"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)

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La portarono al cimitero in una vecchia e grande Cadillac La portarono al cimitero e ve la lasciarono. Canzone popolare

«Mi sono preso la libertà» disse Wednesday nel bagno del Jack’s Crocodile Bar mentre si lavava le mani «di ordinare anche per me e di far servire al tuo tavolo. Dopotutto ci sono molte cose di cui dobbiamo discutere.»

«Non mi pare» rispose Shadow. Si asciugò le mani con la carta, l’appallottolò e la gettò nel cestino.

«Ti serve un lavoro» disse Wednesday. «La gente non assume ex detenuti. Quelli come voi li fanno sentire a disagio.»

«Ho un lavoro che mi aspetta. Un ottimo lavoro.»

«Ti riferisci alla Muscle Farm?»

«Può darsi.»

«Allora niente da fare. Non c’è nessun lavoro che ti aspetta. Robbie Burton è morto e senza di lui è morta anche la Muscle Farm.»

«Sei un bugiardo.»

«Certo. Un grande bugiardo. Il migliore sulla piazza. Ma su questo argomento ti sto dicendo la verità, ho paura.» Infilò una mano in tasca, tirò fuori un quotidiano ripiegato e lo diede a Shadow. «A pagina sette» disse. «Torna di là. Puoi leggerlo al tavolo.»

Shadow spalancò la porta. Nel bar l’aria era densa e azzurra di fumo, e nel jukebox i Dixie Cups suonavano Iko Iko. Riconoscendo la vecchia canzone per bambini Shadow sorrise.

Il barista indicò un tavolo d’angolo già apparecchiato con una scodella di chili e un hamburger da una parte e, di fronte, una bistecca al sangue con patate fritte.

Look at my king all dressed in red, Iko Iko all day, I bet you five dollars he’ll kill you dead, Jockamo-feena-nay.

Sedette e appoggiò il giornale sul tavolo. «Questo è il mio primo pasto da uomo libero. La tua pagina sette la leggerò quando avrò finito di mangiare.»

Finì l’hamburger, migliore di quelli che preparavano in prigione. Anche il chili era buono, decise dopo un paio di cucchiaiate, ma non il migliore dello stato.

Laura sapeva prepararlo alla perfezione. Usava carne magra, fagioli marroni, carote tagliate a pezzettini, una bottiglia circa di birra scura e peperoni piccanti a fettine. Lasciava cuocere il tutto per un po’, poi aggiungeva vino rosso, succo di limone e un pizzico di aneto fresco e infine misurava e aggiungeva il peperoncino in polvere. Più di una volta lui le aveva chiesto di fargli vedere come lo cucinava: osservava con attenzione, dal momento in cui lei affettava le cipolle e le faceva imbiondire nell’olio d’oliva. Aveva perfino trascritto dettagliatamente la ricetta e durante un fine settimana in cui lei non c’era aveva provato a prepararlo da solo. Era venuto buono, certamente commestibile, ma niente a che vedere con il chili di Laura.

La notizia di cronaca a pagina sette era il primo resoconto sulla morte di sua moglie che aveva occasione di vedere. Laura Moon, ventisette anni, secondo il giornale, e Robbie Burton, trentanove, si trovavano sull’Interstate a bordo dell’automobile di Robbie quand’erano finiti sotto le ruote di un tir che aveva scaraventato la macchina sul ciglio della strada.

La squadra di soccorso aveva estratto i corpi di Robbie e Laura dai rottami. Erano morti prima di arrivare in ospedale.

Shadow ripiegò il giornale e lo spinse sul tavolo, verso Wednesday, intento a ingozzarsi con una bistecca talmente cruda da far sospettare che il fuoco non l’avesse mai nemmeno sfiorata.

«Tieni. Riprenditelo.»

Al volante c’era Robbie. Doveva essere ubriaco, anche se l’articolo non ne parlava. Shadow immaginò l’espressione di Laura quando si era resa conto che Robbie era troppo ubriaco per guidare. La scena si svolgeva nella sua mente senza che lui potesse fare niente per fermarla: Laura che urlava… che urlava a Robbie di fermarsi, poi il tonfo contro il camion, il botto e lo strappo…

… la loro macchina capovolta sul ciglio della strada, vetri in frantumi, come ghiaccio e diamanti scintillanti alla luce dei fanali, pozze di sangue rosso rubino sull’asfalto. Due corpi estratti dai rottami, ordinatamente adagiati uno accanto all’altro.

«Allora?» chiese Wednesday. Aveva divorato la bistecca come se stesse morendo di fame. Adesso stava attaccando le patatine con grandi forchettate.

«Hai ragione» disse Shadow. «Non ce l’ho più un lavoro.»

Prese dalla tasca una moneta da venticinque centesimi. La gettò in aria sfiorandola con un dito mentre si staccava dalla mano, facendola esitare come se stesse per girarsi, poi l’afferrò e la schiacciò sul dorso della mano.

«Testa o croce?» disse.

«Perché?»

«Non voglio lavorare per qualcuno più sfortunato di me. Avanti.»

«Testa» disse Wednesday.

«Mi dispiace» rispose Shadow senza nemmeno guardare la moneta. «È croce. Era un tiro truccato.»

«Sono i più facili da battere» disse Wednesday agitando un dito tozzo. «Da’ un’occhiata.»

Shadow guardò la moneta. La faccia rivolta verso l’alto era testa.

«Devo aver sbagliato» disse perplesso.

