"Coraline" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)

VIII

L’altra madre sembrava più in forma che mai: aveva un lieve rossore sulle guance, e i capelli si muovevano come pigri serpenti in una giornata tiepida. I neri occhi-bottone sembravano lucidati di fresco.

Attraversò lo specchio come se non fosse più solido dell’acqua e abbasso lo sguardo su Coraline. Poi aprì la porta con la chiavetta d’argento. Prese in braccio Coralme, proprio come faceva la sua vera mamma quando lei era molto più piccola, cullando la bambina semiaddormentata come se fosse un bebè.

L’altra madre portò Coralme in cucina e la mise giù, molto delicatamente, sul ripiano.

Coraline fece fatica a risvegliarsi, cosciente solo per un istante di essere stata abbracciata e amata, ma non del tutto soddisfatta; poi capì dove si trovava, e in compagnia di chi.

— Ecco la mia dolce Coraline — disse la sua altra madre. — Sono venuta a tirarti fuori dall’armadio. Avevi bisogno di una bella lezione, ma qui noi stemperiamo la giustizia con la misericordia, amiamo il peccatore e odiamo il peccato. Ora, se tu sarai una brava bambina che vuole bene alla sua mamma, se sarai obbediente e non mi risponderai male, io e te ci capiremo alla perfezione e altrettanto alla perfezione ci vorremo bene.

Coraline si stropicciò gli occhi assonnati.

— Là dentro c’erano altri bambini — disse. — Vecchi, di tanto tempo fa.

— Ah, c’erano? — disse l’altra madre. Era indaffarata tra le pentole e il frigo, e stava tirando fuori uova e formaggi, burro e un pezzo di bacon rosa affettato.

— Sì — disse Coraline. — C’erano. Credo che tu avessi in mente di ridurmi come loro. Un guscio morto.

L’altra madre sorrise affettuosamente. Con una mano rompeva le uova nella terrina, con l’altra le sbatteva. Poi mise in una padella una noce di burro che sibilò e sfrigolò, mentre lei affettava dei pezzettini di formaggio. Versò poi sul burro fuso il formaggio e l’uovo sbattuto, e riprese a mescolare il composto.

— Credo che tu stia dicendo una sciocchezza, tesoro — disse l’altra madre. — Io ti voglio bene. E te ne vorrò sempre. E nessuno che sia minimamente ragionevole crede ai fantasmi. Sono tutti dei gran bugiardi. Senti che buon profumo ha la splendida colazione che sto preparando per te. — Versò il composto giallo in una padella. — Omelette al formaggio. La tua preferita.

A Coraline venne l’acquolina in bocca. — A te piacciono i giochi — le disse. — È così che mi hanno detto.

I neri occhi dell’altra madre brillarono. — A tutti piacciono i giochi — fu tutto ciò che disse.

— Eh già — disse Coraline. Scese giù dal ripiano e si sedette al tavolo della cucina.

Il bacon crepitava e sfrigolava sulla piastra. L’odore era fantastico.

— Non saresti contenta di batterti onestamente, rispettando le regole? — le domandò Coraline.

— Può darsi — replicò l’altra madre. La sua espressione sembrava indifferente, ma le dita si contorcevano e tamburellavano, e lei si leccava le labbra con quella sua lingua scarlatta. — Cosa mi stai offrendo, per la precisione?

— Me — disse Coraline, afferrandosi le ginocchia che le tremavano sotto il tavolo. — Se perdo, resterò qui per sempre e ti concederò di volermi bene. E sarò la più rispettosa e ubbidiente delle figlie. Mangerò quello che mi preparerai e giocherò a carte. E ti permetterò di cucirmi i bottoni sugli occhi.

L’altra madre la guardò fissamente, con i neri bottoni che non battevano ciglio. — Mi sembra ottimo — disse. — E se non perdi?

— Allora mi lascerai andare. Lascerai andare tutti: i miei veri genitori, i bambini morti, tutti quelli che tieni qui in trappola.

L’altra madre tolse il bacon dalla piastra e lo mise su un piatto. Quindi fece scivolare le uova dalla padella nel piatto, facendole saltare e dando al composto la forma perfetta di una omelette.

Mise la colazione davanti a Coraline, insieme a un bicchiere di spremuta d’arancia appena fatta e a una tazza di spumosa cioccolata calda.

