"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)12Shadow si diresse a ovest, attraverso Wisconsin e Minnesota, entrò nel North Dakota, dove le montagne innevate sembravano grandi bufali addormentati, e lui e Wednesday macinarono chilometri su chilometri vedendo tutto e non vedendo niente. Poi piegarono verso il South Dakota, diretti alle riserve. Wednesday aveva scambiato la Lincoln, che Shadow guidava volentieri, con un vetusto e ingombrante Winnebago che sprigionava un persistente e inconfondibile odore di gatto e che Shadow non guidava volentieri per niente. Quando superarono il primo cartello che segnalava Mount Rushmore, ancora lontano parecchie centinaia di chilometri, Wednesday borbottò qualcosa. «Quello lì» disse «è un luogo sacro.» Shadow aveva pensato che il suo compagno di viaggio dormisse. «So che era sacro per gli indiani.» «È un posto sacro» ribatté Wednesday. «È così che si fanno le cose in America: hanno bisogno di dare alla gente una scusa per pregare. Di questi tempi non si può andare a vedere una montagna e basta. Perciò ecco i faccioni spaventosi dei presidenti del signor Gutzon Borglum. Una volta scavati nella roccia il permesso di venire è accordato, ed ecco le folle che accorrono a vedere dal vivo qualcosa che hanno visto mille volte in cartolina.» «Conoscevo un tipo, una volta. Faceva pesi alla Muscle Farm, anni fa. Mi aveva raccontato che gli indiani dakota, i più giovani, scalavano la montagna mettendosi uno sulle spalle dell’altro fino a che l’ultimo potesse pisciare sul naso del presidente.» Wednesday scoppiò a ridere sguaiatamente. «Oh bene! Benissimo! E c’è un presidente in particolare che è la latrina della loro collera?» Shadow scrollò le spalle. «Non l’ha specificato.» Sotto le ruote del Winnebago scorrevano i chilometri e Shadow cominciò a immaginare di essere immobile, mentre il paesaggio americano gli scorreva di fianco a centotrenta all’ora. Una foschia invernale ne smussava i contorni. Erano le dodici del secondo giorno di viaggio, e ormai erano quasi arrivati. Shadow, che stava rimuginando tra sé, disse: «A Lakeside la settimana scorsa è sparita una ragazza. Quando eravamo a San Francisco». «Ah sì?» Wednesday sembrava scarsamente interessato. «Una ragazzina che si chiamava Alison McGovern. Non è la prima. Ne sono scomparsi altri. Sempre in inverno.» Wednesday aggrottò la fronte. «Che tragedia, vero? Le faccine sui cartoni del latte — anche se non riesco a ricordarmi quando ne ho vista una l’ultima volta — e sui muri nelle aree di servizio. "Mi hai visto?" chiedono. Una domanda metafisica. "Mi hai visto?" Esci alla prossima.» A Shadow sembrò di sentire il rumore di un elicottero, ma le nubi troppo basse non permettevano di vedere niente. «Perché hai scelto proprio Lakeside?» chiese. «Te l’ho detto. È un posticino tranquillo in cui nascondersi. A Lakeside sei al sicuro, fuori dalla portata dei radar.» «Come mai?» «Perché è così. Adesso prendi a sinistra.» Shadow svoltò. «C’è qualcosa che non va» disse Wednesday. «Cazzo. Porca puttana schifosa. Rallenta, ma non fermarti.» «Ti spiacerebbe spiegarmi?» «Guai. Conosci una strada alternativa?» «No. È la prima volta che vengo qui. E non so nemmeno dove stiamo andando.» Dall’altra parte della collina c’era una luce rossa e lampeggiante, un po’ appannata dalla foschia. «È un posto di blocco» disse Wednesday, e si infilò una mano prima in una tasca e poi nell’altra in cerca di qualcosa. «Posso fermarmi e tornare indietro.» «Inutile. Li abbiamo anche alle calcagna. Tieniti sui venti, venticinque all’ora.» Shadow guardò nello specchietto retrovisore: a un paio di chilometri si vedevano i fanali di una macchina. «Ne sei sicuro?» chiese. Wednesday sbuffò. «Sicuro come l’oro» disse. «Come l’allevatore di tacchini quando riuscì a covare il suo primo uovo di tartaruga. Ah, ce l’ho fatta!» e dal fondo della tasca estrasse un gessetto bianco. Cominciò a scrivere sul cruscotto, tracciando segni come se stesse cercando di risolvere un’equazione algebrica, oppure come un vagabondo intento a scrivere lunghi messaggi per altri vagabondi in un codice tutto loro: «Va bene» esclamò Wednesday. «Adesso vai a cinquanta e non rallentare per nessun motivo.» Una delle macchine che li seguiva aveva acceso lampeggianti e sirene e stava accelerando per raggiungerli. «Non rallentare» ripeté Wednesday. «Vogliono farci rallentare prima che arriviamo al posto di blocco.» Salirono sulla cima della collina. Il posto di blocco si trovava a meno di un chilometro. Dodici automobili schierate e sul ciglio della strada macchine della polizia e parecchi fuoristrada neri. «Ecco fatto» disse Wednesday, e ripose il gessetto in tasca. Il cruscotto era coperto di segni simili a rune. La vettura con la sirena li aveva raggiunti. Aveva rallentato e una voce amplificata stava gridando: «Fermatevi!». Shadow guardò Wednesday. «Sterza sulla destra» gli ordinò lui. «A destra, buttati fuori strada.» «Non posso con questa roba. Ci ribaltiamo.» «Andrà tutto bene. A destra. Ora!» Shadow girò il volante con la mano destra e il camper sussultò e sbandò. Per un attimo pensò di aver avuto ragione, che il Winnebago si sarebbe ribaltato, e il mondo di là del parabrezza si dissolse in uno scintillio indistinto, come il riflesso in una pozza d’acqua chiara quando la brezza ne increspa la superficie. Nuvole e foschia non c’erano più, anche la neve e il giorno erano scomparsi. Adesso sopra la sua testa brillavano le stelle, sospese nel cielo come punte di lance luminose che fendevano la notte. «Parcheggia qui» disse Wednesday. «Possiamo proseguire a piedi.» Shadow spense il motore. Si sporse a prendere giacca, stivali e guanti e uscì dal veicolo. «Va bene. Andiamo.» Wednesday lo guardò con un’espressione in cui oltre al divertimento si leggeva qualcos’altro, irritazione, forse. Oppure orgoglio. «Perché non dici niente?» gli chiese. «Perché non esclami che tutto questo è impossibile? Perché diavolo ti limiti a fare quello che dico e prendi le cose con quella calma assurda?» «Perché non mi paghi per fare domande» rispose Shadow. E con la certezza di dire il vero, senza riflettere aggiunse: «Perché dopo Laura non mi sorprende più niente». «Dopo che è tornata dal regno dei morti?» «Dopo che ho saputo che si scopava Robbie. Quello sì che mi ha ferito. Tutto il resto rimane in superficie. Dove andiamo, adesso?» Wednesday gli indicò un punto e sì avviarono. La terra sotto i loro piedi era rocciosa, levigata e vulcanica, a tratti scivolosa come vetro. L’aria era fresca, ma non fredda come d’inverno. Scesero goffamente una collina, incontrarono un sentiero sconnesso e lo seguirono. Shadow guardò a valle. «Quello che cosa diavolo è?» chiese, ma Wednesday si portò un dito alle labbra e scosse deciso la testa. Silenzio. Sembrava un ragno meccanico delle dimensioni di un trattore, di metallo blu, costellato di led luminosi. Era lì accovacciato ai piedi della collina. Vicino, per terra, c’erano ossa di ogni tipo, e accanto a ogni osso brillava una fiammella, poco più grande della fiamma di una candela. Wednesday gli fece cenno di tenersi lontano da quegli oggetti. Shadow mosse un altro passo di lato, un errore, sul sentiero scivoloso: la caviglia cedette e rotolò lungo il pendio a balzelloni. Cercò di aggrapparsi a una roccia, ma il troncone di ossidiana gli tagliò il guanto come se fosse di carta. Arrivò a fondovalle, fermandosi tra il ragno meccanico e le ossa. Appoggiò una mano a terra per rialzarsi e con il palmo sfiorò una specie di femore e si ritrovò… … in piedi, con una sigaretta in mano, a guardare l’orologio in pieno giorno. Tutt’intorno a lui c’erano macchine ferme, alcune vuote, altre con uomini a bordo. Rimpiangeva di aver bevuto quell’ultimo caffè, perché aveva un gran bisogno di pisciare e la cosa cominciava a metterlo a disagio. Uno degli uomini della polizia locale, con una spruzzata di brina sui baffi spioventi, gli si avvicinò. Shadow aveva già dimenticato come si chiamava. «Non so come abbiamo fatto a perderli» dice il poliziotto locale in tono avvilito. «È stata un’illusione ottica» replica lui. «Capita, in particolari condizioni atmosferiche. Per via della foschia. È stato un miraggio. In verità loro erano su un’altra strada e noi abbiamo creduto che fossero su questa.» Il poliziotto sembra deluso. «Ah. Pensavo che fosse una storia tipo «Niente di così eccitante, temo.» Gli capita di soffrire di emorroidi e il culo ha appena cominciato a prudergli in quel modo che segnala una crisi infiammatoria. Vuole tornare nella sua Beltway. Vorrebbe tanto un albero dietro cui nascondersi: il bisogno di pisciare è sempre più forte. Butta la sigaretta per terra e la calpesta. Il poliziotto si avvicina a una delle