«Non buttarti giù così» ribatté Wednesday con un sorriso. «Tieni conto che io sono un tipo molto, molto fortunato.» Poi alzò lo sguardo. «Ma chi l’avrebbe mai detto, Mad Sweeney. Bevi qualcosa con noi?»

«Southern Comfort e Coca, liscio» disse una voce alle spalle di Shadow.

«Vado a ordinare.» Wednesday si alzò e partì diretto verso il bancone.

«A me non chiedi cosa bevo?» gli gridò Shadow.

«Lo so che cosa bevi» rispose, ed era già al bar. Patsy Cline ricominciò a cantare Walking After Midnight.

L’uomo del Southern Comfort e Coca sedette accanto a Shadow. Aveva una corta barba rossiccia. Indossava una giacca di jeans coperta di toppe colorate sopra una maglietta sporca. Sul davanti c’era scritto:

SE NON PUOI FUMARLO, NÉ BERLO O MANGIARLO… SCOPATELO!

Portava un berretto da baseball su cui era stampato:

L’UNICA DONNA CHE ABBIA MAI AMATOERA LA MOGLIE DI UN ALTRO… MIA MADRE!

Aprì un pacchetto di Lucky Strike morbide con un’unghia sporca, prese una sigaretta per sé e ne offrì una a Shadow che fu sul punto di accettare, automaticamente. Non fumava — ma una sigaretta è pur sempre un’ottima merce di scambio — poi si ricordò che non era più in galera. Fece segno di no con la testa.

«Lavori per il nostro amico, allora?» domandò l’uomo barbuto. Non era del tutto sobrio, ma nemmeno ubriaco, per il momento.

«Pare di sì. E tu cosa fai?»

L’uomo barbuto accese la sigaretta. «Io sono un leprecauno» disse con una smorfia.

Shadow non sorrise. «Veramente? Allora dovresti bere Guinness.»

«Stereotipi. Bisogna iniziare a pensare fuori dagli schemi. In Irlanda c’è molto di più della Guinness.»

«Non hai un accento irlandese.»

«Sono in questo cazzo di posto da troppo tempo.»

«Ma sei irlandese, d’origine?»

«Te l’ho detto. Sono un leprecauno. I leprecauni non vengono da Mosca.»

«No, non mi pare.»

Wednesday tornò al tavolo con tre bicchieri tenuti disinvoltamente in una mano sola grande come una zampa. «Southern Comfort e Coca per te, Mad Sweeney, amico mio, e un Jack Daniell per me. E per te questo, Shadow.»

«Che cos’è?»

«Assaggialo.»

Aveva un colore bruno dorato e quando ne prese un sorso Shadow sentì sulla lingua un sapore agrodolce. Un retrogusto alcolico con una strana miscela di sapori. Gli ricordava un po’ il liquore che qualche detenuto distillava clandestinamente dentro un sacco dell’immondizia usando frutta marcia, pane, zucchero e acqua, però era più dolce e molto più esotico.

«Va bene» disse. «L’ho assaggiato. Che cos’è?»

«Idromele» rispose Wednesday. «Alcol e miele. La bevanda degli eroi. La bevanda degli dèi.»

Shadow ne prese un altro sorso. Sì, il miele c’era, decise. Era uno dei sapori. «Assomiglia un po’ ai cetrioli in salamoia» disse. «Sì, sembra salamoia dolce.»

«Sembra piscio di ubriaco diabetico» convenne Wednesday. «Io lo detesto.»

«Perché vuoi farlo bere a me, allora?» domandò Shadow, non a torto.

Wednesday lo fissò con i suoi occhi così male assortiti. Shadow stabilì che uno dei due era di vetro, ma non riusciva a capire quale. «Ti ho portato l’idromele da bere perché così vuole la tradizione. E in questo preciso momento abbiamo bisogno di tutte le tradizioni che riusciamo a mettere assieme per suggellare il nostro accordo.»

«Non abbiamo fatto nessun accordo.»

«Certo che l’abbiamo fatto. Adesso tu lavori per me. Mi proteggi. Mi trasporti da un posto all’altro. Fai le commissioni. In caso di emergenza, ma solo in caso di vera emergenza, fai del male a quelli a cui devi fare del male. Nell’improbabile ipotesi della mia morte farai la mia veglia funebre. E in cambio io provvederò a soddisfare tutte le tue necessità.»

«Ti sta imbrogliando» disse Mad Sweeney grattandosi la barba ispida. «È un imbroglione.»

«Certo che sono un imbroglione» disse Wednesday. «È per questo che ho bisogno di qualcuno che mi protegga.»

La canzone nel jukebox arrivò alla fine e per un attimo il locale rimase silenzioso, ogni conversazione sospesa.

«Una volta qualcuno mi ha detto che questi momenti in cui tutti tacciono insieme si verificano sempre a un’ora e venti o meno venti» disse Shadow.

Sweeney indicò l’orologio appeso sopra il banco del bar, stretto tra le mascelle enormi e indifferenti di una testa imbalsamata di alligatore. Erano le undici e venti.

«Ecco» disse Shadow. «Chissà perché succede.»

«Io lo so» rispose Wednesday. «Bevi il tuo idromele.»

Shadow trangugiò il resto del liquore in un sorso. «Forse col ghiaccio starebbe meglio.»

«Non è detto» rispose Wednesday. «È sempre tremendo.»

«Proprio così» convenne Mad Sweeney. «Mi scuso per un attimo, signori, ma mi trovo nell’impellente necessità di una lunga pisciata.» Si alzò e si allontanò, alto in maniera impossibile. Doveva essere più di due metri e dieci, stabilì Shadow.

