"American Gods" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)4Shadow e Wednesday fecero colazione al Country Kitchen di fronte al motel. Alle otto del mattino il mondo era freddo e brumoso. «Sei sempre dell’idea di lasciare Eagle Point?» chiese Wednesday. «Perché se sei pronto devo fare alcune commissioni. È venerdì. Venerdì è un giorno libero. Un giorno da donne. Domani è sabato. Di sabato c’è molto da fare.» «Sono pronto» rispose Shadow. «Non c’è niente che mi trattenga qui.» Wednesday si ammucchiò nel piatto molti tipi di salumi e carni. Shadow si servì qualche fetta di melone, un panino e un formaggino. Andarono a sedersi in un angolo. «Che sogno pazzesco hai fatto ieri notte» disse Wednesday. «Già. Pazzesco davvero.» Le impronte fangose lasciate da Laura sulla moquette del motel erano ancora ben visibili al suo risveglio, dalla sua camera attraversavano l’atrio e sparivano oltre la porta d’ingresso. «Allora» riprese Wednesday, «perché ti hanno chiamato Shadow?» Shadow scrollò le spalle. «È un nome come un altro.» Dall’altra parte della vetrata il mondo avvolto nella nebbia sembrava un disegno a matita eseguito con una decina di sfumature di grigio e, qui e là, una macchia di rosso elettrico o di bianco purissimo. «Come hai perso l’occhio?» Wednesday si ficcò in bocca cinque o sei fette di pancetta tutte insieme, masticò, si ripulì la bocca con il dorso della mano. «Non l’ho perso» disse. «So esattamente dove si trova.» «Bene, qual è il programma?» Wednesday assunse un’aria pensierosa. Mangiò qualche fetta di prosciutto di un bel rosa acceso, staccò un frammento di carne dalla barba e lo mise nel piatto. «Il programma è il seguente: domani sera incontriamo alcune persone di spicco nei loro rispettivi settori… non lasciarti intimidire dal loro atteggiamento. Ci incontreremo in uno dei posti più importanti del paese. Dopo di che offriremo loro da bere e da mangiare. Li devo assoldare nell’impresa.» «E dove si trova questo posto così importante?» «Vedrai, ragazzo mio. Ho detto che è uno dei più importanti. Le opinioni in merito divergono, com’è comprensibile. Ho avvisato i colleghi. Sulla strada ci fermiamo a Chicago perché ho bisogno di procurarmi dei soldi. Ospitare come dobbiamo ospitare noi richiederà più contanti di quanti io ne disponga al momento. Poi andiamo a Madison.» Pagò e uscirono per tornare al parcheggio del motel dall’altra parte della strada. Wednesday lanciò le chiavi a Shadow. Arrivati alla superstrada lasciarono la città. «Ti mancherà?» domandò Wednesday. Stava rovistando in una cartelletta piena di carte geografiche. «La città? No. Non ci ho mai vissuto veramente. Da bambino non vivevo mai a lungo nello stesso posto, e quando sono arrivato a Eagle Point avevo vent’anni. È la città di Laura.» «Speriamo che ci rimanga» disse Wednesday. «Era un sogno» rispose Shadow. «Non dimenticarlo.» «Ben detto. Un atteggiamento sano, il tuo. Te la sei chiavata, ieri notte?» Shadow trattenne il respiro. Poi: «Non sono affari tuoi. Comunque no». «Avresti voluto?» Shadow non rispose e continuò a guidare verso nord, in direzione di Chicago. Wednesday ridacchiò e cominciò a tirare fuori le carte geografiche, ad aprirle e ripiegarle, prendendo ogni tanto un appunto su un blocco di carta gialla con una grossa penna a sfera d’argento. A un certo punto finì. Ripose la penna e appoggiò la cartelletta sul sedile posteriore. «La cosa buona degli stati verso cui stiamo andando» disse, «Minnesota, Wisconsin e paraggi, è che c’è il tipo di donna che mi piaceva da giovane. Con la pelle chiara e gli occhi azzurri, i capelli quasi bianchi, le labbra color vinaccia e i seni tondi e pieni sotto la cui pelle si vedono scorrere le vene come in un buon formaggio.» «Ti piacevano solo da giovane?» domandò Shadow. «Mi sembrava che te la stessi spassando, ieri notte.» «Sì.» Wednesday sorrise. «Ti piacerebbe conoscere il segreto del mio successo?» «Le paghi?» «Niente di così volgare. No, il segreto risiede nel fascino. Nella pura e semplice magia del fascino.» «Fascino, eh? Be’, dicono che o ce l’hai o non ce l’hai.» «La magia si impara» rispose Wednesday. Shadow sintonizzò la radio su un canale che trasmetteva vecchi successi e ascoltò canzoni che erano famose ancora prima che nascesse. Bob Dylan cantò di una pioggia molto forte che stava per cadere e Shadow si chiese se fosse caduta, a quel punto, o se si trattasse di un evento non ancora compiuto. La strada davanti a loro era deserta e sotto il sole del mattino i cristalli di ghiaccio sull’asfalto scintillavano come diamanti. Chicago arrivò piano piano, come un’emicrania. Stavano ancora attraversando l’aperta campagna quando una cittadina qualsiasi si trasformò impercettibilmente in una disordinata propaggine di periferia, e la periferia diventò città. Parcheggiarono davanti a un tozzo edificio con la facciata di arenaria nera. Avevano ripulito il marciapiede dalla neve. Entrarono nell’atrio del palazzo e Wednesday schiacciò il primo pulsante sul citofono di metallo. Niente. Schiacciò ancora. Poi provò a premere anche gli altri pulsanti, che corrispondevano alle case di altri inquilini, senza ottenere risposta. «È scassato» disse desolata una vecchia che stava scendendo le scale. «Non funziona. Abbiamo chiamato l’amministratore per chiedergli quando viene ad aggiustarlo, e quando viene a sistemare l’impianto di riscaldamento, ma lui non se ne interessa, va a svernare in Arizona perché ha i polmoni delicati.» Sembrò a Shadow che la donna avesse un forte accento dell’Europa dell’Est. Wednesday fece un profondo inchino. «Zarja, mia cara, posso dirti che trovo il tuo aspetto indicibilmente bello? Radioso, direi. Il tempo non passa, per te.» La vecchia signora lo guardò con occhi fiammeggianti. «Non ti vuole vedere. Neanch’io ti voglio vedere. Tu porti guai.» «Per questo non vengo mai, a meno che non sia di estrema importanza.» La donna sbuffò. Portava una sporta di corda e indossava un vecchio cappotto rosso chiuso fino al mento. Guardò Shadow con aria sospettosa. «L’omone chi è?» chiese. «Un altro dei tuoi sgherri?» «Tu mi fai un cattivo servizio, buona signora. Questo gentiluomo si chiama Shadow. Lavora per me, sì, ma nel tuo interesse. Shadow, ti posso presentare l’adorabile signorina Vechernjaja Zarja?» «Molto piacere» disse Shadow. La donna guardò in su come un uccellino. «Shadow» disse. «Un buon nome. Quando le ombre si allungano, quello è il mio tempo. E tu sei un’ombra lunga.» Lo squadrò da sotto in su, poi gli sorrise. «Mi puoi baciare la mano» disse, e gli