scuro, prima di voltarsi indicò con un dito il cielo color vino.

«Chiediglielo direttamente» disse. I lampi di un temporale estivo illuminarono per un momento il paesaggio da un orizzonte all’altro.

C’erano grandi alture rocciose, creste e vette di arenaria, e Shadow cominciò a scalare la più vicina. Aveva il colore dell’avorio antico. Quando si afferrò a un appiglio, sentì che gli si sbriciolava tra le dita. Sono ossa, pensò. Non è roccia. E una torre fatta di vecchie ossa.

Era un sogno e nei sogni non si ha scelta; o non ci sono decisioni da prendere, oppure le decisioni sono state già prese molto prima che il sogno avesse inizio. Shadow continuò ad arrampicarsi. Gli facevano male le mani, le ossa si spezzavano con schiocchi netti frantumandosi sotto i suoi piedi scalzi. Il vento lo strattonava ma lui si strinse alla parete e continuò a scalare la torre.

Era fatta di un unico tipo d’osso, sempre quello, all’infinito, di forma arrotondata. Immaginò che potesse trattarsi di uova di un uccello gigantesco, ma un altro lampo gli raccontò una storia diversa: quelle forme tondeggianti avevano orbite, e denti digrignati in un sorriso senza allegria.

Da chissà dove giungevano i richiami degli uccelli. La pioggia gli bagnava la faccia.

Si trovava a decine di metri da terra, attaccato alla parete di una torre di teschi, mentre fulmini e saette squarciavano il buio sulle ali di quegli uccelli dalle lunghe ombre che volavano in cerchio: animali enormi e neri, simili a condor, con un collare di piume bianche. Erano uccelli grandissimi e sgraziati, spaventosi d’aspetto, e il battito delle loro ali risuonava nella notte con il fragore del tuono.

Volavano in cerchio intorno alla torre.

Devono avere un’apertura alare di almeno sei metri, pensò Shadow.

Poi il primo uccello si staccò dal gruppo per avventarsi su di lui. Lanciava saette azzurre dalle ali. Shadow si infilò in una fessura tra i teschi, sotto lo sguardo di quelle orbite vuote, tra i sorrisi di quelle dentature d’avorio, ma non si fermò, riprese ad arrampicarsi sulla montagna di teschi, tagliandosi con le schegge d’osso acuminate, in preda a repulsione e terrore, in preda a una grande soggezione.

Un altro uccello gli si lanciò addosso e un artiglio grande come una mano gli si conficcò nel braccio.

Si protese cercando di strappargli una piuma — perché se avesse fatto ritorno alla sua tribù senza la piuma dell’uccello del tuono sarebbe caduto in disgrazia, non sarebbe mai diventato uomo — ma l’uccello del tuono si alzò in volo sfuggendo alla sua presa. Poi si allontanò sospinto dal vento. Shadow riprese a salire.

Devono essere decine di migliaia di teschi, pensò. Mille migliaia. E non sono tutti umani. Raggiunse infine la sommità della montagna mentre i grandi uccelli, gli uccelli del tuono, volavano in cerchio lentamente, navigando sulle raffiche della tempesta con minuscoli aggiustamenti delle ali.

Sentì una voce, la voce dell’uomo-bufalo, che superava l’ululato del vento, gli diceva che quei teschi appartenevano a…

La torre cominciò a sgretolarsi e il più grande degli uccelli, con gli occhi di un bianco-azzurro accecante come il fulmine precipitò su Shadow in un impeto di tuono e lui cadeva, crollava insieme alla torre di teschi…

Stava squillando il telefono. Shadow non sapeva nemmeno che fosse stato ricollegato. Intontito, turbato dal sogno, alzò il ricevitore.

«Ma cosa cazzo fai?» urlò Wednesday, furibondo come non l’aveva mai sentito. «Cosa cazzo credi di fare, porca puttana?»

«Dormivo» rispose Shadow stupidamente.

«A cosa cazzo serve metterti al sicuro in un posto come Lakeside se poi tu sollevi un vespaio che non sfuggirebbe neanche a un cadavere?»

«Ho sognato gli uccelli del tuono… E una torre. Teschi…» Raccontare il sogno gli sembrava di fondamentale importanza.

«Lo so che cosa stavi sognando. Tutti lo sanno. Dio Onnipotente. A cosa cazzo serve nasconderti se poi ti fai pubblicità in questa maniera?»

Shadow non disse niente.

All’altro capo della linea ci fu una pausa di silenzio, poi Wednesday disse: «Sarò lì in mattinata». Sembrava che la rabbia gli fosse passata. «Andiamo a San Francisco. I fiori nei capelli sono opzionali.» E chiuse la comunicazione.

Shadow appoggiò il telefono sul tappeto e rigidamente si tirò su. Erano le sei del mattino e fuori faceva ancora buio. Si alzò dal divano, rabbrividiva. Il vento ululava sul lago gelato. E qualcuno vicino a lui, separato soltanto da una parete, piangeva. Era certamente Marguerite Olsen; i suoi singhiozzi soffocati erano insistenti e spezzavano il cuore.

Shadow andò in bagno, poi in camera da letto, e chiuse la porta per non sentire il pianto della donna. Il vento ululava e gemeva come se anche lui cercasse un bambino perduto.


A gennaio il clima di San Francisco era intempestivamente caldo, così caldo che Shadow aveva il collo sudato. Wednesday indossava un abito blu scuro e un paio d’occhiali dalla montatura dorata che gli davano l’aspetto di un avvocato dell’ambiente dello spettacolo.

Stavano camminando lungo Haight Street. La gente di strada, le prostitute e i perdigiorno che li guardavano passare non agitarono il bicchiere di carta per l’elemosina e non chiesero né offrirono niente.

Wednesday aveva le mascelle contratte, Shadow si era accorto subito che era ancora arrabbiato. Quando la piccola Lincoln nera si era fermata davanti alla casa, quel mattino, non aveva fatto domande. Durante il tragitto fino all’aeroporto nessuno dei due aveva parlato. Scoprire che Wednesday aveva un posto in prima classe e che lui era in classe turistica era stato un sollievo.

Adesso era tardo pomeriggio. Shadow non tornava a San Francisco da quando era bambino, aveva visto la città soltanto nei film e rimase sconcertato nel trovarla così familiare, con le sue case colorate e originali, le colline, così unica e diversa da qualsiasi altro posto.

«È quasi impossibile credere che questa città si trovi nello stesso paese di Lakeside» disse.

Wednesday gli lanciò un’occhiataccia. Poi disse: «Non è così, infatti. San Francisco non si trova nello stesso paese di Lakeside più di quanto New Orleans non si trovi nello stesso paese che ospita New York, o Miami in quello di Minneapolis».

«Ah sì?»

«È fuor di dubbio. Magari condividono alcuni simboli culturali — i soldi, il governo federale, gli svaghi — e ovviamente il paese è lo stesso, ma quel che crea l’illusione che si tratti di un’unica nazione sono i dollari, il Tonight Show e i McDonald’s, nient’altro.» Si stavano avvicinando a un parco alla fine della strada. «Sii gentile con la signora che stiamo per incontrare. Ma non troppo.»

«Non preoccuparti.»

Entrarono nell’erba.

Una ragazzina, non poteva avere più di quattordici anni, con i capelli tinti di verde, arancio e rosa, rimase a fissarli mentre le passavano davanti. Sedeva accanto a un cane, un bastardo che per collare e guinzaglio aveva un pezzo di corda. Sembrava più affamata dell’animale. Il bastardo abbaiò allegro e scodinzolò.

Shadow le diede un dollaro. Lei lo guardò come se non lo riconoscesse. «Compra da mangiare al cane» le suggerì. Lei annuì e sorrise.

«Mettiamo le cose in chiaro» disse Wednesday, «devi essere molto cauto con la signora che stiamo per incontrare. Se le prendesse un capriccio per te sarebbe un guaio.»

«È la tua fidanzata?»

«No, nemmeno per tutti i giocattolini di plastica che producono in Cina» rispose Wednesday con garbo. La rabbia sembrava dissipata, o forse era solo stata messa da parte per il futuro. Shadow aveva il sospetto che fosse proprio la rabbia il motore di Wednesday.

Seduta sull’erba sotto un albero c’era una donna che aveva stesa davanti a sé una tovaglia di carta coperta di una gran quantità di contenitori di plastica.

Era… no, non era grassa, tutt’altro, era formosa, un’aggettivo che Shadow non aveva mai avuto occasione di usare. I capelli così chiari che sembravano bianchi erano legati in trecce biondo platino come facevano certe star del cinema muto; portava un rossetto cremisi e dimostrava un’età indefinibile tra i venticinque e i cinquant’anni.

Quando la raggiunsero si stava servendo da un piatto di uova in salsa piccante. Alzò gli occhi, appoggiò l’uovo che aveva scelto e si pulì la mano. «Ciao, vecchio impostore» disse a Wednesday con un sorriso, e lui le fece un profondo inchino con baciamano.

«Sei divina» disse.