Una cameriera passò lo strofinaccio sul tavolo e portò via i piatti vuoti. Wednesday le chiese un secondo giro per tutti, anche se questa volta l’idromele di Shadow doveva essere con ghiaccio.

«Comunque» riprese, «ti ho detto cosa voglio da te.»

«Ti piacerebbe sapere che cosa voglio io?» chiese Shadow.

«Niente mi renderebbe più felice.»

La cameriera portò da bere. Shadow sorseggiò l’idromele con ghiaccio. Non era migliorato, anzi, il ghiaccio ne accentuava l’asprezza e tratteneva il sapore più a lungo sulla lingua. Comunque, cercò di consolarsi, non sembrava particolarmente alcolico. Non era pronto per ubriacarsi. Non ancora.

Fece un respiro profondo.

«Va bene» disse. «La mia vita, che negli ultimi tre anni è stata tutt’altro che della migliore qualità, ha preso improvvisamente una bruttissima piega. Ho alcune cose da fare. Voglio andare al funerale di Laura. Voglio dirle addio. Dovrò occuparmi della sua roba. Se dopo mi vuoi ancora comincio a lavorare per te a cinquecento dollari la settimana.» Aveva sparato la cifra a caso. Gli occhi di Wednesday non lasciavano trasparire niente. «Se andiamo d’accordo, dopo sei mesi me ne dai mille la settimana.»

Si prese una pausa. Era il discorso più lungo che avesse fatto da anni. «Dici che forse sarà necessario fare del male a qualcuno. Be’, lo farò se cercheranno di fare del male a te. Ma non colpisco nessuno né per piacere né per soldi. Non tornerò dentro. Una volta mi è bastata.»

«Non succederà» disse Wednesday.

«No. Non mi succederà.» Finì l’idromele e di colpo si domandò se non fosse stato il liquore a sciogliergli la lingua. Ma le parole uscivano come acqua da un idrante rotto in estate, e nemmeno se ci avesse provato sarebbe riuscito a fermarle. «Tu non mi piaci, Wednesday, o qualunque sia il tuo vero nome. Non siamo amici. Non so come hai fatto a scendere da quell’aereo senza che io ti vedessi. Non so come sei riuscito a seguirmi fin qui. Ma a quanto pare non ho alternative. Quando avremo finito me ne andrò per conto mio. E se mi fai incazzare me ne vado prima. Fino ad allora lavorerò per te.»

«Molto bene» disse Wednesday. «Allora abbiamo stretto un patto. Siamo tutti d’accordo.»

«Diciamo di sì» disse Shadow. In fondo al locale Mad Sweeney stava mettendo le monete nel jukebox. Wednesday si sputò sul palmo della mano e la tese. Shadow scrollò le spalle. Lo imitò e ricambiò la stretta. Wednesday strinse con forza. Shadow fece altrettanto. Dopo qualche secondo cominciò a provare dolore. Wednesday indugiò ancora un istante e poi mollò la presa.

«Bene» disse. «Bene. Molto bene. Allora, un ultimo bicchiere di fetente idromele per suggellare l’accordo e siamo a posto.»

«Per me Southern Comfort e Coca» disse Sweeney tornando barcollante dal jukebox.

Cominciò Who Loves the Sun? dei Velvet Underground. A Shadow sembrò strano che in un jukebox ci fosse una canzone del genere, molto improbabile. Ma del resto tutta la serata aveva preso una piega improbabile.

Prese dal tavolo la moneta che aveva usato per fare testa o croce apprezzando, mentre la faceva passare tra indice e pollice della mano destra, la sensazione di una moneta ben fresata tra le dita. Con un rapido movimento finse di prenderla con la sinistra mentre in realtà la impalmava con disinvoltura nella destra. Chiuse la sinistra intorno a un immaginario quarto di dollaro, poi ne prese un secondo con la destra, tra indice e pollice e, mentre fingeva di lasciarlo cadere nella sinistra, fece scivolare la moneta nascosta nella destra colpendo l’altra. Il tintinnio doveva confermare l’illusione che le due monete fossero entrambe nella mano sinistra, mentre adesso si trovavano al sicuro nella destra.

«Giochi di prestigio con le monete?» chiese Sweeney alzando la testa e rizzando la barba arruffata. «Be’, guarda questo, allora.»

Prese un bicchiere vuoto dalla tavola. Poi allungò una mano e afferrò dall’aria una grossa e lucente moneta d’oro. La lasciò cadere dentro il bicchiere. Prese dal nulla un’altra moneta d’oro e la gettò nel bicchiere facendola tintinnare contro la prima. Poi ne prese una dalla fiamma della candela fissata al muro, un’altra dalla sua barba, una terza dalla mano sinistra di Shadow, vuota, e a una a una le lasciò cadere dentro il bicchiere. Poi vi strinse sopra le dita e soffiò con forza, e parecchie altre monete d’oro caddero dalla sua mano nel bicchiere. Infilò il bicchiere pieno di monete appiccicose di liquore nella tasca della giacca e batté sulla tasca per dimostrare che era inequivocabilmente vuota.

«Ecco, questo sì che è un bel giochino per te.»

Shadow, che lo aveva osservato con estrema attenzione, piegò la testa. «Voglio sapere come hai fatto.»

«L’ho fatto» rispose Sweeney con l’aria di confidare un gran segreto «con ostentazione ed eleganza. Ecco come ho fatto.» Rise silenziosamente barcollando sui tacchi e scoprendo i denti radi.

