"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)

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I confini del nostro paese, signore? Ebbene, signore, a nord confiniamo con l’aurora boreale, a est con il sole nascente, a sud con la processione degli equinozi e a ovest con il Giorno del Giudizio. The American Joe Miller’s Jest Book

Era in prigione da tre anni, Shadow. E siccome era abbastanza grande e grosso e aveva sufficientemente l’aria di uno da cui è meglio stare alla larga, il suo problema era più che altro come ammazzare il tempo. Perciò faceva ginnastica per tenersi in forma, imparava i giochi di prestigio con le monete e pensava un sacco a sua moglie e a quanto la amava.

L’aspetto più positivo del fatto di essere in prigione, secondo lui — forse l’unico aspetto positivo — era una certa sensazione di sollievo. Sollievo all’idea di aver toccato il fondo. Non si doveva più preoccupare di essere preso, perché era già stato preso. Non aveva più paura di ciò che avrebbe potuto riservargli il futuro, perché il passato vi aveva già provveduto.

Non era importante, se si era davvero colpevoli del reato per cui ti avevano messo dentro. Gli uomini che aveva incontrato in quei tre anni non si davano pace: c’era sempre un particolare che le autorità avevano frainteso, pensavano, qualcosa che secondo loro avevi fatto mentre tu non l’avevi fatto per niente, oppure non esattamente nel modo in cui dicevano. La sola cosa importante era che ti avevano beccato.

Se n’era accorto durante i primi giorni, quando tutto gli risultava nuovo, dal gergo al cibo, infimo. Sotto l’infelicità e l’orrore estremo della sua nuova condizione provava un senso di sollievo.

Shadow aveva sempre cercato di parlare il meno possibile. A metà del secondo anno aveva esposto la sua teoria al compagno di cella, Low Key Lyesmith.

Low Key, un truffatore del Minnesota con la bocca sfregiata, gli aveva sorriso. «Sì. È vero. Se sei stato condannato a morte è addirittura meglio, e ti ricordi perfino delle barzellette sui tizi che scalciano via gli stivali quando gli stringono il cappio intorno al collo, perché gli amici dicevano sempre che sarebbero morti con gli stivali addosso.»

«Sarebbe una barzelletta?» aveva chiesto Shadow.

«Cazzo se lo è. Umorismo patibolare. Il migliore sulla piazza.»

«Quand’è che hanno impiccato qualcuno l’ultima volta, in questo stato?»

«E io come faccio a saperlo?» Lyesmith portava i capelli color carota così corti che gli si vedevano le linee del cranio. «Però ti posso dire una cosa. Quando hanno smesso di impiccare la gente questo paese ha cominciato ad andare a rotoli. Niente pendagli da forca. Niente buon esempio.»

Shadow si era limitato a scrollare le spalle. Lui non ci vedeva niente di romantico, in un’esecuzione capitale.

Se non vieni condannato a morte, aveva deciso, e se tutto va bene, la galera non è altro che uno stato di momentanea sospensione, e questo per due ragioni. Primo, la vita riesce a filtrare dentro la prigione. Non c’è limite al peggio. La vita continua. Secondo, se tieni duro a un certo punto ti dovranno rilasciare.

I primi tempi il momento del rilascio era troppo lontano perché Shadow potesse immaginarlo. Poi era diventato una speranza remota e aveva imparato a dire a se stesso "passerà anche questo" quando la galera, come succede sempre, diventava insopportabile. Un giorno il magico portone si sarebbe aperto e lui ne avrebbe varcato la soglia. Perciò segnava i giorni sul calendario con gli uccelli del Nordamerica, l’unico in vendita nello spaccio, e il sole tramontava e sorgeva senza che lui lo vedesse. Si esercitava con i giochi di prestigio illustrati in un manuale scovato in quella terra desolata che era la biblioteca del penitenziario, faceva ginnastica e mentalmente stilava la lista delle cose che avrebbe fatto appena fuori.

Con il passare del tempo la lista era diventata sempre più corta. Dopo due anni era ridotta a tre punti.

Primo, un bagno. Un bel bagno come si deve in una vasca piena di schiuma. Immerso nell’acqua forse avrebbe letto il giornale. Forse, però. A volte pensava di sì, a volte di no.

Secondo, si sarebbe asciugato, e poi avrebbe infilato l’accappatoio. Forse anche un paio di pantofole. L’idea delle pantofole gli piaceva. Se fosse stato un fumatore a quel punto avrebbe acceso la pipa, ma non fumava. Presa in braccio la moglie ("Cucciolo" avrebbe strillato lei fingendo di essere terrorizzata e provando un autentico piacere, "che cosa fai?"), l’avrebbe portata in camera da letto chiudendo la porta. In caso di fame avrebbero ordinato una pizza a domicilio.

Terzo, usciti dalla camera da letto, un paio di giorni dopo, magari, lui si sarebbe comportato bene, tenendosi lontano dai guai per il resto dei suoi giorni.

«E saresti felice, così?» gli aveva chiesto Low Key Lyesmith. Erano nell’officina a montare i beccatoi per gli uccelli, attività appena più interessante della punzonatura delle targhe automobilistiche.

«Nessun uomo può dirsi felice» aveva risposto Shadow «fino a quando non è morto.»

«Erodoto. Vedo che stai imparando.»

«Chi cazzo è Erodoto?» aveva chiesto l’Iceman unendo le pareti del beccatoio per passarlo a Shadow che le imbullonava e le avvitava con forza.

«Un greco morto.»

«La mia ultima fidanzata era greca» aveva detto l’Iceman. «Non puoi neanche immaginartela, la merda che si mangiava a casa sua. Tipo riso avvolto nelle foglie. Porcate così.»

L’Iceman aveva le dimensioni e la forma di un distributore di Coca-Cola, gli occhi azzurri e i capelli così biondi da sembrare bianchi. Aveva pestato a sangue un tizio colpevole di aver dato una palpatina alla sua ragazza nel locale dove lei ballava e lui faceva il buttafuori. Gli amici del tizio avevano chiamato la polizia che dopo aver arrestato l’Iceman aveva scoperto che diciotto mesi prima lui non era rientrato in carcere da un permesso di lavoro.

«Che cosa dovevo fare?» aveva chiesto addolorato raccontando a Shadow la sua triste storia. «Gliel’avevo detto che era la mia ragazza. Dovevo lasciare che mi mancasse di rispetto? Eh? Dovevo lasciarglielo fare? Cioè, cazzo, le stava mettendo le mani dappertutto.»

«Vai a spiegarglielo» aveva risposto Shadow, senza aggiungere altro. Aveva capito subito che in prigione ognuno sconta la sua pena e cerca di farsi gli affari suoi.

Non ti mettere nei guai. Sconta la tua pena e tieni duro.

Qualche mese prima Lyesmith gli aveva prestato una logora edizione economica delle Storie di Erodoto. «Non è noioso. È forte» gli aveva detto quando Shadow aveva dichiarato che non leggeva libri. «Leggitelo, e poi mi dici com’è.»