tese la mano fredda. Shadow si piegò per sfiorare quelle dita sottili. Sul medio c’era un grosso anello d’ambra. «Bravo ragazzo» disse. «Stavo andando dal droghiere. Vedi, sono l’unica a portare a casa dei soldi. Le altre due non sono capaci di predire la sorte. Non sono capaci perché dicono sempre la verità, e non è la verità ciò che la gente vuole sentire. È brutta, la verità, e rende la gente infelice, perciò non tornano. Invece io sono capace di mentire, dico quello che vogliono sentire. Perciò guadagno. Rimanete a cena?» «Mi piacerebbe» rispose Wednesday. «Allora dammi qualche soldo per comperare da mangiare» disse lei. «Sono una donna orgogliosa ma non sono stupida. Le altre sono più orgogliose di me e lui poi è il più orgoglioso di tutti. Perciò dammi i soldi e non dire che me li hai dati.» Wednesday aprì il portafoglio e tirò fuori una banconota da venti dollari. Vechernjaja Zarja gliela sfilò dalle dita ma rimase in attesa. Wednesday prese altri venti dollari e glieli diede. «Bene. Vi nutriremo come principi. Adesso andate su. Utrennjaja Zarja è sveglia, l’altra sorella invece dorme ancora, perciò non fate troppo baccano.» Shadow e Wednesday salirono le scale buie. Il pianerottolo del secondo piano era ingombro di sacchi dell’immondizia e puzzava di verdura marcia. «Sono zingari?» domandò Shadow. «Zarja e la sua famiglia? Neanche per sogno. Non sono rom. Sono russi. Slavi, direi.» «Ma legge il futuro.» «Un sacco di gente lo fa. Mi ci diletto perfino io.» All’ultima rampa di scale Wednesday ansimava. «Sono fuori esercizio.» Sul pianerottolo dell’ultimo piano si affacciava un’unica porta dipinta di rosso e dotata di occhio magico. Wednesday bussò. Nessuno rispose. Bussò di nuovo, più forte. «Va bene! Va bene! Ho sentito! Ho sentito!» Rumore di chiavi girate nella toppa, di catenacci tirati, di una catena sganciata. La porta rossa venne socchiusa. «Chi è?» Era una voce di uomo, vecchia e arrochita dalle sigarette. «Un vecchio amico, Chernobog. Con un socio.» La porta si aprì soltanto fin dove lo consentiva la catena. Shadow intravide una faccia grigia che scrutava dall’ombra. «Che cosa vuoi, Votan?» «Il piacere della tua compagnia, per cominciare. Poi ho delle informazioni da passarti. Com’è che si dice?… Ah sì… che potrebbero tornarti utili.» La porta si spalancò. L’uomo era di bassa statura, aveva i capelli color grigio ferro e i tratti scabri. Portava un vecchio accappatoio e un paio di pantaloni grigi a righe, lucidi sulle ginocchia, e le pantofole. Aveva una sigaretta senza filtro tra le dita tozze, e la fumava tenendola a coppa nel palmo, come un carcerato, pensò Shadow, o un soldato. Tese la mano sinistra a Wednesday. «Allora che tu sia benvenuto, Votan.» «Di questi tempi mi chiamano Wednesday» disse l’altro ricambiando la stretta. Un accenno di sorriso, un bagliore di denti gialli. «Capisco. Molto divertente. E lui sarebbe?» «È il mio socio. Shadow, ti presento il signor Chernobog.» «Molto lieto» disse il russo e strinse la mano sinistra di Shadow. La sua era ruvida e callosa, e aveva le dita gialle come se fossero state immerse nello iodio. «Come va, signor Chernobog?» «Va da vecchio. Il ventre mi fa male, e la schiena, e tutte le mattine tossisco da sputare i polmoni.» «Cosa fate sulla porta?» chiese una voce femminile. Shadow guardò la vecchia comparsa alle spalle di Chernobog. Era più minuta e fragile della sorella, ma aveva i capelli lunghi e ancora dorati. «Io sono Utrennjaja Zarja» disse. «Non restate sul pianerottolo. Dovete venire dentro, dovete sedervi. Vi porto un caffè.» Varcata la soglia dentro un appartamento che puzzava di cavolo bollito, lettiera per gatti e sigarette straniere senza filtro, furono sospinti lungo un minuscolo corridoio su cui si aprivano varie porte fino al salotto in fondo, dove vennero fatti accomodare su un enorme divano rivestito di cavallino, disturbando, nel processo, un vecchio gatto grigio che si stirò, si alzò e, rigido sulle zampe, si spostò nel punto più lontano, riaccovacciandosi circospetto a scrutarli a uno a uno, per poi richiudere un occhio e riaddormentarsi. Chernobog prese posto sulla poltrona di fronte. Utrennjaja Zarja trovò un posacenere vuoto e lo appoggiò vicino a Chernobog. «Come lo volete, il caffè?» chiese agli ospiti. «Noi lo prendiamo nero come la notte e dolce come il peccato.» «Andrà benissimo, signora» rispose Shadow. Guardò fuori della finestra i palazzi dall’altra parte della strada. Utrennjaja Zarja si avviò. Chernobog la fissò fino a quando non fu uscita. «Quella è una brava donna» disse. «Non come le sue sorelle. Una è un’arpia, e l’altra, l’altra non fa che dormire.» Appoggiò i piedi calzati nelle pantofole su un lungo tavolino basso al cui centro era intagliata una scacchiera; il legno era coperto di bruciature di sigaretta e aloni dì tazze e bicchieri. «È sua moglie?» domandò Shadow. «Non è la moglie di nessuno.» Il vecchio rimase un momento in silenzio, guardandosi le mani ruvide. «No. Siamo tutti parenti. Siamo venuti insieme in questo paese tanto tempo fa.» Dalla tasca dell’accappatoio prese un pacchetto di sigarette senza filtro. Wednesday gliene accese una con un sottile accendino d’oro. «Prima siamo andati a New York» disse il vecchio. «I nostri connazionali andavano a New York. Poi qui, a Chicago. Tutto è andato storto. Anche nel mio paese d’origine mi avevano quasi dimenticato. Qui sono soltanto un brutto ricordo. Sai cos’ho fatto, quando sono arrivato a Chicago?» «No» disse Shadow. «Mi sono trovato un lavoro al macello. Al mattatoio. Quando i manzi salivano la rampa trovavano me, l’abbattitore. Sai perché ci chiamano abbattitori? Perché prendiamo la mazza e abbattiamo la vacca. «Non cominciare con le tue storie di quando uccidevi le mucche.» Utrennjaja Zarja servì il caffè in piccole tazze smaltate a colori vivaci su un vassoio di legno rosso. Diede a ciascuno una tazza e poi sedette accanto a Chemobog. «Vechernjaja Zarja è andata a fare la spesa. Tornerà subito.» «L’abbiamo incontrata davanti al portone» disse Shadow. «Ci ha detto che legge il futuro.» «Sì» rispose la sorella. «Al crepuscolo, il momento più adatto per le bugie. Io non riesco a dirle bene, quindi sono una pessima indovina. E nostra sorella Polunochnaja Zarja non sa dirle del tutto.» Il caffè era più dolce e più forte di quanto Shadow si sarebbe aspettato. Chiese di poter usare il bagno, una stanzetta poco più grande di un armadio con appese ai muri alcune vecchie fotografie incorniciate di uomini e donne in rigide pose vittoriane. Dal salotto