«Sì» disse Shadow. «Davvero. Me lo devi insegnare. Secondo i trucchi che ho letto io, per fare "Il sogno dell’avaro" devi aver nascosto le monete nella mano che tiene il bicchiere, lasciandole cadere mentre fai comparire e scomparire quelle nella mano destra.»

«Mi sembra complicato un casino» rispose Mad Sweeney. «Prenderle dall’aria è più facile.»

«Idromele per te, Shadow. Io continuo con il Jack Daniel’s, e per il nostro scroccone irlandese…?»

«Una birra in bottiglia, preferibilmente scura» rispose Sweeney. «Scroccone, eh?» Alzò il bicchiere in un brindisi rivolto a Wednesday. «Che la tempesta passi sopra le nostre teste lasciandoci tutti vivi e vegeti» disse ingollando il contenuto in un colpo.

«Bel brindisi» disse Wednesday. «Ma non andrà così.»

Davanti a Shadow venne appoggiato un altro bicchiere di idromele.

«Devo bere anche questo?»

«Ho paura di sì. Suggella il nostro accordo. Tre è il numero magico, giusto?»

«Merda» esclamò Shadow e trangugiò l’idromele in due sorsi. Il sapore di salamoia dolciastra gli riempì la bocca.

«Ecco fatto» disse Wednesday. «Adesso sei con me.»

«Allora» disse Sweeney, «vuoi sapere il trucco?»

«Sì» rispose Shadow. «Le tenevi nella manica?»

«Nemmeno una.» Sweeney ridacchiò ondeggiando e saltellando come uno smilzo vulcano barbuto pronto a eruttare, tutto compiaciuto delle proprie fiammate. «È la cosa più semplice del mondo. Facciamo a pugni, se vinci tu te lo spiego.»

Shadow scosse la testa. «Passo.»

«Questa è bella» disse Sweeney rivolto alla sala. «Il vecchio Wednesday si prende una guardia del corpo ma il tipo ha così paura che non riesce neanche ad alzare la guardia.»

«Non voglio fare a pugni con te» ammise Shadow.

Sweeney vacillava e sudava. Giocherellò con la punta del berretto, poi afferrò una moneta dall’aria e l’appoggiò sul tavolo. «È oro, se per caso te lo stavi domandando» disse. «È tuo se fai a botte con me, anche se perdi, e perderai. Un omone grande e grosso come te… chi l’avrebbe detto che eri uno schifoso codardo?»

«Ti ha già risposto che non vuole» disse Wednesday. «Vattene via, Mad Sweeney. Prenditi la tua birra e lasciaci in pace.»

Invece Sweeney gli si avvicinò di un passo. «Mi hai chiamato scroccone, vero, vecchia creatura maledetta? Tu, vecchio forcaiolo senza cuore.» Era rosso di rabbia.

Wednesday alzò le mani in un gesto di pace. «Sciocchezze, Sweeney. Bada a come parli.»

Sweeney lo guardò con gli occhi fiammeggianti. Poi, con la gravità di un uomo molto ubriaco, disse: «Tu hai assoldato un codardo. Che cosa farebbe se ti saltassi addosso, secondo te?».

Wednesday si girò verso Shadow. «Ne ho avuto abbastanza. Occupatene tu.»

Shadow si alzò in piedi e guardò in su per vedere Mad Sweeney in faccia: ma quanto era alto? «Ci stai dando fastidio» disse. «Sei ubriaco. Penso che te ne dovresti andare.»

Un lento sorriso illuminò Sweeney. «Eccoci» disse. E lo colpì con un pugno enorme sotto l’occhio destro che gli fece fare un balzo all’indietro. Shadow vedeva macchie di luce e sentiva un gran male.

E così la rissa cominciò.

Sweeney combatteva senza stile, senza tecnica, animato soltanto dall’entusiasmo per la lotta, menando una gran quantità di ganci che mancavano e colpivano il bersaglio a casaccio.

Shadow boxava in difesa, attento a bloccare i colpi o a evitarli. A un certo punto fu acutamente consapevole di avere un pubblico. I tavoli vennero spostati, tra le proteste dei clienti, per creare spazio ai due contendenti. Shadow sentiva su di sé gli occhi di Wednesday che non lo lasciavano un istante, il suo sorriso senza allegria. Era evidente che si trattava di una prova, ma che genere di prova?

In prigione aveva imparato che ci sono due modi di fare a botte: il genere "stammi lontano", in cui si fa più scena possibile, e quello brutale, vero, rapido e spietato, che finisce nel giro di pochi secondi.

«Ehi, Sweeney» disse senza fiato, «perché ci stiamo picchiando?»

«Per il piacere di farlo» rispose l’altro, sobrio, o perlomeno non visibilmente ubriaco. «Per il puro profano piacere di picchiarci. Non senti la gioia che ti scorre nelle vene, che si risveglia come linfa in primavera?» Gli sanguinava un labbro. E a Shadow una nocca.

«Allora, com’è che fai apparire le monete?» chiese. Ondeggiò e si scansò, prendendo sulla spalla un pugno diretto al naso.

«Te l’ho detto prima» borbottò Sweeney. «Ma non c’è peggior cieco — ahi! Ben piazzato! — di chi non vuol sentire.»

Shadow lo colpì al mento costringendolo ad arretrare contro un tavolo, e i bicchieri vuoti e i portacenere si frantumarono a terra. In quel momento lo avrebbe potuto finire.