macchine della polizia e dice qualcosa al collega al volante. Scuotono entrambi la testa. Lui tira fuori il telefono, tocca i tasti, fa scorrere il menu e trova l’indirizzo "Laundry", un nome che lo aveva tanto divertito digitare, un riferimento a Risponde una voce di donna. «Sì?» «Parla Town per il signor World.» «Attenda, prego. Vedo se è raggiungibile.» Silenzio. Town incrocia le gambe, tira su la cintura — «Li abbiamo persi» dice Town. La frustrazione gli ha chiuso lo stomaco: erano i bastardi, i luridi figli di troia che hanno ammazzato Woody e Stone, cavoli. Due bravi colleghi. Bravi. Lui ha una gran voglia di fottersi la signora Wood, ma sa che è ancora troppo presto per farsi avanti. Perciò la porta fuori un paio di volte al mese, come investimento sul futuro, e lei intanto gli è grata per l’attenzione… «Come?» «Non lo so. Avevamo un posto di blocco, per loro non c’erano vie di fuga e invece sono spariti lo stesso.» «Un altro piccolo mistero della vita. Non ti preoccupare. Hai calmato gli indigeni?» «Ho detto che è stata un’illusione ottica.» «L’hanno bevuta?» «Probabile.» «A questo punto saranno lontani.» «Dobbiamo mandare degli uomini a intercettarli alla riserva?» «Il gioco non vale la candela. Ci sono troppe questioni giurisdizionali, e il numero di burattini che posso manovrare in una mattina è limitato. Non abbiamo fretta. Torna indietro. Ora sono tutto preso a organizzare l’incontro politico.» «Ci sono problemi?» «È un casino. Ho proposto di farlo qua. I tecnologici lo vogliono a Austin o forse a San José, i giocatori a Hollywood, gli intangibili a Wall Street. Insomma tutti lo vogliono a casa propria. Nessuno cede.» «Devo fare qualcosa?» «Non ancora. Ne blandirò qualcuno, ad altri mostrerò i denti. Sai come vanno queste cose.» «Sissignore.» «Procedi, Town.» Il collegamento viene interrotto. Town pensa che avrebbe già dovuto chiamare gli uomini della S.W.A.T. per quel Winnebago di merda, o per far minare la strada, o piazzarci un marchingegno nucleare che facesse vedere a quei bastardi che non scherzavano affatto. Era come gli aveva detto una volta il signor World, … e in quel momento Shadow sentì che una mano gli stava aprendo la sua, un dito alla volta, staccandola dal femore. Non aveva più bisogno di urinare; quel bisogno riguardava un altro. Era in piedi, in una valle coperta di rocce cristalline, sotto un cielo stellato. Wednesday gli fece di nuovo segno di tacere. Poi si incamminò e lui lo seguì. Dal ragno meccanico arrivò una specie di cigolio e Wednesday si immobilizzò di colpo. Anche Shadow si fermò. Gruppi di luci verdi intermittenti si alzarono e percorsero velocemente il ragno. Shadow cercò di non fare rumore respirando. Pensò a quello che era appena successo. Era stato come guardare dentro la mente di un altro da una finestra. E poi ripensò. Le luci verdi diventarono azzurre, poi rosse, sbiadirono in un pallido porpora e il ragno si afflosciò sulle zampe metalliche. Wednesday, solitaria figura sotto le stelle, riprese a caminare con il suo cappello a tesa larga, il logoro mantello scuro agitato dal vento di quel non luogo, appoggiando il bastone sulla roccia cristallina. Quando il ragno metallico fu solo un bagliore lontano nella notte stellata, molto distante nella pianura, Wednesday disse: «Adesso possiamo parlare». «Dove siamo?» «Dietro le quinte.» «Come?» «Pensa alle quinte di un teatro e immagina di esserci dietro. Ho appena tirato fuori noi due dalla platea e stiamo camminando nella parte posteriore del palcoscenico. È una scorciatoia.» «Quando ho toccato l’osso sono entrato nella mente di un tale che si chiama Town. È uno spione anche lui. Ci odia.» «Sì.» «Ha un capo che si chiama World. Mi ricorda qualcuno, ma non so chi. Guardavo nella mente di Town, o forse c’ero dentro. Non so bene.» «Sanno dove stiamo andando?» «Credo che abbiano deciso di sospendere la caccia, per il momento. Non volevano seguirci alla riserva. Stiamo andando in una riserva?» «Può darsi.» Wednesday si appoggiò un istante al bastone, poi riprese a camminare. «Che cos’era quella specie di ragno?» «Una manifestazione diagrammatica. Un motore di ricerca.» «Sono pericolosi?» «Si arriva alla mia età solo aspettandosi il peggio.» Shadow sorrise. «E quale sarebbe l’età?» «Quella della mia lingua» rispose l’altro. «Poco più vecchia di quella dei miei denti.» «Tieni le carte così nascoste» disse Shadow «da farmi dubitare della loro esistenza.» Wednesday si limitò a un grugnito. Ogni collina era più ripida della precedente. Shadow cominciava ad avere mal di testa. C’era una pulsazione nella luce stellare, qualcosa che risuonava all’unisono con il battito nelle tempie e nel petto. In fondo all’altura successiva incespicò, aprì la bocca per dire qualcosa e senza preavviso vomitò. Wednesday prese una fiaschetta dalla tasca. «Bevine un sorso» disse. «Un sorso solo.» Il liquido era aspro ed evaporò come un buon brandy, anche se non sembrava alcolico. Wednesday si riprese subito la fiaschetta e la infilò nella tasca. «Al pubblico non fa bene camminare dietro le quinte. È per questo che ti senti così. Dobbiamo uscire in fretta.» Accelerarono il passo, Wednesday arrancava spedito, Shadow incespicando di tanto in tanto ma più in forma, dopo la bevanda che gli aveva lasciato in bocca un gusto di scorza d’arancia, olio di rosmarino, menta e chiodi di garofano. L’altro lo afferrò per un braccio. «Là» disse indicando due identici monticelli di roccia cristallina alla loro sinistra. «Cammina tra quei monticelli. Restami accanto.» Camminarono, e Shadow fu colpito sulla faccia contemporaneamente dall’aria fredda e dalla luce del giorno. Erano fermi a metà salita di una dolce collina. La foschia era scomparsa rivelando un giorno freddo e assolato, con il cielo di un azzurro perfetto. A fondovalle si vedeva una strada sterrata su cui procedeva una station wagon rossa che sembrava un’automobilina giocattolo, a quella distanza. Da una roulotte usciva del fumo. Era come se qualcuno, una trentina d’anni prima, l’avesse fatta ruzzolare sul pendio collinare. La roulotte aveva subito riparazioni di ogni tipo e, in alcuni punti, era anche rattoppata. La porta si spalancò non appena si avvicinarono, e un uomo di mezza età con uno sguardo penetrante e una bocca che sembrava una ferita da coltello li guardò dall’alto in basso dicendo: «Ehi, avevo sentito che due bianchi mi stavano venendo a trovare. Due bianchi in un Winnebago. E ho saputo che si sono persi, come succede sempre ai bianchi, se non piazzano indicazioni dappertutto. Ecco qui due poveri diavoli alla mia porta. Lo sapete che siete in terra lakota?». L’uomo aveva i capelli lunghi e grigi. «Da quando in qua sei un lakota, vecchio imbroglione?» disse Wednesday. Adesso indossava una giacca e un berretto con i paraorecchi, e a Shadow cominciava già a sembrare impossibile che fino a pochi minuti prima, sotto le stelle, portasse un cappello a tesa larga e un logoro mantello. «Allora, Whiskey Jack? Io sto morendo di fame e il mio amico qui ha appena vomitato la colazione. Ci fai entrare?» Whiskey Jack si grattò un’ascella. Era vestito con un paio di jeans e una maglietta grigia come i suoi capelli. Ai piedi calzava dei mocassini e non sembrava rendersi conto del freddo. Poi disse: «Mi piace questo posto. Venite dentro, uomini bianchi che hanno perso il loro Winnebago». Dentro la roulotte c’era molto fumo e, seduto al tavolo, un altro uomo, con un paio di calzoni di pelle scamosciata e i piedi scalzi. La sua pelle aveva il colore della corteccia. Wednesday sorrideva felice. «Bene» disse, «ma guarda che caso. Whiskey Jack e Apple Johnny. Due piccioni con una fava.» L’uomo seduto, Apple Johnny, lo guardò fisso, poi si portò una mano sui genitali e disse: «Ti sbagli un’altra volta. Sono appena arrivato e la mia fava è al suo posto.» Poi guardò Shadow e alzò la mano mostrando il palmo. «Sono John Chapman. Non credere a niente di quello che dice il tuo capo sul mio conto. È uno stronzo. È sempre stato stronzo e sempre lo sarà. Certa gente nasce così, non ci si può fare niente.» «Sono Mike Ainsel» disse Shadow. Chapman si grattò il mento ispido. «Ainsel» ripeté. «Non è un nome. Ma in certi casi può funzionare. Come ti chiamano?» «Shadow.» «Ti chiamerò Shadow, allora. Ehi, Whiskey Jack» gridò, però non disse proprio così, ci mise molte più sillabe. «Si mangia?» Whiskey Jack usò un cucchiaio di legno per sollevare il coperchio di una pentola di ferro nero che borbottava sulla cucina economica. «È pronto.» Prese quattro scodelle di plastica e le riempì, poi le mise sul tavolo. Aprì la porta, uscì nella neve e da un cumulo prese una tanica di plastica da cinque litri. La portò dentro e ne versò il liquido, di colore giallo-marrone