"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)Libro Secondo8.Le scarse acque brune del Pymatuning si gettano nel Shenango, che va ad ingrossare il Mahoning, e i due fiumi, insieme, formano il Beaver. Il Beaver va a ingrossare le acque dell’Ohio, che scorre maestosamente verso ovest, per contribuire a rendere più possente il Padre delle Acque. Anche il tempo scorre, come i fiumi. Piccole unità si raggruppano in grandi unità, i minuti in mesi e i mesi in anni. I ragazzi diventano uomini, e le pietre miliari di una lunga ricerca si moltiplicano e vengo lasciate indietro. Ma la leggenda rimane leggenda, e il sogno sogno, scintillante, sempre più debole, sempre più lontano verso il tramonto. C’era una città chiamata Refuge, e c’era una ragazza dai capelli biondi; ed erano reali. Refuge non era affatto simile a Piper’s Run. Era più grande, tanto più grande che i suoi confini premevano già contro i limiti imposti dalla legge, ma le dimensioni non costituivano l’unica differenza. Era una questione di mentalità. Len ed Esaù avevano notato la stessa mentalità in certi altri posti, durante il loro viaggio lungo le valli fluviali, in particolare nei luoghi dove, come a Refuge, le strade di terra e le vie d’acqua si incrociavano. Piper’s Run viveva e respirava con il ritmo lento e calmo delle stagioni, e anche i pensieri di coloro che vi abitavano erano calmi. Refuge ribolliva di attività e di vita. La gente si muoveva più in fretta, e pensava più in fretta, e parlava più forte, e le strade erano rumorose di notte, con un passare continuo di carrozze e carri e le voci degli scaricatori che risuonavano intorno ai moli. Refuge sorgeva sulla riva settentrionale dell’Ohio. Il suo nome era venuto dal fatto che gli abitanti di una città più lontana lungo il fiume vi avevano trovato rifugio all’epoca della Distruzione. Ora era il punto d’incontro di due grandi rotte commerciali, che si stendeva fino ai Grandi Laghi, e i carri rombavano di giorno e di notte quando le strade erano praticabili, portando a sud balle di pelli, e ferro, e panni di lana, farina e formaggio. Da oriente e da occidente, lungo il fiume, scorreva dell’altro traffico, portando altre cose, rame e cuoio, sego e carne salata dalle grandi pianure, carbone e rottami metallici dalla Pennsylvania, pesce salato dall’Atlantico, barili di chiodi, fucili pregiati, carta. Il traffico fluviale si muoveva anch’esso continuamente, dalla primavera ai primi mesi d’inverno, barconi piatti, lance e rimorchiatori trascinavano lunghe file di chiatte cariche, sbuffando allegramente dai fumaioli, con un gran rumore dei motori a vapore. Erano quelli i primi motori di qualsiasi tipo che Len ed Esaù avessero visto in vita loro, e inizialmente erano stati spaventati a morte dal rumore, ma ben presto si erano abituati a essi. Durante un inverno avevano lavorato in una piccola fonderia vicino alla foce del Beaver, preparando delle pentole a vapore, e pensando già di dare un contributo essenziale alla meccanizzazione del mondo. I Nuovi Mennoniti si accigliavano, disapprovando l’uso di ogni tipo di energia artificiale, ma gli uomini dei battelli fluviali appartenevano a sette differenti, e avevano differenti problemi. Dovevano risalire il corso del fiume con pesanti carichi, lottando contro la corrente, e se potevano mettere le briglie al vapore, usandolo in motori semplici e di facile fabbricazione, questo era un grosso aiuto, ed erano disposti anche ad aggirare certi problemi etici per riuscirci. Sul lato del fiume che dava nel Kentucky, proprio di fronte, c’era un posto che si chiamava Shadwell. Shadwell era molto più