Diede un’occhiata a Wednesday, che gli fece un cenno di assenso, poi guardò Mad Sweeney, steso sotto di lui. «Abbiamo finito?» chiese. L’altro esitò, poi annuì. Shadow lasciò la presa e arretrò di alcuni passi. Ansante, Sweeney riuscì a rimettersi verticale.

«Col cazzo!» gridò. «È finita quando lo dico io!» Poi sorrise e si slanciò in avanti cercando di colpire Shadow. Scivolò su un cubetto di ghiaccio finito per terra e mentre i piedi lo tradivano facendolo cadere sulla schiena, il sorriso si trasformò in un’espressione costernata. Rimase a bocca aperta e picchiò la testa sul pavimento del bar con un bel tonfo.

Shadow gli appoggiò un ginocchio sul petto. «Te lo chiedo per la seconda volta, abbiamo finito di picchiarci?»

«Diciamo di sì» rispose Sweeney sollevando la testa, «perché al momento il piacere mi ha abbandonato come la pipì che scappa a un bambino dentro una piscina in una giornata calda.» Sputò un po’ di sangue, chiuse gli occhi e cominciò a russare, un russare profondo e imponente.

Qualcuno batté una pacca sulla schiena di Shadow. Wednesday gli infilò in mano una bottiglia di birra.

Era molto meglio dell’idromele.


Si svegliò sdraiato sul sedile posteriore di una macchina. Il sole del mattino era abbagliante e gli faceva male la testa. Si mise seduto e si sfregò gli occhi.

Al volante c’era Wednesday che canticchiava stonato. Nel portabibite vide una tazza di plastica. Erano in autostrada. Il posto accanto a quello di guida era vuoto.

«Come ti senti, in questo bel mattino?» chiese Wednesday senza voltarsi.

«Che ne è stato della mia macchina? L’avevo noleggiata.»

«L’ha riportata indietro Mad Sweeney. Era nei patti. Dopo la scazzottata di ieri notte.»

I discorsi della sera prima si confondevano in maniera spiacevole nella testa di Shadow. «Non hai un po’ di caffè anche per me?»

Wednesday allungò una mano sotto il sedile e gli passò una bottiglia d’acqua ancora chiusa. «Tieni. Devi essere disidratato. Questa ti farà meglio del caffè, per ora. Alla prossima area di servizio ci fermiamo, così puoi fare colazione. Ti devi anche dare una ripulita. Sembra che tu abbia dormito con la capra.»

«Si dice con il gatto.»

«Con la capra. Un enorme caprone puzzolente coi dentoni.»

Shadow aprì la bottiglia e bevve. Sentì qualcosa tintinnare nel taschino. Infilò una mano e ne estrasse una moneta grande come un mezzo dollaro. Era pesante, e di un bel giallo oro.


Nell’area di servizio comperò un kit da viaggio che conteneva rasoio, crema da barba, pettine e spazzolino usa e getta con un minuscolo tubo di dentifricio. Poi entrò nel bagno degli uomini e si guardò allo specchio.

Aveva un livido sotto un occhio — quando provò a schiacciarlo con un dito scoprì che faceva molto male — e il labbro inferiore gonfio.

Si lavò la faccia con il sapone liquido che c’era in bagno, poi si fece la barba e si lavò i denti. Si inumidì i capelli e li pettinò all’indietro. Aveva ancora un aspetto malconcio.

Si domandò che cos’avrebbe detto Laura, vedendolo così, poi ricordò che Laura non avrebbe mai più detto niente, e nello specchio si vide tremare, ma solo per un momento.

Uscì.

«Sono uno schifo» disse.

«È naturale» rispose Wednesday.

Wednesday prese un grande assortimento di merendine e le portò alla cassa pagando anche la benzina, ma cambiò due volte idea su come farlo, se con la carta di credito o in contanti, provocando l’irritazione della ragazza che masticava gomma dietro il registratore di cassa. Shadow rimase a osservare Wednesday che si faceva prendere sempre più dall’agitazione e continuava a scusarsi. Sembrava molto vecchio, all’improvviso. La cassiera prima gli diede il resto in contanti e addebitò la spesa sulla carta, poi gli diede la ricevuta e prese i contanti, poi restituì i contanti e accettò una carta diversa. Wednesday stava palesemente per scoppiare a piangere, come un vecchietto incapace di tenere il passo con l’implacabile marcia del mondo moderno.

Quando uscirono dall’area di servizio riscaldata il loro fiato si condensò nell’aria.

Di nuovo in marcia: campi di erba quasi marrone scorrevano dai finestrini. Gli alberi erano spogli, senza vita. Due uccelli neri li fissavano dai fili del telegrafo.

«Ehi, Wednesday.»

«Sì?»

«Secondo me non hai pagato la benzina.»

«Ah sì?»

«Secondo me è finita che è stata lei a pagare te per il privilegio di averti fatto il pieno. Credi che se ne sia accorta, dopo?»

«Non se ne accorgerà mai.»

«Ma chi sei, insomma? Un imbroglione da due soldi?»

Wednesday annuì. «Sì» disse. «Credo di sì. Insieme a molte altre cose.»

Si immise sulla corsia di sinistra per sorpassare un camion. Il cielo era di un grigio fosco e uniforme.

«Nevicherà» disse Shadow.

«Sì.»

«Senti, Sweeney me l’ha fatto vedere davvero il trucco con le monete d’oro?»

«Oh sì.»

«Non riesco a ricordarmelo.»

«Ti tornerà in mente. È stata una lunga serata.»