torbido, in quattro grossi bicchieri che sistemò accanto alle scodelle. Infine trovò quattro cucchiai e sedette con gli altri al tavolo. Wednesday alzò il bicchiere con aria sospettosa. «Sembra piscio» disse. «Bevi ancora quella roba?» gli chiese Whiskey Jack. «Voi bianchi siete matti. Questo è molto meglio.» Poi, rivolgendosi a Shadow: «Lo stufato è soprattutto di tacchino selvatico. John ha portato il brandy di mele». «È un sidro leggero» spiegò John Chapman. «Non mi sono mai piaciuti i liquori forti. Fanno diventare matti.» Lo stufato era delizioso, e il sidro squisito. Shadow si costrinse a mangiare lentamente, a masticare, anziché ingoiare tutto subito, ma aveva più fame di quanto sospettasse. Si servì una seconda porzione di tacchino e un secondo bicchiere di sidro. «Corre voce che sei andato in giro a parlare con tutti, e che hai proposto di tutto. Che vuoi portare i vecchi sul sentiero di guerra» disse John Chapman. Shadow e Whiskey Jack stavano lavando i piatti e mettendo lo stufato avanzato in un contenitore. Poi Whiskey Jack sistemò le scodelle in un cumulo di neve davanti alla porta con una cassetta del latte sopra per riconoscerlo. «Mi sembra una sintesi equa e assennata» rispose Wednesday. «Vinceranno loro» disse Whiskey Jack senza mezzi termini. «Hanno già vinto. Tu hai già perso. Come l’uomo bianco e la mia gente. Hanno vinto quasi sempre i bianchi. E quando perdevano firmavano un trattato. Poi lo rompevano. Così vìncevano di nuovo. Io non combatto per un’altra causa persa.» «È inutile che guardi me» disse John Chapman, «perché anche se combattessi per te — cosa che non farei mai — non potrei esserti di nessun aiuto. Quei luridi bastardi mi hanno spremuto tutto quello che c’era da spremere.» Si interruppe. Poi riprese: «Paul Bunyan». Scosse lentamente la testa e lo ripeté. «Paul Bunyan.» Shadow non aveva mai sentito nessuno pronunciare un nome in modo così minaccioso. «Paul Bunyan?» chiese. «Che cosa ha fatto?» «Ha occupato spazio mentale» rispose Whiskey Jack. Si fece dare una sigaretta da Wednesday, fumarono insieme. «E come quei cretini che pensano che i colibrì si preoccupino della linea o dei denti cariati o scemenze del genere, o forse vogliono soltanto risparmiare ai colibrì i danni dello zucchero» spiegò Wednesday «e riempiono i beccatoi di schifoso dolcificante. Gli uccelli vengono, se lo mangiano e muoiono, perché si rimpinzano di cibo che non contiene calorie ma li sazia. Questo è Paul Bunyan. Nessuno ha mai raccontato le sue storie. Nessuno ci ha mai creduto. È saltato fuori da un’agenzia di pubblicità di New York nel 1910 e ha riempito la mitica pancia della nazione di calorie inutili.» «A me piace Paul Bunyan» disse Whiskey Jack. «Sono andato sulla sua giostra al Mall of America, qualche anno fa. Quando precipiti giù vedi il vecchio Paul in cima. «Hai detto giusto» disse Johnny Chapman. Wednesday soffiò un anello di fumo che rimase sospeso nell’aria e si dissipò lentamente in riccioli e volute. «Maledizione, Whiskey Jack; il punto non è questo e lo sai.» «Io non ti aiuterò» gli rispose l’altro. «Quando ti ritroverai con il culo per terra potrai tornare qua, e se ci sarò ti darò ancora da mangiare. Il cibo migliore lo trovi in autunno.» «Tutte le alternative sono peggiori» disse Wednesday. «Non hai nessuna idea delle alternative» ribatté Whiskey Jack. Poi guardò Shadow: «Tu sei a caccia» disse. La sigaretta gli aveva arrochito la voce. «Lavoro» rispose Shadow. Whiskey Jack scosse la testa. «Sei anche a caccia di qualcosa. Hai un debito in sospeso.» Shadow pensò alle labbra violacee di Laura, alle sue mani coperte di sangue. Annuì. «Sta’ a sentire; prima c’era la Volpe, e il Lupo era suo fratello. La Volpe disse: gli uomini vivranno qui per sempre. Se moriranno non resteranno morti a lungo. Il Lupo disse: no, la gente morirà, deve morire, tutte le cose che sono vive devono morire, altrimenti si diffonderanno e invaderanno la terra, mangeranno tutti i salmoni e i caribù e i bufali, mangeranno tutte le zucche e tutto il granturco. Allora un giorno il Lupo morì, e disse alla Volpe: "Svelta, riportami in vita". E la Volpe rispose: "No, i morti devono rimanere morti, mi hai convinto". E piangeva, mentre lo diceva. Ma l’aveva detto, era deciso. Adesso il Lupo regna sul mondo dei morti e la Volpe vive per sempre sotto il sole e la luna, e ancora piange suo fratello.» «Se non ci stai, non ci stai. Noi però ce ne andiamo» disse Wednesday. Whiskey Jack era impassibile. «Sto parlando con questo giovanotto. Per te non posso fare niente. Per lui sì.» Si rivolse a Shadow: «Parlami dei tuoi sogni». «Mi stavo arrampicando su una torre di teschi. C’erano degli uccelli enormi che volavano intorno alla torre. Nelle ali avevano lampi. Mi hanno attaccato. La torre è caduta.» «Tutti sognano» disse Wednesday. «Ci rimettiamo in strada?» «Non tutti sognano il Wakinyau, l’uccello del tuono» disse Whiskey Jack. «Ne abbiamo sentito l’eco fin qui.» «Te l’avevo detto» disse Wednesday. «Cazzo.» «In West Virginia ce n’è un gruppo» riprese Chapman in tono pigro. «Almeno un paio di femmine e un vecchio maschio. Nella terra che chiamavano lo Stato di Franklin ce n’è una coppia da riproduzione, ma il vecchio Ben non è mai arrivato nel suo stato, tra il Kentucky e il Tennessee. Certo non sono mai stati tanti, nemmeno ai bei tempi.» Whiskey Jack tese una mano che aveva il colore dell’argilla scura e toccò con delicatezza Shadow sulla faccia. «Ehi, è vero. Se dai la caccia all’uccello del tuono puoi riportare in vita la tua donna. Ma lei appartiene al Lupo, al regno dei morti, non deve più calpestare la terra.» «Come fai a saperlo?» domandò Shadow. Whiskey Jack non mosse le labbra. «Cosa ti ha detto il bufalo?» «Di credere.» «Un buon consiglio. Pensi di seguirlo?» «Più o meno. Sì.» Stavano parlando senza pronunciare parole, senza l’ausilio della bocca, del suono. Shadow si chiese se per i due uomini presenti nella roulotte loro fossero rimasti immobili per un secondo o una frazione di secondo. «Quando avrai trovato la tua tribù torna a trovarmi» disse Whiskey Jack. «Ti posso aiutare.» «Lo farò.» Whiskey Jack abbassò la mano. Poi si rivolse a Wednesday. «Vuoi andare a riprenderti il tuo Ho Chunk?» «E cos’è?» «Ho Chunk. È così che i Winnebago si riferiscono a se stessi.» L’altro fece di no con la testa. «Troppo rischioso. Recuperarlo potrebbe rivelarsi problematico. Lo staranno cercando.» «È rubato?» Wednesday fece un’aria offesa. «Nemmeno per sogno. I documenti sono nello scomparto del cruscotto.» «E le chiavi?» «Ce le ho io» disse Shadow. «Mio nipote, Harry Bluejay, ha una Buick dell’81. Perché non mi date le chiavi del camper? Potete prendervi la sua macchina.» Wednesday arruffò il pelo. «Che razza di affare sarebbe?» Whiskey Jack scrollò le spalle. «Ti rendi conto di come sarà difficile riprendere il camper dal punto in cui l’avete abbandonato? Ti sto facendo un favore. Prendere o lasciare. A me non interessa.» Chiuse la bocca sottile come una ferita di coltello. Wednesday aveva un’aria arrabbiata, poi la rabbia si stemperò in rammarico. «Shadow, dagli le chiavi del Winnebago» ordinò. Shadow obbedì. «Johnny» disse Whiskey Jack, «puoi portare questi uomini da Harry Bluejay? Digli da parte mia che deve dargli la macchina.» «Volentieri» rispose John Chapman. Si alzò, prese un piccolo sacco di tela appoggiato accanto alla porta e uscì. Shadow e Wednesday lo seguirono. Whiskey Jack rimase sulla soglia. «Ehi» disse a Wednesday, «tu non tornare. Non sei il benvenuto.» L’altro alzò il dito medio verso il cielo e in tono affabile rispose: «Fottiti». Scesero a valle nella neve, aprendosi un varco dov’era più alta. Chapman li precedeva a piedi nudi, rossi sulla crosta di neve dura. «Non hai freddo?» gli chiese Shadow. «Mia moglie era choctaw». «E ti ha insegnato dei sistemi magici per non sentire il freddo?» «No, credeva che fossi matto. Diceva sempre: "Ma perché non ti infili gli stivali, Johnny?".» Il pendio divenne più ripido e dovettero smettere di parlare. Incespicavano e scivolavano, si afferravano ai tronchi delle betulle per non cadere. Quando il terreno diventò un po’ più piano Chapman riprese: «Adesso è morta, ovviamente. Quando è morta credo di essere andato un po’ fuori di testa. Può succedere a tutti. Può succedere anche a te». Gli batté una pacca sul braccio. «Per Gesù e Giosafat, sei grande e grosso.» «Così dicono» rispose Shadow. Camminarono lungo quella ripida discesa per circa mezz’ora e quando arrivarono a fondovalle imboccarono la strada sterrata diretti al gruppo di case che avevano già visto dall’alto. Un’automobile rallentò, si fermò. La donna al volante abbassò il finestrino e disse: «Avete bisogno di un passaggio, voi tre