piccolo di Refuge, e molto più recente, ma si stava ingrandendo così in fretta che anche Len ed Esaù poterono vedere la differenza, dopo appena un anno di soggiorno. Gli abitanti di Refuge non apprezzavano molto Shadwell, che era nato solo perché i mercanti avevano cominciato a salire dal sud con zucchero e cotone e tabacco, attirati dal commercio intenso e fruttuoso che si svolgeva nei mercati di Refuge. Un paio di baracche provvisorie erano state erette dai mercanti, e poi un molo era sorto sulla riva del fiume, e due case di transito erano state frettolosamente costruite tra le baracche e il molo, e un grande capannone per depositare le merci… e così, prima che qualcuno avesse potuto rendersene conto, era diventato un villaggio, con magazzini e case e depositi, e un nome proprio, e una popolazione in costante aumento. E Refuge, che era già ai limiti di popolazione e di sviluppo permessi dalla legge, era rimasto a osservare acidamente tutto il commercio in sovrappiù, quello che per mancanza di strutture non poteva affrontare, incanalarsi nei mercati di Shadwell. C’erano pochi Amish o Mennoniti a Refuge. Gli abitanti appartenevano prevalentemente alla Chiesa della Santa Riconoscenza, e si chiamavano Kelleriti, dal nome di James P. Keller, fondatore della setta. Len ed Esaù avevano scoperto che c’erano pochissimi Mennoniti nei centri che vivevano sul commercio più che sull’agricoltura. E poiché essi avevano tagliato i ponti con la loro comunità, e non avevano alcun desiderio di rivelare la loro origine, o di ritornare a Piper’s Run, già dai primi tempi avevano abbandonato l’abito caratteristico della fede della loro adolescenza, adottando i vestiti molto più semplici e anonimi delle cittadine fluviali. Portavano i capelli corti, e il mento rasato, perché tra i Kelleriti c’era l’usanza, per gli uomini, di radersi la barba fino a quando rimanevano celibi, e di farsela crescere dopo sposati: una barba fluente era un segno che distingueva l’uomo sposato in maniera molto più definitiva di un anello, che si poteva togliere o mettere a volontà. Tutte le domeniche andavano regolarmente nella Chiesa della Santa Riconoscenza, e partecipavano alle devozioni quotidiane della famiglia che li ospitava, e qualche volta si dimenticavano perfino di non essere sempre stati Kelleriti. A volte, pensava Len, essi dimenticavano perfino quale motivo li aveva spinti in quel luogo, e quello che stavano cercando. E per ricordare egli riandava col pensiero alla notte durante la quale aveva aspettato Esaù sulla punta di terra che dominava il Pymatuning, e a tutto quello che era accaduto prima di quel momento, e che lo aveva portato là, ed era abbastanza facile ricordare le sensazioni fisiche, l’aria fredda e il profumo delle foglie, le frustate, e l’espressione del volto di papà quando aveva sollevato la cinghia e l’aveva calata su di lui, sibilante e dolorosa. Ma l’altra parte, quella che aveva vissuto Il tempo aveva giocato un altro tiro. Lo aveva fatto crescere, e gli aveva dato molte preoccupazioni nuove, che lui non aveva mai conosciuto prima. Una di queste era la ragazza dai capelli biondi. Era una sera di mezzo giugno, calda e afosa, e il sole al crepuscolo era stato inghiottito da una nera voragine di nubi temporalesche. Le due candele sulla tavola bruciavano diritte, senza che dalle finestre aperte giungesse il minimo alito d’aria a muoverle. Len sedeva con le mani giunte e il capo chino, e guardava i resti di un budino di latte. Esaù sedeva alla sua destra, nello stesso atteggiamento. La ragazza dai capelli biondi sedeva di fronte a loro; si chiamava Amity Taylor, e