Shadow aveva cominciato a leggerlo anche se controvoglia e, suo malgrado, se n’era appassionato.

«Greci» aveva concluso l’Iceman con disgusto. «E quello che dicono su di loro non è neanche vero. Quando ho provato a metterglielo nel culo la mia ragazza mi ha quasi cavato gli occhi.»

Un giorno, senza preavviso, Lyesmith era stato trasferito. Aveva lasciato a Shadow il libro di Erodoto. Nascosta tra le pagine c’era una moneta da cinque centesimi. Le monete erano vietate, in prigione; potevi affilarne i bordi e aprire la faccia a qualcuno, in una rissa. Shadow non voleva un’arma, voleva solo qualcosa per tenere le mani occupate.

Non era superstizioso. Credeva solo in quello che vedeva, però da qualche settimana sentiva la catastrofe aleggiare sopra la prigione con la stessa precisione con cui l’aveva sentita nei giorni precedenti la rapina. Nello stomaco un senso di vuoto che doveva essere la paura di tornare nel mondo, si ripeteva, ma non ne era sicuro. Era più paranoico della sua media, e in galera la media è molto alta perché è l’arte della sopravvivenza. Era diventato più quieto, più ombroso che mai. Si scoprì a studiare il linguaggio del corpo dei secondini e degli altri detenuti in cerca di un indizio della catastrofe che stava per abbattersi, perché non aveva dubbi, stava per abbattersi.

Mancava un mese alla sua scarcerazione. Era seduto in un ufficio freddo davanti a un uomo di bassa statura con una voglia di vino sulla fronte. L’uomo dall’altra parte della scrivania aveva la pratica aperta sotto il naso e teneva in mano una penna a sfera. L’estremità della penna era stata orribilmente rosicchiata.

«Hai freddo, Shadow?»

«Sì. Un po’.»

L’uomo scrollò le spalle. «È il regolamento. Il riscaldamento non si accende fino al primo di dicembre. Si spegne il primo di marzo. Non lo faccio io, il regolamento.» Sfiorò con l’indice il foglio fissato con le graffette nel raccoglitore. «Hai trentadue anni?»

«Sissignore.»

«Sembri più giovane.»

«Faccio una vita sana.»

«Qui dice che sei un detenuto modello.»

«Ho imparato la lezione, signore.»

«Davvero?» L’uomo scrutò Shadow con attenzione e la voglia sulla fronte si abbassò. Shadow pensò di esporre alcune delle sue teorie sul carcere ma si trattenne. Annuì, invece, e si concentrò per mostrarsi adeguatamente contrito.

«Qui dice che hai moglie.»

«Si chiama Laura.»

«Come vanno le cose?»

«Bene. È venuta a trovarmi tutte le volte che ha potuto… il viaggio è lungo. Ci scriviamo e quando posso le telefono.»

«Che mestiere fa?»

«Lavora in un’agenzia di viaggi. Manda la gente in giro per il mondo.»

«Come vi siete conosciuti?»

Shadow non riusciva a capire dove l’altro volesse arrivare. Prese in considerazione l’ipotesi di rispondergli che non erano affari suoi, come aveva conosciuto Laura, invece disse: «Era la migliore amica della moglie del mio migliore amico. Hanno combinato un appuntamento e ci siamo piaciuti».

«E hai un lavoro che ti aspetta?»

«Sissignore. Il mio amico, Robbie, quello che mi ha presentato Laura, è proprietario della Muscle Farm, la palestra dove lavoravo come istruttore. Dice di avermi tenuto il posto.»

L’altro inarcò un sopracciglio. «Sul serio?»

«Dice che secondo lui funzionerà alla grande come richiamo per i vecchi frequentatori e in più attirerà i duri che vogliono diventare ancora più duri.»

L’uomo sembrò soddisfatto. Rosicchiò l’estremità della penna e voltò il foglio.

«Cosa provi riguardo al tuo reato?»

Shadow scrollò le spalle. «Sono stato uno stupido» disse, e lo pensava davvero.

L’uomo con la voglia sulla fronte sospirò e spuntò una voce dal suo elenco. Poi sfogliò la documentazione di Shadow. «Come torni a casa?» chiese. «Prendi il Greyhound?»

«In aereo. Avere una moglie che fa l’agente di viaggio è utile.»

L’uomo aggrottò di nuovo la fronte increspando la voglia. «Ti ha spedito il biglietto?»

«Non ce n’è bisogno. Basta il numero della prenotazione. Il biglietto è elettronico. Devo solo presentarmi all’aeroporto con un documento, tra un mese, e sono a casa.»

L’uomo annuì, scarabocchiò un appunto, poi chiuse l’incartamento e appoggiò la penna. Due mani pallide andarono a posarsi come rosei animaletti sul ripiano grigio della scrivania. Le congiunse, unì gli indici e fissò Shadow con i suoi acquosi occhi color nocciola.

«Sei fortunato» disse. «Hai una donna da cui tornare e un lavoro che ti aspetta. Puoi gettarti quest’esperienza alle spalle. Ti è stata data una seconda possibilità. Cerca di trarne profitto.»

Non tese la mano a Shadow, alzandosi, ma del resto Shadow non si era aspettato che lo facesse.

L’ultima settimana era la peggiore. In un certo senso perfino peggio di tutti e tre gli anni messi insieme. Shadow si chiedeva se fosse colpa del clima opprimente, immoto e freddo. Sentiva avvicinarsi un temporale che non scoppiava mai. Aveva i nervi a pezzi e una gran fifa e nella pancia la sensazione che qualcosa stesse andando molto male. Il cortile dove i detenuti facevano ginnastica era battuto da raffiche di vento. A Shadow sembrava di sentire aria di neve.

Telefonò alla moglie a carico del destinatario perché le società dei telefoni prevedono una tassa di tre dollari per ogni chiamata fatta dai penitenziari. È per questo che gli operatori sono sempre così gentili con i detenuti, secondo lui: sanno bene che sono loro a pagargli lo stipendio.

«C’è qualcosa che non va» disse a Laura. Ma prima le aveva detto qualcos’altro. Le aveva detto «Ti amo», perché è una cosa bella da dire, quando è sincera, e per Shadow lo era.

«Ciao» rispose lei. «Ti amo anch’io. Cosa c’è che non va?»

«Non so. Magari è per via del tempo. Se scoppiasse il temporale forse andrebbe tutto meglio.»

«Qui è bello. Non sono ancora cadute le foglie. Se non arriva il temporale farai in tempo a vederle, quando torni.»

«Tra cinque giorni» disse Shadow.

«Centoventi ore e sarai a casa.»

«È tutto a posto, lì? C’è qualche problema?»

«No, va tutto bene. Stasera vedo Robbie. Stiamo organizzando la festa di bentornato, vogliamo farti una sorpresa.»

«Una sorpresa?»

«Certo. Tu non ne sai niente, hai capito?»

«Niente di niente.»