ubriaconi?». «Molto cortese da parte sua, signora» rispose Wednesday. «Stiamo cercando un certo Harry Bluejay.» «Sarà alla sala giochi» rispose lei. Shadow pensò che fosse sulla quarantina. «Salite.» Salirono tutti: Wednesday accanto al posto di guida, Shadow e John Chapman sul sedile posteriore. Le gambe di Shadow erano troppo lunghe per lo spazio tra i due sedili, ma cercò di sistemarsi alla meglio. L’auto ripartì e procedette sobbalzando sul fondo stradale sconnesso. «Da dove venite?» chiese la donna. «Siamo andati a trovare un amico» rispose Wednesday. «Che vive sulla collina qui dietro» aggiunse Shadow. «Quale collina?» Shadow si girò a guardare dal polveroso parabrezza posteriore. Non c’era nessuna collina, soltanto la pianura coperta di nuvole. «Whiskey Jack» continuò allora Shadow. «Ah, qui lo chiamiamo Inktomi. Credo che sia lui. Mio nonno raccontava delle belle storielle sul suo conto. Le migliori erano spinte, ovvio.» Presero una buca e la donna imprecò. «Tutto a posto, lì dietro?» «Sissignora» rispose John Chapman. Si teneva aggrappato al sedile con tutte e due le mani. «Sono le strade della riserva» disse lei. «Ci si fa l’abitudine.» «Sono tutte così?» domandò Shadow. «Più o meno. Quelle qui intorno sono così. E non venire a chiedermi che fine fanno tutti i soldi che guadagnano i casinò, perché quale persona sana di mente verrebbe fin qui per andare in un casinò? Di quei soldi noi non sentiamo nemmeno l’odore.» «Mi dispiace.» «Non è il caso.» Cambiò marcia con una grattata e un gemito. «Sapete che la popolazione bianca della zona continua a diminuire? Ormai ci sono solo città fantasma. Come si fa a tenerli qui a lavorare nei campi dopo che hanno visto il mondo alla televisione? E comunque coltivare le Badlands non rende. Perciò prima ci hanno portato via la terra e si sono insediati dove stavamo noi, e adesso se ne vanno. Vanno a sud. A ovest. Magari se aspettiamo che si trasferiscano tutti a New York o a Miami e Los Angeles ci possiamo riprendere le terre senza muovere un dito.» «Buona fortuna» disse Shadow. Trovarono Harry Bluejay nella sala giochi, al tavolo del biliardo, impegnato in qualche tiro spettacolare per far colpo sulle ragazze. Aveva una ghiandaia azzurra tatuata sul dorso della mano destra e molti piercing all’orecchio destro. « «Vaffanculo, brutto spettro bianco e scalzo» rispose Harry Bluejay in tono colloquiale. «Quando ti vedo mi viene la pelle d’oca.» In fondo alla sala c’erano uomini più anziani di Harry che giocavano a carte o parlavano. Ce n’erano altri, più o meno della sua età, che aspettavano il loro turno al tavolo da biliardo, un biliardo grande, con uno strappo nella stoffa verde che era stato riparato con un pezzo di nastro adesivo argentato. «Ho un messaggio da parte di tuo zio» ribatté Chapman imperturbabile. «Dice di dare la tua macchina a questi due.» Nella sala giochi dovevano esserci trenta o quaranta persone, e all’improvviso si misero tutti a guardare con attenzione le carte che tenevano in mano, oppure a studiarsi i piedi, o le unghie, facendo del loro meglio per fingere di non ascoltare. «Non è mio zio.» L’aria nella sala era viziata, densa di fumo. Chapman sorrise mettendo in mostra le due più brutte file di denti che Shadow avesse mai visto in un essere umano. «Vuoi che glielo riferisca? Pensa che secondo lui sei l’unica ragione che lo fa restare con i lakota.» «Whiskey Jack dice un sacco di cose» ribatté Harry Bluejay in tono petulante. Anche lui non pronunciava davvero le parole Whiskey Jack, era un nome che suonava più come «Infatti» disse Shadow. «E tra l’altro ha detto che dovevi scambiare la tua Buick con il nostro Winnebago.» «Non vedo nessun Winnebago.» «Te lo porterà lui» disse John Chapman. «Lo sai bene che lo farà.» Harry Bluejay tentò un tiro di abilità e lo sbagliò. Non aveva la mano abbastanza ferma. «Io non sono il nipote della vecchia volpe. Vorrei che la piantasse di andare in giro a dirlo.» «Meglio una volpe viva che un lupo morto» rispose Wednesday, in un tono di voce talmente profondo da sembrare un ringhio. «Allora, ci dai questa macchina o no?» Bluejay rabbrividì in maniera violenta, visibile. «Subito» disse. «Subito. Stavo solo scherzando. Scherzo un sacco, io.» Appoggiò la stecca sul tavolo e prese una giacca pesante da un attaccapanni vicino alla porta che era zeppo di giacche uguali. «Fatemi tirare prima fuori la mia roba.» Continuava a lanciare occhiate a Wednesday, come se avesse paura di vederlo esplodere da un momento all’altro. La macchina di Harry Bluejay era parcheggiata a un centinaio di metri. Per arrivarci passarono davanti a una chiesetta cattolica imbiancata a calce, e il prete in piedi sulla soglia li guardò passare. Fumava una sigaretta come se fumare non gli piacesse. «Buon giorno, padre!» gridò Johnny Chapman, ma l’uomo con il colletto rigido non rispose, schiacciò la sigaretta sotto il tacco, raccolse il mozzicone, lo gettò nel bidone dell’immondizia ed entrò in chiesa. Alla macchina di Harry Bluejay mancavano i deflcttori, e le ruote erano le più lisce che Shadow avesse mai visto: gomma nera perfettamente levigata. Bluejay spiegò che la macchina beveva olio, ma se si continuava a mettergliene dentro lei sarebbe andata per sempre, fino a quando non si fosse fermata. Riempì un sacco nero dell’immondizia con tutta la sua roba (tra cui parecchie bottiglie di birra economica con il tappo a vite, non finite, un pacchettino di resina di cannabis avvolto nella stagnola e nascosto sommariamente nel portacenere, una coda di puzzola, due dozzine di cassette di musica country, e una copia malconcia e ingiallita di «Chiedi a tuo zio. È lui il commerciante di macchine usate del cazzo» ringhiò l’altro. «Wisakedjack non è mio zio» disse Harry Bluejay. Prese il sacchetto di plastica nero, entrò nella casa più vicina e si chiuse la porta alle spalle. Lasciarono Johnny Chapman a Sioux Falls, davanti a un negozio di alimentazione naturale. Durante il viaggio Wednesday non parlò. Era d’umore nero fin da quando avevano lasciato la casa di Whiskey Jack. In una trattoria alle porte di St Paul Shadow prese un quotidiano che qualcuno aveva abbandonato su un tavolo. Dopo una prima occhiata lo riguardò, incredulo, e poi lo mostrò a Wednesday. «Leggi qui» gli disse. Wednesday sospirò e abbassò gli occhi sulla prima pagina. «Sono felice di sapere che la controversia dei controllori di volo sia stata risolta senza ricorrere a misure drastiche.» «Non quello» disse Shadow. «Guarda qui. C’è scritto che è il quattordici febbraio.» «Buon San Valentino.» «Siamo partiti in gennaio, il venti, o ventuno. Non lo so di preciso ma era la terza settimana di gennaio. Siamo stati in viaggio tre giorni al massimo. Com’è che oggi è il quattordici febbraio?» «Perché abbiamo camminato per quasi un mese» rispose Wednesday. «Nelle Badlands. Dietro le quinte.» «Alla faccia della scorciatoia» esclamò Shadow. Wednesday allontanò il giornale. «Al diavolo Johnny Appleseed e il suo Paul Bunyan. Nella realtà Chapman era proprietario di quattordici frutteti. Aveva migliaia di acri. Sì, non se la cavava male con la frontiera, però non c’è una sola storia sul suo conto che contenga una briciola di verità, salvo che a un certo punto ha dato di matto. Ma non importa. Come dicono i giornalisti, se la verità non è abbastanza appassionante, riporta la leggenda. Questo paese ne ha bisogno, anche se nemmeno alle leggende si crede più.» «Ma tu sai.» «Io sono superato. A chi cazzo gliene frega qualcosa di me?» A bassa voce, Shadow disse: «Tu sei un dio». Wednesday si voltò di scatto a guardarlo, come se fosse sul punto di replicare, poi si riappoggiò pesantemente allo schienale a studiare il menu. «E allora?» «È una bella cosa» disse Shadow. «Ah sì?» ribatté l’altro, e questa volta fu Shadow a distogliere lo sguardo. Sul muro del gabinetto di un’area di servizio a una quarantina di chilometri da Lakeside, Shadow vide un piccolo manifesto: una foto in bianco e nero di Alison McGovern e in alto, scritta a mano, la domanda Shadow comperò una merendina Snicker, una bottiglia d’acqua e una copia del "Lakeside News". In prima pagina il titolo, che rimandava all’articolo scritto da Marguerite Olsen, nostra inviata, era illustrato dalla fotografia che ritraeva un ragazzo e un uomo più anziano in piedi sul lago ghiacciato, accanto a una baracca tipo gabinetto all’aperto: insieme i due reggevano un grosso pesce. Sorridevano. Al volante c’era Wednesday. «Leggimi qualcosa di interessante» disse. Shadow sfogliò il giornale lentamente ma non trovò niente da leggere. Wednesday lo lasciò sul vialetto davanti a casa. Un gatto grigio fumo che era rimasto a guardarlo fuggì, quando Shadow si chinò per accarezzarlo. Shadow si