"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)7.Aveva dormito, per un poco, un sonno nero e profondo, e poi si era svegliato di nuovo a fissare le tenebre, a sentire il dolore, e a pensare. Il corpo gli doleva, non del familiare dolore di una bastonatura, ma in modo grave, che non avrebbe dimenticato in fretta. Il male più profondo era quello che soffrivano le parti immateriali del suo essere, e così rimase disteso nel buio, a lottare con quella sofferenza, nella piccola stanza sbilenca sotto il grondone, che era ancora soffocante per il sole del lungo pomeriggio. Arrivò quasi l’alba, prima che le cose sorgessero chiare dalla cieca furia del dolore e della collera, del risentimento e della vergogna che turbinavano in lui come venti impetuosi in uno spazio angusto. Poi, forse perché era troppo esausto per essere ancora violento, cominciò a vedere qualcosa, e a capire. Capì che quando aveva singhiozzato nelle tracce lasciate da Esaù, nella polvere e nel fieno, e quando aveva conosciuto l’abiezione della rinuncia e della resa, aveva mentito. Perché lui non intendeva rinunciare a Bartorstown. Non poteva rinunciare, senza rinunciare anche alla parte più importante di se stesso. Non sapeva ancora, con esattezza, quale fosse quella parte così importante, ma sapeva che c’era, e sapeva anche che nessuno, neppure papà, aveva il diritto di mettere le mani su quella cosa preziosa. Buona o cattiva, giusta o peccaminosa, quella parte di lui si trovava al di là del capriccio passeggero, o dell’atteggiamento, o del gioco fuggevole. Era lui stesso, Len Colter, l’entità individuale, unica, che corrispondeva a quel nome. Non poteva rinunciare a essa e nello stesso tempo continuare a vivere. Quando ebbe infine compreso tutto questo, si addormentò di nuovo, un sonno più calmo, e si svegliò col sapore amaro delle lacrime in bocca, e vide la finestra chiara e luminosa e il sole che sorgeva all’orizzonte. L’aria era piena di suoni, il grido dei merli e il richiamo impetuoso dei fagiani tra le siepi, il cinguettare di innumerevoli uccelli che iniziavano la loro giornata. Len guardò fuori, oltre il tronco annerito dal fulmine di un acero gigantesco, che aveva un’indomabile sporgenza verdeggiante che continuava a uscire dal tronco rinsecchito, guardò oltre la tettoia del pollaio e la distesa familiare dei campi, là dove il grano maturava al sole; osservò il pendio delle colline e i boschi alti che s’inerpicavano fino alla cresta incoronata da tre grandi pini neri. E una cupa malinconia scese su di lui, perché stava guardando quelle cose buone per l’ultima volta. Non arrivò a quella decisione seguendo una linea di ragionamento consapevole. La conobbe, semplicemente, e immediatamente, nel momento stesso del suo risveglio. Si alzò, e, ancora tutto indolenzito e rigido, cominciò a sbrigare le sue faccende, pallido e remoto, parlando solo quando qualcuno gli rivolgeva una domanda, evitando lo sguardo della gente. Con la sua ruvida gentilezza, suo fratello James cercò di consolarlo, quando poté parlargli lontano dalle orecchie di papà: «È per il tuo bene, Lennie, e un giorno ripenserai a queste cose e sarai lieto di essere stato fermato in tempo. Dopotutto, non è la fine del mondo, no?» Oh, sì, invece, pensò Len. E tutti lo sanno. Dopo il pranzo, a mezzogiorno, gli dissero di salire a lavarsi e a indossare il vestito che, generalmente, lui portava soltanto al sabato. E poco tempo dopo la mamma salì da lui, con una camicia pulita, ancora calda del ferro, e finse di guardare rigidamente un punto remoto, alle sue spalle. E nel frattempo le lacrime scendevano furtive dai suoi occhi, e lei non se ne accorgeva, e poi d’un tratto lo abbracciò e l’attirò a sé e disse rapidamente, in un bisbiglio: «Come hai potuto farlo, Lennie, come hai potuto essere così cattivo, e offendere il buon Dio, e disobbedire a tuo padre?» Len sentì che le sue difese cominciavano a sgretolarsi. Tra un minuto avrebbe cominciato a piangere tra le braccia della mamma, e tutta la sua determinazione se ne sarebbe andata, per il momento. Così la respinse, e disse: «Ti prego, mamma, mi fai male». «La tua povera schiena!» mormorò lei. «Avevo dimenticato». Gli prese le mani, allora. «Lennie, sii umile, sii paziente, e vedrai che passerà tutto. Dio ti perdonerà certamente, sei così giovane, e lui è così buono. Sei troppo giovane per