«E come diavolo dovrei essere?» rispose lei con dolcezza. «Comunque sei un bugiardo. New Orleans è stata un errore: ho messo su almeno quindici chili. Giuro. Ho capito che me ne dovevo andare il giorno in cui ho cominciato a camminare ondeggiando. Adesso, ci crederesti che quando cammino mi si sfregano le cosce?» L’ultima frase era stata rivolta a Shadow che non avendo idea di cosa rispondere arrossì violentemente. La donna rise contenta. «Sta arrossendo! Wednesday, mio caro, mi hai portato un giovanotto che diventa rosso. Che carino da parte tua! Come si chiama?»

«Lui è Shadow» disse Wednesday che sembrava trovare divertente il suo disagio. «Shadow, di’ ciao a Easter.»

Shadow borbottò qualcosa che poteva suonare come un saluto e la donna gli sorrise di nuovo. Gli sembrava di essere abbagliato dalle luci intermittenti che i bracconieri usano per paralizzare i cervi prima di sparare. Dal punto in cui si trovava sentiva il profumo della sua pelle, una miscela di gelsomino, caprifoglio e latte dolce che lo stordiva.

«Allora, come vanno le cose?» chiese Wednesday.

La donna — Easter — rispose con una risata profonda e gioiosa, di gola. Come si faceva a non trovare adorabile una donna che rideva in quel modo? «Va tutto bene. E tu, vecchio lupo?»

«Speravo di poter contare sul tuo aiuto.»

«Perdi il tuo tempo.»

«Prima di liquidarmi prestami ascolto almeno un momento.»

«È inutile. Risparmia il fiato.»

La donna guardò Shadow. «Siediti, prego, e serviti quello che vuoi. Ecco qui un piatto, riempilo per bene. E tutto squisito. Uova, pollo arrosto, pollo al curry, insalata di pollo, e là c’è il lapin — coniglio, in effetti, freddo è delizioso, e in quella ciotola lo stufato di lepre — vuoi che te lo prepari io?» Cominciò a riempirgli un piatto di plastica e glielo porse. Poi guardò Wednesday. «Vuoi mangiare?»

«Ai tuoi ordini, mia cara» rispose lui.

«Tu» disse la donna «sei così pieno di merda che mi stupisco che gli occhi non ti diventino marroni.» Gli passò un piatto vuoto. «Serviti da solo.»

Il sole del pomeriggio alle sue spalle le aveva trasformato i capelli in un’aura color platino. «Shadow» disse addentando con gusto una coscia di pollo. «Che bel nome. Perché ti chiamano così?»

Shadow si passò la lingua sulle labbra secche. «Quand’ero bambino mia madre e io eravamo, cioè lei era, una specie di segretaria e lavorava per varie ambasciate, ci spostavamo da una città all’altra dell’Europa settentrionale. Poi si è ammalata ed è andata in pensione presto, così siamo tornati negli Stati Uniti. Non avevo mai niente da dire agli altri ragazzi, seguivo gli adulti in silenzio come un’ombra. Avevo bisogno di compagnia, credo. Non saprei. Ero un bambino minuto.»

«Sei cresciuto» disse lei.

«Sì. Sono diventato grande.»

La donna si voltò verso Wednesday che si stava servendo senza complimenti da una ciotola di gombo freddo. «È questo il ragazzo che ha messo tutti in agitazione?»

«Hai saputo anche tu?»

«Tengo le orecchie aperte.» Poi, rivolta a Shadow: «Sta’ alla larga dai guai. Ci sono troppe società segrete da queste parti, senza lealtà e senza amore. Commerciali, indipendenti, governative, sono tutte nella stessa barca. Si va da quelle a malapena competenti a quelle terribilmente pericolose. Ehi, vecchio lupo, l’altro giorno ho sentito una barzelletta che ti piacerebbe. Come si fa a sapere che la Cia non era coinvolta nell’assassinio di Kennedy?».

«L’ho già sentita» rispose Wednesday.

«Peccato.» Rivolse di nuovo l’attenzione a Shadow. «Ma gli spioni che hai incontrato tu sono un’altra faccenda. Loro esistono perché tutti pensano che debbano esistere.» Finì il contenuto di un bicchiere di carta, vino bianco, dal colore, e si alzò in piedi. «Shadow è un bel nome. Voglio un mochaccino. Venite con me.»

Si allontanò. «E il cibo?» chiese Wednesday. «Non puoi lasciare tutto qui.»

Lei gli sorrise, indicò la ragazzina seduta accanto al cane e poi fece il gesto di abbracciare Haight Street e il mondo intero. «Lascia che tutti si nutrano» disse, e proseguì seguita dai due uomini.

«Ricordati» disse a Wednesday, «io sono ricca. Me la passo benone. Perché mai ti dovrei aiutare?»

«Perché sei una di noi. Dimenticata e senza amore esattamente come noi. È piuttosto evidente da quale parte dovresti stare.»

Raggiunsero un bar con i tavolini all’aperto, entrarono e presero posto. C’era una cameriera che sfoggiava un anellino al sopracciglio come un segno di casta e, dietro il banco, una donna che faceva i caffè. La cameriera li accolse con un sorriso finto e prese le ordinazioni.

Easter appoggiò la mano affusolata sul dorso di quella grigia e squadrata di Wednesday. «Ti assicuro che me la cavo. Durante i giorni della mia festa mangiano ancora uova e coniglio, dolciumi e carne, che rappresentano rinascita e accoppiamento. Infilano fiori freschi sul cappellino e li scambiano tra loro. Lo fanno nel mio nome. Sempre più numerosi ogni anno. Nel mio nome, vecchio lupo.»

«E tu diventi ricca e grassa con la loro adorazione e il loro amore?» chiese lui seccamente.

«Non fare lo stronzo.» All’improvviso il suo tono suonò stanco. Sorseggiò il mochaccino.

«È una domanda seria, mia cara. Convengo certamente con te che molti milioni di persone si scambiano doni in tuo nome, e che ancora praticano i riti della tua festa, compresa la caccia alle uova nascoste. Ma quanti di loro sanno chi sei? Dimmelo! Mi scusi, signorina» disse alla cameriera.

«Vuole un altro espresso?»

«No, cara. Mi stavo soltanto domandando se lei non potrebbe risolvere una piccola questione. La mia amica e io non ci troviamo d’accordo sul significato della parola "Easter". Lei lo conosce, per caso?»

La ragazza lo guardò come se dalla bocca gli uscissero rospi verdi. Poi disse: «Non so niente di queste storie cristiane. Io sono pagana».

La donna dietro il banco si intromise: «Credo che voglia dire "Cristo è risorto" o qualcosa del genere in latino».

«Davvero?» disse Wednesday.

«Sì, certo» ribatté la donna. «Easter. Come il sole che sorge a est.»

«Il figlio risorto. Chiaro… una supposizione logica.» La donna sorrise e riprese a macinare il caffè. Wednesday guardò la cameriera. «Credo che prenderò un altro espresso, se non le spiace. E mi dica, in quanto pagana lei che cosa venera?»

«Venero?»

«Esatto. Immagino che le possibilità siano piuttosto ampie. Dunque a chi è dedicato il suo altare domestico? A chi si inchina? Davanti a chi prega all’alba e al tramonto?»

La ragazza fece parecchie smorfie con la bocca prima di dire: «Il principio femminile. È una maniera di acquisire potere. Lo sapeva?».

«Certamente. E ha un nome, questo principio femminile?»

«È la dea che c’è dentro ogni donna» rispose la ragazza con l’anello al sopracciglio e le guance soffuse di rossore. «Non ha bisogno di un nome.»

«Ah» esclamò Wednesday con una smorfia scimmiesca, «e fate in suo onore grandissimi baccanali? Bevete vino inebriante sotto la luna piena mentre nei candelabri bruciano ceri scarlatti? Vi immergete nude nell’acqua alzando estatiche inni alla vostra divinità senza nome mentre le onde vi lambiscono le gambe, su su fino alle cosce come lingue di mille leopardi?»

«Lei mi sta prendendo in giro» disse la ragazza. «Non facciamo niente del genere.» Inspirò profondamente. Shadow sospettò che stesse contando fino a dieci. «Volete altri caffè? Un altro mochaccino per lei, signora?» Adesso sfoderava lo stesso sorriso con il quale li aveva accolti.

Fecero di no con la testa e la ragazza andò a occuparsi di un altro cliente.

«Ecco» disse Wednesday «una che "non ha la fede e non avrà la gioia" come diceva Chesterton. Pagani, bella roba. Allora? Vogliamo uscire, mia cara Easter, e ripetere l’esperimento per strada? Scoprire quanti sanno che la festa di Pasqua prende il nome da Eostre of the Dawn? Vediamo… facciamo così: chiediamolo a cento persone. Per ognuna che conosce la risposta mi taglierai un dito della mano, e quando avrai finito con le mani mi taglierai le dita dei piedi; per ogni venti che non sanno la verità invece tu passerai una notte d’amore con me. E le probabilità sono certamente in tuo favore in questa città: siamo a San Francisco, dopotutto. Lungo queste ripide strade abbondano pagani e miscredenti e streghe.»