«Bravo marito» disse lei e Shadow si accorse di sorridere. Era dentro da tre anni ma Laura riusciva ancora a strappargli un sorriso.

«Ti amo, piccola.»

«Ti amo, cucciolo.»

Shadow riagganciò.

Quando si erano sposati lei gli aveva detto che desiderava un cucciolo, ma il padrone di casa aveva messo subito in chiaro che il regolamento condominiale vietava esplicitamente agli inquilini di tenere animali. «Ehi» le aveva detto Shadow, «sarò io il tuo cucciolo. Che cosa vuoi che faccia? Che ti morda le pantofole? O che pisci sul pavimento della cucina? Che ti lecchi il naso o ti annusi in mezzo alle gambe? Scommetto che non c’è niente di quello che può fare un cucciolo che non sono capace di fare anch’io!» E sollevandola come se fosse una piuma aveva cominciato a leccarle il naso mentre lei ridacchiava tra gli strilli e l’aveva portata a letto.

Nella sala mensa Sam Fetisher si avvicinò furtivo e sorrise, mettendo in mostra i suoi denti da vecchio. Sedette accanto a Shadow e cominciò a mangiare i maccheroni al formaggio.

«Dobbiamo parlare» disse.

Sam Fetisher era uno degli uomini più neri che Shadow avesse mai visto. Poteva avere sessanta come ottant’anni. E comunque Shadow aveva conosciuto fumatori di crack di trent’anni che sembravano più vecchi di lui.

«Cosa c’è?»

«C’è una tempesta in arrivo» rispose Sam.

«Sembrerebbe. Può darsi che nevichi.»

«Non una tempesta di neve. Più brutta. Ti avverto, ragazzo, quando scoppierà sarai più al sicuro qui dentro che in mezzo a una strada.»

«Ho scontato la mia pena» disse Shadow. «Venerdì esco.»

Sam Fetisher lo fissò. «Di dove sei?» chiese.

«Eagle Point. Nell’Indiana.»

«Sei un bugiardo di merda. Voglio dire di che origini sei. I tuoi da dove vengono?»

«Da Chicago» rispose Shadow. Sua madre aveva vissuto a Chicago, da ragazza, e lì era morta, una mezza eternità prima.

«Io ti ho avvertito. Ne sta arrivando una di quelle brutte. Sta’ alla larga dai guai, ragazzo-ombra. È come… come si chiamano quelle cose su cui vanno in giro i continenti? Placche qualcosa?»

«Placche tettoniche?» buttò lì Shadow.

«Quelle. Placche tettoniche. È come quando si spostano, quando l’America settentrionale va a sbattere contro quella meridionale, non è che ti ci vorresti trovare in mezzo. Afferri il concetto?»

«Nemmeno un po’.»

L’altro strizzò lentamente un occhio scuro. «Cazzo, dopo non venirmi a dire che non ti avevo avvertito» disse infilandosi in bocca una cucchiaiata di tremolante gelatina arancione.

«Non lo farò.»

Shadow trascorse la notte semisveglio, l’orecchio teso ai grugniti e al russare del nuovo compagno di cella che dormiva nella branda sotto la sua. A qualche cella di distanza un detenuto gemeva e ululava singhiozzando come una bestia ferita e di tanto in tanto qualcuno gli gridava di darci un taglio. Shadow si sforzò di non sentirli più, si lasciò sommergere dai minuti vuoti che passavano lentamente.

Ancora due giorni. Quarantotto ore, cominciando con la colazione a base di fiocchi d’avena e caffè della prigione e un secondino di nome Wilson che gli batte un colpo sulla spalla più forte del necessario: «Shadow? Vieni con me».

Shadow si fece un esame di coscienza. Era a posto, il che, aveva avuto occasione di osservare, in una prigione non vuol dire che non si è nei guai fino al collo. Camminavano fianco a fianco, detenuto e secondino, i passi che risuonavano sul pavimento di metallo e cemento.

Shadow sentiva in gola il sapore della paura, amaro come caffè freddo e stantio. La cosa tremenda stava per succedere…

Una voce in un angolo del cervello gli sussurrava che volevano affibbiargli un altro anno, o schiaffarlo in isolamento, oppure tagliargli le mani, o la testa. Si diede dello stupido, però il suo cuore continuava a battere come se dovesse esplodere.

«Io non ti capisco, Shadow» disse Wilson senza fermarsi.

«Che cosa non capisce, signore?»

«Non capisco te. Sei troppo quieto, cazzo. Troppo educato. Ti comporti come i vecchi, invece hai… Quanti anni hai? Venticinque, ventotto?»

«Trentadue, signore.»

«E cosa saresti? Un ispanico? Uno zingaro?»

«Non che io sappia, signore. È possibile.»

«Magari hai un po’ di sangue negro. Sei di sangue negro, Shadow?»

«Non è escluso, signore.» Shadow si teneva dritto e guardava davanti a sé, concentrato a non farsi saltare i nervi dal secondino.

«Ah sì, eh? Be’, quello che so è che mi fai senso.» Wilson aveva i capelli di un biondo rossiccio, la carnagione rossiccia e il sorriso rossiccio. «Tra poco sarai fuori di qui.»

«Spero di sì, signore.»

Superarono un paio di posti di controllo dove Wilson mostrò il tesserino di identificazione. Percorsa una rampa di scale si trovarono davanti alla porta dell’ufficio del direttore. C’era scritto il suo nome — G. Patterson — in caratteri neri, e accanto al battente c’era un semaforo in miniatura.

La luce era rossa.

Wilson premette un pulsante sotto il semaforo.

Rimasero ad aspettare in silenzio per un paio di minuti. Shadow continuava a ripetersi che era tutto a posto, che venerdì mattina avrebbe preso l’aereo per Eagle Point, ma non riusciva a crederci.

La luce rossa si spense e si accese il verde. Wilson aprì la porta. Entrarono.

In quei tre anni Shadow aveva avuto poche occasioni di vedere il direttore. La prima volta Patterson stava facendo visitare il penitenziario a un uomo politico. In un’altra occasione, durante una consegna generale, aveva fatto un discorso ai detenuti a gruppi di cento: la prigione era sovraffollata, aveva detto, e siccome sarebbe rimasta sovraffollata, avrebbero fatto meglio a farci l’abitudine.

Visto da vicino, Patterson era ancora più brutto. Aveva una faccia troppo lunga, e portava i capelli grigi tagliati a spazzola. Puzzava di Old Spice. Alle sue spalle c’era uno scaffale pieno di libri, tutti con la parola "carcere" nel titolo sulla costa; la scrivania era immacolata e vuota, fatta eccezione per un telefono e un calendario con le vignette di "Far Side", di quelli a cui si strappa la pagina giorno per giorno. All’orecchio sinistro portava un apparecchio acustico.

«Siediti, prego.»

Shadow sedette. Wilson rimase in piedi dietro di lui.

Il direttore aprì un cassetto e ne estrasse una pratica che appoggiò sulla scrivania.