— Sì — disse. — Credo che questo gioco mi piaccia. Ma come funziona? Saranno indovinelli? Una prova di conoscenza? O di abilità?

— Un gioco di esplorazione — suggerì Coraline. — Un gioco trova-tutto.

— E cosa credi di trovare in questo gioco a nascondino, Coraline Jones?

Coraline esitò. — I miei genitori — disse poi. — E le anime dei bambini che sono dietro io specchio.

A queste parole l’altra madre sorrise, trionfante, e Coraline si domandò se avesse fatto la scelta giusta. In ogni caso, ormai era troppo tardi per cambiare idea.

— Affare fatto — disse l’altra madre. — Adesso fa’ colazione, dolcezza mia. Tranquilla, non ti farà male.

Coraline guardò la colazione, odiandosi per aver ceduto tanto facilmente, però stava morendo di fame.

— E chi mi dice che poi manterrai la parola? — domandò Coraline.

— Te lo giuro — le disse l’altra madre. — Te lo giuro sulla tomba di mia madre.

— Ha una tomba? — domandò Coraline,

— Oh, sì — le rispose l’altra madre. — Ce l’ho seppellita io stessa. E quando ho scoperto che stava cercando di sgattaiolare fuori, ce l’ho rimessa.

— Giura su qualcos’altro. Così potrò essere sicura che manterrai la parola.

— Sulla mia mano destra — disse l’altra madre, alzando la mano. Agitò lentamente le lunghe dita, rivelandone delle unghie adunche come artigli. — Giuro su questa.

Coraline fece spallucce. — D’accordo — disse. — Affare fatto. — Mangiò la colazione, e non dovette sforzarsi per farla sparire in fretta. Aveva più fame di quanto avesse immaginato.

Mentre mangiava, l’altra madre continuava a guardarla. Era difficile leggere in quei neri occhi-bottone, ma secondo Coraline, anche l’altra madre doveva aver fame.

Bevve il succo d’arancia e, anche se sapeva che le sarebbe piaciuta, non ebbe il coraggio di assaggiare la cioccolata calda.

— Da dove comincio a cercare? — domandò Coraline.

— Da dove vuoi — rispose l’altra madre, come se non gliene importasse niente.

Coraline la guardò, Coraline si concentrò. Era inutile, decise, esplorare il giardino e i campi: non esistevano, non erano reali. Non c’era nessun campo da tennis abbandonato, nel mondo dell’altra madre, nessun pozzo senza fondo. L’unica cosa reale era la casa.

Diede un’occhiata circolare alla cucina. Aprì il forno, sbirciò nel freezer, infilò le mani nello scomparto dell’insalata nel frigorifero. L’altra madre la seguiva passo passo, guardandola con un ghigno costante sulle labbra.

— E comunque, quanto sono grandi le anime? — domandò Coraline.

L’altra madre si sedette al tavolo della cucina e con la schiena si appoggiò al muro, senza dire una sola parola. Si stuzzicò i denti con una lunga unghia smaltata di cremisi, poi cominciò a tamburellare delicatamente, tap-tap-tap, sulla superficie lucida e nera dei suoi neri occhi-bottone.

— Bene — disse Coraline. — Non dirmelo. Non me ne importa niente. Non importa se mi aiuti oppure no. Lo sanno tutti che un’anima è della stessa grandezza di una palla da spiaggia.

Sperava che l’altra madre dicesse qualcosa del tipo: "Sciocchezze, le anime sono grandi quanto una cipolla matura — o una valigia, o l’orologio del nonno" ma lei si limitò a sorridere, mentre il tap-tap-tap dell’unghia sull’occhio si faceva costante e incessante come la goccia di un rubinetto che perde. Ma poi Coraline si rese conto che era semplicemente il rumore dell’acqua; in quella stanza non c’era che lei.

Rabbrividì. Preferiva che l’altra madre fosse in un posto preciso: se non era da nessuna parte, allora poteva essere dovunque. Ed era sempre più facile avere paura di qualcosa che non si poteva vedere. Si mise la mano in tasca e strinse le dita intorno alla sagoma rassicurante del sassolino con il buco in mezzo. Lo tirò fuori, se lo mise davanti agli occhi come se stesse impugnando una pistola, e uscì nel corridoio.