Gli occhi verdi della donna si posarono su Wednesday. Erano dell’esatto colore delle foglie in primavera quando il sole vi brilla attraverso. Non disse niente.

«Potremmo provare» continuò Wednesday. «Io finirei col tenermi tutte le dita dei piedi e delle mani e guadagnerei il diritto di passare cinque giorni nel tuo letto. Quindi non venirmi a dire che la gente ti venera e onora la tua festa. Pronunciano il tuo nome, ma per loro non significa niente. Zero.»

A Easter spuntarono le lacrime agli occhi. «Lo so» disse a bassa voce. «Non sono stupida.»

«No. Non lo sei.»

Ha esagerato, pensò Shadow.

Wednesday abbassò gli occhi: «Mi dispiace». Shadow sentì che il suo tono era sincero. «Abbiamo bisogno di te. Ci serve la tua energia. Il tuo potere. Lotterai al nostro fianco, quando scoppierà la tempesta?»

Lei esitò. Sul polso sinistro aveva tatuata una ghirlanda di azzurri nontiscordardime.

«Sì» disse dopo qualche tempo. «Credo di sì.»

Probabilmente è vero quello che si dice, pensò Shadow. Se sembri sincero è fatta. Poi provò un senso di colpa per averlo pensato.

Wednesday posò un bacio su un dito e sfiorò la guancia di Easter. Chiamò la cameriera e pagò i caffè contando con cura il denaro, piegando le banconote insieme alla ricevuta.

Mentre la cameriera si allontanava, Shadow disse: «Signorina, scusi. Credo che abbia perso questo» e raccolse dal pavimento una banconota da dieci dollari.

«No» rispose lei guardando la ricevuta piegata che stringeva in mano.

«L’ho vista cadere» ribatté lui cortese ma insistente. «Provi a contarle.»

La cameriera contò il denaro e con aria perplessa disse: «Cavoli. Ha ragione lei. Grazie.» Prese la banconota e se ne andò.

Easter uscì insieme ai due uomini nella luce che cominciava appena a impallidire. Fece un cenno a Wednesday, poi sfiorò la mano di Shadow e disse: «Che cos’hai sognato, la notte scorsa?».

«Uccelli del tuono. Una montagna di teschi.»

Lei annuì. «E sai a chi appartenevano quei teschi?»

«C’era una voce nel sogno. Me l’ha detto.»

Lei annuì ancora e attese.

«Ha detto che erano miei. Vecchi teschi miei. Migliaia e migliaia.»

Easter guardò Wednesday e disse: «Penso che questo qui sia un custode». Fece il suo sorriso luminoso, batté un colpetto sul braccio di Shadow e si avviò lungo il marciapiede. Lui rimase a guardarla camminare cercando, senza riuscirci, di non pensare alle sue cosce che sfregavano l’una contro l’altra.

Nel taxi diretto all’aeroporto Wednesday si rivolse a Shadow. «Che cosa diavolo è stato quel casino con i dieci dollari?»

«L’avevi fregata. Se c’è un ammanco di cassa lo detraggono dal suo stipendio.»

«E a te che cosa te ne frega?» Wednesday sembrava sinceramente adirato.

Shadow rifletté un momento, poi disse: «Ecco, non vorrei che qualcuno lo facesse a me. In fondo non aveva fatto niente di male».

«Ah no?» L’altro fissò un punto non lontano nel vuoto e disse: «A sette anni ha chiuso un gattino nell’armadio e l’ha lasciato miagolare per giorni. Quando ha smesso di piangere l’ha tirato fuori dall’armadio, l’ha infilato in una scatola di scarpe e l’ha sepolto in cortile. Voleva seppellire qualcosa. Ruba continuamente dalla cassa. Piccole cifre, di solito. L’hanno scorso è andata a trovare la nonna nella casa di riposo per anziani. Ha preso un orologio d’oro antico dal suo comodino e poi ha fatto furtivamente un giro delle altre stanze rubando piccole cifre ed effetti personali, cimeli degli anni d’oro degli anziani ricoverati. Tornata a casa, siccome non sapeva cosa farne e aveva paura che qualcuno la venisse a cercare, ha buttato via tutto eccetto i contanti».

«Ho capito il concetto» disse Shadow.

«Inoltre ha una gonorrea asintomatica» continuò Wednesday. «Sospetta di essere malata ma non fa niente per curarsi. Quando l’ultimo fidanzato l’ha accusata di avergli trasmesso l’infezione lei si è offesa e non l’ha più voluto vedere.»

«Non c’è bisogno che tu vada avanti. Ti ho detto che ho capito il concetto. Comunque potresti farlo con chiunque, no? Dirmi brutte cose sul loro conto, voglio dire.»

«Certo» disse Wednesday. «Fanno tutti le stesse cose. Magari credono di commettere peccati originali, ma in genere sono banali e ripetitivi.»

«E questo ti autorizza a rubarle dieci dollari?»

Wednesday pagò il taxi ed entrarono nell’aeroporto, dirigendosi al cancello. Il volo non era ancora pronto all’imbarco. «Che cos’altro potrei fare? Non sacrificano tori o arieti in mio onore. Non mi mandano le anime di assassini e schiavi, di gente impiccata e sbranata dai corvi. Loro mi hanno creato, loro mi hanno dimenticato. Adesso mi prendo qualche piccola rivalsa. Non ti sembra giusto?»

«Mia mamma diceva sempre: "Non c’è giustizia a questo mondo"» disse Shadow.

«Lo credo» disse Wednesday. «È una di quelle cose che dicono tutte le mamme, insieme a: "Se i tuoi amici si buttassero giù dalla rupe ti ci butteresti anche tu?".»

«Hai fregato dieci dollari a quella ragazza, e io glieli ho ridati» disse Shadow con ostinazione. «Era la cosa giusta da fare.»

Una voce annunciò che il loro volo era pronto all’imbarco. Wednesday si alzò. «Che le tue scelte siano sempre altrettanto facili.»


Il gelo stava allentando la morsa quando Wednesday lasciò Shadow davanti a casa, nelle prime ore del mattino. Lakeside era sempre oscenamente fredda, ma non in maniera insopportabile. L’insegna luminosa sulla facciata della M I Bank lampeggiava alternativamente 3:30 e -15°.

Quando il capo della polizia Chad Mulligan bussò alla sua porta per chiedergli se conosceva una ragazza di nome Alison McGovern erano le nove e mezzo.

«Non mi pare» rispose Shadow insonnolito.

«Questa è la sua foto» disse Mulligan. Era stata scattata al liceo. Shadow la riconobbe immediatamente: era la ragazza con gli elastici azzurri dell’apparecchio per i denti, quella che sul Greyhound aveva imparato dall’amica un uso alternativo dell’Alka Seltzer.

«Ah sì. Era sul pullman con me quando sono arrivato.»

«Dove ti trovavi ieri, Ainsel?»

Shadow ebbe l’impressione che il mondo cominciasse a girargli intorno. Sapeva di non avere motivo di sentirsi colpevole (Sei un criminale che ha violato le norme della libertà vigilata e usa un nome e documenti falsi, gli sussurrò calma una voce interiore. Non basta?).

«Ero a San Francisco» disse. «In California. Ho aiutato mio zio a trasportare un letto a baldacchino.»

«Hai la matrice del biglietto o qualcosa del genere?»

«Sì.» Aveva le carte d’imbarco di andata e ritorno nella tasca posteriore dei pantaloni. «Che cosa sta succedendo?»

Mulligan esaminò le carte. «Alison McGovern è sparita. Lavorava come volontaria alla Lakeside Humane Society. Dava da mangiare agli animali, portava a passeggio i cani. Tutti i giorni dopo la scuola per qualche ora. Comunque. Dolly Knopf, che gestisce il Centro, la sera l’accompagna sempre a casa, quando chiudono. Ieri Alison non si è presentata.»

«È scomparsa?»

«Già. I genitori ci hanno telefonato la notte scorsa. La sciocchina faceva l’autostop per andare al Centro. Si trova sulla County W, piuttosto isolato. I suoi le dicevano sempre di non fare l’autostop, comunque in questo posto non succede mai niente… la gente non chiude la porta a chiave, capisci? È difficile proibire certe cose ai ragazzi. Comunque, guarda un’altra volta la foto.»

Alison McGovern sorrideva. Gli elastici dell’apparecchio erano rossi, non azzurri.

«Puoi onestamente dichiarare di non averla rapita, né violentata o uccisa?»

«Ero a San Francisco. E non farei mai una schifezza del genere.»

«È quello che pensavo, amico. Vuoi venire con noi a cercarla?

«Io?»

«Tu. Questa mattina sono arrivati i ragazzi dell’unità cinofila… finora niente.» Sospirò. «Diamine, Mike. Spero proprio che sia a Twin Cities con qualche amico a fumarsi le canne.»

«Ti sembra probabile?»

«È possibile. Vuoi unirti alla squadra di ricerca?»

Shadow si ricordò di aver visto la ragazzina da Hennings Farm and Home Supplies, il bagliore di un sorriso timido con l’apparecchio dagli elastici azzurri, e di aver pensato a come sarebbe diventata bella, un giorno. «Vengo.»