Qualche piccolo fiocco di neve sfiorò il parabrezza, sciogliendosi subito.

«Il corpo di tua moglie è esposto nella sala mortuaria delle Pompe funebri Wendell» disse Wednesday. «Dopo pranzo la porteranno al cimitero per la sepoltura.»

«Come fai a saperlo?»

«Ho telefonato mentre eri al cesso. Sai dove sono le Pompe funebri Wendell?»

Shadow annuì. I fiocchi di neve volteggiavano confusi.

«Questa è l’uscita» disse. L’automobile lasciò l’Interstate e superò una serie di motel diretta a Eagle Point Nord.

Erano passati tre anni. Sì. C’era qualche semaforo in più, vetrine di negozi sconosciuti. Shadow chiese a Wednesday di rallentare, quando passarono davanti alla Muscle Farm, CHIUSO FINO A DATA DA DESTINARSI recitava il cartello scritto a mano affisso sulla porta, PER LUTTO.

A sinistra sulla Main Street. Oltre il nuovo salone per tatuaggi e il Centro di reclutamento delle Forze armate, poi il Burger King e, familiare e immutato, l’Olsen’s Drug Store, infine la facciata di mattoni gialli delle Pompe funebri Wendell. Un’insegna al neon nella vetrina diceva CASA DELL’ETERNO RIPOSO. Sotto l’insegna giacevano lastre tombali senza nome e senza incisioni decorative.

Wednesday si fermò nel parcheggio.

«Vuoi che venga con te?» chiese.

«Non particolarmente.»

«Bene.» Il sorriso senza allegria comparve rapido. «Mentre tu dici i tuoi addii io mi posso occupare d’altro. Vado a fissare due stanze al Motel America. Raggiungimi, quando hai finito.»

Shadow scese dalla macchina e rimase a guardarla allontanarsi. Poi entrò. Il corridoio poco illuminato odorava di fiori e cera per mobili, con appena una nota di formaldeide. In fondo c’era la cappella dell’Eterno riposo.

Shadow si accorse che stava giocherellando con la moneta d’oro, la passava in modo convulso dal dorso al palmo e viceversa, ininterrottamente. Ne trovava rassicurante il peso.

Il nome di sua moglie era scritto su un foglio appeso alla porta in fondo. Entrò nella cappella. Conosceva quasi tutti: i colleghi di Laura, gli amici.

Lo riconobbero anche loro. Glielo si leggeva in faccia. Nessun sorriso, però, nemmeno un ciao.

In fondo alla sala c’era un piccolo palco e, sopra il palco, una bara color crema con intorno vari addobbi floreali: rossi e gialli, bianchi e viola scuro. Fece un passo avanti. Dal punto in cui si trovava vedeva il corpo di Laura. Non voleva avvicinarsi di più, però non osava andarsene.

Un uomo vestito di scuro — un dipendente delle pompe funebri, secondo Shadow — disse: «Vuole firmare il libro delle condoglianze e dei ricordi?», e gli indicò un volume rilegato in pelle aperto su un piccolo leggio.

Scrisse SHADOW e la data con la sua calligrafia precisa, poi, lentamente, aggiunse (CUCCIOLO) rinunciando ad arrivare in fondo alla sala dove c’era la gente e la bara e quella cosa dentro la bara color crema che non era più Laura.

Una donna minuscola entrò e si fermò esitante sulla porta. Aveva i capelli color rame, era tutta vestita di nero, abiti molto costosi. La vedova in gramaglie, pensò Shadow, che la conosceva bene. Era Audrey Burton, la moglie di Robbie.

Stringeva tra le mani un mazzo di violette avvolto nella carta di alluminio. Il tipo di mazzolino che una bambina potrebbe cogliere in giugno, pensò lui. Però adesso le violette erano fuori stagione.

Quando attraversò la sala per avvicinarsi alla bara Shadow la seguì.

Laura giaceva con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto. Indossava un elegante tailleur blu che lui non le aveva mai visto. I lunghi capelli castani erano pettinati ordinatamente, lontani dagli occhi. Era la sua Laura e al tempo stesso non lo era: la cosa più innaturale, pensò, era quel modo di riposare in pace, perché Laura dormiva sempre sonni agitati.

Audrey le posò le violette sul petto. Poi contrasse le labbra e le sputò con determinazione sulla faccia.

Lo sputo cadde sulla guancia e cominciò a scivolare verso l’orecchio.

Audrey si stava già avviando alla porta. Shadow la rincorse.

«Audrey?»

«Shadow? Sei scappato? O ti hanno fatto uscire?»

Lui si domandò se Audrey fosse sotto l’effetto dei tranquillanti. Parlava in tono distante, distaccato.

«Mi hanno rilasciato ieri. Sono un uomo libero. Che cosa diavolo significa, quella scena?»

In corridoio lei si fermò. «Le violette? Sono sempre state il suo fiore preferito. Una volta le raccoglievamo insieme.»

«No, non le violette.»

«Ah, quello.» disse. Si ripulì un’invisibile macchietta all’angolo della bocca. «Be’, credevo che fosse ovvio.»

«Non per me, Audrey.»

«Non te l’hanno detto?» La sua voce era fredda e calma. «Tua moglie è morta con l’uccello di mio marito in bocca.»

Shadow tornò nella sala. Qualcuno aveva già ripulito lo sputo.


Dopo pranzo — mangiò da Burger King — ci fu il funerale. La bara color crema venne interrata nel piccolo cimitero non confessionale e senza recinzione al confine della città: un prato collinare coperto di lastre tombali di granito nero e marmo bianco.