sentiva arrivare voci concitate. Si lavò le mani con l’acqua ghiacciata e una scaglia di sapone rosa dall’odore disgustoso. Quando uscì dal bagno trovò Chernobog nel corridoio. «Tu porti solo guai!» stava gridando. «Nient’altro che guai! Non voglio stare a sentire! Vattene da casa mia!» Wednesday era ancora seduto sul divano e sorseggiava il caffè accarezzando il gatto grigio. In piedi sul tappeto consunto Utrennjaja Zarja si attorcigliava nervosamente i lunghi capelli biondi. «C’è qualche problema?» chiese Shadow. «Lui è il problema!» gridò Chernobog. «Lui! Digli che niente potrebbe convincermi ad aiutarlo! Voglio che se ne vada! Voglio che esca di qui! Andatevene tutti e due! «Per favore» implorò Utrennajaja Zarja. «Per favore fate piano, altrimenti sveglierete Polunochnaja Zarja.» «E tu sei uguale a lui, vuoi che lo sostenga nella sua follia» strillò Chernobog. Sembrava che stesse per piangere. Una lunga colonnetta di cenere cadde dalla sua sigaretta sul tappeto logoro del corridoio. Wednesday si alzò e gli si avvicinò. Gli appoggiò una mano sulla spalla. «Ascoltami» disse conciliante. «Prima di tutto non è una follia. È l’unica via. Secondo, ci saranno tutti. Non vorrai essere lasciato fuori, no?» «Tu sai chi sono» rispose Chernobog. «Sai quello che hanno fatto queste mani. Tu vuoi mio fratello, non me. E mio fratello non c’è.» Si aprì una porta e un’assonnata voce femminile chiese: «Cosa succede?». «Niente, sorella mia» rispose Utrennjaja Zarja. «Torna a dormire.» Poi si rivolse a Chernobog. «Hai visto? Hai visto cos’hai fatto con tutto quel gridare? Torna in salotto e siediti. Siediti!» Chernobog sembrava intenzionato a protestare ma di colpo la rabbia gli passò. Aveva un’aria fragile, all’improvviso, fragile e solitaria. I tre uomini rientrarono nel salotto fatiscente. Nella stanza aleggiava uno scuro anello di nicotina che si fermava a trenta centimetri dal soffitto, come la riga di sporcizia in una vecchia vasca da bagno. «Non devi farlo necessariamente per te» disse Wednesday imperturbabile. «Se lo fai per tuo fratello ci guadagni anche tu. In questo voi tipi dualistici siete nettamente superiori a noi, non è così?» Chernobog non parlò. «A proposito di Bielebog, hai avuto sue notizie?» L’altro scosse la testa. Guardò Shadow. «Hai fratelli?» «No. Non che io sappia.» «Io ne ho uno. Dicono che insieme siamo una persona sola, sai? Quand’eravamo giovani i suoi capelli erano biondissimi, gli occhi celesti, e la gente diceva che lui era quello bravo. E i miei capelli erano scuri, forse più scuri dei tuoi, e la gente diceva che ero la canaglia, hai capito? Il cattivo ero io. E adesso il tempo passa e ho i capelli grigi. Anche i suoi sono grigi, credo. E guardandoci non sapresti più riconoscere il chiaro dall’oscuro.» «Eravate molto uniti?» chiese Shadow. «Uniti?» ripeté Chernobog. «No. Come avremmo potuto? Ci interessavano cose molto diverse.» Dal fondo del corridoio arrivò un gran frastuono e Vechernjaja Zarja fece il suo ingresso. «Tra un’ora si mangia» annunciò. Poi scomparve. Chernobog sospirò. «Crede di essere una buona cuoca. Ma cucinavano i domestici, a casa sua. Adesso non c’è nessuno. Non c’è niente.» «Non dire mai che non c’è niente» intervenne Wednesday. «Non dirlo mai.» «Smettila. Non voglio ascoltarti.» Si rivolse a Shadow. «Giochi a dama?» «Sì.» «Bene. Allora fai una partita» disse prendendo una scatola di legno dalla mensola del camino e rovesciando le pedine sul tavolo. «I neri a me.» Wednesday sfiorò un braccio di Shadow. «Non sei obbligato» disse. «Non c’è problema. Gioco volentieri». Wednesday scrollò le spalle e da un mucchietto di riviste ingiallite sul davanzale della finestra prese un vecchio numero del "Reader’s Digest". Chernobog finì di sistemare le pedine con le sue dita scure e il giocò cominciò. Nei giorni seguenti a Shadow capitò spesso di ricordare quella partita. Certe notti la sognò. I suoi pezzi, rotondi e piatti, bianchi, in teoria, avevano il colore del legno vecchio e sporco. Quelli di Chernobog erano di un nero opaco e sbiadito. Mosse per primo. Nei suoi sogni non conversavano, giocando, si sentiva solo il sonoro clic delle pedine che venivano appoggiate, o il fruscio di legno contro legno quando venivano spostate di una casella. Per le prime cinque o sei mosse i due giocatori avanzarono verso il centro della damiera, lasciando intatte le linee di base. C’erano lunghe pause tra una mossa e l’altra, come durante una partita a scacchi, mentre i due giocatori osservavano e riflettevano. Shadow aveva giocato a dama in prigione: serviva a far passare il tempo. Aveva giocato anche a scacchi, ma gli mancava la capacità di impostare una tattica. Preferiva improvvisare cercando di fare la mossa giusta al momento giusto. A volte in questo modo si riesce a vincere, a dama. Si sentì un «La prima vittima. Hai già perso» disse. «La partita è finita.» «No» rispose Shadow. «La fine è ancora lontana.» «Non vorresti fare una puntatina, in questo caso? Scommettere qualcosa per renderla più interessante?» «No» si intromise Wednesday senza alzare gli occhi dalla pagina delle barzellette da caserma, «non vuole.» «Non sto giocando con te, vecchio. Gioco con lui. Allora, vuoi scommettere, signor Shadow?» «Di che cosa stavate discutendo voi due, prima?» Chernobog aggrottò la fronte rugosa. «Il tuo padrone vuole che vada con lui. Per aiutarlo nella sua follia. Piuttosto morto.» «Vuole scommettere? D’accordo. Se vinco io viene con noi.» Il vecchio arricciò le labbra. «Possibile» disse, «ma solo se accetti di pagare pegno, in caso di sconfitta.» «E quale sarebbe, il pegno?» Chernobog rimase imperturbabile. «Se vinco io ti fracasso la testa. Con la mazza. Prima ti metti in ginocchio. Poi ti abbatto con un colpo in mezzo alla fronte e tu non ti rialzi più.» Shadow lo guardò cercando di decifrarne il volto. Non stava scherzando, di questo era certo: nella sua espressione c’era qualcosa di famelico, brama di dolore, o morte, o punizione. Wednesday chiuse la rivista. «È ridicolo. Ho fatto male a venire qui. Shadow, ce ne andiamo.» Il gatto grigio, importunato, si alzò dal divano e andò sul tavolino, accanto alla scacchiera. Fissò i pezzi, poi saltò sul pavimento e uscì dalla stanza con la coda ritta. «No» disse Shadow. Non aveva paura di morire. Dopotutto non è che avesse una buona ragione per vivere. «Mi sta bene. Accetto. Se vince lei ha la possibilità di fracassarmi il cranio con un colpo di mazza» e mosse una pedina sulla casella accanto al bordo della damiera. Non c’era altro da aggiungere, tuttavia