«Qui c’è scritto che sei stato condannato a sei anni per aggressione e lesioni personali con le aggravanti. Ne hai scontati tre. Venerdì dovresti essere rilasciato.»

Dovrei? Lo stomaco di Shadow si contrasse. Quanti anni gli avrebbero fatto fare ancora… uno? Due? Tutti e tre? Si limitò a dire: «Sì, signore».

Il direttore si passò la lingua sulle labbra. «Cos’hai detto?»

«Ho detto "Sissignore."»

«Shadow, ti rilasciamo questo pomeriggio. Un paio di giorni prima della data prevista.» Shadow annuì, aspettando il colpo basso. Il direttore guardò il foglio aperto sulla scrivania. «Questo è arrivato dal Johnson Memorial Hospital di Eagle Point… Tua moglie. È morta questa mattina all’alba. Un incidente automobilistico. Mi dispiace.»

Shadow annuì.

Wilson lo riaccompagnò in cella senza parlare. Aprì la porta e lo fece entrare. Poi disse: «È come lo scherzo della notizia buona e di quella cattiva, no? La buona notizia è che ti facciamo uscire prima, quella cattiva è che tua moglie è morta». Rise, come se lo trovasse davvero divertente.

Shadow non aprì bocca.


Raccolse le sue cose come inebetito, regalò quasi tutto. Lasciò l’Erodoto di Low Key e il manuale dei giochi di prestigio e, con uno spasimo momentaneo, abbandonò anche i dischetti di metallo che aveva trafugato dal laboratorio. Non gli sarebbero serviti più, perché c’erano le monete vere, fuori. Si fece la barba. Indossò vestiti civili. Attraversò una fila interminabile di porte, consapevole del fatto che non avrebbe mai più varcato quelle soglie, sentendosi vuoto, dentro.

La pioggia scendeva a raffiche violente dal cielo grigio, una pioggia gelata che lo pungeva in faccia, e il soprabito leggero era già inzuppato mentre si avvicinavano all’ex pulmino scolastico che li avrebbe portati nella città più vicina.

Quando arrivarono al pulmino erano bagnati fradici. Erano in otto a lasciare il carcere. Dentro ne rimanevano mille e cinquecento. Shadow prese posto e rabbrividì fino a quando non cominciò a funzionare il riscaldamento, chiedendosi che cosa avrebbe fatto, adesso, e dove sarebbe andato.

Figure spettrali gli affollavano la mente, non invitate. Con l’immaginazione stava lasciando una prigione diversa in un altro tempo, un tempo molto lontano.

Era rimasto chiuso in una stanza buia troppo a lungo: la barba era incolta e i capelli un groviglio. I secondini lo avevano accompagnato giù per una scala di pietra grigia e su una piazza piena dei colori accesi di cose e persone. Era giorno di mercato e il rumore e le luci lo frastornavano mentre socchiudeva gli occhi per difendersi dal sole che inondava la piazza; annusava l’aria umida e salmastra e tutti i buoni odori del mercato, e alla sua sinistra il sole scintillava riflesso nell’acqua…

Il pulmino si fermò con un sobbalzo a un semaforo rosso.

Il vento ululava e i tergicristalli si trascinavano pesanti di pioggia, trasformando la città in un’imbrattatura umida, rossa e gialla. Benché fosse primo pomeriggio di là del finestrino sembrava già notte.

«Merda» disse il suo vicino cercando di togliere con la mano la condensa dal vetro per guardare una passante tutta bagnata che correva sul marciapiede. «C’è la figa, là fuori.»

Shadow deglutì. Gli venne in mente che non aveva ancora pianto, che in effetti non aveva provato niente. Niente lacrime. Nessun dolore. Zero.

Si ritrovò a pensare a un certo Johnnie Larch che era stato in cella con lui durante i primi tempi e che gli aveva raccontato di essere uscito, una volta, dopo cinque anni dietro le sbarre, con in tasca cento dollari e un biglietto aereo per Seattle, dove viveva la sorella.

Arrivato all’aeroporto aveva mostrato il biglietto all’impiegata e lei gli aveva chiesto la patente.

Gliel’aveva data. Era una patente scaduta da un paio d’anni. L’impiegata aveva detto che non era valida come documento di identità. Lui le aveva risposto che forse non era valida come patente di guida ma certamente bastava per identificarlo, e comunque chi cazzo credeva che fosse, se non era lui?

Lei gli aveva detto di non alzare la voce.

Lui le aveva ordinato di dargli la carta d’imbarco perché altrimenti se ne sarebbe pentita. Non aveva nessuna intenzione di farsi mancare di rispetto in quel modo. In galera non ti lasci mancare di rispetto.

Allora lei aveva premuto un pulsante e nel giro di pochi secondi gli agenti di sicurezza dell’aeroporto erano intervenuti e l’avevano convinto ad andarsene senza fare storie, e siccome lui non se ne voleva andare era seguito un alterco.

Risultato, a Seattle Johnnie Larch non c’era mai arrivato. Aveva passato due giorni nei bar della città, e una volta finiti i cento dollari aveva rapinato un distributore di benzina con una pistola giocattolo per pagarsi da bere, finché la polizia lo aveva beccato mentre pisciava per strada. Nel giro di poco tempo era tornato dentro a scontare il resto della pena nonché un extra per il lavoretto al distributore.

La morale della storia, secondo Johnnie Larch, era questa: mai far incazzare quelli che lavorano all’aeroporto.

«Sei sicuro che il concetto non sia più tipo: "Il genere di comportamento che funziona in particolari ambienti, come quello carcerario, può non funzionare o rivelarsi addirittura dannoso all’esterno di quell’ambiente?"» aveva domandato Shadow, finito di ascoltarlo.

«No, da’ retta a me, amico: non far incazzare quelle troie dell’aeroporto.»

Shadow quasi sorrise, immaginando la scena. La sua patente era valida ancora per qualche mese.

«Stazione degli autobus! Tutti fuori!»

L’edificio puzzava di piscio e birra rancida. Shadow salì su un taxi e chiese al conducente di portarlo all’aeroporto. Gli disse anche che gli avrebbe dato una mancia di cinque dollari se avesse guidato senza parlare. Arrivarono in venti minuti senza scambiare nemmeno una parola.

Poi attraversò incespicando il terminal troppo illuminato. Il fatto di avere una prenotazione elettronica lo preoccupava. Il suo biglietto era fissato per venerdì, e non sapeva se gli avrebbero potuto spostare la prenotazione. Tutto quello che aveva a che fare con l’elettronica gli sembrava magico e quindi capace di scomparire in qualsiasi momento.

Comunque era tornato in possesso del suo portafoglio, dopo tre anni, con dentro alcune carte di credito scadute e una Visa che, scoprì con piacere, era ancora valida fino alla fine di gennaio. Aveva il numero della prenotazione e la certezza che una volta a casa tutto si sarebbe, chissà come, aggiustato. Laura doveva essere viva. Forse si era trattato di un imbroglio per farlo uscire qualche giorno prima. Oppure di un caso di omonimia: il corpo estratto dai rottami apparteneva a un’altra Laura Moon.