Non si sentiva altro rumore che il tap-tap dell’acqua che gocciolava nel lavandino di metallo.

Lanciò un’occhiata allo specchio in fondo al corridoio. Per un istante si appannò, e Coraline ebbe la sensazione che sul vetro fluttuassero delle facce, indistinte e senza forma; poi le facce scomparvero, e nello specchio rimase solo una ragazzina che però era troppo piccola per avere la sua stessa età. Teneva in mano una cosa che emanava una luce delicata, simile a un carbone verde.

Sorpresa, Coraline abbassò lo sguardo su ciò che stringevano le sue dita: non era che un sassolino con un buco, un comunissimo sasso marrone. Poi tornò a guardare nello specchio, dove il sasso brillava come uno smeraldo. Il sasso nello specchio emanava una scia di fuoco verde, che si muoveva verso la stanza di Coraline.

— Mmm — disse lei.

Arrivò in camera sua. Quando entrò, i giocattoli cominciarono a muoversi eccitati, come se fossero contenti di vederla, e il piccolo carro armato usci dalla scatola dei giochi per salutarla, passando con i cingoli sopra a diversi altri balocchi. Finì sul pavimento, rovesciandosi nella caduta e restando sulla moquette come uno scarafaggio sulla schiena, brontolando e stridendo prima che Coraline lo raccogliesse e lo rimettesse dritto. Il carro armato sfrecciò sotto il letto per la vergogna.

Coraline si guardò intorno.

Guardò negli armadi e nei cassetti. Quindi afferrò la scatola dei giocattoli e li rovesciò tutti sulla moquette, dove brontolarono, si stiracchiarono, si dimenarono, liberandosi goffamente l’uno dall’altro. Una biglia grigia rotolò sul pavimento e andò a sbattere contro la parete. Nessuno di quei giocattoli aveva l’aria di essere un’anima, pensò Coraline. Prese in mano un braccialetto portafortuna d’argento, al quale erano appesi minuscoli amuleti a forma di animale che si inseguivano lungo tutta la circonferenza, e lo esamino: la volpe non catturava mai il coniglio, l’orso non raggiungeva mai la volpe.

Coraline aprì la mano e guardò il sassolino con il buco, sperando invano di trovarci un indizio. La gran parte dei giocattoli erano strisciati a nascondersi sotto il letto, e quei pochi rimasti (un soldatino di plastica verde, la biglia, uno yo-yo rosa shocking, e roba simile) erano proprio quel genere di cose che nel mondo reale si trovano appunto sul fondo di una scatola di giocattoli: oggetti dimenticati, abbandonati o non amati.

Stava per uscire dalla stanza e andare a cercare altrove. Ma poi si ricordò di una delle voci del buio, una dolce voce sussurrante, e di ciò che le aveva detto di fare. Sollevò il sasso e lo tenne fermo davanti all’occhio destro. Chiuse l’occhio sinistro e guardò la stanza attraverso il buco.

Visto così il mondo era grigio e incolore, come un disegno fatto a matita. Tutto era grigio… no, non proprio tutto. Qualcosa scintillava sul pavimento, qualcosa che aveva il colore di un tizzone nel caminetto di una nursery, il colore di un tulipano scarlatto-e-arancio che annuiva sotto il sole di maggio. Coraline tese la mano sinistra, temendo che se avesse tolto l’occhio dal sasso tutto sarebbe scomparso, e cercò di prendere l’oggetto che ardeva.

Le sue dita si strinsero intorno a qualcosa di liscio e freddo, e lo raccolsero in tutta fretta. Quindi abbassò il sassolino e guardò giù. Nella palma rosea della sua mano c’era la grigia, opaca biglia di vetro che poco prima si trovava in fondo alla scatola dei giocattoli. Portò il sassolino all’occhio, e attraverso il foro guardò di nuovo la biglia. E di nuovo la biglia tornò ad ardere e tremolare, colorata di rosso fuoco.

Una voce le sussurrò nella mente: — Infatti, signora, adesso mi sovviene che ero un maschio, a pensarci bene. Oh, ma devi fare in fretta. Te ne restano altre due da trovare, e la megera ce l’ha già con te perché sei riuscita a trovarmi.