Wednesday non riprese a leggere il "Reader’s Digest". Rimase a osservare la partita con l’occhio di vetro e l’occhio buono, e un’espressione che non lasciava trapelare niente. Chernobog si mangiò un altro bianco. Shadow due neri. Dal corridoio arrivavano gli odori di una cucina sconosciuta. Benché non fossero tutti stuzzicanti Shadow si rese improvvisamente conto di essere molto affamato. I due uomini muovevano i loro pezzi, a turno. Un sacco di pedine mangiate, una fioritura di dame: non più costrette a muoversi solo in avanti, una casella alla volta, le dame potevano andare in ogni direzione, il che le rendeva doppiamente pericolose. Erano arrivati alla linea di base della damiera e adesso potevano andare ovunque. Chernobog ne aveva tre, Shadow due. Chernobog mosse una dama mangiandosi tutte le pedine dell’avversario mentre con le altre due gli teneva bloccate le sue. E poi ne conquistò una quarta e senza sorridere si mangiò le due dame di Shadow. La partita era finita. «Allora» disse, «ti posso fracassare il cranio. E tu ti metterai in ginocchio senza fare storie. Bene.» Allungò una mano e batté una pacca sul braccio di Shadow. «C’è ancora tempo, prima di cena» disse Shadow. «Vuole farne un’altra? Alle stesse condizioni?» Chernobog si accese una sigaretta con un fiammifero da cucina. «Come, alle stesse condizioni? Vuoi che ti uccida due volte?» «Al momento lei dispone di un colpo solo. Mi ha detto lei stesso che non si tratta soltanto di forza, che ci vuole soprattutto abilità. Così se vince anche questa volta ha a disposizione due colpi.» Chernobog lo guardò torvo. «Ne basta uno, uno solo. In questo consiste l’arte.» Si batté sull’avambraccio destro, dov’erano i muscoli, con la mano sinistra, spargendo cenere dappertutto. «È passato tanto tempo. Se avesse perso l’abilità mi potrebbe ferire e basta. Quand’è stata l’ultima volta che ha tirato un colpo di mazza al mattatoio? Trent’anni fa? Quaranta?» Chernobog non disse niente. La bocca chiusa era un taglio grigio nella faccia. Tamburellò le dita sul tavolino di legno, a ritmo. Poi rimise i ventiquattro pezzi al loro posto sulla damiera. «Gioca» disse. «Tu hai ancora i chiari. Io gli scuri.» Shadow fece la prima mossa. Chernobog rispose e Shadow capì che l’altro avrebbe ripetuto lo stesso schema di gioco della partita appena vinta, e che quello era il suo limite. Allora giocò in maniera avventata. Approfittando di ogni opportunità che gli si presentava, oppure muovendo senza riflettere, senza fermarsi a pensare. E questa volta giocando sorrideva; e ogni volta che toccava a Chernobog il suo sorriso diventava più largo. Di lì a poco Chernobog cominciò a muovere le pedine bruscamente, picchiandole sul tavolo con tanta forza da far tremare quelle rimaste sulle caselle nere. «Ecco» disse prendendo una pedina di Shadow con fracasso e mettendo giù la nera con un tonfo. «Ecco. Cosa te ne pare?» Shadow non rispose: si limitò a sorridere e soffiò la pedina che Chernobog aveva appena mosso, poi un’altra e un’altra ancora, e una quarta, spazzando via tutte le nere dal centro della damiera. Prese una pedina bianca dal mucchietto sul tavolo e fece la sua dama. Dopo di che rastrellò le pedine restanti in poche mosse e la partita era finita. «Facciamo la bella?» Chernobog lo fissò, gli occhi grigi come aculei di acciaio. Poi rise, battendogli grandi pacche sulle spalle. «Tu mi piaci!» esclamò. «Hai le palle.» In quel momento Utrennjaja Zarja infilò la testa in salotto per dire che la cena era pronta e che dovevano sgomberare il tavolo e stendere la tovaglia. «Non abbiamo una sala da pranzo» disse. «Mi dispiace. Mangiamo qui.» I piatti di portata furono sistemati sul tavolino e ciascuno dei commensali venne dotato di un vassoietto di legno smaltato su cui erano appoggiate le posate annerite da tenere sulle ginocchia. Vechernjaja Zarja prese cinque scodelle e mise dentro ciascuna una patata bollita con la buccia su cui versò un’abbondante porzione di borsch dal violento color cremisi. Aggiunse un cucchiaio di panna acida in ogni scodella e le servì. «Credevo che fossimo in sei» disse Shadow. «Polunochnaja Zarja dorme ancora» disse Vechernjaja Zarja. «Le teniamo la cena in frigorifero. Mangerà quando si alza.» Nel borsch c’era troppo aceto, sembrava di mangiare barbabietole in salamoia. La patata bollita era farinosa. Per secondo c’era un brasato coriaceo accompagnato da verdure non meglio identificate, bollite così a lungo e in modo così efficace che nessuno, nemmeno con il più grande sforzo di immaginazione, le avrebbe potute riconoscere, essendo praticamente ridotte in poltiglia. Poi c’erano foglie di verza stufate con carne macinata e riso, foglie talmente dure da non poter essere tagliate senza spargere carne e riso su tutto il tappeto. Shadow spostò la sua nel piatto senza mangiarne. «Abbiamo giocato a dama» disse Chernobog servendosi un altro blocchetto grumoso di brasato. «Io e il giovanotto. Lui ha vinto una partita. Io ne ho vinto un’altra. Siccome ha vinto vado con lui e Wednesday, e li aiuto nella loro follia. E siccome ho vinto anch’io, quando sarà tutto finito potrò ucciderlo con un colpo di mazza.» Le due Zarja annuirono gravemente. «Un vero peccato» commentò Vechernjaja Zarja rivolgendosi a Shadow. «Se ti avessi letto la sorte avrei previsto per te una lunga vita felice, con molti figli.» «È per questo che sei brava a leggere il futuro» disse Utrennjaja Zarja. Aveva un’aria assonnata, come se restare sveglia fino a quell’ora le costasse uno sforzo. «Sei la più brava a dire bugie.» Finito di mangiare, Shadow aveva ancora fame. Il cibo che gli davano in carcere, pur pessimo, era sempre meglio di questo. «Ottimo» disse Wednesday dopo aver ripulito il piatto con palese soddisfazione. «Vi ringrazio, gentili signore. E ora temo che il dovere ci imponga di chiedervi di indicarci un buon albergo nei dintorni.» Vechernjaja Zarja assunse un’aria offesa. «Perché mai andare in albergo? Non siamo forse tuoi amici?» «Non vorrei disturbare…» disse Wednesday. «Nessun disturbo» intervenne Utrennjaja Zarja sbadigliando e giocherellando con quei suoi capelli dal biondo tanto incongruo. «Tu puoi dormire nella stanza di Bielebog» disse Vechernjaja Zarja, indicando Wednesday. «È vuota. In quanto a te, giovanotto, ti preparerò il letto sul divano. Starai più comodo che in un letto di piume. Lo giuro.» «È molto gentile da parte vostra» rispose Wednesday. «Accettiamo.» «E mi dai quello che pagheresti per l’albergo» continuò Vechernjaja Zarja con uno scatto trionfante della