Nell’atrio della caserma dei pompieri erano in più di venti tra uomini e donne. Shadow riconobbe Hinzelmann e parecchie altre facce ormai familiari. C’erano agenti di polizia e qualcuno con l’uniforme marrone dell’ufficio dello sceriffo.

Chad Mulligan spiegò cosa indossava Alison quando era stata vista l’ultima volta (tuta da sci rossa, guanti verdi, berretto di lana blu sotto il cappuccio della giacca) e divise i volontari in gruppi di tre persone. Shadow, Hinzelmann e un certo Brogan si ritrovarono insieme. Il capo della polizia ricordò a tutti che le giornate erano brevi e che se, Dio non voglia, avessero trovato il corpo di Alison, andava da sé che non dovevano toccare niente ma chiedere aiuto via radio, e che se era viva dovevano tenerla al caldo fino all’arrivo dei soccorsi.

Vennero accompagnati in macchina sulla County W.

Hinzelmann, Brogan e Shadow si avviarono lungo l’argine di un torrente gelato. Ogni gruppo era stato dotato di una piccola ricetrasmittente.

Sotto la cappa di nuvole basse il mondo era completamente grigio. Nelle ultime trentasei ore non aveva nevicato e sulla neve ghiacciata e scintillante le impronte erano ben visibili.

Con i baffetti sottili e le tempie canute Brogan sembrava un colonnello in pensione. Disse a Shadow di essere stato il preside del liceo. «Ma diventavo vecchio. Adesso insegno ancora qualcosina, mi occupo della recita scolastica — che è l’avvenimento più importante dell’anno — vado a caccia e ho una casupola sul lago Pike dove passo molto tempo.» Quando partirono aggiunse: «Da una parte spero di trovarla. Dall’altra sarei più contento se la trovasse qualcun altro. Capisce cosa voglio dire?».

Shadow lo capiva perfettamente.

I tre uomini non parlarono molto. Camminarono cercando una tuta rossa, o un paio di guanti verdi, o un berretto blu o un corpo bianco. Ogni tanto Brogan, che aveva la ricetrasmittente, si teneva in contatto con Chad Mulligan.

All’ora di pranzo si unirono agli altri su un pulmino scolastico requisito per l’occasione e mangiarono hot dog e brodo caldo. Qualcuno indicò un buteo su un albero spoglio e qualcun altro disse che sembrava un falco, ma siccome volò via la discussione non ebbe seguito.

Hinzelmann raccontò la storia della tromba di suo nonno che un giorno aveva provato a suonarla durante una gelata, ma davanti al fienile dov’era andato a esercitarsi faceva così freddo che non uscì nemmeno una nota.

«Tornato in casa appoggiò lo strumento vicino alla stufa a legna. Ebbene, mentre tutta la famiglia dormiva, di colpo le note congelate cominciarono a uscire dalla tromba. Mia nonna si è spaventata a morte.»

Il pomeriggio trascorse interminabile, infruttuoso e deprimente. La luce sbiadì piano piano: le distanze si ridussero e il mondo diventò color indaco mentre il vento soffiava così freddo da bruciare la faccia. Quando fu troppo buio per proseguire le ricerche, Mulligan ordinò via radio di rientrare e i gruppi furono riaccompagnati alla caserma dei pompieri.

Poco lontano c’era Buck Stops Here, la taverna dove si ritrovarono quasi tutti. Sfiniti e demoralizzati, non facevano che ripetere com’era freddo e che molto probabilmente Alison sarebbe ricomparsa tra un paio di giorni ignara dei dispiaceri che aveva causato a tutti.

«Non deve pensare male della nostra città per questo» disse Brogan. «È una città tranquilla.»

«Lakeside» aggiunse una donna ben curata di cui Shadow aveva dimenticato il nome, ammesso che le fosse stata presentata, «è la migliore cittadina dei North Woods. Sa quanti disoccupati abbiamo?»

«No.»

«Meno di venti. Su più di cinquemila abitanti compresi i dintorni. Non saremo ricchi ma tutti hanno un impiego. Non come le città minerarie del Nordest che adesso sono state quasi tutte abbandonate. E ci sono le cittadine agricole strozzate dalla caduta del prezzo del latte, o da quello dei maiali. Sa qual è la principale causa non naturale di morte tra i coltivatori del Midwest?»

«Il suicidio?» arrischiò Shadow.

La donna lo guardò con aria delusa. «Sì. È esatto. Si tolgono la vita.» Scosse la testa. «Poi ci sono anche troppe cittadine che vivono solo su quelli che vengono a caccia o sui villeggianti, si limitano a spennarli e a rispedirli a casa pieni di trofei e di punture di insetti. E quelle industriali dove tutto fila liscio come l’olio fino a quando Wal-Mart non sposta i suoi centri di distribuzione o la 3M smette di produrre cd o quello che è, e all’improvviso una barca di gente non sa più come pagare il mutuo della casa. Scusi, non ho capito il suo nome.»

«Ainsel» disse Shadow. «Mike Ainsel.» La birra che stava bevendo era di produzione locale, fatta con acqua sorgiva. Era buona.

«Sono Callie Knopf» si presentò la donna. «La sorella di Dolly.» Aveva le guance ancora arrossate dal freddo. «Quello che voglio dire è che Lakeside è fortunata. Abbiamo un po’ di tutto: agricoltura, industria leggera, turismo, artigianato. Buone scuole.»

Shadow la guardava sconcertato. In fondo alle sue parole risuonava il vuoto, era come ascoltare un venditore, un buon venditore che crede nel suo prodotto ma il cui problema in fondo è rifilarti tutte le spazzole o l’enciclopedia completa. Forse la donna glielo lesse in faccia, perché disse: «Mi scusi. Quando si ama qualcosa non si smetterebbe mai di parlarne. Lei di che cosa si occupa, signor Ainsel?».

«Mio zio commercia in antichità. Mi chiama quando ha bisogno di spostare qualche oggetto pesante. È un buon lavoro, ma saltuario.» Un gatto nero che era la mascotte del locale si strusciò contro le gambe di Shadow e gli sfregò il muso contro uno stivale. Poi saltò sulla panca e gli si addormentò vicino.

«Quanto meno può viaggiare» disse Brogan. «Si occupa di nient’altro?»

«Ha in tasca otto monete da venticinque centesimi?» chiese Shadow. Brogan rovistò tra gli spiccioli e ne trovò cinque, che gli allungò. Callie Knopf fornì le altre tre.

Shadow le sistemò in due file di quattro, poi, senza alcuna incertezza, eseguì il Trucco Attraverso il Tavolo, dando l’illusione di far cadere metà delle monete proprio nel legno mentre in realtà le passava dalla mano sinistra alla destra.

Poi prese tutte le monete nella destra, afferrò con la sinistra un bicchiere vuoto, lo coprì con un tovagliolo e fece sparire a uno a uno dalla mano i quarti di dollaro per farli ricomparire nel bicchiere con un sonoro clic. Infine aprì la mano destra per mostrare che era vuota e levò il tovagliolo in modo che tutti potessero ammirare le monete dentro il bicchiere.

Le restituì — tre a Callie, cinque a Brogan — poi ne riprese una dalla mano di Brogan, lasciandogliene quattro, vi soffiò sopra e la trasformò in un penny che diede all’ex preside. Quando Brogan contò le monete che gli erano rimaste fu stupito di trovarne ancora cinque da venticinque centesimi.

«Ma sei un Houdini» chiocciò Hinzelmann. «Proprio Harry Houdini!»

«Solo un dilettante. Devo fare ancora molta strada.» Però provava una certa fierezza. Per Shadow era il suo primo pubblico adulto.

Tornando a casa si fermò in un negozio di alimentari a comperare un cartone di latte. La ragazza con i capelli fulvi alla cassa aveva un’aria familiare e gli occhi rossi di pianto. Era tutta lentiggini.

«Ti conosco» disse Shadow, «sei…» e stava per dire la ragazzina dell’Alka-Seltzer ma si fermò in tempo, «l’amica di Alison. Sul Greyhound. Spero che torni presto.»

La ragazza tirò su col naso e annuì. «Anch’io.» Soffiò forte il naso in un fazzoletto di carta che infilò nella manica.

Portava una patacca con la scritta: CIAO! MI CHIAMO SOPHIE! CHIEDIMI COME SI FA A PERDERE 10 CHILI IN UN MESE!

«Ho passato la giornata a cercarla. Ancora niente.»

Sophie annuì e trattenne una nuova ondata di lacrime. Passò il cartone del latte davanti allo scanner che ne lesse il prezzo con un cinguettio elettronico. Shadow le diede due dollari.

«Io me ne vado da questa città di merda» disse la ragazza all’improvviso, con voce soffocata. «Vado a vivere da mia mamma a Ashland. Adesso è scomparsa Alison. Sandy Olsen è sparito l’anno scorso. Jo Ming l’anno prima. E se l’anno prossimo toccasse a me?»

«Credevo che Sandy Olsen fosse stato rapito dal padre.»