fermò sul portico di legno ad ammirare il lago punteggiato qui e là dalle capanne verdi e marroni dei pescatori. Accanto a molte capanne erano parcheggiate le macchine dei proprietari. Vicino al ponte vide la vecchia bagnarola verde, proprio come nella foto sul giornale. «Ventitré marzo» la incoraggiò. «Intorno alle nove e un quarto. Puoi farcela.» «Impossibile» ribatté una voce di donna. «Sarà il tre aprile, alle sei del pomeriggio, che il sole scioglierà il ghiaccio.» Shadow sorrise. Marguerite Olsen, in tuta da sci, stava riempiendo il beccatoio per gli uccelli. «Ho letto il suo articolo sul luccio da record.» «Eccitante, vero?» «Be’, istruttivo, magari.» «Credevo che non sarebbe più tornato. È stato via un bel pezzo, vero?» «Lo zio aveva bisogno di me. Diciamo che il tempo è volato.» Sistemò l’ultimo pezzettino di grasso nella gabbia e cominciò a riempire una reticella con semi di cardo che prendeva da un grosso barattolo. Alcuni cardellini con il piumaggio invernale color oliva cinguettarono impazienti da un abete. «Il giornale non dice niente su Alison McGovern.» «Non c’è niente da dire. Non è stata ritrovata. Sembrava che qualcuno l’avesse vista a Detroit ma era un falso allarme.» «Povera bambina.» Marguerite Olsen riavvitò con forza il tappo del barattolo. «Spero che sia morta» disse in tono pratico. Shadow era esterrefatto. «Perché?» «Perché le alternative sarebbero peggiori.» I cardellini saltavano freneticamente da un ramo all’altro aspettando con impazienza che gli umani si allontanassero. A Shadow sembrò di risentire qualcuno che diceva «Grazie della chiacchierata» disse. «Grazie a lei.» Febbraio fu una successione di giornate brevi e grige. A volte nevicava, a volte no. Le temperature salirono, in certi momenti arrivarono addirittura allo zero. Shadow se ne stava chiuso in casa fino a quando non si sentiva in prigione e allora, nei giorni in cui Wednesday non aveva bisogno di lui per qualche viaggio, cominciò a fare delle passeggiate. Camminava quasi tutto il giorno, lunghe escursioni fuori città. Da solo, fino alla foresta nazionale a settentrione o a occidente, oppure fino ai campi di granturco e ai pascoli a sud. Percorse la pista del Lumber County Wilderness, camminò lungo i vecchi binari della ferrovia e lungo tutte le strade secondarie. Un paio di volte attraversò perfino il lago gelato da nord a sud. Se incontrava un indigeno o un turista o qualcuno che faceva jogging salutava con la mano e diceva buongiorno. In genere non incontrava nessuno eccetto cornacchie e fringuelli, e qualche volta intravvide un falco che divorava i resti di un opossum o di un procione schiacciati da una macchina. In un’occasione memorabile restò a osservare un’aquila catturare un pesce argenteo dal fiume White Pine che, ghiacciato verso l’argine, in mezzo correva ancora impetuoso. Il pesce si agitò tra gli artigli dell’aquila, scintillando sotto il sole di mezzogiorno; Shadow si augurò che riuscisse a liberarsi per nuotare nel cielo e sorrise della propria illusione. Scoprì che se camminava non doveva pensare, ed era quello che voleva; se pensava la mente viaggiava verso luoghi che non riusciva a controllare, luoghi che lo facevano stare male. La cosa migliore era sfinirsi. Quand’era sfinito di stanchezza i pensieri non vagavano fino a Laura, o a sogni strani, oppure a cose che non esistevano e non potevano esistere. Dopo una lunga passeggiata tornava a casa e dormiva senza difficoltà, senza sogni. Nel negozio del barbiere sulla piazza principale incontrò il capo della polizia Chad Mulligan. Shadow si aspettava sempre molto da un taglio di capelli, e le sue aspettative venivano regolarmente deluse. Si ritrovava uguale, dopo ogni taglio, solo con i capelli più corti. Chad, seduto sulla sedia accanto a lui, sembrava straordinariamente preoccupato del proprio aspetto. Quando il barbiere ebbe finito si guardò allo specchio con severità, come se si preparasse ad affibbiarsi una multa per eccesso di velocità. «Stai bene» gli disse Shadow. «Se tu fossi una donna ti piacerebbe?» «Credo di sì.» Attraversarono insieme la piazza per andare da Mabel’s a bere due tazze di cioccolata calda. «Ehi Mike, hai mai pensato di entrare in polizia?» Shadow scrollò le spalle. «Non direi» rispose. «Ci sono un sacco di cose da imparare, credo.» Chad scosse la testa. «Sai qual è l’unica importante? Tenere i nervi a posto. Succede qualcosa, gridano, gridano all’assassino, e tu devi riuscire a dire che è tutto un errore, e che se escono tranquillamente sistemerai tutto. E devi dirlo sul serio.» «Riesci a sistemare tutto davvero?» «In genere sì, quando gli hai messo le manette. Comunque sì, in un modo o nell’altro in genere le cose si risolvono. Fammi sapere, se ti serve un lavoro. Stiamo assumendo personale e tu sei il tipo di uomo che cerchiamo.» «Me lo ricorderò, se mio zio non mi desse più lavoro.» Sorseggiarono la cioccolata calda. Mulligan disse: «Senti, Mike, cosa faresti se avessi una cugina? Una vedova, diciamo. E cominciasse a chiamarti?». «A chiamarti in che senso?» «Al telefono. Da un altro stato.» Mulligan arrossì. «L’ho vista l’anno scorso a un matrimonio. Era sposata, allora, cioè suo marito era ancora vivo e io e lei siamo parenti. Non è una cugina di primo grado, però.» «Ti interessa?» Mulligan arrossì ancora. «Non ne sono sicuro.» «Mettiamola così: tu le interessi?» «Be’, ha detto qualcosa, al telefono. È una gran bella donna.» «Dunque… cosa pensi di fare?» «Potrei invitarla a venire qua. Potrei dirglielo, cosa te ne pare? Praticamente mi ha già fatto capire che le piacerebbe.» «Siete adulti e vaccinati. Mi pare che potresti provare.» Chad annuì, arrossì e annuì di nuovo. Il telefono nell’appartamento taceva, scollegato. Shadow pensò di farlo riallacciare, ma non riusciva a immaginare nessuno da chiamare. Una volta a notte fonda alzò il ricevitore e rimase in ascolto, convinto che il vento gli portasse una conversazione lontana tra alcune persone che parlavano a voce troppo bassa perché le parole risultassero intelliggibili. Disse: «Pronto?» e «Chi parla?». Non rispose nessuno, e nel silenzio improvviso ci fu l’eco distante di una risata, così fievole che non sapeva se l’aveva solo immaginata. Durante le settimane successive Shadow fece altri viaggi con Wednesday. Aspettò nella cucina di un cottage di Rhode Island mentre il suo capo, in una camera da letto buia, discuteva con una donna che non si voleva alzare dal letto e non voleva che né lui né Shadow la vedessero in faccia. Nel frigorifero c’era un sacchetto di plastica pieno di grilli, e un altro con cadaveri di topolini. In un locale rock di Seattle Shadow guardò Wednesday salutare gridando per superare il frastuono della musica una giovane donna con i capelli rossi e corti e dei tatuaggi a spirale. Quella conversazione doveva essere andata bene, perché Wednesday uscì dal locale sorridendo felice. Cinque giorni dopo Shadow era a bordo di un’auto a noleggio quando Wednesday uscì corrucciato da un ufficio di Dallas. Sbatté la portiera e rimase seduto in silenzio, rosso di rabbia. «Metti in moto» disse. Poi aggiunse: «Albanesi di merda. Come se a qualcuno gliene fregasse di loro». Tre giorni più tardi volarono a Boulder, dove pranzarono piacevolmente con cinque giovani donne giapponesi. Fu un pasto improntato alla più grande cortesia e Shadow non capì se alla fine fossero arrivati a un accordo o a una decisione. Comunque Wednesday sembrava abbastanza contento. Shadow aveva voglia di tornare a Lakeside, dove c’era una pace, un’atmosfera accogliente che apprezzava. Ogni mattina, se non era in viaggio, attraversava il ponte e arrivava in piazza. Comperava due pasty da Mabel’s; ne mangiava una sul posto, bevendo un caffè. Se qualcuno aveva dimenticato il giornale lo leggeva, benché non fosse così interessato alle notizie da comperarsene uno personalmente. Si infilava la seconda pasty in tasca, avvolta in un sacchetto di carta, e la mangiava a pranzo. Un mattino stava leggendo "Usa Today" quando Mabel gli chiese: «Ehi Mike, dove vai oggi?». Il cielo era di un pallido azzurro, la foschia mattutina aveva coperto gli alberi di brina. «Non so» rispose lui. «Forse torno sulla pista.» La donna gli riempì di nuovo la tazza di caffè. «Non sei mai stato a County Q? È piuttosto bello. Prendi la stradina che parte dal negozio di tappeti sulla Twentieth Avenue.» «No. Non ci sono mai stato.» «Be’. È proprio bello.» Era straordinariamente bello. Shadow parcheggiò l’auto in periferia e camminò sul ciglio della strada, una strada di campagna che serpeggiava intorno alle colline a est della città coperte di aceri brulli, betulle candide, abeti scuri. A un certo punto un gattino si mise a camminare al suo fianco. Aveva