capire…». Papà salì le scale, e il suo arrivo pose fine a quelle parole. Dieci minuti dopo il carro sobbalzava e rumoreggiava, uscendo dall’aia, e Len sedeva rigido al fianco di suo padre, e nessuno dei due parlava. E Len pensava a Dio, a Satana, e agli anziani del villaggio, e al predicatore, a Soames e a Hostetter e a Bartorstown, e tutto era terribilmente confuso, ma lui sapeva una cosa. Dio non lo avrebbe perdonato. Aveva scelto la via del trasgressore, ed era dannato, al di là di ogni speranza. Ma avrebbe avuto Bartorstown, per tenergli compagnia. Il carro dello zio David si accodò al loro, e andarono insieme al villaggio, con Esaù rannicchiato in un angolo, molto piccolo e molto abbattuto, come se tutte le ossa fossero state tolte dal suo corpo. Quando giunsero nella casa del signor Harkness, papà e lo zio David scesero, e cominciarono a parlare tra loro, lasciando a Len e a Esaù il compito di legare i cavalli. Esaù non si voltò a guardare Len. Evitò in qualsiasi modo di guardarlo. Neppure Len lo guardò. Ma erano fianco a fianco, e Len disse, imperiosamente, in un bisbiglio: «Ti aspetto al solito posto; fino a quando sarà spuntata la luna, sarò là. Poi me ne andrò». Si accorse che Esaù s’irrigidiva e trasaliva. Prima che Esaù potesse aprire la bocca, Len sibilò, «Zitto!», poi si voltò e tornò indietro, mettendosi rispettosamente dietro a suo padre. Ci fu poi una seduta molto lunga e molto sgradevole nel salotto della casa del signor Harkness. C’erano anche il signor Fenway, il signor Glasser, e il signor Cluter e naturalmente il signor Nordholt. Quando ebbero finito, Len ebbe la sensazione di essere stato spellato e rivoltato, come un coniglio sull’aia. Questa sensazione lo fece andare in collera. Lo indusse a odiare tutti quegli uomini barbuti, che parlavano lentamente e gravemente, e che lo spellavano, lo pungevano, lo tormentavano. Per due volte si accorse che Esaù era sul punto di tradirlo, e si preparò a dare del bugiardo a suo cugino. Ma Esaù riuscì a tenere a freno la lingua, e dopo qualche tempo Len ebbe l’impressione di veder tornare un poco di volontà nella spina dorsale del cugino. L’esame finì, come Dio volle. Gli uomini si riunirono, e conferirono gravemente tra loro. Alla fine il signor Harkness disse a papà e allo zio David: «Sono addolorato che questa disgrazia sia ricaduta su di voi, perché siete entrambi bravi uomini e vecchi amici. Ma forse questo servirà a ricordare a tutti che i giovani costituiscono sempre un pericolo, e non ci si deve fidare di loro, e che una vigilanza costante è il prezzo di un’anima cristiana». Si rivolse poi, molto severamente, ai ragazzi: «Per voi, ci sarà una fustigazione pubblica, sabato mattina. E poi, se sarete scoperti in colpa una seconda volta, sapete bene quale sarà la punizione che dovrà ricadere sulle vostre teste». Aspettò. Esaù si guardò gli stivali. Len fissò con fermezza un punto della parete, dietro la testa del signor Harkness. «Ebbene,» disse seccamente il signor Harkness. «Lo sapete o no?» «Sì,» disse Len. «Ci farete andare via, e non potremo mai più ritornare». Guardò negli occhi il signor Harkness, e aggiunse, «Non ci sarà una seconda volta». «Lo spero con tutto il cuore,» disse il signor Harkness. «E raccomando a entrambi di leggere molto la vostra Bibbia, di meditare, e pregare, affinché Iddio vi dia la saggezza, insieme al perdono». Ci furono altre consultazioni tra gli anziani, e poi i Colter uscirono, e salirono sui loro carri, e si avviarono di nuovo verso casa. Passarono davanti al carro del signor Hostetter in piazza, ma il signor Hostetter non era in vista. Papà rimase in silenzio per quasi tutta la strada, con una sola eccezione. A un certo punto disse, infatti: «Mi ritengo colpevole quanto te, Len». «Sono stato io a farlo,» disse Len. «Non è stata colpa tua, papà. Non puoi dire questo». «Ho sbagliato qualcosa. Non ti ho saputo insegnare le cose giuste, non sono riuscito a farti comprendere. A un certo punto, non so dove, ti sei allontanato da me». Papà scosse il capo. «Temo che David abbia ragione. Ho troppo risparmiato la frusta». «Esaù era molto più colpevole,» disse Len, quietamente. «È stato lui a rubare la radio, eppure tutte le bastonature dello zio David non sono riuscite a fermarlo. Non è stata colpa tua in nessun modo, papà. È stata tutta colpa mia». Si sentiva molto male. Chissà