Oltre le vetrate dell’aeroporto vedeva i fulmini. Shadow si accorse che tratteneva il respiro, come se aspettasse qualcosa. Il rombo distante del tuono. Espirò.

Una donna bianca lo fissava da dietro il banco con l’aria stanca.

«Buongiorno» le disse. Sei la prima estranea in carne e ossa con la quale parlo da anni. «Ho la prenotazione di un biglietto elettronico. Sarebbe per venerdì, ma devo partire oggi. C’è stato un decesso nella mia famiglia.»

«Mmm. Mi dispiace.» La donna digitò sulla tastiera, fissò lo schermo del monitor e digitò qualcos’altro. «Nessun problema. C’è posto sul volo delle tre e mezzo. Può darsi che parta in ritardo a causa del maltempo, quindi tenga d’occhio il tabellone. Ha bagagli?»

Le mostrò la sacca che portava a tracolla. «Non devo fare il check-in per questa, vero?»

«No. La tenga pure. Ha un documento di identità?»

Shadow le fece vedere la patente. Non era un aeroporto grande, ma lo stupiva la quantità di gente che vi si aggirava senza fare niente. Osservò qualcuno appoggiare i bagagli per terra con disinvoltura, portafogli infilati nelle tasche, borsette incustodite sotto le sedie. Fu soltanto allora che si rese conto di non essere più in prigione.

Trenta minuti all’imbarco. Comperò una fetta di pizza e il formaggio fuso gli bruciò le labbra. Prese il resto e andò verso i telefoni. Chiamò Robbie alla Muscle Farm, ma gli rispose la segreteria telefonica.

«Ciao Robbie» disse. «Dicono che Laura è morta. Mi hanno fatto uscire prima. Sto tornando a casa.»

Poi, visto che ci si può sempre sbagliare, lo sapeva per esperienza diretta, compose il numero di casa e ascoltò la voce registrata di Laura.

"Ciao, non sono in casa oppure non posso rispondere. Lasciate un messaggio e vi richiamerò. Buona giornata."

Shadow non riuscì a lasciare un messaggio.

Rimase seduto su una seggiola di plastica vicino al cancello stringendo la sacca così forte da farsi male alla mano.

Pensò alla prima volta che l’aveva vista. Non sapeva nemmeno il suo nome. Era l’amica di Audrey Burton. Era con Robbie in un séparé del Chi-Chi quando lei era entrata dietro Audrey e lui era rimasto a fissarla. Aveva i capelli lunghi, castani, e gli occhi così azzurri che Shadow aveva erroneamente creduto si trattasse di lenti a contatto colorate. Lei aveva ordinato un daiquiri alla fragola insistendo per farglielo assaggiare, e quando lui l’aveva provato era scoppiata a ridere felice.

A Laura piaceva che gli altri provassero quello che piaceva a lei.

Quando le aveva dato il bacio della buonanotte le sue labbra sapevano di daiquiri alla fragola e da quel momento in poi non aveva più desiderato baciare nessun’altra.

Una voce femminile annunciò che il volo era pronto per l’imbarco e la fila di Shadow fu proprio la prima a essere chiamata. Aveva un posto in coda, con un sedile vuoto accanto. La pioggia batteva incessante contro la fusoliera: Shadow immaginò un gruppo di bambinetti che lanciavano giù dal cielo manciate di piselli secchi.

Quando cominciò il decollo si addormentò.

Era in un luogo buio, e la cosa che lo stava fissando aveva una testa di bufalo orribilmente pelosa, ed enormi occhi acquosi. Il corpo era quello di un uomo, lucido d’olio.

«Cambiamenti in vista» disse il bufalo senza muovere le labbra. «Vi sono alcune decisioni da prendere.»

Il bagliore delle fiamme si rifletteva sulle pareti umide della caverna.

«Dove mi trovo?»

«Nella terra e sottoterra» rispose l’uomo-bufalo. «Sei dove attendono coloro che sono stati dimenticati.» I suoi occhi erano liquide biglie nere, e la voce un rombo dall’altro mondo. Puzzava come una vacca bagnata. «Credi» disse la voce tonante, «se vuoi sopravvivere devi credere.»

«Credere? A cosa?»

L’uomo-bufalo fissò Shadow e si issò, enorme, con occhi di bragia. Aprì la bocca maculata che all’interno era rossa per via del fuoco che bruciava dentro, sottoterra.

«A tutto» ruggì.

Il mondo vorticò e si capovolse e Shadow era di nuovo sull’aeroplano ma continuava ugualmente a vorticare. Qualche fila più avanti una donna gridò poco convinta.

I fulmini saettavano con bagliori accecanti. Il comandante comunicò che avrebbe cercato di guadagnare quota per allontanarsi dal temporale.

L’aeroplano sobbalzava procedendo a scossoni e Shadow si domandò con freddezza se sarebbe morto. Sembrava possibile, stabilì, anche se improbabile. Guardò fuori del finestrino l’orizzonte squarciato dai lampi.

Poi si riappisolò e sognò di essere ancora in prigione e che durante la coda per entrare nella sala mensa Low Key gli sussurrava che qualcuno aveva pagato un killer per ucciderlo, ma Shadow non poteva sapere chi era né perché, e quando si risvegliò si stavano preparando all’atterraggio.

Scese barcollando dall’aeroplano, battendo le palpebre per svegliarsi.

Tutti gli aeroporti si somigliano, pensò. E secondario il luogo in cui sorgono, è sempre un aeroporto: piastrelle e passaggi e toilette, cancelli, edicole e luci al neon. Anche questo sembrava un aeroporto qualsiasi. Il problema era che non si trattava dell’aeroporto dov’era diretto. Era più grande, molto più affollato, con un numero di cancelli decisamente troppo alto.

«Signora, mi scusi.»

L’impiegata alzò gli occhi dal foglio. «Prego?»

«In che aeroporto siamo?»

Lei lo guardò perplessa, come per capire se parlasse sul serio e infine disse: «St Louis».

«Ero diretto a Eagle Point.»

«Infatti. Ma è atterrato qui per via del maltempo. Non l’hanno annunciato?»

«È possibile. Mi sono addormentato.»

«Deve parlare con quel signore con la giacca rossa.»

Era un uomo alto quasi quanto Shadow e sembrava appena uscito dal ruolo del padre di famiglia in una sitcom degli anni Settanta. Digitò qualcosa sulla tastiera del computer e poi gli disse di correre — «Corra!» — al cancello in fondo al terminal.

Shadow attraversò di corsa l’aeroporto, ma quando arrivò al cancello lo trovò chiuso. Restò a osservare di qua dal vetro l’aereo che si allontanava.