Arrivò al cimitero a bordo del carro funebre insieme alla madre di Laura. La signora McCabe sembrava credere che la morte della figlia fosse colpa di Shadow. «Se fossi stato a casa» disse, «non sarebbe successo. Non so perché ti abbia sposato. Io gliel’avevo detto. Gliel’avevo ripetuto all’infinito. Ma non si dà mai retta alla mamma, vero?» Si interruppe per guardare più da vicino la faccia del genero. «Hai fatto a botte?»

«Sì.»

«Barbaro» disse lei, poi irrigidì le labbra, alzò la testa fino a far tremare il mento e fissò dritto davanti a sé.

Shadow si stupì di vedere anche Audrey Burton al cimitero, un po’ in disparte. La breve funzione terminò e la bara venne fatta calare nella terra fredda. Tutti se ne andarono via.

Shadow si fermò lì. Rimase in piedi con le mani in tasca, a rabbrividire, a fissare la fossa.

Sopra di lui il cielo era color grigio ferro, una superficie monotona e piatta come uno specchio. Continuava a nevicare, in modo irregolare, in fiocchi spettrali.

C’era qualcosa che voleva dirle, e avrebbe aspettato il tempo necessario a capire cosa fosse. Il mondo cominciava piano piano a perdere luminosità e colore. Gli sembrava di non avere più sensibilità nei piedi, le mani e la faccia gli dolevano per il freddo. Affondò le mani nelle tasche per riscaldarle e strinse le dita intorno alla moneta d’oro.

Si avvicinò alla tomba.

«Tieni, è per te» disse.

Sul coperchio della bara era stata rovesciata qualche palata di terra, ma la fossa era tutt’altro che piena. Dopo aver gettato la moneta nella tomba buttò dentro un altro po’ di terra, per nascondere il luccichio dell’oro agli occhi di eventuali becchini ladri. Si ripulì le mani e disse: «Buona notte, Laura». Poi aggiunse: «Mi dispiace». Guardò le luci della città e si incamminò verso Eagle Point.

Il motel si trovava ad almeno tre chilometri di strada, ma dopo tre anni in prigione Shadow era attratto dall’idea di poter camminare liberamente, anche per sempre, se avesse voluto. Avrebbe potuto continuare a camminare verso nord, fino in Alaska, oppure dirigersi a sud, fino al Messico o ancora più in là. Volendo sarebbe potuto arrivare in Patagonia o nella Terra del Fuoco.

Si avvicinò una macchina. Il finestrino si abbassò.

«Vuoi un passaggio?» chiese Audrey Burton.

«No. E non da te.»

Proseguì. Audrey gli si affiancò, procedendo a sei chilometri all’ora. I fiocchi di neve cadevano danzando tra i raggi di luce dei fanali.

«Credevo che fosse la mia migliore amica» disse Audrey. «Ci sentivamo tutti i giorni. Quando io e Robbie litigavamo lei era la prima a saperlo… andavamo da Chi-Chi a bere un margarita e a raccontarci quanto sono canaglie gli uomini. E intanto alle mie spalle se lo scopava.»

«Vai via, per favore.»

«Volevo solo spiegarti che avevo le mie buone ragioni per fare quello che ho fatto.»

Shadow non rispose.

«Ehi!» gridò Audrey. «Ehi! Sto parlando con te!»

Lui si voltò. «Vuoi che ti dica che hai fatto bene a sputarle in faccia? Vuoi che ti dica che non mi ha ferito? Oppure dovrei dirti che le tue parole mi fanno provare più odio che nostalgia per mia moglie? Non te lo dirò mai, Audrey.»

Lei continuò a procedere a passo d’uomo per un minuto, senza parlare, poi disse: «Allora, com’era la prigione?».

«Non male. Ti ci saresti sentita a casa.»

A quel punto Audrey schiacciò il pedale dell’acceleratore e con un rombo del motore si allontanò.

Una volta spariti i fari dell’automobile il mondo diventò buio, mentre il crepuscolo cedeva alla tenebra. Shadow continuava a sperare di riscaldarsi, camminando, di sentir arrivare il calore fino alle mani e ai piedi gelati, ma era sempre più intirizzito.

Ancora in prigione, Low Key Lyesmith un giorno si era riferito al piccolo cimitero carcerario dietro l’infermeria come all’Orto delle Ossa, e l’immagine aveva messo radici dentro Shadow. Quella notte aveva sognato un orto sotto la luna, scheletrici alberi bianchi, con i rami che terminavano in mani scarnificate, le radici affondate nelle tombe. Crescevano frutti su quegli alberi nell’Orto delle Ossa, nel sogno, e c’era qualcosa che lo inquietava in quei frutti onirici, ma al risveglio non era riuscito a ricordare di che cosa si trattasse esattamente, né del perché li avesse trovati tanto repellenti.

Le automobili gli passavano accanto. Avrebbe preferito camminare su un marciapiede. Inciampò in qualcosa che non aveva visto a causa dell’oscurità e finì nel fossato, la mano destra che affondava nel fango freddo per parecchi centimetri. Si rialzò e si ripulì le mani sui pantaloni. Rimase lì in piedi, a disagio. Fece appena in tempo a rendersi conto di non essere solo e di una cosa bagnata che gli veniva premuta contro naso e bocca; sentì un odore acre, chimico.

Questa volta il fossato gli sembrò tiepido, e comodo.