suo padre stava rendendo grazie dopo il pasto, seduto a capotavola, e di fronte a lui la madre della ragazza ascoltava con reverenza. «…stendi il manto della Tua misericordia per ripararci nel giorno della Distruzione…» Amity guardò, di sotto l’ombra delle sue lunghe ciglia, alla luce delle candele, prima Len e poi Esaù. «…i nostri ringraziamenti per l’abbondanza senza limiti della Tua benedizione…» Len sentì lo sguardo della ragazza su di sé. La sua pelle era sensibile e fragile a quel tocco impalpabile, e così, senza neppure sollevare lo sguardo, seppe con certezza che lei lo stava fissando. Il suo cuore cominciò a battere più forte. Si sentì il viso infuocato. Le mani di Esaù erano sulla sua linea di visione, congiunte tra le ginocchia. Vide che quelle mani si muovevano e si irrigidivano, e capì che Amity aveva guardato anche Esaù, e si sentì ancora più infiammato, pensando al giardino e al luogo ombroso sotto il cespuglio di rose. Il giudice Taylor non avrebbe mai smesso di parlare? Finalmente arrivò l’«Amen,» soffocato dalla voce più cupa e profonda del tuono. In fretta, pensò Len, bisogna fare in fretta con i piatti, altrimenti non ci sarà nessuna passeggiata in giardino. La signora Taylor andò in cucina, portando i due vassoi. Sulla porta del corridoio, il giudice pareva diretto nel suo studio, come sempre faceva dopo le ultime preghiere. Esaù si volse, improvvisamente, e lanciò a Len uno sguardo pieno di collera, e bisbigliò: «Non ti immischiare!» Amity s’incamminò verso la cucina, tenendo in equilibrio tra le mani la pila delle tazze. I capelli biondi le scendevano sulla schiena in una grossa treccia. Indossava un vestito di cotone, grigio, dal collo alto e dalla gonna lunga, ma non aveva su di lei l’effetto che aveva su sua madre. Amity camminava in modo meraviglioso. Quel modo di camminare faceva balzare il cuore in gola a Len, ogni volta che lo vedeva. Restituì l’occhiata minacciosa a Esaù, e s’incamminò dietro di lei, con il suo carico di piatti, facendo lunghi passi per arrivare per primo. E il giudice Taylor disse, con voce calma, dalla porta del corridoio: «Len… vieni nel mio studio, quando avrai messo giù i piatti. Per una volta, possono fare senza di te.» Len si fermò. Lanciò un’occhiata sorpresa e preoccupata al giudice Taylor, e disse: «Sì, signore.» Taylor assentì, e uscì dalla stanza. Len lanciò un’occhiata a Esaù, che pareva a sua volta sorpreso. «Cosa diavolo vuole?» domandò Esaù. «Come faccio a saperlo?» «Ascolta. Ascolta, hai combinato qualcosa che non va?» Amity stava varcando la soglia della cucina, muovendosi con grazia, con la gonna che fluttuava intorno alle caviglie. Len arrossì. «Non più di quanto tu sappia, Esaù,» disse, cupamente. Seguì Amity in cucina, e posò sull’acquaio la sua pila di piatti. Amity cominciò a rimboccarsi le maniche, e disse a sua madre: «Len non può aiutarci stasera. Il babbo lo vuole.» Reba Taylor si voltò, dalla stufa, sulla quale una pentola d’acqua stava bollendo. La donna aveva un volto gentile, piacevole, anche se un po’ vacuo, e Len l’aveva classificata già da molto tempo tra le persone prive di curiosità. La vita era passata tranquilla e facile su di lei. «Santo cielo, santo cielo,» disse. «Certo non avrai fatto niente di male, Len?.» «Spero di no, signora.» «Scommetto,» disse Amity, «Che si tratta di Mike Dulinsky e del suo magazzino.» «Del «Sì, signora,» disse Len, e uscì dalla cucina, attraversò il soggiorno, entrò nel corridoio, e lo percorse in direzione dello studio, chiedendosi se qualcuno lo avesse visto baciare Amity in giardino, o se si trattasse della faccenda di Dulinksy, o di