Se devo farlo, pensò Coraline, non lo farò di certo con i suoi vestiti addosso. Si rimise il suo pigiama, la vestaglia e le pantofole, lasciando il maglione grigio e i jeans neri ben piegati sul letto, e gli stivali arancione sul pavimento accanto alla scatola dei giocattoli.

Mise la biglia nella tasca della vestaglia e uscì in corridoio.

Qualcosa le punse il viso e le mani, come la sabbia che soffia sulla spiaggia in una giornata ventosa. Si coprì gli occhi e continuò ad avanzare.

Le punture peggiorarono e camminare diventò sempre più difficile, come se stesse procedendo controvento in una giornata di tramontana particolarmente impetuosa. Era un vento violento, e gelido.

Fece un passo indietro, verso il punto di partenza.

— Oh, va’ avanti — le sussurrò una voce spettrale nell’orecchio. — Perché la megera è arrabbiata.

Avanzò nel corridoio, affrontando un’altra folata di vento che le ferì le guance e il viso con una sabbia invisibile, pungente come spilli, tagliente come vetro.

— Gioca senza barare — gridò Coraline nel vento.

Non ci fu nessuna risposta, ma il vento capriccioso la sferzò ancora una volta, e poi diminuì e cessò del tutto. Passando davanti alla cucina, Coraline riuscì a sentire, nell’improvviso silenzio, l’acqua che continuava a gocciolare dal rubinetto che perdeva, o forse le lunghe unghie dell’altra madre che battevano impazienti sul tavole. Ma resistette alla tentazione di guardare.

Con due lunghe falcate, raggiunse la porta di casa e uscì fuori.

Scese le scale e girò intorno all’edificio finché non si trovò davanti alla porta delle altre Miss Spink e Miss Forcible. Le lampadine ormai si accendevano e spegnevano quasi a casaccio, componendo parole che Coraline non riusciva a decifrare. La porta era chiusa. Le venne il timore che fosse chiusa a chiave, così la spinse con tutta la forza che aveva in corpo. Al principio sembrava bloccata, poi di colpo cedette e, con uno scatto, Coraline incespicò nella stanza buia, oltre la soglia.

Strinse una mano intorno al sassolino con il buco e avanzo nell’oscurità. Si aspettava di trovare un’anticamera preceduta da una tenda, ma non c’era assolutamente niente. La stanza era buia. Il teatro era vuoto. Avanzò guardinga. Sentì un fruscio sopra di se. Alzo lo sguardo verso il buio pesto e inciampò in qualcosa. Si chinò, raccolse una torcia, la accese e fece oscillare il fascio di luce per la stanza.

Il teatro era fatiscente e in stato di abbandono. Le poltrone giacevano rotte sul pavimento e antiche e polverose ragnatele formavano drappeggi sulle pareti, pendendo dal legno marcio e dalla tappezzeria di velluto in decomposizione.

Sentì un altro fruscio. Indirizzò il fascio di luce verso l’alto, verso il soffitto. Lassù c’erano delle cose prive di peli e gelatinose. Pensò che forse un tempo avevano posseduto una faccia, che un tempo erano state dei cani; ma nessun cane aveva ali da pipistrello, o poteva restare appeso a testa in giù come i ragni, come i pipistrelli.

La luce spavento quelle creature e una di loro spiccò il volo, con un pesante frullo d’ali nella polvere. Coralme chinò la testa mentre le passava vicino. Andò a posarsi su una parete lontana e cominciò ad arrampicarsi di nuovo, sempre a testa in giù, verso il nido dei cani-pipistrello sul soffitto.

Coraline si portò il sassolino all’occhio e scandagliò la stanza attraverso il buco, alla ricerca di qualcosa che brillasse o scintillasse, un segno rivelatore che da qualche parte vi fosse un’altra anima nascosta. Accompagnò la ricerca con il fascio di luce della torcia, e la fitta polvere sospesa nell’aria sembrava quasi solida. Sulla parete in fondo al palcoscenico in rovina c’era qualcosa. Era di un bianco-grigiastro, grande il doppio di Coraline, appiccicata sul muro come una lumaca. La bambina fece un respiro profondo. Io non ho paura, si disse. Assolutamente no. Non ci credeva affatto, ma si arrampicò fin sopra il vecchio palcoscenico, le dita che affondavano nel legno marcio mentre cercava di issarsi.