La donna all’assistenza clienti (piccola e scura di pelle, con un neo sul naso) si consultò con una collega e fece una telefonata. («Niente da fare, l’imbarco per il suo volo è già chiuso. L’hanno cancellato dal tabellone.») Poi stampò una carta d’imbarco nuova. «Questa la porterà a destinazione» gli disse. «Telefoniamo al cancello per dire che l’aspettino.»

A Shadow sembrava di essere diventato il pisello che viene fatto saltare fra le tre tazze, o una carta mescolata nel mazzo. Attraversò di nuovo l’aeroporto correndo e si trovò più o meno nel punto da cui era appena tornato.

Al cancello un ometto gli ritirò la carta d’imbarco. «La stavamo aspettando» dichiarò staccando la matrice e restituendogli il pezzetto con il numero del posto assegnato, il 17D. Shadow si affrettò a salire e lo sportello dell’aeroplano si chiuse alle sue spalle.

Attraversò la prima classe, quattro posti in tutto, di cui tre occupati. L’uomo con la barba, vestito di chiaro, seduto accanto al posto libero della prima fila, gli sorrise e alzò il braccio picchiettando con un dito sul quadrante dell’orologio. Shadow proseguì.

Sì, d’accordo, ti sto facendo fare tardi, pensò. Mi auguro che sia l’ultima delle tue preoccupazioni.

L’aeroplano gli sembrava pieno, mentre percorreva il corridoio diretto verso la coda, anzi, scoprì che lo era davvero e che al 17D era già seduta una donna di mezza età. Shadow le mostrò la carta e lei gli mostrò la sua: erano identiche.

«Può sedersi, per favore?» chiese la hostess.

«No» rispose lui. «Temo di no.»

La hostess fece schioccare la lingua e controllò le due carte, poi ingiunse a Shadow di seguirla e gli indicò il posto vuoto della prima classe. «A quanto pare è il suo giorno fortunato» disse. «Desidera bere qualcosa? C’è ancora un po’ di tempo prima del decollo e se lo merita, dopo lo spavento di trovarsi senza posto.»

«Mi piacerebbe una birra. Di qualsiasi marca.»

La hostess si allontanò.

L’uomo vestito di chiaro seduto accanto a lui picchiettò di nuovo con l’unghia sul quadrante dell’orologio. «Sei in ritardo» disse, e gli fece un grande sorriso che non esprimeva alcuna simpatia.

«Prego?»

«Pensavo che non ce l’avremmo fatta.»

La hostess servì la birra a Shadow.

Per un attimo lui pensò che l’altro fosse matto, poi decise che si riferiva all’aeroplano. «Mi dispiace averla fatta aspettare» disse in tono cortese. «Ha molta fretta?»

Il velivolo cominciò la manovra di allontanamento dal cancello e la hostess venne a ritirare il bicchiere. L’uomo in chiaro le sorrise e disse: «Non preoccuparti del mio, me lo tengo stretto» e lei gli lasciò il bicchiere di Jack Daniel’s protestando debolmente che era contro i regolamenti della compagnia aerea. («Lascia che sia io a deciderlo, mia cara.»)

«Il tempo è certamente un fattore essenziale. Comunque no, non ho fretta. Mi preoccupavo soltanto che non riuscissi a farcela.»

«Molto gentile da parte sua.»

L’aeroplano scaldava i motori, ancora fermo ma tutto teso al decollo.

«Gentile un corno» rispose l’uomo in chiaro. «Ho un lavoro per te, Shadow.»

Un rombo e il piccolo velivolo sobbalzò in avanti respingendo Shadow contro lo schienale. Si erano staccati da terra e le luci dell’aeroporto fuggivano sotto di loro. Guardò il suo vicino.

Aveva i capelli più grigi che rossi e la barba, corta, più rossa che grigia. Una faccia scabra, squadrata, con gli occhi di un grigio chiarissimo. Indossava un vestito costoso, color gelato alla vaniglia squagliato. La cravatta, di seta, era grigio scuro, fermata da una spilla d’argento a forma di albero: fusto, rami e radici profonde.

Durante il decollo non fece cadere neppure una goccia di Jack Daniel’s.

«Non vuoi chiedermi che tipo di lavoro?»

«Come fa a sapere il mio nome?»

L’uomo ridacchiò. «Oh, sapere come si chiama la gente è la cosa più facile del mondo. Un pizzico di cervello, un pizzico di fortuna e un pizzico di memoria. Chiedimi che tipo di lavoro.»

«No» rispose Shadow. La hostess gli portò un’altra birra e lui la sorseggiò.

«Perché no?»

«Sto tornando a casa, dove ho un lavoro che mi aspetta. Non ne voglio un altro.»

Il sorriso ruvido dell’uomo non cambiò, ma adesso sembrava palesemente divertito. «A casa non ti aspetta nessun lavoro» disse. «Non c’è niente, per te. Mentre io ti sto offrendo un impiego perfettamente rispettabile, ben pagato, con un certo margine di sicurezza e considerevoli premi di indennità. Se vivi abbastanza a lungo posso perfino pagarti i contributi. Ti interessa?»

«Deve aver visto il mio nome sulla borsa.»

L’uomo non fece commenti.

«Chiunque lei sia» riprese Shadow, «non poteva sapere che avrei preso proprio questo volo. Non lo sapevo neanch’io, e se non fossi atterrato all’aeroporto di St Louis non sarei nemmeno qui. Io credo che lei sia un buontempone, o forse una specie di truffatore. Comunque, direi che la cosa migliore è interrompere subito questa conversazione.»

L’uomo scrollò le spalle.

Shadow prese la rivista di bordo ma l’aereo procedeva a scatti e sobbalzi, rendendo difficile la lettura. Le parole gli attraversavano la mente volteggiando come bolle di sapone senza lasciare traccia.

Il suo vicino sorseggiava tranquillamente il Jack Daniel’s a occhi chiusi.

Shadow lesse la lista dei canali di musica disponibili sui voli transoceanici e studiò la mappa del mondo dove le linee percorse dalla compagnia aerea erano disegnate in rosso. Poi finì di leggere la rivista e, seppure con riluttanza, la chiuse e la ripose nella tasca del sedile.

L’uomo aprì gli occhi. C’era qualcosa di strano nei suoi occhi, pensò Shadow. Uno era più scuro dell’altro. Anche lui lo stava guardando. «A proposito» disse, «mi dispiace per tua moglie, Shadow. Una grave perdita.»

Fu sul punto di dargli un pugno, invece prese un profondo respiro. ("Come ti ho già detto, è meglio non far incazzare quelle troie all’aeroporto" disse Johnnie Larch da un ricordo, "perché potrebbero farti risbattere dentro in un amen.") Contò fino a cinque.

«Dispiace anche a me» disse.

L’uomo scosse la testa. «Se solo non fosse stato necessario farla soffrire» disse, e sorrise.

«È morta in un incidente d’auto» replicò Shadow. «Ci sono modi peggiori per morire.»

L’altro scosse di nuovo la testa, lentamente. Per un momento a Shadow sembrò incorporeo; come se l’interno dell’aeroplano fosse di colpo molto reale e il suo vicino no.