testa. «Cento dollari.» «Trenta». «Cinquanta.» «Trentacinque.» «Quarantacinque.» «Quaranta.» «D’accordo. Quarantacinque dollari.» Vechernjaja Zarja si protese e strinse la mano di Wednesday, poi cominciò a sparecchiare. Utrennjaja Zarja sbadigliava tanto che Shadow si preoccupò per la sua mascella, poi annunciò che andava a letto perché stava per addormentarsi con la faccia nel piatto e disse buonanotte a tutti. Shadow aiutò Vechernjaja Zarja a portare piatti e scodelle nel cucinino dove sotto l’acquaio trovò, con sua grande sorpresa, una vecchia lavastoviglie che cominciò a riempire. Affrettandosi a togliere le scodelle dì legno Vechernjaja Zarja lo guardò con aria di disapprovazione. «Queste vanno nel lavandino» disse. «Mi dispiace.» «Non preoccuparti. Adesso torniamo di là a mangiare la torta.» La torta, un’apple pie comperata in pasticceria e riscaldata nel forno, era molto, molto buona. La mangiarono con il gelato e poi Vechernjaja Zarja fece uscire tutti e preparò sul divano un giaciglio molto confortevole. Wednesday parlò con Shadow nel corridoio. «Prima, quello che hai fatto con la dama» disse. «Sì?» «Ben fatto. Molto stupido da parte tua. Anzi, stupidissimo. Ma ben fatto. Dormi bene.» Nel minuscolo bagno Shadow si lavò i denti e la faccia con l’acqua fredda, poi tornò in salotto, spense la luce e si addormentò ancor prima di avere appoggiato la testa sul cuscino. C’erano esplosioni, nel sogno: Shadow guidava un camion in un campo minato e le mine scoppiavano da tutte le parti. Il parabrezza andò in frantumi e lungo la faccia gli scorreva un rivolo di sangue. Qualcuno gli stava sparando. Un proiettile gli perforò un polmone, un altro gli frantumò la spina dorsale, un altro gli si conficcò nella spalla. Li sentì entrare, a uno a uno. Si accasciò sul volante. L’ultima esplosione culminò nella tenebra. Nel piccolo salotto, in piedi davanti alla finestra, c’era una donna. Col cuore in gola la chiamò. «Laura?» La donna si voltò, incorniciata dalla luna. «Mi dispiace» disse. «Non volevo svegliarti.» Aveva un lieve accento dell’Europa dell’Est. «Me ne vado subito.» «No, resta» disse Shadow. «Non mi hai svegliato. Stavo sognando.» «Sì. Gridavi, gemevi. Avrei voluto scuoterti, ma poi mi sono detta, no, devo lasciarlo stare.» Aveva i capelli chiari, quasi bianchi alla debole luce lunare. Indossava una camicia da notte di cotone bianco con un colletto alto, di pizzo, lunga fino ai piedi. Shadow si mise seduto, completamente sveglio. «Tu sei Zarja Polu…» esitò «la sorella che dormiva.» «Sì, sono Polunochnaja Zarja. E tu ti chiami Shadow, vero? Così mi ha detto Vechernjaja Zarja quando mi sono svegliata.» «Sì. Che cosa stavi guardando, là fuori?» Lei gli fece cenno di avvicinarsi alla finestra. Si voltò quando lui si infilò i jeans. Le si avvicinò. Sembrava un lungo percorso, per una stanza così piccola. Non riusciva a capire quanti anni avesse. La sua pelle era levigata, gli occhi scuri con le ciglia lunghe e folte, i capelli bianchi lunghi fino alla vita. La luce della luna attenuava i colori trasformandoli in spettri di se stessi. Era più alta delle sorelle. Gli indicò il cielo. «Stavo guardando quella» disse puntando il dito. «La vedi?» «L’Orsa Maggiore» disse lui. «È un modo di vedere le cose» disse. «Che non è quello del posto da cui provengo io. Vado a sedermi sul tetto. Vuoi venire con me?» Aprì la finestra e si arrampicò, scalza, sulla scala antincendio. Il vento era gelido. C’era qualcosa che inquietava Shadow, ma non sapeva che cosa; esitò, poi si infilò maglione, calze e scarpe e seguì la donna sulla scala arrugginita. Lei lo stava aspettando. Nell’aria fredda il fiato di Shadow sembrava vapore. La guardò salire a piedi nudi gli scalini di metallo ghiacciati e la seguì su fino al tetto. Le raffiche di vento le incollavano la camicia da notte al corpo, e Shadow si rese conto con disagio che, sotto, Polunochnaja Zarja non indossava niente. «Non soffri il freddo?» le chiese quando arrivarono in cima alle scale e il vento sferzava via le sue parole. «Come?» Chinò il viso verso di lui. Aveva un alito dolce. «Ti ho domandato se non senti freddo.» In risposta lei alzò un dito: "aspetta", sembrava dire. Con un balzo leggero saltò sul tetto. Salì anche Shadow, meno leggiadramente, e la seguì fino all’ombra della cisterna dell’acqua. Lì li aspettava una panchina di legno; lei vi si sedette e lui la imitò. La cisterna li riparava dal vento e Shadow gliene fu grato. «No» disse lei. «Non soffro il freddo. Questo è il mio tempo: di notte mi sento a mio agio, come un pesce nell’acqua.» «La notte ti deve piacere molto» disse lui rammaricandosi subito di non aver detto qualcosa di più saggio e profondo. «Le mie sorelle appartengono al loro tempo. Utrennjaja Zarja appartiene all’alba. Nel nostro paese si svegliava per aprire i cancelli e far uscire nostro padre con il… mi dimentico sempre questa parola, è come una carrozza a cavalli?» «Cocchio?» «Con il suo cocchio. Nostro padre usciva con il cocchio. E Vechernjaja Zarja gli riapriva i cancelli al crepuscolo, quando tornava da noi.» «E tu?» Lei non rispose subito. Aveva le labbra piene, ma molto pallide. «Io non lo vedevo mai. Dormivo.» «È una malattia?» Lei non rispose. Quando scrollò le spalle, se le scrollò, lo fece in maniera impercettibile. «Dunque. Volevi sapere che cosa stavo guardando.» «L’Orsa Maggiore.» Lei alzò un braccio per indicarla e il vento le incollò la camicia da notte sul corpo. I capezzoli, ogni millimetro di pelle d’oca sul seno furono per un momento visibili, scuri contro il cotone bianco. Shadow ebbe un brivido. «Il Grande Carro di Odino, lo chiamano. Oppure Orsa Maggiore. Nel posto da dove vengo io crediamo che ci sia una cosa, una… non una divinità ma qualcosa di simile, una creatura cattiva, incatenata a quelle stelle. Se scappasse si mangerebbe tutto il mondo. E perciò ci sono tre sorelle che giorno e notte sorvegliano il cielo senza sosta. Se si liberasse, quella cosa tra le stelle, il mondo finirebbe, «E la gente ci crede?» «Ci credeva. Tanto tempo fa.» «E tu guardavi per cercare di individuare il mostro incatenato alle stelle?» «Sì. Qualcosa del genere.» Shadow sorrise. Se non ci fosse stato quel gran freddo, pensò, avrebbe creduto di sognare. Sembrava tutto un sogno. «Ti posso chiedere quanti anni hai? Le tue sorelle sembrano molto più anziane di te.» Lei annuì. «Sono la più giovane. Utrennjaja Zarja è nata al mattino, e Vechernjaja Zarja di sera, io invece sono nata a mezzanotte. Sono la sorella della mezzanotte, Polunochnaja Zarja. Sei