chissà quale altra cosa. Era andato spesso nello studio del giudice, e aveva parlato spesso con lui, di libri e del passato e del futuro e, a volte, perfino del presente, ma non era mai stato chiamato a quel modo, prima di quella sera. La porta dello studio era aperta. Taylor disse: «Entra, Len.» Il giudice era seduto dietro la sua grande scrivania, nell’angolo delle finestre, che guardavano a ponente: il cielo, là, era di un nero bizzarro, come se qualcuno l’avesse cosparso di fuliggine. Gli alberi apparivano flosci e lividi, e il fiume scorreva, da un lato, come una striscia di piombo. Taylor era rimasto seduto a guardare lo scenario del tramonto, con una candela spenta e un libro ancora chiuso sulla scrivania, accanto al suo gomito. Era un uomo piuttosto piccolo, con le guance lisce e la fronte alta. I capelli e la barba erano sempre in ordine perfetto, la sua biancheria era pulita ogni giorno, e il suo semplice abito scuro era della migliore stoffa che giungeva sui mercati di Refuge. Len lo trovava simpatico. Possedeva molti libri, e li leggeva, e incoraggiava gli altri a leggerli, e non aveva paura della conoscenza, anche se non si vantava mai di possederne più di quanta gli fosse necessaria per la sua professione. ’Non richiamare mai un’attenzione eccessiva su di te,’ diceva spesso a Len. ’Ed eviterai una dose considerevole di guai.’ In quel momento disse a Len di entrare, e di chiudere la porta. «Ho paura che stiamo per avere un colloquio molto serio, e desideravo che tu venissi qui da solo perché desidero che tu sia libero di riflettere e di prendere le tue decisioni senza… be’, senza nessun’altra influenza.» «Non avete molta stima di Esaù, vero?» domandò Len, sedendosi sulla sedia che il giudice aveva sistemato per lui. «No,» disse Taylor, «Ma questo non c’entra. Posso solo aggiungere che ho invece moltissima stima di te. E adesso, lasciamo perdere gli apprezzamenti personali. Len, tu lavori per Mike Dulinsky?» «Sì, signore,» disse Len, cominciando a mettersi sulla difensiva. Dunque era quello. «Hai intenzione di continuare a lavorare per lui?» Len esitò solo per una frazione di secondo, prima di ripetere: «Sì, signore.» Taylor parve riflettere, osservando il cielo fuligginoso e l’ombra lìvida che gravava su tutte le cose. Le nubi furono percorse da una saetta enorme. Len cominciò a contare mentalmente, e quando arrivò a sette si udì un brontolio profondo di tuono. «È ancora molto lontano,» commentò. «Sì, ma arriverà. Quando vengono da quella direzione, sono sempre brutti, i temporali. Hai letto molto, Len, nel corso di quest’ultimo anno. Hai imparato qualcosa dalle tue letture?» Len osservò amorevolmente gli scaffali. Era troppo buio per vedere i titoli, ma conosceva ormai i libri, dalle dimensioni e dal posto che occupavano, e ne aveva già letti molti, moltissimi. «Spero di sì,» disse. «Allora, cerca di applicare quello che hai imparato. Non è di nessuna utilità rinchiudere il sapere nella testa come in un armadio. Ti ricordi di Socrate?» «Sì.» «Era un uomo più grande e più saggio di quanto io e te potremo mai essere, ma questo non bastò a salvarlo, quando si scontrò con troppa forza contro l’intero corpo delle leggi e delle credenze pubbliche.» Il fulmine dardeggiò di nuovo nelle nubi oscure, e questa volta l’intervallo fu molto più breve. Il vento cominciò a soffiare, allora, agitando i rami degli alberi, increspando la cupa superficie del fiume. In lontananza, delle figure stavano affaccendandosi intorno agli ormeggi delle chiatte, sui moli, oppure per sistemare teloni sulle casse di merci, o trasportare altre merci al riparo. Verso