«Shadow, non è uno scherzo. Non è un trucco. Posso pagarti meglio di chiunque altro. Sei un ex detenuto. Non faranno la fila per assumerti.»

«Senti, signor non-so-come-cazzo-ti-chiami» disse Shadow sovrastando il frastuono dei motori, «i soldi di tutto il mondo non basterebbero.»

Il sorriso diventò più largo e a Shadow tornò in mente un documentario sugli scimpanzé in cui veniva spiegato che quando scimmie e scimpanzé sorridono in realtà mostrano i denti per esprimere odio, aggressività o terrore. Il sorriso di uno scimpanzé è da interpretare come una minaccia.

«Lavora per me. Qualche rischio c’è, è ovvio, ma se sopravvivi potrai avere tutto quello che il tuo cuore desidera. Potresti diventare il prossimo re d’America. Adesso, dimmi chi potrebbe ricompensarti con tanta generosità?»

«Ma chi sei?»

«Ah, sì. Siamo nell’era dell’informazione — signorina, potrebbe servirmi un altro Jack Daniel’s? Poco ghiaccio — anche se ovviamente non è mai stato diverso. Informazione e conoscenza: due valute che non sono mai andate fuori corso.»

«Ti ho domandato chi sei.»

«Vediamo. Be’, visto che oggi è sicuramente il mio giorno, perché non mi chiami Wednesday? Sono il signor Wednesday. Anche se, considerato il tempo, potresti addirittura chiamarmi Thursday. Che ne dici?»

«Ma come ti chiami, veramente?»

«Lavora per me e lavora bene» rispose l’uomo in chiaro «e magari te lo dirò. Ecco qua. Questa è la mia offerta. Pensaci su. Nessuno pretende che tu dica immediatamente di sì senza neanche sapere se stai per finire in una vasca piena di piraña o in pasto agli orsi. Prenditi tutto il tempo che ti serve.» Chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale.

«Non c’è niente da decidere» disse Shadow. «Tu non mi piaci. Non voglio lavorare per te.»

«Come ho già detto» rispose l’uomo senza aprire gli occhi, «non c’è fretta. Prenditi tutto il tempo necessario.»

L’aeroplano atterrò con uno scossone e alcuni passeggeri scesero. Shadow guardò dal finestrino: era un piccolo aeroporto in mezzo al nulla e prima di arrivare a Eagle Point c’erano altri due scali intermedi. Gettò un’occhiata all’uomo vestito di chiaro, il signor Wednesday. Sembrava addormentato.

Impulsivamente si alzò, afferrò la borsa e imboccò il corridoio. Scese la scaletta e a passo regolare attraversò la pista bagnata, diretto verse le luci del terminal. Cadeva una pioggia leggera.

Prima di entrare nell’edificio si fermò e si voltò a guardare. Nessun altro era sceso, dopo di lui. Entrò e noleggiò un’automobile, una piccola Toyota rossa, scoprì una volta arrivato nel parcheggio.

Aprì la cartina che gli avevano fornito in dotazione e la spalancò sul sedile accanto al suo. Eagle Point si trovava a circa trecentottanta chilometri.

Il temporale era passato, ammesso che fosse arrivato fin lì. Faceva freddo e il cielo era sereno. Le nuvole correvano davanti alla luna e per un attimo Shadow non capì cosa si stesse muovendo, se erano le nubi o la luna.

Guidò per un’ora e mezzo verso nord.

Si stava facendo tardi. Aveva fame e quando si rese conto di essere veramente affamato prese la prima uscita ed entrò nella città di Nottamun (1301 ab.). Fece il pieno di benzina all’Amoco e chiese alla cassiera annoiata dove poteva trovare qualcosa da mangiare.

«Al Jack’s Crocodile Bar. A ovest sulla County Road N.»

«Crocodile Bar?»

«Sì. Secondo Jack il coccodrillo dà un tono al locale.» Sul retro di un volantino color malva che pubblicizzava la vendita di polli arrosto, vendita il cui ricavato sarebbe stato devoluto a favore di una bambina bisognosa di un rene nuovo, gli disegnò il percorso per arrivare. «Ci sono un paio di coccodrilli, un serpente e una di quelle cose tipo lucertolone.»

«Un’iguana?»

«Esattamente.»

Attraversò la città, oltre un ponte, e dopo altri tre chilometri si fermò di fronte a una costruzione rettangolare con l’insegna luminosa della Pabst.

Il parcheggio era semivuoto.

Dentro, l’aria era densa di fumo e dal jukebox uscivano le note di Walking After Midnight. Shadow si guardò in giro per scovare i coccodrilli ma non riuscì a trovarli. Si chiese se la donna dell’area di servizio non lo avesse preso in giro.

«Cosa le preparo?» chiese il barista.

«Una birra alla spina e un hamburger completo. Con le patatine.»

«Un piatto di chili per cominciare? È il miglior chili dello stato.»

«Va bene. Dov’è il bagno?»

L’uomo indicò la porta d’angolo. Sopra lo stipite c’era una testa di alligatore imbalsamata. Shadow entrò.

Era un bagno pulito, ben illuminato. Prima di tutto Shadow si diede un’occhiata intorno, un’ispezione dettata dalla forza dell’abitudine. ("Ricordati, Shadow, mentre stai pisciando non ti puoi difendere" disse Low Key, pacato come sempre, nel ricordo.) Entrò nell’orinatoio di sinistra. Abbassò la cerniera e con grande sollievo pisciò per un’eternità leggendo il ritaglio di giornale appeso ad altezza occhi, con foto di Jack in compagnia di due alligatori.

Dall’orinatoio alla sua destra — eppure era certo di non aver sentito entrare nessuno — arrivò un cortese grugnito.

Visto in piedi l’uomo vestito di chiaro era più imponente di come gli era sembrato sull’aeroplano. Era alto quasi come Shadow, e Shadow era un colosso. Fissava dritto davanti a sé. Finì di pisciare, diede una scrollatina per liberarsi delle ultime gocce e chiuse la cerniera.

Poi sorrise come una volpe bloccata da una recinzione di filo spinato. «Allora» disse, «il tempo per pensare ce l’hai avuto. Lo vuoi o no il mio lavoro?»


Altrove, in America


Los Angeles, ore 23.26


In una stanza rosso scuro — il colore delle pareti è quello del fegato crudo — c’è una donna alta vestita come il personaggio di un fumetto con il sedere fasciato da un paio di shorts di seta attillatissimi e i seni prorompenti dalla camicia gialla annodata stretta. Porta i capelli neri legati in una crocchia alta sulla testa. In piedi accanto a lei c’è un uomo di bassa statura con una maglietta verde oliva e un paio di costosi blue jeans. Nella mano destra stringe un portafogli e un cellulare Nokia con la mascherina bianca rossa e blu.