il colore della polvere, con le zampette bianche. Shadow gli si avvicinò e l’animale non fuggì. «Ehi gatto» lo chiamò senza imbarazzo. Il gatto piegò la testa e lo guardò con gli occhi smeraldini. Poi soffiò, non contro di lui, ma contro qualcosa sul bordo della strada, qualcosa che Shadow non poteva vedere. «Tranquillo» gli disse. Il gatto attraversò e scomparve in un campo di granturco che non era stato raccolto. Dopo la curva successiva c’era un minuscolo cimitero con vecchie lastre tombali levigate dal tempo, anche se su alcune erano posati dei fiori freschi. Non c’era un muro di cinta, nessuna palizzata, soltanto rovi piegati dal ghiaccio e dagli anni. Shadow superò il cumulo di ghiaccio e fanghiglia sul ciglio della strada. C’erano due montanti di pietra all’ingresso del camposanto, ma il cancello mancava. Entrò. Si aggirò osservando le pietre tombali: non c’erano iscrizioni successive al 1969. Spazzò via la neve da un angelo di granito dall’aria solida e vi si appoggiò. Dalla tasca tirò fuori il sacchetto di carta con la pasty. Quando lo aprì un filo di vapore si disperse nell’aria fredda. Aveva un buon profumo. L’addentò. Alle sue spalle sentì scricchiolare qualcosa. Per un attimo pensò che fosse il gatto, poi riconobbe il profumo e, sotto il profumo, l’odore di decomposizione. «Non guardarmi, ti prego» disse lei da dietro. «Ciao, Laura.» Lei rispose con voce esitante, forse, gli sembrò, addirittura impaurita. «Ciao, cucciolo.» Lui staccò un pezzo di pasty. «Vuoi assaggiarne un po’?» le chiese. Adesso Laura era in piedi proprio alle sue spalle. «No. Mangiala tu. Io non mangio più queste cose.» Shadow addentò la sua pasty. Era ottima. «Vorrei vederti» disse. «Non ti piacerebbe» rispose lei. «Ti prego.» Laura aggirò l’angelo di granito e Shadow la guardò alla luce del sole. C’erano alcune cose diverse e altre che erano rimaste uguali. Gli occhi non erano cambiati, né il sorriso fiducioso. Ovviamente sembrava molto morta. Shadow finì di mangiare, si alzò e rovesciò le briciole nel sacchetto di carta che poi piegò e si infilò in tasca. I giorni passati nell’impresa di pompe funebri a Cairo in un certo senso gli rendevano più facile stare con lei. Non sapeva che cosa dirle. La mano fredda di Laura cercò la sua e la strinse leggermente. Gli batteva forte il cuore. Aveva paura, e ciò che lo spaventava era la normalità di quel momento. Stava talmente bene accanto a lei che sarebbe rimasto lì per sempre. «Mi manchi» ammise. «Sono qui» disse lei. «È quando ci sei che mi manchi di più. Quando siamo insieme. Quando non ci sei, quando sei soltanto un fantasma del passato o un sogno di un’altra vita, allora è più facile.» Gli strinse la mano. «Dunque» domandò lui, «com’è la morte?» «È dura. Non finisce mai.» Gli appoggiò la testa su una spalla e lui quasi si sciolse. Disse: «Vuoi fare due passi?». «Volentieri.» Gli sorrise, un sorriso sbilenco e un po’ nervoso nel viso morto. Uscirono dal camposanto e tenendosi per mano ripresero la strada che portava in città. «Dove sei stato?» gli chiese Laura. «Quasi sempre qui.» «Ti ho un po’ perso, da Natale. A volte sapevo dov’eri per qualche ora, o qualche giorno. Sembravi dappertutto. Poi scomparivi.» «Ero qui a Lakeside. È una bella cittadina.» «Oh.» Laura non indossava più il tailleur blu con cui era stata seppellita. Adesso portava una gonna lunga e scura, uno strato di maglioni e un paio di stivali rosso borgogna. Shadow le fece i complimenti per gli stivali. Lei piegò la testa. Sorrise. «Non sono belli? Li ho trovati in questo negozio fantastico a Chicago.» «Che cosa ti ha fatto venire fin qui da Chicago?» «Oh, è da un pezzo che me ne sono andata, cucciolo. Ero diretta a sud perché il freddo non mi piace. Una volta mi piaceva, dirai, ma adesso no, deve dipendere dal fatto che sono morta. Più che come freddo lo percepisci come una specie di nulla; e quando sei morto è proprio il nulla che ti fa paura. Stavo andando in Texas con l’idea di passare l’inverno a Galveston. Mi piaceva, da bambina.» «Strano» disse Shadow, «è la prima volta che te ne sento parlare.» «Ah sì? Allora era qualcun altro che ci passava l’inverno. Non saprei. Ricordo i gabbiani: il pane lanciato in aria per i gabbiani, erano centinaia, il cielo coperto di gabbiani che battevano le ali e acchiappavano il pane al volo.» Si interruppe. «Se questa scena non l’ho vista io deve averla vista qualcun altro.» Un’automobile svoltò alla curva e il conducente salutò con la mano. Shadow ricambiò il saluto. Camminare con sua moglie era meravigliosamente normale. «Si sta bene» disse lei, come se gli avese letto nel pensiero. «Sì.» «Quando ho sentito la chiamata sono tornata indietro di corsa. Ero appena arrivata in Texas. «La chiamata?» Lei alzò gli occhi. Al collo le brillava la moneta d’oro. «Sembrava una chiamata. Ho cominciato a pensare a te. A quanto avevo bisogno di vederti. Era una specie di fame.» «Sapevi che ero qui?» «Sì.» Aggrottò la fronte e affondò gli incisivi superiori nel labbro inferiore bluastro, mordendolo delicatamente. Piegò la testa di lato e disse: «Lo sapevo. All’improvviso lo sapevo. Sembrava che mi stessi chiamando, invece non eri tu, vero?». «No.» «Non volevi vedermi.» «Non è quello.» Esitò. «Sì. Non volevo vederti. Mi fa troppo male.» La neve scricchiolava sotto le scarpe scintillando al sole come una coltre di diamanti. «Dev’essere difficile» disse lei «non vivere.» «Vuoi dire essere morta? Senti, sto ancora cercando la maniera di riportarti indietro. Credo di essere sulla buona strada…» «No» disse lei, «cioè, ti sono grata. E spero proprio che tu ci riesca. Ho fatto un sacco di cose sbagliate…» Scosse la testa. «Ma adesso parlavo di te.» «Io sono vivo. Non sono morto, non ti ricordi?» «Non sei morto, però non sono sicura che tu sia davvero vivo.» «Io ti amo» disse lei in tono distaccato. «Tu sei il mio cucciolo. Ma da morti si vedono le cose con più chiarezza. È come se tu non ci fossi, capisci? Sei come un grosso, solido buco a forma di uomo.» Aggrottò le sopracciglia. «Anche quando stavamo insieme. Mi piaceva stare con te. Tu mi adoravi e avresti fatto qualsiasi cosa per me. Però a volte mi capitava di entrare in una stanza credendo che fosse vuota. Accendevo la luce, la spegnevo, e mi rendevo conto che tu eri lì seduto; non leggevi, non guardavi la tv, non facevi niente.» A quel punto lo abbracciò, come per mitigare l’asprezza delle proprie parole, e aggiunse: «La cosa più bella di Robbie è che lui era vero. Uno stronzo, a volte, oppure divertente, e quando facevamo l’amore gli piaceva avere gli specchi intorno perché così poteva vedersi mentre mi scopava, ma era vivo, cucciolo. Voleva veramente le cose. Riempiva lo spazio». Si interruppe e lo guardò piegando leggermente la testa. «Scusa. Ti ho ferito?» Siccome la voce avrebbe potuto tradirlo, Shadow si limitò a fare segno di no con la testa. «Bene» disse lei. «Molto bene.» Stavano arrivando alla piazzola di sosta dove aveva parcheggiato la macchina. A Shadow sembrava che a quel punto fosse necessario dire qualcosa: «Forse no» rispose lei. «Ma sei sicuro di essere vivo?» «Guardami.» «Questa non è una risposta» ribatté la sua defunta moglie. «Quando sarai vivo lo capirai.» «E adesso?» «Be’, ti ho rivisto. Adesso torno a sud.» «In Texas?» «In qualche posto caldo. Non mi interessa quale.» «Io devo stare qui ad aspettare. Fino a quando il mio capo non mi chiama.» «Questa non è vita» disse Laura. Sospirò, e poi sorrise, quel sorriso che dopo mille volte riusciva a commuoverlo ancora. Come se ogni volta fosse la prima. Si avvicinò per stringerla a sé ma lei scosse la testa e si sottrasse all’abbraccio. Seduta sull’angolo di un tavolo da picnic coperto di neve rimase a guardarlo allontanarsi in macchina. Interludio Era cominciata la guerra e non se ne accorgeva nessuno. La tempesta era vicina e nessuno se ne rendeva conto. A Manhattan la caduta di una trave provocò la chiusura di una strada per due giorni: uccise due pedoni, un tassista arabo e il suo passeggero. Un camionista di Denver fu trovato ucciso in casa. Il corpo contundente, un martello a granchio con l’impugnatura in plastica, era stato abbandonato sul pavimento accanto al cadavere. Il volto non era stato toccato ma il cranio era sfondato e sullo specchio del bagno qualcuno aveva scritto con un rossetto scuro alcune parole in un alfabeto sconosciuto. In un ufficio di smistamento della corrispondenza di Phoenix, in Arizona, un uomo impazzì, diede i numeri, come dissero al telegiornale quella sera, e sparò a Terry "Il Troll" Evensen, uno strano individuo morbosamente obeso che viveva da solo in una roulotte. I feriti erano stati parecchi ma rimase ucciso soltanto Evensen. L’omicida — un dipendente delle