l’interno, tra gli alberi, le case bianche e argentate di Refuge scintillavano, nell’ultimo debole chiarore che veniva dall’alto. «Perché vuoi affrettare il giorno?» domandò Taylor, con calma. «Non vivrai abbastanza per vederlo, né lo vedranno i tuoi figli, né i figli dei tuoi figli. Perché, Len?» «Perché… che cosa?» domandò Len, ora sinceramente stupito. Poi respirò più forte, quando Taylor gli rispose: «Perché vuoi che le città ritornino?» Len tacque, scrutando nell’oscurità che si era addensata improvvisamente a tal punto da rendere Taylor un’ombra indistinta, anche se il giudice era a meno di un metro da lui. «Perché vuoi che le città sorgano ancora?» domandò di nuovo il giudice, a bassa voce. «Esse stavano già morendo, ancora prima della Distruzione. Megalopoli, annegata nelle proprie fogne, soffocata dai propri gas di scarico, schiacciata e sommersa dalla propria popolazione. ’Città’ suona come una parola musicale al tuo orecchio, ma cosa ne sai tu, in realtà, delle città?» Avevano toccato questo argomento già altre volte. «La nonna mi diceva…» «Che allora lei era una ragazzina, e le ragazzine ben difficilmente avrebbero potuto vedere il sudiciume, le brutture, la povertà ammassata, il vizio. Le città erano come vampiri, che succhiavano tutta la vita del paese e la distruggevano. Gli uomini non erano più degli individui, ma unità di una vasta macchina, tutti modellati su un unico disegno, con gli stessi gusti e le stesse idee, la stessa educazione di massa che non educava ma copriva con una coperta di parole l’ignoranza. Perché vuoi far ritornare tutto questo?» Una vecchia discussione, però applicata in maniera del tutto inattesa. Len balbettò: «Non ho pensato alle città, in un modo o nell’altro. E non capisco cosa c’entri con questo il nuovo magazzino del signor Dulinsky.» «Len, se tu non sei onesto con te stesso, la vita non sarà mai onesta con te. Uno stupido potrebbe dire che non vede e non capisce, ed essere onesto, ma non è questo il tuo caso. A meno che tu non sia ancora così bambino da non pensare oltre i fatti immediati.» «Sono abbastanza vecchio da potermi sposare,» disse Len, con calore. «E questo dovrebbe rendermi di un’età sufficiente ad affrontare qualsiasi altra cosa.» «È vero,» disse Taylor. «È vero. Ecco, comincia a piovere. Aiutami a chiudere le finestre.» Le chiusero, e Taylor accese la candela. Lo studio, ora, era soffocante, afoso, chiuso e intollerabile. «È un peccato, sì, è un vero peccato,» disse Taylor, «Che le finestre debbano essere sempre chiuse nel momento in cui comincia a soffiare un vento fresco. Sì, hai l’età giusta per sposarti, e credo che anche Amity abbia avuto qualche sua idea, in questo senso. È una possibilità che vorrei tu prendessi in considerazione, tra l’altro.» Il cuore di Len cominciò a battere forte, come accadeva ogni volta che si trattava direttamente o indirettamente di Amity. Si sentì follemente eccitato, e nello stesso tempo gli parve che una trappola fosse stata predisposta, pronta a scattare davanti ai suoi piedi. Si mise di nuovo a sedere, e la pioggia cominciò a battere sulle finestre come grandine. Taylor disse, lentamente: «Refuge è un ottimo paese, così com’è. Potresti vivere bene, qui. Potrei toglierti dalla vita dei moli, e fare di te un avvocato, e col tempo diventeresti un uomo importante. Avresti molto tempo libero per studiare, e tutta la sapienza del mondo la troveresti nei libri di questa biblioteca. E poi c’è Amity. Queste sono le cose che io potrei darti. Cosa ti offre, invece, Dulinsky?» Len scosse il capo. «Io faccio il mio lavoro, e lui mi paga. Non c’è altro.» «Tu sai che sta