L’impressione era che le tempie gli fossero state riattaccate al cranio con dei grossi chiodi. Aveva le mani legate dietro la schiena con un laccio ed era seduto sul sedile rivestito di pelle di un’automobile. Per un istante si chiese se non ci fosse qualcosa che non andava nella sua percezione della distanza e poi capì che no, l’altro sedile era davvero molto lontano.

C’era qualcuno dietro di lui, ma non era in grado di girarsi a guardare.

Il giovanotto grasso all’altra estremità della lunga limousine prese dal bar una lattina di Diet Coke e l’aprì. Indossava una lunga giacca nera di un materiale setoso e non dimostrava nemmeno vent’anni: su una guancia c’era addirittura un accenno d’acne. Sorrise, vedendo che Shadow si era svegliato.

«Ciao, Shadow» disse. «Non fare il furbo con me.»

«Va bene. D’accordo. Mi puoi lasciare al Motel America sull’Interstate?»

«Colpiscilo» disse il giovanotto alla persona seduta a sinistra di Shadow. Shadow ricevette un pugno nel plesso solare che gli tolse il respiro e lo fece piegare in due. Si raddrizzò lentamente.

«Ti ho detto di non fare il furbo. Quello era fare il furbo. Rispondi con poche parole e a tono, altrimenti ti ammazzo. O magari no. Magari dico ai ragazzi di spaccarti le ossa a una a una. Ne hai duecentosei. Quindi non fare il furbo.»

«Ricevuto» disse Shadow.

Le luci dentro la limousine cambiarono dal viola all’azzurro e poi dal verde al giallo.

«Tu lavori per Wednesday» disse il giovanotto.

«Sì.»

«Che cosa cazzo vuole? Cioè, che cosa ci fa qui? Deve avere uno schema. Qual è lo schema del gioco?»

«Ho cominciato a lavorare per il signor Wednesday stamattina» rispose Shadow. «Sono il suo uomo di fatica.»

«Stai dicendo che non sai niente?»

«Esatto.»

Il ragazzo aprì la giacca e dalla tasca interna prese un portasigarette d’argento. Lo aprì e offrì a Shadow una sigaretta. «Fumi?»

Shadow pensò di chiedergli di liberargli le mani, poi decise di non farlo. «No, grazie.»

Era una sigaretta fatta a mano, e quando il ragazzo l’accese con uno Zippo nero satinato, l’odore che sprigionò assomigliava a quello di fili elettrici bruciati.

Il giovanotto inspirò profondamente e trattenne il fumo nei polmoni. Lo lasciò uscire dalla bocca e lo inspirò di nuovo dal naso. Shadow sospettava che prima di eseguire quel numero in pubblico si fosse esercitato parecchio davanti allo specchio. «Se mi hai mentito» disse come da molto lontano «ti ammazzo, cazzo. Lo sai.»

«Sì, me l’hai detto.»

Il ragazzo fece un altro lungo tiro dalla sigaretta. «Dici che stai al Motel America?» Picchiò sul vetro che separava l’abitacolo dall’autista. Il vetro si abbassò. «Ehi. Al Motel America, su all’Interstate. Dobbiamo accompagnare il nostro ospite.»

L’autista annuì e il vetro venne rialzato.

Le luci a fibre ottiche dentro la limousine cambiavano colore ciclicamente passando per tutte le gamme più tenui della tavolozza. A Shadow sembrava che scintillassero anche gli occhi del giovane, verdi come i monitor dei vecchi computer.

«Di’ a Wednesday questo, amico. Digli che è un dinosauro. Vecchio. Superato. Dimenticato. Digli che il futuro siamo noi e che non ce ne frega niente né di lui né dei suoi simili. È stato consegnato alla discarica della storia mentre quelli come me viaggiano a bordo di limousine lungo le superautostrade del futuro.»

«Riferirò» disse Shadow. Cominciava a girargli la testa. Si augurava di non vomitare.

«Digli che abbiamo riprogrammato la realtà. Digli che il linguaggio è un virus, la religione un sistema operativo e le preghiere sono junk mail. Diglielo altrimenti ti ammazzo» disse dolcemente dalla sua nuvola di fumo.

«Ricevuto» rispose Shadow. «Puoi farmi scendere qui. Cammino volentieri.»

Il giovane annuì. «Parlare con te è stato un piacere» disse. Il fumo lo aveva addolcito. «Voglio che tu sappia che se ti ammazziamo ti cancelliamo. Hai capito? Un clic e al tuo posto si possono scrivere a caso degli uno e degli zero. Il ripristino del testo non è possibile.» Picchiò sul vetro: «Scende qua». Poi si rivolse a Shadow e indicò la sigaretta che stava fumando. «Pelle di rospo sintetica. Lo sapevi che adesso si può sintetizzare la bufotenina?»

L’automobile si fermò e qualcuno aprì la portiera. Shadow scese goffamente. Gli vennero tagliati i lacci intorno ai polsi. Quando si voltò vide che l’abitacolo della limousine era diventato una nuvola vorticante di fumo in cui brillavano due luci color rame, come i begli occhi di un rospo. «Il problema è il paradigma dominante, Shadow. Nient’altro conta. E, a proposito, ho sentito della tua signora, mi dispiace.»

La portiera si richiuse e la lunga limousine si allontanò silenziosa. Shadow si trovava più o meno a duecento metri dal motel e si avviò, respirando l’aria fredda, passando davanti alle insegne al neon gialle e blu che reclamizzavano ogni tipo di fast food possibile e immaginabile, purché in forma di hamburger, e raggiunse il motel senza ulteriori incidenti.