poste insoddisfatto, si pensò a tutta prima — non fu né catturato né, tantomeno, identificato. «Onestamente» dichiarò il direttore dell’ufficio di Terry "Il Troll" Evensen, al telegiornale delle cinque, «tutti immaginavano che sarebbe stato proprio il Troll a dare i numeri per primo. Bravo lavoratore, ma uno strano tipo. Non si può mai dire nella vita, eh?» Più tardi la sera, quando rimandarono in onda il servizio, l’intervista al direttore dell’ufficio postale fu tagliata. In Montana vennero trovati morti i nove membri di una comunità dì anacoreti. I giornalisti avanzarono l’ipotesi che si fosse trattato di un suicidio collettivo, ma presto si seppe che la causa del decesso era imputabile all’avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una vecchia caldaia. Nel cimitero di Key West venne profanata una cripta. In Idaho un treno passeggeri della Amtrak si scontrò con un camion della Ups e il conducente del camion rimase ucciso. I passeggeri del treno riportarono soltanto ferite lievi. A questo stadio era ancora una guerra fredda, una guerra per finta, dove non c’era in gioco niente di davvero importante. Il vento scuoteva i rami dell’albero. Le fiamme sprigionavano scintille. La tempesta stava arrivando. La regina di Saba, mezzo demone, si diceva, per parte di padre, la maga, strega e regina che governò su Saba quando Saba era la terra più ricca mai esistita al mondo, con le sue spezie e le gemme e i legni profumati trasportati via nave e a dorso di cammello in ogni angolo della terra, colei che in vita veniva adorata come una divinità, venerata come una dea dai più saggi tra i re, alle due di notte guarda il traffico senza vederlo dal marciapiede di Sunset Boulevard: una sposa di plastica vestita da puttana su una torta nuziale nera e fluorescente. È in piedi, padrona del marciapiede e della notte che l’avvolge. Quando qualcuno la guarda muove le labbra come se parlasse da sola. Quando gli uomini in macchina le passano vicino stabilisce un contatto d’occhi e sorride. È stata una lunga notte. È stata una lunga settimana, e quattromila lunghi anni. È fiera di non dovere niente a nessuno. Le altre ragazze che battono il marciapiede hanno protettori, abitudini, figli, gente che le sfrutta. Lei no. Nel mestiere che fa non c’è niente di sacro. Non più. Una settimana prima a Los Angeles sono cominciate le piogge che hanno trasformato le strade in trappole scivolose e teatri di incidenti, sciogliendo il fango sulle colline e trascinando le case nei canyon, il mondo nelle fogne e nei tombini, facendo annegare i barboni e i senza tetto nel canale. Quando a Los Angeles arrivano le piogge colgono sempre tutti di sorpresa. Bilqis ha passato tutta la settimana in casa. Non potendo stare sul marciapiede si è rannicchiata sul letto nella stanza color fegato crudo ad ascoltare la pioggia battere sulla scatola di metallo del condizionatore e inviando messaggi personali in rete. Ha lasciato i suoi inviti a adultfinder.com, LA-escorts.com, Classyhollywoodbabes.com, con un anonimo indirizzo e-mail. È orgogliosa di saper esplorare nuovi territori, ma allo stesso tempo inquieta: ha sempre evitato di lasciare qualsiasi cosa possa assomigliare a un indizio. Non si è mai fatta pubblicità sulle ultime pagine del "L.A. Weekly", preferendo invece scegliersi i clienti da sola dopo aver visto, annusato e toccato quelli capaci di adorarla come serve a lei, quelli che si lasceranno portare fino in fondo… E adesso, mentre rabbrividisce all’angolo della strada (poiché le piogge di fine febbraio sono finite, ma il freddo che hanno portato perdura) le viene in mente che in fondo anche lei ha un vizio, come le puttane che si fanno di eroina o di crack, e la cosa la rattrista e ricomincia a muovere le labbra. Se si fosse abbastanza vicini alla sua bocca dipinta di rosso rubino si sentirebbero queste parole: «Ora mi leverò e andrò attorno per la città, per le strade e le piazze; cercherò colui che l’anima mia ama». E questo che mormora, e aggiunge: «Sul mio letto, durante la notte, ho cercato colui che l’anima mia ama. Mi baci egli dei baci della sua bocca. Il mio amico è mio e io son sua». Bilqis spera che la fine delle piogge riporti i clienti. In genere batte lungo due o tre isolati del Sunset Boulevard e si gode l’aria fresca delle notti losangeline. Una volta al mese dà una bustarella all’agente di polizia che ha preso il posto di quello a cui la dava prima, sparito nel nulla. Si chiamava Jerry LeBec e la sua scomparsa rappresenta ancora un mistero per la polizia. Lei era diventata la sua ossessione, la seguiva ovunque. Un pomeriggio Bilqis era stata svegliata da un rumore e aprendo la porta di casa aveva trovato Jerry LeBec in borghese, che si dondolava in ginocchio sul vecchio zerbino, la testa china, aspettando di vederla uscire. Il rumore che l’aveva svegliata era provocato della testa del poliziotto che batteva contro la porta mentre dondolava avanti e indietro. Gli aveva accarezzato i capelli invitandolo a entrare, e più tardi aveva infilato i suoi vestiti in un sacco nero dell’immondizia che aveva gettato in un bidone dietro un albergo a parecchi isolati di distanza. Pistola e portafogli li aveva messi in un sacchetto del supermercato, ci aveva rovesciato fondi di caffè e avanzi di cibo, l’aveva chiuso e buttato in un cestino vicino alla fermata dell’autobus. Non conservava souvenir. Le luci arancioni della notte a occidente brillano e pulsano come lampi lontani, chissà dove sull’acqua, e Bilqis sa che tra poco ricomincerà a piovere. Sospira. Non vuole farsi sorprendere dalla pioggia. Tornerà a casa, decide, si farà un bagno e si depilerà le gambe — ha l’impressione di passare molto tempo a depilarsi le gambe con il rasoio — e dormirà. Si avvia verso la sommità della collina dove ha parcheggiato la macchina. Due fari si avvicinano, rallentano, lei gira la testa e sorride. Il sorriso si raggela quando vede che si tratta di una limousine bianca, di quelle lunghe. Gli uomini con le lunghe limousine bianche vogliono fottere sulle loro limousine bianche, non nell’intimità del tempio di Bilqis. Però potrebbe essere un investimento per il futuro. Un finestrino dal vetro scuro viene abbassato e Bilqis si avvicina, sorridente. «Ciao, dolcezza» dice. «Hai bisogno di qualcosa?» «Di tanto amore» risponde una voce dal fondo della macchina. Lei cerca di guardare dentro: una ragazza di sua conoscenza una notte è salita su una limousine di quel tipo con cinque giocatori di football ubriachi che l’hanno ridotta male, ma qui c’è un solo cliente e da quello che riesce a vedere dal finestrino sembra molto giovane. Non ha l’aria del probabile adoratore, però i soldi che passeranno dalle mani di lui alle sue sono pur sempre energia, a modo loro — «Quanto?» chiede lui. «Dipende da quello che vuoi e per quanto tempo. E se te lo puoi permettere.» Dal finestrino esce un odore di fili elettrici bruciati e circuiti surriscaldati. La portiera si apre. «Posso permettermi tutto quello che voglio» dice il cliente. Lei si affaccia nell’abitacolo e da un’occhiata intorno. C’è soltanto lui, un ragazzino con le guance paffute che non sembra avere nemmeno l’età per comprarsi da bere. Siccome è solo, entra. «Ricco, eh?» dice. «Ricchissimo» risponde lui scivolando sul sedile di pelle per avvicinarsi. Si muove in modo strano. Lei sorride. «Mmm. Questo mi eccita, tesoro» gli dice. «Devi essere uno di quei ricconi della new economy.» Lui gongola, fa la ruota come un pavone. «Sì. Tra le altre cose. Sono un ragazzo tecnologico.» L’automobile riparte. «Allora, Bilqis, quanto vuoi per un pompino?» «Come mi hai chiamata?» «Bilqis» ripete lui. E poi, con una voce del tutto inadeguata, si mette a cantare «You are an immaterial girl living in a material world.» Sembra preparato, come se si fosse esercitato davanti allo specchio. Lei smette di sorridere, la sua faccia diventa quella di una donna saggia, più dura. «Cosa vuoi?» «Te l’ho detto. Tanto amore.» «Ti darò quello che vuoi» dice lei. Bilqis deve assolutamente uscire da quella limousine. Sta correndo troppo veloce perché possa buttarsi giù, ma è pronta a farlo se non la faranno scendere con le buone. Qualsiasi cosa stia succedendo lì dentro, non le piace. «Quello che voglio. Sì.» Il ragazzo si interrompe per passarsi la lingua sulle labbra. «Voglio un mondo pulito. Voglio essere padrone del domani. Voglio l’evoluzione, la devoluzione, la rivoluzione. Voglio che la mia gente passi dalle zone periferiche alle luci della ribalta. Voi vivete nelle tenebre dei bassifondi. È sbagliato. Noi abbiamo bisogno di stare sotto le luci e brillare. Da ogni angolazione. Voi vivete nelle tenebre da tanto di quel tempo che non sapete più usare gli occhi.» «Mi