Nella stanza rossa c’è un letto con le lenzuola di satin, bianche, e un copriletto color sangue di bue. Ai piedi del letto un tavolino di legno sul quale è appoggiata una statuetta di pietra dai fianchi enormi con sembianze femminili e, davanti, un candeliere.

La donna porge all’uomo una piccola candela rossa. «Tieni» dice. «Accendila.»

«Io?»

«Sì. Se vuoi avermi.»

«Dovevo farmi fare un pompino in macchina e via.»

«Può darsi» risponde lei. «Allora non mi vuoi?» Fa scorrere le mani dalle cosce al seno in un gesto di presentazione, come se stesse dimostrando un prodotto nuovo.

Una sciarpa di seta rossa sopra la lampada d’angolo tinge di rosso anche la luce.

L’uomo la guarda sbavando, poi prende la candela e la ficca nel candeliere. «Hai da accendere?»

Lei gli passa una scatola di fiammiferi. Lui ne prende uno, accende lo stoppino: la fiamma ondeggia e poi si stabilizza, la statua di donna senza testa, tutta fianchi e seno, sembra muoversi.

«Metti i soldi sotto la statua.»

«Cinquanta sacchi.»

«Sì. Adesso vieni qui e amami.»

Lui sbottona i blue jeans e si sfila la maglietta verde oliva. Lei gli massaggia le spalle con le sue dita scure, poi lo fa voltare e comincia a usare le mani, la lingua.

Lui ha l’impressione che la luce nella camera rossa sia diventata più fioca, e che ci sia solo la candela, che brucia con una bella fiamma, a illuminarla.

«Come ti chiami?» le chiede.

«Bilqis» risponde lei alzando la testa. «Con la Q.»

«Con che?»

«Non importa.»

Adesso lui trattiene il respiro. «Voglio mettertelo dentro» dice. «Lasciatelo mettere dentro.»

«D’accordo, dolcezza. Come vuoi. Però tu devi fare qualcosa per me.»

«Ehi» ribatte lui già sulle sue. «Sono io che pago, non dimenticartelo.»

Lei gli si mette cavalcioni e sussurra: «Lo so, dolcezza, lo so, tu mi paghi e invece dovrei essere io a pagare te, guardati, sono veramente una donna fortunata…».

Lui increspa le labbra come per dire che non è tipo da farsi incantare da quei discorsi da puttana, che non si fa fregare; lei è una prostituta, cazzo, mentre lui è praticamente un produttore, e sa tutto sulle fregature che si tirano all’ultimo minuto, però lei non vuole altri soldi. «Dolcezza» gli dice, «mentre mi scopi, mentre mi sbatti dentro quel grosso cazzo duro, mi potresti adorare?»

«Cosa dovrei fare?»

Lei si muove avanti e indietro: strofina la testa turgida del pene contro le labbra bagnate della vulva.

«Mi potresti chiamare dea? Mi potresti adorare? Mi potresti venerare con il tuo corpo?»

Lui sorride. Tutto lì? Ognuno è libero di eccitarsi come gli pare. «Ma certo» dice. Lei fa scivolare una mano tra le gambe e se lo infila dentro.

«Ti piace, vero, dea?» annaspa lui.

«Venerami, dolcezza» risponde Bilqis, la prostituta.

«Sì. Venero i tuoi seni e i tuoi capelli e la tua figa. Venero le tue cosce e i tuoi occhi e la tua bocca rossa come le ciliegie…»

«Sì…» cantilena lei, cavalcandolo.

«Venero i tuoi capezzoli dai quali scorre il latte della vita. Il tuo bacio è dolce come il miele e le tue carezze bruciano come il fuoco e io le venero.» Adesso le sue parole sono diventate più ritmiche, seguono il movimento dei corpi. «Portami il desiderio del mattino e la pace e la benedizione della sera. Lascia che cammini al buio senza incontrare pericoli e che venga di nuovo fino a te e ti dorma accanto e faccia ancora l’amore con te. Ti venero con tutto me stesso, con tutta la mia mente, con tutti i miei sogni e il mio…» si interrompe, prende fiato. «Ma cosa fai? E stranissimo. Stranissimo veramente…» e guarda in basso cercando di vedere il punto dove i loro corpi si congiungono, ma lei gli mette un dito sotto il mento e lo costringe ad alzare la testa in modo che possa vedere solo la sua faccia e il soffitto.

«Continua a parlare, dolcezza» gli dice. «Non ti fermare. Non è bello?»

«Una cosa così bella non l’avevo mai provata» le risponde lui in tutta sincerità. «I tuoi occhi sono stelle che bruciano nel…, merda, firmamento, e le tue labbra gentili come onde lambiscono la sabbia e io le venero» e adesso spinge sempre più a fondo dentro di lei; si sente elettrizzato, come se tutta la parte inferiore del suo corpo avesse ricevuto una scarica ad alto voltaggio: fallico, congestionato, beato.

«Concedimi il tuo dono» borbotta senza più rendersi conto di quello che dice, «il tuo dono più autentico e fammi sentire sempre. … sempre così… ti prego… io…»

E poi quando il piacere arriva all’apogeo dell’orgasmo, la sua mente esplode nel vuoto e tutto il suo essere si fonde con il perfetto nulla mentre sprofonda, continua a sprofondare…

A occhi chiusi, in preda agli spasmi, si abbandona all’istante, poi gli sembra di rollare, e di essere appeso a testa in giù, benché continui a provare piacere.

Apre gli occhi.

Sforzandosi di ritrovare il senno e la ragione pensa al momento della nascita e senza paura, in un attimo di perfetta lucidità post-coitale, si domanda se ciò che vede è realtà o illusione.

Ecco cosa vede:

È entrato dentro di lei fino al petto e mentre osserva incredulo e meravigliato lo spettacolo lei gli appoggia le mani sulle spalle e imprime una leggera pressione.

Il corpo di lui scivola ancora più dentro.

«Ma come fai?» chiede, o pensa di chiedere, ma forse lo pensa soltanto.

«Sei tu che lo fai, dolcezza» sussurra lei. Lui sente le labbra della vulva stringerglisi intorno al petto e alla schiena, costringendolo, avvolgendolo. Si domanda che cosa penserebbero, se lo vedessero. Si domanda perché non ha paura. E poi capisce.

«Ti venero con il mio corpo» sussurra, mentre lei lo spinge dentro del tutto. La vulva gli accarezza la faccia e i suoi occhi scivolano nell’oscurità.

Lei si distende sul letto come un’enorme gattona e sbadiglia. «Sì» dice. «Proprio così.»

Il cellulare Nokia suona, una trasposizione elettronica dell’Inno alla gioia. Lei lo prende e se l’avvicina all’orecchio.

Ha il ventre piatto, la vulva piccola, chiusa. Un velo di sudore le imperla la fronte e il labbro superiore.

«Pronto?» dice. E poi aggiunge: «No, dolcezza, non c’è. È andato via».

Spegne il telefono prima di adagiarsi completamente sul letto nella camera rossa, si stira un’altra volta, chiude gli occhi e si addormenta.