Quando fu più vicina alla cosa sulla parete, vide che era una specie di sacca, come il guscio di un uovo di ragno. La cosa si contorse alla luce della torcia. All’interno della sacca c’era qualcosa che assomigliava a una persona, ma con due teste e il doppio delle braccia e delle gambe che avrebbe dovuto avere.

La creatura sembrava spaventosamente informe e incompleta, come se due figure di plastilina fossero state lavorate insieme e compresse in un’unica forma.

Coraline esitò. Non voleva avvicinarsi a quella cosa. I cani-pipistrello si staccarono dal soffitto a uno a uno e cominciarono a volteggiare in cerchio nella stanza, avvicinandosi a lei, ma senza mai sfiorarla.

Forse qui non ci sono anime nascoste, pensò. Forse potrei andarmene e provare da un’altra parte. Guardò per l’ultima volta attraverso il buco nel sassolino: il teatro abbandonato era ancora d’un tetro grigio, ma adesso c’era un bagliore marrone, intenso e luminoso come legno di ciliegio lucidato, che veniva dall’interno della sacca. Di qualunque cosa si trattasse, l’oggetto luminoso era stretto in una delle mani della figura con due teste.

Coraline attraversò lentamente il palcoscenico umido, mettendocela tutta per tare il minor rumore possibile, nel timore che, se avesse disturbato la cosa nella sacca, questa avrebbe aperto gli occhi, l’avrebbe vista e a quel punto…

Ma non le veniva in mente nulla che fosse più spaventoso di quella cosa che la guardava. Il cuore le batteva fortissimo nel petto. Fece un altro passo in avanti.

Non aveva mai avuto tanta paura, tuttavia continuò ad avanzare finché raggiunse la sacca. Quindi infilò la mano in quel biancore appiccicoso aggrappato al muro, che crepitò appena appena, come un focherello, e le si appiccicò sulla pelle e sui vestiti come una ragnatela, come candido zucchero filato. Affondò la mano fino a toccare dita gelide, che, lo sentiva benissimo, erano chiuse intorno a una biglia di vetro. La pelle della creatura era viscida, come ricoperta di gelatina. Coraline tirò forte la biglia.

All’inizio non accadde nulla; l’oggetto rimase ben saldo nella presa della creatura. Poi, un dito alla volta, la presa si allentò e la biglia scivolò nella mano di Coraline, che ritrasse il braccio liberandolo dalla membrana appiccicosa, sollevata dal fatto che la creatura non aveva aperto gli occhi. Puntò la luce della torcia sulle due facce: assomigliavano, pensò, a due versioni giovanili di Miss Spink e Miss Forcible, ma distorte e spiaccicate, come due grumi di cera che si fossero sciolti e fusi insieme, in un unico ripugnante oggetto.

Senza preavviso, una delle mani della creatura tentò di agguantare il braccio di Coraline. Le unghie le graffiarono la pelle, ma era troppo scivolosa per poter fare presa, e la bambina riuscì a ritrarsi in tempo. E poi gli occhi si aprirono — quattro bottoni neri che brillavano guardandola dall’alto — e due voci diverse da qualsiasi voce Coraline avesse mai sentito cominciarono a parlare. Una gemeva e sussurrava, l’altra ronzava come un grasso e arrabbiato moscone sul vetro di una finestra. E le voci dissero, come se fossero una sola: — Ladra! Restituiscila! Falla finita! Ladra!

L’aria venne smossa dai cani-pipistrello. Coraline cominciò a indietreggiare. Ormai si era resa conto che, per quanto quella cosa sulla parete (la cosa che una volta era stata le altre Miss Spink e Miss Forcible) fosse terrificante, era attaccata al muro tramite la tela, incapsulata nel suo bozzolo. Non poteva seguirla.

I cani-pipistrello battevano le ali e fluttuavano intorno a lei, ma non tentarono di farle del male. Lei scese giù dal palcoscenico e alla luce della torcia ispezionò il vecchio teatro, alla ricerca dell’uscita.

— Fuggi, signorina — disse la voce lamentosa di una ragazzina nella sua testa. — Fuggi, adesso. Hai trovato due di noi. Fuggi da questo luogo fintantoché il sangue ti scorre ancora nelle vene.

Coraline fece cadere la biglia nella sua tasca, accanto all’altra. Localizzò la porta, corse verso di essa e la tirò finché non si aprì.