sposato?» «Mia moglie è morta. È morta la settimana scorsa in un incidente di macchina. C’è stato il funerale ieri.» «Mi dispiace.» «Ieri notte è venuta a trovarmi.» Non era stato difficile dirlo; nell’oscurità, con la luna, non era impensabile come alla luce del giorno. «Le hai chiesto che cosa voleva?» «No. Non gliel’ho chiesto.» «Forse dovresti. È la cosa più saggia da chiedere ai morti. Qualche volta te lo dicono. Vechernjaja Zarja mi ha raccontato che hai giocato a dama con Chernobog.» «Sì. Ha vinto il diritto di darmi una mazzata in testa.» «Nei tempi antichi portavano la gente in cima alla montagna. Sulle vette più alte. Lì gli fracassavano la nuca con una pietra. In onore di Chernobog.» Shadow si guardò intorno. No, erano proprio soli, sul tetto. Polunochnaja Zarja rise. «Non è qui, sciocco. E anche tu hai vinto una partita. Forse non colpirà fino a quando non sarà tutto finito. Ha detto che non lo avrebbe fatto. E tu te ne accorgerai. Come le mucche che uccideva al macello. Se ne accorgevano sempre. Altrimenti che senso avrebbe?» «Mi sento» cominciò Shadow «come in un mondo con una logica tutta sua. Con regole proprie. Come quando sogni, e sai che ci sono regole che non puoi infrangere. Anche se non sai che cosa significhino. Seguo la corrente, capisci?» «Capisco» disse lei. Gli afferrò una mano con la sua, fredda gelata. «Ti è già stata data una protezione. Ti è stato dato il sole. Ma l’hai perso subito. L’hai dato via. Quello che ti posso dare io offre una protezione minore. È la figlia, non il padre. Comunque può sempre servire. La vuoi?» Il vento freddo le faceva svolazzare i capelli intorno al viso. «Devo fare a pugni con te? Sfidarti a dama?» «Non mi devi nemmeno baciare» rispose lei. «Prendi soltanto la luna.» «Come?» «Prendi la luna.» «Non capisco.» «Guarda» disse Polunochnaja Zarja. Alzò la mano sinistra e la tenne ferma davanti alla luna come se volesse afferrarla tra pollice e indice. Poi, con un movimento delicato, la colse. Per un istante sembrò che l’avesse staccata davvero dal cielo, ma Shadow vide che la luna continuava a brillare mentre Polunochnaja Zarja apriva la mano per mostrare un dollaro d’argento con la testa della Statua della Libertà. «Stupendo» disse Shadow. «Non ho visto come hai fatto. E non conosco il trucco.» «Non c’è nessun trucco» disse lei. «L’ho presa. E adesso la do a te, perché ti protegga. Tieni. Non dare via anche questa.» Gli appoggiò la moneta sul palmo della mano destra e gli richiuse le dita intorno. La moneta era fredda. Polunochnaja Zarja si protese, gli chiuse gli occhi con un dito e lo baciò leggermente sulle palpebre. Quando si risvegliò Shadow era sul divano vestito di tutto punto. Una lama di luce entrava dalla finestra facendo danzare il pulviscolo nella stanza. Si alzò e si avvicinò alla finestra. Alla luce del sole la stanza sembrava molto più piccola. Si rese conto di cosa lo inquietava fin dalla notte precedente, mentre guardava fuori e dall’altra parte della strada. Non c’era nessuna scala antincendio fuori da quella finestra: nessun balcone, nemmeno un rugginoso scalino di metallo. Eppure in mano stringeva una rara moneta d’argento da un dollaro del 1922 con la testa della Libertà, lucida come il giorno in cui era stata coniata. «Oh. Ti sei alzato» disse Wednesday infilando la testa nella stanza. «Bene. Vuoi un caffè? Dobbiamo andare a rapinare una banca.» L’arrivo in America È importante capire, In verità, le colonie americane erano la discarica della società, oltre che meta di fuga e di oblio. All’epoca in cui a Londra si veniva mandati al patibolo per aver rubato dodici penny, le Americhe divennero simbolo di clemenza, di una seconda possibilità. Ma le condizioni della deportazione erano talmente dure che qualcuno trovava più semplice fare un salto da quell’albero spoglio e sgambettare nel vuoto una volta per tutte. Deportazione, la chiamavano: per cinque, dieci anni, per tutta la vita. Questa era la condanna. Venivi venduto a un comandante, e sulla sua nave, piena come una nave negriera, viaggiavi fino alle colonie o alle Indie Occidentali; una volta a terra ti vendeva come servo a contratto a chiunque volesse ripagarsi il costo della tua pellaccia in lavoro fino alla scadenza della pena che dovevi scontare. Ma perlomeno non restavi in una prigione inglese ad aspettare di essere impiccato (perché all’epoca le prigioni erano luoghi di transito in attesa di liberazione, deportazione, o impiccagione, non vi si scontava una condanna) ed eri libero di approfittare del nuovo mondo. Eri anche libero di corrompere un comandante e farti riportare in Inghilterra prima della scadenza del termine. Succedeva. E se le autorità ti beccavano in patria — se un vecchio nemico, o un vecchio amico con un conto in sospeso ti vedevano e facevano la spia — allora venivi impiccato sui due piedi. Mi torna in mente, Passarono gli anni, e Essie, da quella cosetta che era, diventò una ragazza con curve sinuose come le onde del verde mare, e gli occhi scuri che ridevano, e scuoteva i ricci castani. Gli occhi di Essie si illuminarono quando vide Bartholomew, il figlio diciottenne del signore, tornato da Rugby, e la notte andò al menhir al limitare del bosco e vi appoggiò un pezzo di pane che Bartholomew non aveva finito di mangiare, avvolto in una ciocca dei suoi riccioli. E l’indomani lui le si avvicinò e le parlò, guardandola con ammirazione, gli occhi di quel pericoloso celeste che ha il cielo quando sta per scoppiare un temporale, mentre lei gli puliva il camino in camera da letto. Aveva gli occhi talmente pericolosi, disse Essie Tregowan. Di lì a poco Bartholomew partì per Oxford e quando lo stato di Essie divenne evidente fu licenziata. Però il bambino nacque morto e come favore alla madre di Essie, che era una cuoca eccellente, la moglie del signore riuscì a convincere il consorte a ridare alla giovane il suo vecchio posto di sguattera. Ma l’amore di Essie per Bartholomew si era trasformato in odio per la sua famiglia e prima della fine di quell’anno lei si prese per amante un uomo di un paese vicino, un uomo con una cattiva reputazione che rispondeva al nome di Josiah Horner. E una notte, mentre tutti dormivano, Essie si alzò e aprì la porta di servizio per far entrare l’amante. Lui svaligiò la casa. Si sospettò subito qualcuno dei suoi abitanti, perché era ovvio che la porta era stata aperta dall’interno (e la moglie del signore ricordava bene di aver tirato personalmente i chiavistelli), e doveva trattarsi di qualcuno che sapeva dove si trovava