«Sì» ribatté lei con amarezza. «Certo. E Jo Ming è andata in California e Sarah Lindquist si è persa durante un’escursione e non l’hanno mai ritrovata. Può darsi. Comunque io voglio andare a Ashland.»

Inspirò e trattenne un momento il fiato. Poi, inaspettatamente, gli sorrise. Non c’era niente di falso in quel sorriso. Le avevano detto che quando dava il resto doveva sorridere, e lei sorrideva. Gli augurò una buona serata. Poi si dedicò alla cliente con il carrello pieno, cominciò a svuotarlo e a passare i prodotti davanti allo scanner.

Shadow prese il latte e tornò al volante, superò la pompa di benzina e la bagnarola sul lago, oltre il ponte verso casa.


L’arrivo in America

1778


C’era una ragazza che fu venduta dallo zio, scrisse il signor Ibis nel suo bel corsivo regolare.

Questa è la sostanza, il resto sono dettagli.

Vi sono storie che se le si ascolta con il cuore aperto feriscono troppo profondamente. Sentite. Ecco un uomo, una brava persona secondo i suoi stessi canoni, e anche secondo i suoi amici: fedele e sincero con la moglie, adora i figli e li copre d’attenzioni, si preoccupa delle sorti del suo paese, svolge con puntiglio il lavoro, nel miglior modo possibile. Quindi, efficiente e ben disposto, stermina ebrei: apprezza la musica che viene diffusa nei campi per tenerli tranquilli; consiglia loro di non dimenticare i numeri di identificazione, quando entrano nelle docce… molti se li dimenticano, spiega, si dimenticano i numeri e all’uscita prendono i vestiti sbagliati. Questo discorso li calma. Allora ci sarà ancora vita dopo le docce, si dicono gli ebrei per confortarsi. Il nostro uomo supervisiona i dettagli dell’operazione di trasporto dei corpi ai forni crematori; se ha un rammarico è quello di non essere del tutto insensibile al fatto di mandare quella feccia nelle camere a gas. Sa che se fosse davvero un uomo probo non proverebbe che gioia all’idea di ripulire la terra dei suoi parassiti.

C’era una ragazza che fu venduta dallo zio. Messa così sembra molto semplice.

Nessun uomo, dichiarò Donne, è un’isola, e si sbagliava. Se non fossimo isole andremmo alla deriva, coleremmo a picco nelle altrui tragedie. Siamo isolati (non bisogna dimenticare che "isolare" viene da isola) dai drammi delle vite altrui grazie alla nostra natura insulare e alla ripetitività delle storie. La struttura non cambia mai: c’era un essere umano che nacque, visse e per un motivo o per l’altro morì. Ecco. Per i dettagli ciascuno di noi si può ispirare alla propria esperienza. Banale come ogni storia, come ogni esistenza unica. Le vite sono come i fiocchi di neve dalle forme sempre diverse, identici tra loro come piselli nel baccello (avete mai guardato in un baccello? Voglio dire avete mai guardato davvero i piselli? Dopo un’ispezione ravvicinata confonderli risulterebbe impossibile) ma pur sempre unici.

In assenza degli individui vediamo soltanto numeri: un migliaio di morti, centomila morti, "le perdite potrebbero salire a un milione". Grazie alle storie individuali le statistiche diventano persone, ma anche questa è menzogna, perché il numero di persone che continua a soffrire è già in sé assurdo, privo di significato. Guarda, la vedi la pancina gonfia del bambino, e le mosche che gli zampettano negli angoli degli occhi, le membra scheletriche?: ti renderà le cose più facili sapere il suo nome, l’età, conoscerne i sogni, le paure? Vederlo da "dentro"? E se così fosse, non faremmo forse un torto a sua sorella, sdraiata vicino a lui nell’arida polvere, caricatura gonfia e deforme di un cucciolo nato da donna? E se per loro proviamo un sentimento, diventano forse, questi due, più importanti delle migliaia d’altri bambini affamati dalla stessa carestia, delle migliaia di giovani vite condannate a diventare ben presto nutrimento per la miriade di larve figlie di quelle mosche?

Isoliamo momenti di dolore come questi e rimaniamo sulla nostra isola dove non possono farci male più di tanto. Li chiudiamo nella loro conchiglia di madrcperla e li lasciamo scivolare via dall’anima senza soffrire veramente.

La narrativa ci permette di entrare in altre menti, in altri luoghi, di guardare con altri occhi. E poi nel racconto ci fermiamo, prima di morire, oppure un sostituto muore per noi, che restiamo in buona salute, e nel mondo di là della storia voltiamo pagina o chiudiamo il libro, tornando alla nostra esistenza.

Una vita che come ogni vita è uguale e diversa da qualsiasi altra.

E la verità nuda e cruda è questa: C’era una ragazza che fu venduta dallo zio.

Così dicevano, nel posto da cui veniva: nessuno può sapere con certezza chi è il padre, ma della madre, ah, di lei non si può dubitare. Lignaggio e proprietà erano matrilineari, però il potere restava in mani maschili: un uomo poteva disporre completamente dei figli di sua sorella.

In quel luogo c’era la guerra, una guerra piccola, poco più di una scaramuccia tra gli uomini di due villaggi rivali. Quasi una lite di vicinato. Un villaggio aveva la meglio, l’altro aveva la peggio.

La vita come merce, le persone come oggetti. Da migliaia di anni la schiavitù apparteneva alla cultura di quelle zone del mondo. I mercanti di schiavi arabi avevano distrutto l’ultimo dei grandi regni dell’Africa Orientale, mentre in quella occidentale ci avevano pensato gli stati ad annientarsi a vicenda.

Non c’era niente di deplorevole o insolito nel fatto che lo zio vendesse i gemelli, anche se i gemelli erano considerati creature magiche, e lo zio ne aveva paura, abbastanza da non avvisarli che sarebbero stati venduti, nel caso attaccassero la sua ombra e lo uccidessero. Avevano dodici anni. Lei si chiamava Wututu, l’uccello messaggero, lui Agasu, dal nome di un re. Erano due bei bambini sani e siccome erano gemelli, un maschio e una femmina, erano state insegnate loro molte cose sugli dèi, e siccome erano gemelli ascoltavano gli insegnamenti e li ricordavano.

Lo zio era un uomo grasso e pigro. Se avesse avuto una mandria numerosa forse avrebbe rinunciato a un capo, invece di vendere i bambini, ma non l’aveva. Così vendette i gemelli. Basta parlare di lui: non comparirà più in questo racconto. Seguiamo i gemelli.

Vennero fatti marciare per una decina di chilometri insieme ad altre persone ridotte in schiavitù o comperate in guerra fino a un piccolo avamposto. Qui, durante la compravendita, i gemelli furono ceduti insieme ad altri tredici schiavi a sei uomini armati di lance e coltelli che li condussero a occidente, verso il mare, e poi per molti chilometri di marcia lungo la costa. Quindici schiavi con le mani legate, incatenati tutti insieme per il collo.

Wututu chiese al fratello Agasu che cosa ne sarebbe stato di loro.

«Non lo so» disse lui. Agasu sorrideva spesso: aveva i denti bianchi e perfetti e quando sorrideva brillavano, e il suo sorriso felice faceva felice anche Wututu. Ma adesso restava serio. Cercava di mostrarsi coraggioso per la sorella, la testa alta e le spalle diritte, fiero, minaccioso e buffo come un cucciolo che arruffava il pelo.

L’uomo subito dietro Wututu nella fila che aveva le guance coperte di cicatrici disse: «Ci venderanno ai diavoli bianchi che ci porteranno nella loro terra dall’altra parte dell’acqua».

«E che cosa ci faranno là?» domandò lei.

L’uomo non rispose.

«Dunque?» ripeté Wututu. Agasu si guardò alle spalle. Mentre camminavano non potevano parlare né cantare.

«È possibile che ci mangino» disse l’uomo. «Così mi è stato detto. Per questo hanno bisogno di tanti schiavi. Perché hanno sempre fame.»

Wututu cominciò a piangere. Agasu disse: «Non piangere, sorella. Non ti mangeranno. Io ti proteggerò. I nostri dèi ti proteggeranno».

Però Wututu continuava a piangere e a camminare con il cuore pesante, in preda a dolore, rabbia e paura come solo un bambino può sentirli: sentimenti crudi e travolgenti. Non riusciva a dire a suo fratello che non era preoccupata d’essere mangiata dai diavoli bianchi. Lei sarebbe sopravvissuta, ne era certa. Piangeva perché temeva che mangiassero lui e non era sicura di poterlo proteggere.

Arrivarono a una base commerciale dove vennero trattenuti per dieci giorni. La mattina del decimo giorno furono fatti uscire dalla capanna dov’erano stati imprigionati (molto affollata verso la fine, man mano che si riempiva di schiavi). Quando arrivarono al porto Wututu vide la nave che li avrebbe portati lontano.