chiamo Ayesha» dice lei. «Non so di che cosa parli. Su quell’angolo c’è un’altra, Bilqis. Possiamo tornare sul Sunset, se vuoi ci puoi avere insieme…» «Oh, Bilqis» dice lui con un sospiro teatrale. «La fede è limitata. Stanno arrivando al limite delle loro possibilità. Al buco di credibilità.» E poi ricomincia a cantare con la sua voce stonata e nasale. «You are an analog girl, living in a digital world». La limousine prende una curva troppo veloce e il ragazzo le cade addosso. L’autista è nascosto dietro un paio di occhiali scuri. Lei viene assalita dall’irrazionale certezza che non ci sia nessuno, al volante, che la limousine bianca stia attraversando Beverly Hills come Poi il cliente allunga una mano e batte sul finestrino scuro. L’auto rallenta e prima che sia ferma del tutto Bilqis spalanca la portiera e un po’ saltando un po’ cadendo finisce sull’asfalto. È una strada in salita. Alla sua sinistra un ripido pendio, a destra un precipizio. Comincia a correre in discesa. La limousine rimane ferma. Comincia a piovere, i tacchi alti la fanno scivolare e prende una storta. Si libera delle scarpe e corre, fradicia di pioggia, cercando il modo di togliersi da lì. Ha paura. È dotata di poteri, è vero, ma si tratta di magia legata al desiderio e al sesso. L’hanno tenuta in vita in quella terra per tanto tempo, ma quanto al resto ha sempre dovuto usare occhi, cervello e presenza. A destra, all’altezza delle ginocchia, c’è un guardrail di metallo per impedire alle macchine di cadere dal precipizio, adesso la pioggia sta trasformando la strada nel letto di un fiume, e a lei sanguinano le piante dei piedi. Le luci di Los Angeles si estendono come la mappa intermittente di un regno immaginario, il paradiso in terra, e Bilqis sa che per mettersi in salvo deve lasciare la strada. «Io son nera ma son bella» sussurra alla notte e alla pioggia. «Sono la rosa di Saron, il giglio delle valli. Fortificatemi con l’uva, sostentatemi con i pomi, perché io son malata d’amore.» Un fulmine brucia verde nel cielo. Lei perde la presa e scivola per qualche metro escoriandosi una gamba e un gomito; si sta rialzando quando vede i fanali della limousine che si avvicinano. Scende pericolosamente troppo veloce; lei si chiede se sia meglio buttarsi a destra, dove potrebbe finire schiacciata contro il fianco della collina, o a sinistra, dove rischia di finire nel burrone. Attraversa di corsa determinata ad arrampicarsi quando la limousine bianca arriva sbandando, diavolo, deve fare almeno i centoventi all’ora, sembra un acquaplano, e lei affonda le mani nella terra, tra i cespugli, intenzionata a rialzarsi e scappare, quando la terra bagnata cede sotto il suo peso facendola ricadere sulla strada. L’impatto con il corpo sfonda la griglia del radiatore e la lancia per aria come un burattino. Atterra accanto alla limousine e nella caduta si frattura pelvi e cranio. Sulla sua faccia scende la pioggia fredda. Comincia a maledire il suo assassino: lo maledice in silenzio perché non può più muovere le labbra. Lo maledice per la veglia e il sonno, in vita e in morte. Lo maledice come soltanto una donna che è mezzo demone da parte di padre può maledire. Si sente sbattere una portiera. Qualcuno si avvicina a Bilqis. «You are an analog girl» canta ancora stonato «living in a digital world.» E poi aggiunge: «Madonne di merda. Tutte madonne di merda». Si allontana. La portiera sbatte di nuovo. La limousine ingrana la retromarcia e le passa sopra, lentamente, una volta. Le ossa si frantumano sotto gli pneumatici. Poi la limousine ci ripassa sopra di nuovo. Quando infine si allontana giù per la collina lascia dietro di sé soltanto il rosso ammasso di carne di una creatura difficilmente identificabile come umana, e presto anche quella macchia sarà lavata dalla pioggia. Interludio numero due «Ciao, Samantha.» «Mags, sei tu?» «E chi, sennò? Leon mi ha detto che zia Sammy ha telefonato mentre ero sotto la doccia.» «Abbiamo fatto una bella chiacchierata. È un bambino così dolce.» «Sì, piace anche a me.» Seguì un momento di disagio per entrambe, un fruscio nella linea. Poi: «Sammy, come va l’università?». «Abbiamo una settimana di vacanza per qualche problema alla caldaia. E come si sta nei North Woods?» «Bene, ho un nuovo vicino. Fa giochi di prestigio con le monete. Attualmente nella rubrica della posta del "Lakeside News" c’è in corso un violento dibattito sulla ricollocazione del terreno vicino al cimitero, sulla sponda sudorientale del lago, e la qui presente ha scritto un energico editoriale in cui riassume la posizione del giornale senza offendere nessuno e in effetti senza far capire a nessuno da che parte stiamo.» «Sembra divertente.» «Non lo è. Alison MacGovern è scomparsa la settimana scorsa… la figlia maggiore di Jilly e Stan McGovern. Una brava ragazzina. Qualche volta veniva a fare la baby-sitter per Leon.» La bocca si aprì per dire qualcosa ma si richiuse, lasciandolo in sospeso e aggiungendo invece: «È orribile». «Sì.» «Allora…» e siccome qualsiasi altro commento ferirebbe la sorella, dice: «È carino?». «Chi?» «Il vicino.» «Si chiama Ainsel. Mike Ainsel. Non è male. Troppo giovane per me. Un uomo grande e grosso, sembra come si dice… comincia con la lettera M?» «Malvagio? Musone? Magnifico? Marito?» Una risata e poi: «Sì, ha un’aria sposata, credo. Voglio dire che se gli uomini sposati hanno un’aria particolare allora lui ce l’ha. Ma stavo pensando a Malinconico. Ha un’aria malinconica». «E Misterioso?» «Non particolarmente. Quando è arrivato sembrava un po’ imbranato, non sapeva neanche sigillare le finestre. Adesso sembra uno che non sa che cosa debba fare in questo posto. C’è per un po’, poi sparisce per lavoro. Ogni tanto lo vedo camminare nella zona.» «Forse è un rapinatore di banche.» «Già. Proprio quello che pensavo.» «Non è vero. È stata un’idea mia. Senti, Mags, tu come stai? Te la cavi?» «Sì.» «Davvero?» «No.» Una lunga pausa, poi: «Vengo a trovarti». «Sammy, non è necessario.» «Prima che rimettano in funzione la caldaia e riapra l’università. Ci divertiremo. Puoi prepararmi il letto sul divano e invitare a cena il misterioso vicino.» «Sam, vuoi combinare matrimoni?» «Cosa dici? Dopo Claudine-la-puttana-venuta-dall’inferno forse sono di nuovo pronta per un uomo. Mentre facevo l’autostop fino a El Paso, a Natale, ho incontrato un ragazzo strano.» «Oh. Senti, Sam, la devi smettere di fare l’autostop.» «Secondo te come arrivo a Lakeside?» «Alison McGovern faceva l’autostop. Non è sicuro nemmeno in una cittadina come questa. Prendi il Greyhound.» «Me la cavo.» «Sammy.» «Va bene. Spediscimi i soldi, se la cosa ti farà dormire più tranquilla.» «Certo che sì.» «Va bene, sorellona prepotente. Abbraccia Leon da parte mia e digli che la zia viene a trovarlo ma questa volta non deve nasconderle i giocattoli nel letto.» «Glielo dirò. Comunque non prometto che servirà a qualcosa. Quando pensi di arrivare?» «Domani sera. Non venire a prendermi alla stazione, chiederò a Hinzelmann di darmi un passaggio con la sua Tessie.» «Troppo tardi. Tessie è in naftalina per l’inverno. Comunque Hinzelmann ti accompagnerà lo stesso. Gli sei simpatica. Ascolti sempre le sue storie.» «Magari potresti far scrivere a lui l’editoriale Vediamo "sulla riconversione dei terreni vicini al cimitero". Accadde che nell’inverno tal dei tali un giorno mio nonno sparò a un cervo vicino al cimitero. Finiti i proiettili usò i noccioli delle ciliege che gli aveva dato la nonna. I noccioli entrarono nel cranio del cervo senza ucciderlo. Due anni dopo, mentre si trovava da quelle parti, vide questo enorme maschio con un grande ciliegio ben ramificato tra le corna. Be’, gli sparò, e la nonna preparò tante di quelle torte di ciliege che ancora le mangiavano il quattro luglio dell’anno dopo…"» E a quel punto le due sorelle risero insieme. Interludio numero tre «Sul cartello c’è scritto che avete bisogno di personale.» «Ne abbiamo sempre bisogno.» «Posso fare solo i turni di notte. Va bene, per lei?» «Benone. Vado a prenderle il modulo da compilare. Ha mai lavorato a una pompa di benzina?» «No, però non dovrebbe essere difficile.» «Be’, di sicuro non è ingegneria spaziale. Sa signora, mi scusi se glielo dico ma non mi sembra molto in forma.» «Lo so. E una malattia. Però sembra peggio di quello che è. Niente di pericoloso.» «Okay. Mi lasci il modulo. Al momento per i turni di notte siamo a corto. Qui lo chiamano il turno degli zombie. Se se ne fanno troppi è così che ci si sente. Dunque com’è… Larna?» «Laura.» «Laura. Okay. Bene, spero che non le dispiaccia avere a che fare con i tipi strani. Perché di notte vengono tutti fuori.» «Non ne dubito. Me la caverò.» |
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