l’argenteria, e in quale cassetto venivano tenuti i soldi e i pagherò cambiari. Tuttavia Essie non venne accusata, visto che negava tutto con decisione, fino a quando mastro Josiah Horner non fu colto sul fatto in una bottega di coloniali a Exeter mentre cercava di smerciare uno dei pagherò rubati. Il signore identificò il suo pagherò e Horner fu processato con Essie. Condannato dalla locale corte d’Assise, Horner fu Giunti a Londra il capitano Clarke sistemò Essie dalla madre che la trattò con tutti i riguardi dovuti alla nuova moglie del figlio. Otto settimane più tardi il Durante i due anni successivi, con un’ampia gonna capace di celare una moltitudine di misfatti, soprattutto pezze di seta e rotoli di pizzo, Essie divenne una provetta taccheggiatrice e se la spassò. Era grata d’essere sfuggita alle sue vicissitudini a tutte le creature di cui le avevano parlato nell’infanzia, ai pixy (la cui influenza, ne era certa, si estendeva fino alla città di Londra), e ogni notte metteva sul davanzale una ciotola di legno piena di latte, anche se i suoi amici la deridevano per questo, ma ride bene chi ride ultimo, e mentre loro prendevano la sifilide o lo scolo, lei rimaneva sana come un pesce. Mancavano dodici mesi al suo ventesimo compleanno, quando il destino le giocò un brutto scherzo: mentre si trovava nel Crossed Forks Inn di Bell Yard, vicino a Fleet Street, vide un giovanotto appena uscito dall’università entrare e andare a sedersi vicino al camino. Oh! Un pollo da spennare, pensa lei, e va a sederglisi accanto, e gli dice che è un giovane elegante, e mentre con una mano comincia ad accarezzargli un ginocchio, con l’altra va cautamente in cerca dell’orologio da taschino. E a quel punto lui la guarda bene in faccia e il cuore di Essie perde un colpo quando due occhi di un azzurro pericoloso come il cielo estivo prima del temporale la fissano, e padron Bartholomew la chiama per nome. Venne portata a Newgate con l’accusa di essere tornata prima di avere scontato tutta la condanna. Giudicata colpevole, non stupì nessuno quando davanti alla corte dichiarò di essere incinta, e le guardiane della prigione incaricate di verificare tali affermazioni (di solito infondate), furono sorprese di dover riconoscere che Essie aspettava davvero un figlio, benché lei rifiutasse di dire il nome del padre. La pena di morte fu commutata ancora una volta in deportazione, in questo caso a vita. Viaggiò sulla Per tutta la vita avrebbe sognato quel viaggio nella stiva, incubi dai quali si svegliava gridando, sentendo in bocca e nel naso l’odore di quell’inferno. La Così il bambino di Essie, che lei chiamò Anthony in onore del defunto marito (nessuno in quel paese avrebbe potuto smentirla, e forse aveva conosciuto un Anthony, da qualche parte), succhiò il latte dal suo seno insieme alla figlia del padrone Phyllida Richardson, ma la prima poppata toccava sempre a lei, che diventò una bambina robusta, alta e forte, mentre con ciò che avanzava Anthony cresceva debole e rachitico. E insieme al latte, i bambini si nutrirono anche delle storie di Essie, dei racconti di knocker e blue-cap che vivevano giù nelle miniere, del Bucca, lo spirito più burlone della terra, molto più pericoloso dei pixy con i capelli rossi e i nasi camusi, per i quali si lasciava sui ciottoli della spiaggia il primo pesce pescato, e per cui si lasciava nel campo, al tempo della mietitura, una forma di pane appena cotto, al fine di assicurarsi un buon raccolto. Essie raccontò ai bambini degli uomini dei meli, vecchi alberi di melo che parlavano, se ne avevano voglia, e che dovevano essere placati con il primo sidro spremuto, versato sulle loro radici all’inizio dell’anno nuovo, se si voleva che dessero un buon raccolto. Raccontò loro, con il suo mellifluo accento della Cornovaglia, di quali alberi diffidare, con la vecchia filastrocca: Raccontava ai bambini tutte queste cose e loro ci credevano, perché ci credeva lei. La fattoria prosperava, e Essie Tregowan metteva un piattino di latte davanti alla porta sul retro, ogni notte, per i pixy. E dopo otto mesi John Richardson venne a bussare gentilmente alla porta della sua camera e le chiese il genere di favori che una donna concede a un uomo, e Essie gli rispose di essere scioccata e ferita: Ma come, disse, una povera vedova legata a lui da un contratto di servaggio, praticamente una schiava, doveva anche prostituirsi con un uomo per il quale nutriva un così grande rispetto — e nelle sue condizioni non si poteva sposare, quindi come osava tormentare una povera ragazza deportata lei non riusciva proprio a capirlo — e gli occhi color delle noci si riempirono di lacrime al punto che Richardson si ritrovò a farle le sue scuse, e il risultato fu che in quella calda notte d’estate si inginocchiò davanti a Essie Tregowan per proporle di recidere il suo contratto e di sposarla. Lei accettò, ma non volle dormire con lui prima che l’aspetto legale fosse stato definito, e dopo si trasferì dalla stanzetta del solaio alla camera da letto padronale sul lato anteriore della casa, e se vedendolo in città qualche amico con moglie sparlò del coltivatore, molti di più si dissero dell’opinione che la nuova signora Richardson era una donna straordinariamente bella e che Johnnie aveva fatto un buon affare. Prima della fine dell’anno, Essie diede alla luce un altro maschio, biondo come il padre e la sorellastra, e come il padre venne chiamato John. La domenica i tre bambini andavano in chiesa ad ascoltare i predicatori itineranti e frequentavano la piccola scuola dove imparavano a leggere e a far di conto insieme ai figli degli altri piccoli coltivatori. Essie nel frattempo faceva in modo che conoscessero anche i misteri dei pixy, che erano i misteri più importanti: uomini con i capelli rossi, occhi e indumenti verdi come l’acqua del fiume e i nasi camusi, uomini buffi e strabici che, se gliene saltava la voglia, potevano confonderti e portarti fuori strada, se non avevi un po’ di sale o di pane in tasca. Quando andavano a scuola i bambini portavano sempre in una tasca un pizzico di sale, e nell’altra un pezzettino di pane, antichi simboli della vita e della terra, per essere sicuri di tornare a casa sani e salvi, come sempre successe. I bambini crescevano alti e robusti nelle lussureggianti colline della Virginia (anche se Anthony, il primogenito, rimase sempre il più delicato, il più pallido e incline alle malattie) e i Richardson erano felici; e Essie amava il marito meglio che poteva. Erano sposati da dieci anni quando a John Richardson