Il suo primo pensiero fu di stupore per la grandezza della nave, il secondo che era troppo piccola per accoglierli tutti. Ondeggiava leggera sull’acqua. La scialuppa fece molti viaggi per imbarcare i prigionieri sulla nave dove vennero ammanettati e infilati sotto coperta dai marinai, alcuni dei quali avevano la pelle rossa come l’argilla o bruciata dal sole, strani nasi appuntiti e barbe che li facevano sembrare bestie feroci. Alcuni marinai avevano l’aspetto della sua gente, come gli uomini che li avevano portati fin lì. Uomini, donne e bambini furono separati, costretti in zone diverse. Siccome erano troppi, una dozzina di loro vennero incatenati all’aperto, sotto il posto dove i marinai legavano le amache.

Wututu finì con i bambini, non con le donne, e invece di essere incatenata fu soltanto rinchiusa. Agasu venne costretto in catene con gli uomini, stretti come sardine. Sotto coperta la puzza era terribile, benché dopo l’ultimo carico l’equipaggio avesse lavorato di ramazza. Era un odore che aveva impregnato il legno: odore di paura e bile, diarrea e morte, febbre, follia, odio. Wututu sedeva con gli altri bambini, tutti incollati uno all’altro. Un’onda le fece ruzzolare addosso un bambino che si scusò in una lingua a lei sconosciuta. Nella semioscurità cercò di sorridergli.

La nave levò l’ancora e prese il largo.

Wututu si chiedeva da dove venissero quegli uomini bianchi (sebbene nessuno fosse bianco davvero: bruciati dal sole e dal mare, avevano la pelle scura). Erano così sprovvisti di cibo da dover mandare a prendere gente fin nella sua terra? Oppure lei era una prelibatezza, un bocconcino per uomini che avevano assaggiato di tutto e solo la carne nera nella pentola faceva venir loro l’acquolina in bocca?

Durante il secondo giorno di navigazione la nave incontrò una tempesta, non di quelle brutte, ma il ponte rollava e beccheggiava e l’odore del vomito si mescolò a quello dell’urina, delle feci liquide e della paura. Dalle grate di aerazione sulla coperta, dov’erano stivati gli schiavi, la pioggia cadeva su di loro a secchiate.

Dopo una settimana di viaggio, ormai molto lontani da terra, gli schiavi furono liberati dai ferri. Ogni disobbedienza, spiegarono, ogni guaio sarebbe stato punito con una severità che non immaginavano nemmeno.

Al mattino venivano nutriti con fagioli e gallette, più un cucchiaio ciascuno di succo di lime e aceto, talmente aspro da provocare smorfie e accessi di tosse; alcuni sputacchiavano e piangevano quando gli veniva ficcato in bocca. Però non potevano sputarlo: se li sorprendevano a sputarlo o a lasciarlo colare fuori venivano frustati o bastonati.

La sera mangiavano carne salata. Aveva un sapore sgradevole, e sulla superficie grigia c’era una patina con i colori dell’arcobaleno. Questo all’inizio. Nel corso del viaggio peggiorò.

Ogni volta che era possibile Wututu e Agasu si stringevano vicini, parlavano della mamma, della casa e dei compagni di gioco. A volte lei raccontava al fratello storie che la loro madre le aveva raccontato, come la storia di Elegba, il più scaltro degli dèi, che prestava occhi e orecchi al Grande Mawu, che gli portava messaggi dal mondo e riportava al mondo le sue risposte.

La sera, per ammazzare il tempo, i marinai permettevano agli schiavi di cantare ed esibirsi nelle danze.

Wututu era stata fortunata a finire con i bambini. Venivano ammassati insieme e ignorati; le donne non erano altrettanto fortunate. Su certe navi negriere le schiave venivano violentate in continuazione dall’equipaggio, un tacito privilegio stabilito in partenza. La loro non era quel genere di nave, il che tuttavia non significa che episodi di violenza non si verificassero.

Morirono in un centinaio tra uomini, donne e bambini, e vennero buttati in mare; in alcuni casi vennero buttati in mare anche schiavi ancora vivi, e ci pensò l’abbraccio verde e freddo dell’oceano a spegnere la loro ultima febbre mandandoli a picco mentre annaspavano impotenti.

La nave su cui viaggiavano Wututu e Agasu era olandese, ma loro non lo sapevano, avrebbe anche potuto essere britannica, portoghese o spagnola, o francese, per loro.

Erano gli uomini dell’equipaggio che avevano la pelle nera, perfino più nera di Wututu, a ordinare ai prigionieri dove andare, cosa fare, quando danzare. Un mattino Wututu vide che uno di loro la stava fissando. Mentre mangiava lui le si avvicinò e rimase a fissarla senza parlare.

«Perché lo fai?» gli chiese lei. «Perché servi i diavoli bianchi?»

Lui rispose con una smorfia, come se quella fosse la domanda più buffa mai sentita. Poi si piegò su di lei fin quasi a sfiorarle l’orecchio, fino a nausearla con il suo alito. «Se tu fossi più grande» le disse «ti farei gridare di piacere. Magari stanotte lo faccio. Ho visto come balli.»

Lei lo guardò con i suoi occhi color nocciola e imperturbabile, quasi sorridendo, gli disse: «Se ci provi io te lo stacco con i denti che ho lì dentro. Sono una strega, e i miei denti sono affilati». Si gustò il piacere di vedergli cambiare espressione. L’uomo si allontanò senza dire niente.

Le parole le erano uscite di bocca ma non erano farina del suo sacco: non le aveva pensate né formulate. No, erano dello scaltro Elegba. Mawu aveva creato il mondo e poi, grazie agli imbrogli di Elegba, aveva smesso di interessarsene. Era stato Elegba l’astuto con l’erezione dura come il ferro che aveva parlato attraverso di lei, che le era entrato dentro per un momento, e prima di addormentarsi, quella sera, lei gli rese grazie.

Molti prigionieri rifiutavano il cibo. Venivano frustati fino a quando non si decidevano a ingoiare quello che gli veniva cacciato in bocca a forza, anche se le frustate erano talmente tante che due di loro ne morirono. Nessun altro cercò di conquistare la libertà lasciandosi morire di fame. Un uomo e una donna provarono a uccidersi buttandosi in acqua. La donna ci riuscì. L’uomo venne tratto in salvo, legato a un albero e frustato per ore e ore fino a quando la sua schiena non fu un’unica piaga. Lo lasciarono legato all’albero giorno e notte, senza cibo e senz’acqua, solo il suo piscio se aveva sete. Entro tre giorni delirava, la testa gli era diventata gonfia e molle come un melone troppo maturo. Quando smise di vaneggiare lo gettarono in mare. Dopo quel tentativo di fuga, ai prigionieri vennero rimessi ceppi e catene per cinque giorni.

Fu un viaggio lungo, tremendo per i prigionieri e spiacevole per i membri dell’equipaggio che pure si erano fatti il cuore duro e fingevano d’essere allevatori che portavano il bestiame al mercato.

Entrarono nel porto di Bridgeport, alle Barbados, in una bella giornata tiepida e dalle imbarcazioni mandate dal molo gli schiavi furono portati a riva, poi sulla piazza del mercato, dove con un certo numero di urla e randellate vennero sistemati in file ordinate. A un fischio la piazza si riempì di uomini: uomini con le guance paonazze che pungolavano e palpavano, gridavano, ispezionavano, chiamavano con espressioni ammirate o scontente.

Wututu e Agasu furono separati. Accadde così in fretta: un omone costrinse Agasu ad aprire la bocca, gli guardò i denti, gli tastò i bicipiti, annuì e altri due uomini lo trascinarono via. Agasu non cercò di lottare. Guardò la sorella e le disse: «Coraggio». Lei annuì; poi le lacrime le appannarono la vista e scoppiò a piangere. Insieme erano gemelli magici e potenti. Separati erano due bambini disperati.

Dopo di allora lo avrebbe rivisto una volta sola, e non da vivo.

Questo fu il destino di Agasu: dapprima lo condussero in una fattoria per l’addestramento degli schiavi dove ogni giorno lo frustavano per colpe che aveva commesso e colpe che non aveva commesso; gli impartirono una rozza infarinatura di inglese e gli diedero il nome di Inky Jack per via della sua pelle scura. Quando scappò gli diedero la caccia con i cani e lo riacciuffarono, poi gli tagliarono un alluce con lo scalpello perché non dimenticasse la lezione. Si sarebbe lasciato morire di fame, ma quando provò a rifiutare il cibo gli spezzarono gli incisivi per costringerlo a mandar giù una pappa liquida; poteva solo deglutire o soffocare.

Già a quei tempi agli schiavi arrivati dall’Africa si preferivano quelli nati in cattività. Gli uomini nati liberi cercavano sempre di fuggire, o uccidersi, e in un caso o nell’altro si portavano via i profitti del padrone.

Quando Inky Jack compì sedici anni venne venduto insieme ad altri a una piantagione di zucchero sull’isola di Saint-Domingue; al grosso schiavo con i denti rotti diedero il nome di Hyacinth. Nella piantagione incontrò una vecchia del suo villaggio — era stata una schiava domestica finché le mani non le erano diventate troppo nodose e artritiche — la quale gli raccontò che i bianchi separavano apposta i prigionieri provenienti dallo stesso villaggio o dalla stessa regione per evitare che scoppiassero insurrezioni e rivolte. Non volevano che gli schiavi si parlassero tra loro.