violando la legge.» «È una legge stupida. Un magazzino in più o in meno…» «Un magazzino in più, in questo caso, rappresenta una violazione del Trentesimo Emendamento, che è la legge fondamentale della nostra terra. Non potrà essere trascurata con tanta leggerezza, questa violazione.» «Ma non è giusto. Nessuno, qui a Refuge, vuole vedere crescere costantemente Shadwell, che sottrae al nostro paese una fetta sempre più grande di commercio, solo perché non ci sono magazzini e capannoni e depositi a sufficienza, da noi, per ospitare tutto il traffico.» «Un nuovo magazzino,» disse Taylor, riprendendo puntigliosamente le parole di Len, «E poi nuovi moli per servirlo, e nuovi alloggi per i mercanti, e presto ci vorrà un altro magazzino ancora, ed è in questo modo che nascono le città. Len, Dulinsky ti ha mai parlato di Bartorstown?» Il cuore di Len, che aveva battuto così tumultuosamente per Amity, parve ora fermarsi per un’improvvisa paura. Rabbrividì e rispose quella che era la perfetta verità: «No, signore. Mai.» «Me l’ero chiesto diverse volte. Si comporta esattamente come potrebbe comportarsi un uomo di Bartorstown. È vero, però, che conosco Mike da quando eravamo ragazzi, e non ricordo nessuna influenza… no, penso proprio di no. Ma questo potrebbe non essere sufficiente a salvarlo, Len, né potrebbe essere sufficiente a salvare te.» Len disse, lentamente: «Credo di non capire, signore.» «Tu ed Esaù siete forestieri. La gente è disposta ad accettarvi, finché non agirete in modo contrario alle loro usanze… ma se vi comporterete in maniera diversa, dovrete stare in guardia.» Appoggiò i gomiti sulla scrivania, e guardò negli occhi Len, nel vacillante lume della candela. «Tu non mi hai detto tutta la verità sul tuo conto.» «Non ho detto nessuna bugia.» «Questo non è sempre necessario. Comunque, posso indovinare ugualmente quello che non mi ha detto. Sei un ragazzo di campagna. Sarei pronto a scommettere che tu eri un Nuovo Mennonita. E sei scappato da casa. Perché?» «Penso,» disse Len, scegliendo le parole con la stessa attenzione con cui un uomo che si trova sull’orlo di un pozzo fa attenzione ai suoi passi, «Che sia stato perché mio padre e io non riuscivamo a metterci d’accordo su quanto io potessi imparare, e come.» «Fino a questo punto», disse Taylor, pensieroso. «E non oltre. È sempre stata una linea difficile da tracciare. Ogni setta deve decidere da sola, e, in un certo modo, anche ogni individuo deve farlo. Tu hai già trovato il tuo limite, Len?» «Non ancora.» «Trovalo,» disse Taylor, «Prima che tu vada troppo oltre.» Rimasero seduti, in silenzio, per un lungo momento. La pioggia scendeva a torrenti, e un fulmine cadde così vicino che si udì un sibilo prima del tuono, e la casa tremò, come per un’esplosione. «Capisci, Len, per quale motivo è stato approvato il Trentesimo Emendamento?» domandò Taylor. «Perché non vi siano più città.» «Sì, ma capisci il ragionamento sul quale si basa questa proibizione? Io sono stato allevato ed educato in una certa credenza, e pubblicamente non mi sogno di contraddirla, neppure in minima parte, ma qui, in privato, posso dire che non credo che Dio abbia fatto distruggere le città perché erano luoghi di peccato. Ho letto troppa storia per crederlo. Il nemico ha bombardato le grandi città chiave perché offrivano degli eccellenti bersagli, centri di popolazione, centri di produzione e distribuzione, senza i quali il paese sarebbe stato come un corpo con la testa mozzata. Ed è andata proprio così. Il sistema di alimentazione e di rifornimento, enormemente complicato, si è disintegrato, e le città che non erano state