venne un mal di denti così terribile da farlo cadere da cavallo. Lo portarono nella città più vicina, dove gli strapparono il dente, ma troppo tardi, e un’infezione del sangue se lo portò via con la faccia nera e tra i gemiti, e venne seppellito sotto il suo salice preferito. La vedova Richardson rimase a dirigere la proprietà fino alla maggiore età dei due eredi: riuscì a gestire i servi a contratto e gli schiavi, e più o meno tutti gli anni ottenne un buon raccolto di tabacco; versava il sidro sulle radici dei meli la notte dell’ultimo dell’anno e metteva una forma di pane appena sfornato nei campi al momento del raccolto e lasciava sempre un piattino di latte davanti alla porta sul retro. La fattoria prosperava e la vedova Richardson si guadagnò la reputazione di donna abile a mercanteggiare, ma il suo raccolto era sempre ottimo, e non vendeva mai merce di scarto per buona. Per altri dieci anni tutto procedette nel migliore dei modi, poi ci fu un’annata cattiva perché Anthony, suo figlio, uccise Johnnie, il fratellastro, durante una lite furibonda sul futuro della fattoria e sulla disponibilità della mano di Phyllida; qualcuno disse che non aveva ucciso intenzionalmente il fratello, ma che era stato un colpo arrivato troppo a fondo, e qualcuno disse il contrario. Anthony scappò lasciando Essie da sola a seppellire il figlio minore accanto al padre. Qualcuno disse che Anthony era fuggito a Boston e qualcuno disse che era andato a sud, e sua madre era dell’opinione che si fosse imbarcato per l’Inghilterra per arruolarsi nell’esercito di Re Giorgio e combattere i ribelli scozzesi. Ma senza i due maschi la fattoria era deserta e triste, e Phyllida si struggeva e languiva come se avesse il cuore spezzato e niente che la matrigna dicesse o facesse poteva restituirle il sorriso. Ma con il cuore spezzato o no nella fattoria c’era bisogno di un uomo e perciò Phyllida sposò Harry Soames, di professione maestro d’ascia, che stancatosi del mare sognava di vivere sulla terraferma in una fattoria simile a quella dov’era cresciuto nel Lincolnshire. E benché la fattoria dei Richardson fosse davvero piccola, Harry Soames la trovò abbastanza simile a quella dei suoi sogni e si sentì felice. A Phyllida e Harry nacquero cinque figli, di cui tre sopravvissero. La vedova Richardson sentiva la mancanza dei figli, e sentiva la mancanza del marito, anche se ormai era poco più che il ricordo di un uomo biondo che l’aveva trattata con gentilezza. I nipoti venivano da lei a farsi raccontare le storie e Essie raccontava loro del Cane Nero della Brughiera e di Crapa Pelata e la Maschera di Sangue e dell’Uomo del Melo, ma ai bambini non interessavano, volevano soltanto le storie di Jack: Jack e il fagiolo magico, o Jack e il suo Gatto e il Re. Essie voleva bene ai suoi nipoti come se fossero figli, anche se talvolta li chiamava con i nomi di chi era morto da tempo. Si era di maggio e quel giorno portò la sedia nel giardino davanti alla cucina per raccogliere i piselli e sgusciarli al sole, perché malgrado il bel clima della Virginia il freddo le era entrato nelle ossa come nei capelli erano scese spruzzate di neve, e apprezzava sempre un po’ di calore. Mentre la vedova Richardson sgranava i piselli con le sue vecchie dita cominciò a riflettere su come sarebbe stato bello passeggiare ancora una volta nella brughiera o sulle scogliere salmastre della sua Cornovaglia. Pensò a quando, bambina, sedeva sulla spiaggia ad aspettare dal mare grigio il ritorno della nave su cui lavorava il padre. Le mani, con le nocche blu, impacciate, aprivano i baccelli, facevano cadere i piselli in una ciotola di terracotta e gli scarti in grembo. E si ritrovò a ricordare, come non le capitava da tempo immemorabile, una vita molto lontana: quando rubava borsette e pezze di seta con abili dita… e poi il secondino di Newgate, quando le dice che mancano almeno dodici settimane alla sua udienza, e che se potesse dichiarare di essere incinta scamperebbe alla forca, e che bella donnina è… mentre lei si era voltata con la faccia al muro e coraggiosamente aveva sollevato le gonne, odiandosi e odiandolo, ma consapevole del fatto che l’uomo aveva ragione, la sensazione della vita che le nasceva dentro voleva dire che avrebbe potuto ingannare la morte ancora per un po’… «Essie Tregowan?» chiese lo straniero. La vedova Richardson alzò gli occhi proteggendosi con una mano dal sole di maggio. «Ci conosciamo?» domandò. Non lo aveva sentito arrivare. L’uomo era vestito di verde da capo a piedi: calzoni scozzesi attillati, verdi e coperti di polvere, giacca verde, e un cappotto verde scuro. Aveva i capelli color carota e le sorrideva con una smorfia tutta sbilenca. C’era qualcosa nella sua presenza che la rendeva felice, e qualcos’altro che puzzava di pericolo. «Sì, puoi dire di conoscermi» le rispose. La guardò di sottecchi, e lei ricambiò l’occhiata, scrutando il suo viso rotondo in cerca di un indizio per capire chi era. Era giovane come uno dei suoi nipoti, tuttavia l’aveva chiamata con il suo vecchio nome, e la sua pronuncia la conosceva dall’infanzia, dai tempi delle rocce e della brughiera della terra natia. «Vieni dalla Cornovaglia?» gli chiese. «Esattamente, sono il cugino Jack» rispose l’uomo dai capelli rossi. «O meglio lo ero, ma adesso sono qui in questo nuovo mondo, dove nessuno mette fuori dalla porta un po’ di latte o di birra chiara e forte per un onest’uomo, o una pagnotta quando arriva il tempo del raccolto.» L’anziana donna raddrizzò la ciotola sulle ginocchia. «Se sei chi penso io» disse, «allora non ho conti in sospeso con te.» Sentiva Phyllida che dentro casa brontolava con la domestica. «Né io con te» rispose un po’ tristemente l’uomo dai capelli rossi, «anche se sei stata tu a portarmi qui, tu e pochi altri come te, in questa terra che non ha tempo per la magia e non ha posto per pixy e simili.» «Tu mi hai molto aiutata» disse lei. «Faccio del bene e faccio del male» rispose lo straniero strabico. «Noi siamo come il vento. Soffiamo in tutte le direzioni.» Essie annuì. «Vuoi prendermi per mano, Essie Tregowan?» E le tese la sua. Era coperta di lentiggini, e benché la vista di Essie fosse ormai debole, riuscì a vedere i peli color arancio sul dorso, scintillanti nel sole del pomeriggio. Si morse un labbro. Poi, esitante, mise la sua mano dalle nocche blu in quella dell’uomo. Quando la trovarono era ancora calda, anche se la vita l’aveva abbandonata e solo metà dei piselli erano stati sgusciati. |
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