Hyacinth imparò un po’ di francese e qualche precetto cattolico. Ogni giorno tagliava canne da zucchero da prima dell’alba a dopo il tramonto.

Procreò molti figli. Insieme ad altri schiavi andava nel bosco, a notte fonda, e benché fosse proibito danzava la calinda, cantava in onore di Damballa-Wedo, il dio serpente, intorno a un serpente nero. Cantava in onore di Elegba, Ogu, Shango, Zaka, e per molti altri dèi ancora, per tutti gli dèi che i prigionieri avevano portato sull’isola, nascosti nei cuori e nelle menti.

Era raro che nelle piantagioni di zucchero di Saint-Domingue gli schiavi vivessero più di dieci anni. Il tempo libero di cui disponevano — due ore nella calura del mezzogiorno e cinque nel buio della notte (dalle undici alle quattro) — era l’unico in cui potevano dedicarsi alla coltivazione di qualcosa per nutrirsi (poiché i padroni non provvedevano al loro mantenimento, gli schiavi ricevevano piccoli appezzamenti di terra con i quali dovevano cavarsela) ed erano anche le uniche ore in cui potevano dormire e sognare. Ciò nonostante trovavano il tempo per riunirsi e danzare, per cantare e adorare i loro dèi. La terra dell’isola era fertile e gli dèi del Dahomey, del Congo e del Niger misero radici profonde e crebbero lussureggianti, promettendo libertà ai fedeli che si radunavano nel bosco a pregarli.

Hyacinth aveva venticinque anni quando un ragno lo punse sul dorso della mano destra. La ferita si infettò e la mano si necrotizzò: nel giro di pochissimo tempo il braccio divenne gonfio e violaceo, e la mano puzzava. Pulsava e bruciava.

Gli diedero da bere del rum grezzo, scaldarono la lama di un machete alla fiamma viva fino a quando non scintillò rossa e bianca. Con una sega gli tagliarono il braccio quasi alla spalla e con la lama lo cauterizzarono. Giacque in preda alla febbre per una settimana, poi tornò al lavoro.

Il monco Hyacinth prese parte alla rivolta degli schiavi del 1791.

Fu Elegba stesso a prendere possesso di Hyacinth nel boschetto, a cavalcarlo come i bianchi cavalcavano i loro destrieri, e a parlare attraverso di lui. Hyacinth ricordava poco del suo discorso, ma gli altri gli dissero che aveva promesso la fine della schiavitù. Ricordava soltanto l’erezione, spaventosa e dolente; e ricordava di aver alzato entrambe le mani — quella che gli era rimasta e quella che aveva perso — alla luna.

Fu sacrificato un maiale, e gli uomini e le donne della piantagione ne bevvero il sangue caldo, stringendo tra loro solenne promessa di fratellanza. Giurarono fedeltà all’esercito di liberazione, e invocarono ancora tutti gli dèi delle terre dalle quali erano stati strappati.

«Se moriremo combattendo contro i bianchi» si dicevano «rinasceremo in Africa, nelle nostre case, nelle nostre tribù.»

Siccome tra i rivoltosi c’era un altro Hyacinth, adesso Agasu era conosciuto con il nome di Grande Monco. Combatté, pregò, fece sacrifici e architettò piani. Vide i suoi amici e le sue donne morire e continuò a combattere.

Combatterono per dodici anni, una guerra folle e sanguinaria contro i proprietari delle piantagioni spalleggiati dalle truppe mandate dalla Francia. Lottarono senza sosta e, contro ogni previsione, vinsero.

Il primo gennaio del 1804 venne dichiarata l’indipendenza di Saint-Domingue, che da allora si sarebbe chiamata Repubblica di Haiti. Il Grande Monco non visse abbastanza per vedere quel giorno. Era morto nell’agosto del 1802, ucciso dal colpo di baionetta di un soldato francese.

Nel momento esatto della morte del Grande Monco (noto prima con il nome di Hyacinth e, prima ancora, di Inky Jack, ma dentro di sé per sempre Agasu) la sorella Wututu — chiamata Mary nella prima piantagione in Carolina, Daisy quand’era diventata una domestica, e Sukey quand’era stata venduta alla famiglia Lavere che abitava lungo il fiume di New Orleans — sentì la lama fredda della baionetta trapassarle il petto e cominciò a gridare in maniera irrefrenabile. Le figlie gemelle si svegliarono piangendo. Avevano la pelle color caffelatte, le sue nuove figlie, non come i figli neri che aveva messo al mondo nella piantagione quando lei stessa era poco più di una bambina… figli che non aveva più visto da quando avevano quindici e dieci anni. La secondogenita era morta da un anno, quando lei era stata venduta.

Sukey aveva ricevuto molte frustate da quando era approdata con quella nave olandese: una volta le avevano messo il sale sulle ferite, un’altra volta era stata fustigata con tanta violenza e così a lungo che per giorni e giorni non si era potuta sedere né lasciare che qualcosa le sfiorasse la schiena. Quand’era più giovane era stata violentata: da uomini neri che avevano ricevuto l’ordine di dividere la sua branda di legno e da uomini bianchi. Era stata messa in catene. Non aveva pianto, però. Da quando l’avevano separata dal fratello aveva pianto una sola volta. Nel North Carolina, quando aveva visto che il cibo per i figli degli schiavi e quello per i cani veniva versato nello stesso trogolo, e che i suoi figli contendevano le briciole ai cani. Un giorno aveva visto quella scena — già vista ogni giorno, nella piantagione, e l’avrebbe vista ancora innumerevoli volte prima di andarsene — ma quel giorno le spezzò il cuore.

Per qualche anno era stata bella. Poi le sofferenze avevano lasciato il segno e bella non era più. La faccia era rugosa, e negli occhi castani c’era troppo dolore.

Undici anni prima, quando ne aveva venticinque, il braccio destro le si era rattrappito. Nessuno dei bianchi aveva potuto impedirlo. La carne sembrava staccarsi dalle ossa, e adesso il braccio le penzolava inerte, un braccìno scheletrico rivestito di pelle, inservibile. Dopo era diventata una schiava domestica.

La famiglia Casterton, proprietaria della piantagione, apprezzava le sue capacità di cuoca e la sua abilità nelle faccende, ma la signora Casterton trovava sgradevole la vista di quel braccìno avvizzito e perciò la vendette alla famiglia Lavere della Louisiana che si trovava lì per un anno: il signor Lavere era un uomo grasso e allegro che aveva bisogno di una cuoca e di una cameriera tuttofare e non provava la minima repulsione per il braccio della schiava Daisy. Quando l’anno successivo tornarono in Louisiana la schiava Sukey andò con loro.

A New Orleans donne e uomini andavano da lei a comperare incantesimi d’amore e piccoli talismani, la gente di colore, naturalmente, e anche i bianchi. La famiglia Lavere chiudeva un occhio. Forse apprezzavano il prestigio che portava alla loro casa una schiava temuta e rispettata. Tuttavia per nessuna ragione al mondo le avrebbero venduto la sua libertà.

A tarda notte Sukey andava nel bayou e danzava la calinda e la bamboula. Come i danzatori di Saint-Domingue e della sua terra nel bayou anche loro avevano come voudón un serpente nero; però gli dèi della madrepatria e delle altre nazioni africane non possedevano la sua gente come avevano posseduto Agasu e gli schiavi di Saint-Domingue. Ma lei continuava a invocarli per implorare grazia.

Ascoltava i bianchi che parlavano della rivolta di Santo Domingo (come chiamavano l’isola) e del fatto che fosse destinata a fallire, li ascoltava — «Pensate! Una terra in mano ai cannibali!» — e poi notò che smisero di parlarne.

Ben presto ebbe l’impressione che fingessero che un posto chiamato Santo Domingo non fosse mai esistito, e in quanto ad Haiti, non veniva nemmeno nominata. Era come se tutta la nazione americana avesse deciso che con uno sforzo di volontà si poteva ordinare a un’isola caribica di discrete dimensioni di non esistere più.

Sotto gli occhi vigili di Sukey una generazione di bambini Lavere diventò grande. La più piccola, non riuscendo a pronunciare "Sukey" l’aveva soprannominata Marna Zouzou, e il nome le era rimasto. Adesso correva l’anno 1821 e Sukey aveva superato la cinquantina. Ne dimostrava molti di più.

Conosceva più segreti della vecchia Sanité Dédé che vendeva caramelle davanti al Cabildo, più di Marie Saloppé che si autodefiniva regina del vudù: loro erano entrambe libere donne di colore, mentre Marna Zouzou era una schiava e schiava sarebbe morta, perché così aveva decretato il padrone.

La giovane donna che andò da lei per scoprire che ne era stato del marito si presentò come la Vedova Paris. Aveva i seni alti, era giovane e orgogliosa. Nelle sue vene scorreva sangue africano, europeo, indiano. La sua pelle aveva una tonalità rossastra, i capelli erano di un nero scintillante. Anche gli occhi erano neri, e arroganti. Il marito, Jacques Paris, forse era morto. Era bianco per tre quarti, in base a complessi calcoli, bastardo di una famiglia un tempo importante, immigrato qui da Santo Domingo, e nato libero come la sua bellissima moglie.