bombardate furono abbandonate per necessità, perché erano non solo pericolose, ma inutili, e tutti vennero costretti a ripiombare nelle leggi elementari della sopravvivenza, la prima delle quali era la ricerca del cibo. «Gli uomini che fecero le nuove leggi erano decisi a impedire che una cosa simile si ripetesse. La popolazione era dispersa, in quel momento, ed essi intendevano mantenerla così, vicina alle fonti di sussistenza, eliminando la possibilità di creare nuovi, grossi obiettivi per qualsiasi potenziale nemico. Così approvarono il Trentesimo Emendamento. Fu una legge saggia. Era adatta al popolo, accontentava le sue esigenze, e provvedeva al suo bene. Il popolo aveva avuto di recente una lezione indimenticabile sul fatto che le città potevano trasformarsi in trappole di morte. La popolazione era enormemente ridotta, e il ricordo della Distruzione era così orribile, che nessuno poteva pensare che un orrore simile si ripetesse. Il popolo non voleva più le città, e gradualmente questa volontà diventò un articolo di fede. Il paese è stato sano e prospero, grazie al Trentesimo Emendamento, Len. Lascialo stare.» «Forse avete ragione,» disse Len, fissando accigliato la candela. «Ma quando il signor Dulinsky dice che il paese ha ricominciato veramente a ingrandirsi, e non dovrebbe essere fermato da leggi sorpassate, credo che anche lui abbia ragione.» «Non lasciarti ingannare da lui. Non si preoccupa del paese. È un uomo che possiede quattro magazzini, e ne vuole possedere cinque, ed è in collera perché la legge glielo proibisce.» Il giudice si alzò in piedi. «Dovrai decidere da solo ciò che è giusto. Ma desidero che una cosa ti sia chiara fin d’ora. Io devo pensare a mia figlia, e a mia moglie, e a me stesso. Se vorrai continuare con Dulinsky, dovrai lasciare la mia casa. Niente più passeggiate con Amity. Niente più libri. E ti avverto che, se sarò chiamato a giudicarti, ti giudicherò.» Anche Len si alzò in piedi. «Sì, signore,» disse. Taylor gli posò una mano sulla spalla. «Non essere sciocco, Len. Pensaci bene.» «Ci penserò.» Uscì dallo studio, sentendosi in collera e pieno di risentimento, e nello stesso tempo convinto che il giudice avesse detto delle cose sensate. Amity, il matrimonio, un posto sicuro nella comunità, un futuro, delle radici, niente più Dulinsky, e niente più dubbi. E niente più Bartorstown. Niente più sogni. Avrebbe smesso di cercare senza mai trovare. Pensò al matrimonio con Amity, a quello che sarebbe stato. L’idea lo spaventava, come quando un puledro vedeva i finimenti per la prima volta, lo faceva sudare. Sicuramente, niente più sogni. Pensò a suo fratello James, che ormai doveva essere diventato padre di tanti piccoli Mennoniti, e si domandò se, in complesso, Refuge fosse poi molto diverso da Piper’s Run, e se Amity fosse un bene così prezioso, da giustificare tutta la strada che lui aveva percorso per raggiungerla. Amity, e Piatone, anche. Lui non aveva letto Piatone, a Piper’s Run, e ne aveva letto le opere a Refuge, ma anche Piatone non gli pareva l’intera risposta. Niente più Bartorstown. Ma l’avrebbe mai trovata, comunque? Era tanto pazzo da pensare di cambiare una ragazza per una cosa che era, in fondo, solamente un fantasma? Il corridoio era buio, ma veniva rischiarato dagli intermittenti, lividi bagliori dei fulmini. E ci fu un lampo intenso quando egli passò ai piedi delle scale, e in quel breve chiarore egli scorse Esaù e Amity nell’alcova triangolare del sottoscala. Erano stretti l’uno all’altra, ed Esaù baciava Amity appassionatamente, e Amity non protestava. |
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