«Il mio Jacques. È morto?» chiese la Vedova Paris. Lavorava come parrucchiera a domicilio, pettinava le signore eleganti di New Orleans per le loro impegnative occasioni sociali.

Marna Zouzou consultò le ossa divinatorie e scosse la testa. «È con una donna bianca, da qualche parte più a nord. Una bianca con i capelli d’oro. È vivo.»

La magia non c’entrava. A New Orleans tutti sapevano della donna di Jacques Paris, e di che colore aveva i capelli.

Marna Zouzou si sorprese di scoprire che la Vedova Paris non fosse al corrente del fatto che a Colfax, ogni notte, il suo Jacques infilava il piccolo pipi pallido dentro una ragazza dalla pelle rosa. Be’ no, non ogni notte, quando non era così ubriaco da poterlo usare soltanto per pisciare. Forse lo sapeva. Forse era venuta per un’altra ragione.

La Vedova Paris tornò a trovare la vecchia schiava un paio di volte alla settimana. Dopo un mese le portò dei doni; nastri per i capelli, una torta di semi aromatici, un gallo nero.

«Marna Zouzou» disse, «è ora che tu mi insegni quello che sai.»

«Sì» rispose lei, che sapeva riconoscere da quale parte tirava il vento. Inoltre la Vedova Paris le aveva confidato di essere nata con le dita dei piedi unite da una membrana, il che voleva dire che nel grembo di sua madre aveva ucciso un gemello. Aveva altra scelta, Marna Zouzou?

Insegnò alla ragazza che le noci moscate appese a un filo portato al collo fino a quando non si rompe guariscono il mal di cuore, che un piccione ancora implume squartato e messo sulla testa del malato cura la febbre. Le insegnò a confezionare il sacchetto magico, un sacchettino di cuoio contenente tredici penny, nove semi di cotone e le setole di un maiale nero, e le spiegò come strofinarlo perché si realizzassero i desideri.

La Vedova Paris imparò ogni cosa. Però non era interessata agli dèi. Non molto. Le interessavano le pratiche. Fu felice di scoprire che se immergi una rana viva nel miele e poi la metti in un formicaio, quando le ossa saranno state ben spolpate e bianche un esame accurato rivelerà un osso piatto a forma di cuore, e un altro con un gancio: l’osso con il gancio dovrà essere agganciato a un indumento della persona di cui desideri l’amore, mentre quello a forma di cuore andrà custodito con cura (perché in caso di perdita il tuo amato si rivolterà contro di te come un cane rabbioso). Se esegui tutto nel modo giusto l’amato sarà infallibilmente tuo.

Apprese che la polvere di serpente mescolata alla cipria di una rivale l’accecherà, e che poi la si può far annegare prendendo un capo della sua biancheria, rovesciandolo e seppellendolo a mezzanotte sotto un mattone.

Marna Zouzou mostrò alla Vedova Paris la Radice Meravigliosa, la piccola e la grande radice di Giovanni il Conquistatore, il sangue di drago, la valeriana e l’erba cinquefoglie. Le spiegò come preparare un tè-che-toglie-le-forze e l’acqua-segui-me e l’acqua faire-Shingo.

Tutto questo e altro ancora le insegnò. Eppure l’anziana donna era delusa. Faceva del suo meglio per trasmetterle le verità nascoste, la conoscenza profonda; per dirle di Papa ’Legba, di Mawu, di Aido-Hwedo il serpente voudón e il resto, ma la Vedova Paris (adesso rivelerò il nome che le era stato dato alla nascita, lo stesso con cui sarebbe diventata famosa: Marie Laveau. Ma non si tratta della grande Marie Laveau di cui avete sentito parlare, bensì di sua madre, che in seguito divenne la Vedova Glapion) non era interessata agli dèi della terra lontana. L’isola di Santo Domingo si era rivelata una terra fertile per gli dèi africani, invece questo suolo ricco di granturco, meloni e cotone, per gli stessi dèi sembrava sterile.

«Non vuole capire» si lamenta Marna Zouzou con la sua confidente Clementine che lavava tende e copriletti per molte famiglie del distretto. Clementine aveva le guance bruciate dal vapore e una delle sue figlie era morta per le ustioni riportate quando si era capovolto un bollitore di rame.

«Allora non insegnarle più niente.»

«Le insegno ma lei non riconosce ciò che ha valore, vede solo l’uso che ne può fare. Le offro diamanti, e lei resta abbagliata dai vetri colorati. Le offro una demi-bouteille del miglior claret e lei beve acqua di fiume. Le offro quaglie e lei preferisce mangiare ratti.»

«Allora perché insisti?» chiede Clementine.

Marna Zouzou si stringe nelle spalle scuotendo il braccino rattrappito.

Non può rispondere. Potrebbe dirle che insegna perché è grata d’essere sopravvissuta, e infatti lo è: ne ha visti morire troppi. Potrebbe dire che sogna il giorno in cui gli schiavi insorgeranno, com’erano insorti (per essere sconfitti) a LaPlace, ma nel profondo del cuore sa che senza gli dèi africani, senza i favori di ’Legba e Mawu non riusciranno mai a sconfiggere i padroni bianchi, non torneranno mai a casa.

Quella terribile notte di vent’anni prima, quando si era svegliata con il petto trafitto dal metallo freddo, la vita di Marna Zouzou era finita. Adesso, più che vivere odiava. Se qualcuno le avesse domandato di parlare di quell’odio non sarebbe stata in grado di raccontare la storia di una ragazzina di dodici anni su una nave puzzolente: il ricordo era diventato cicatrice… troppe frustate e troppe botte, troppe notti in ceppi e catene, troppe separazioni, troppo dolore. Avrebbe potuto parlare di suo figlio, però, di quando il padrone, scoprendo che sapeva leggere e scrivere, gli aveva fatto tagliare il pollice. Avrebbe potuto raccontare di sua figlia, a dodici anni incinta di otto mesi di un caposquadra, e del buco scavato nella terra rossa per accogliere il ventre gravido e di come poi era stata frustata fino ad avere la schiena sanguinante. Malgrado il buco scavato con cura sua figlia aveva perso il bambino e anche la vita una domenica mattina, quando tutti i bianchi erano in chiesa…

Troppa sofferenza.

«Venera gli dèi» disse alla giovane Vedova Paris nel bayou, un’ora dopo mezzanotte. Erano entrambe nude fino alla cintola, sudate nella notte umida, la pelle che coglieva riflessi di luna.

Jacques, il marito (la cui morte, avvenuta tre anni prima, portava parecchi segni riconoscibili) della Vedova Paris, le aveva parlato un po’ degli dèi di Santo Domingo, ma non le interessavano. Per lei, il potere veniva dai riti, non dagli dèi.

Marna Zouzou e la Vedova Paris cantilenavano e si lamentavano nella palude. Cantavano per il serpente, la donna di colore libera e la schiava con il braccio rattrappito.

«C’è qualcosa di più della tua prosperità e della sconfitta delle tue rivali» disse Marna Zouzou.

Molte parole rituali, parole che un tempo conosceva come le conosceva il fratello, erano sfuggite alla memoria. Aveva detto alla graziosa Marie Laveau che le parole non erano importanti, che contavano le melodie e i ritmi, e lì, mentre canta per il serpente, nella palude, ha una strana visione. Vede il ritmo dei canti, il ritmo della calinda, della bamboula, tutti i ritmi dell’Africa equatoriale che lentamente si diffondono sulla terra a mezzanotte fino a quando il paesaggio trema e ondeggia al ritmo degli antichi dèi dai cui regni lei proviene. Ma nemmeno questo, comprende lì nella palude, nemmeno questo basterà.

Si volta verso la graziosa Marie e si vede con i suoi occhi, una donna dalla pelle nera, il volto rugoso, il braccio che le penzola al fianco, gli occhi di chi ha visto i propri figli contendere il cibo ai cani. Vide se stessa e per la prima volta capì il disgusto e la paura che la giovane donna provava nei suoi confronti.

Allora rise, e si accovacciò prendendo nella mano buona il serpente lungo come un alberello e grosso come la cima di una nave.

«Tieni» disse, «questo sarà il nostro voudón.»

Lasciò cadere il serpente inerte nel cesto che la pallida Marie portava al braccio.

E poi, al chiaro di luna, per l’ultima volta la seconda vista le permise di vedere il fratello Agasu. Non era il ragazzino di dodici anni che aveva lasciato al mercato degli schiavi di Bridgeport, ma un uomo enorme, nudo, la schiena coperta dì profonde cicatrici, e sorrideva mostrando i denti rotti. In una mano stringeva il machete. Il braccio destro era un moncherino.

Lei allungò la mano sinistra, quella buona.

«Aspettami, aspettami un momento» sussurrò. «Arrivo. Arrivo da te tra poco.»

E Marie Paris pensò che la vecchia stesse parlando con lei.