perché, sapeva che era questa la sua vera colpa, e non poteva farci niente. «James non si è mai comportato così», disse papà tra sé, pensieroso. «Non mi ha dato mai alcuna preoccupazione. Com’è possibile che lo stesso seme possa produrre due frutti così diversi?» Non si dissero altro. Quando tornarono a casa, la mamma, la nonna e James li stavano aspettando. Len venne mandato nella sua camera, e mentra saliva le scale poté sentire papà che narrava in breve quello che era accaduto, e il breve singhiozzo della mamma. E d’un tratto udì la voce della nonna, alta e acuta, quasi stridula, pervasa da una collera tremenda. «Sei uno stupido e un vigliacco, Elia. Ecco cosa siete tutti, degli stupidi e dei vigliacchi, e il ragazzo vale più di tutti voi messi assieme! Avanti, spezza il suo spirito, se ci riesci, ma spero che tu non ci riesca mai. Spero che tu non gli possa mai insegnare ad avere paura di conoscere la verità». Len sorrise e un brivido lo pervase, perché sapeva che la nonna aveva parlato così forte per farsi sentire anche da lui, e non solo da papà. Stai tranquilla, nonna, pensò. Non lo dimenticherò. Quella notte, quando la casa fu immersa nella profonda quiete del sonno, Len si legò al collo gli stivali, e scavalcò la finestra fino a scendere sulla tettoia della cucina estiva, e di là raggiunse il ramo di un pero, per scivolare infine a terra lungo il tronco rugoso. Uscì furtivamente dall’aia e attraversò la strada, e quando fu sul bordo della strada infilò gli stivali. Poi s’incamminò costeggiando il campo occidentale, dove crescevano le alte erbe che promettevano un buon raccolto per l’autunno. I boschi torreggiavano, cupi e misteriosi, davanti a lui. Non si voltò indietro neppure una volta. C’era buio, e silenzio, e solitudine, là tra gli alberi. Len pensò, Sarà così per molto, molto tempo, e dovrò abituarmi. Quando egli raggiunse la punta tra i due fiumi, sedette al solito posto, sul vecchio tronco rugoso sul quale era stato seduto tante volte, e ascoltò il concerto notturno delle rane e lo scorrere tranquillo del Pymatuning tra le rive. Il mondo sapeva d’immensità, e c’era freddo nella sua schiena, come se qualche corazza protettiva fosse stata sfilata d’un tratto dal suo corpo. Si chiese se Esaù sarebbe venuto. L’oriente impallidiva di luna, ora, e il chiarore era più intenso a sud-est, un grigiore furtivo che lentamente si mutava in argento. Len aspettò. Non sarebbe venuto, pensava, aveva troppa paura, e lui avrebbe dovuto fare tutto da solo, quel buio e quella solitudine sarebbero stati solo per lui. Si alzò in piedi, tendendo l’orecchio, osservando il primo, minuscolo lembo di luna biancheggiare dietro gli alberi e la collina. E una voce furtiva, dentro di lui, diceva, Puoi ancora alzarti e correre a casa, e salire dalla finestra, e nessuno lo saprà mai. Si tenne stretto al vecchio ramo di un albero, per impedire al suo corpo di andarsene. Ci fu un improvviso fruscio, e uno scalpiccio nell’oscurità degli alberi, ed Esaù apparve. Si scrutarono l’un l’altro per un momento, come due gufi, e poi si presero per le mani, e si misero a ridere. «Una fustigazione pubblica,» disse Esaù, un po’ ansante. «Una fustigazione pubblica, all’inferno. Vadano tutti all’inferno». «Seguiremo il corso del fiume,» disse Len. «Fino a quando non troveremo una barca». «E quando l’avremo trovata che faremo?» «Continueremo. I fiumi incontrano altri fiumi. Ho visto la mappa, nel libro di storia. Se si percorre una distanza sufficiente, si arriva nell’Ohio, che è il fiume più grande che ci sia nei dintorni». Esaù disse, ostinato: «Ma perché l’Ohio? È a sud, e tutti sanno che Bartorstown si trova a ovest». «A ovest, ma dove? L’ovest è un posto maledettamente grande. Ascolta, non ricordi le voci che abbiamo udito? La roba era sul fiume, pronta da caricare, non appena… non appena fosse accaduto Esaù rifletté per qualche istante, e poi disse: «Be’, d’accordo. In ogni caso, è un modo per cominciare. Inoltre, chissà? Continuo a pensare che avevamo ragione, su Hostetter, anche se lui ha mentito a quel proposito. Può darsi che lui informi gli altri, forse parleranno di noi attraverso le loro radio, diranno che siamo fuggiti da casa per trovarli. Forse ci aiuteranno, anche quando potranno farlo senza correre rischi. Chissà?» «Sì,» disse Len. «Chissà?» S’incamminarono insieme lungo la riva del Pymatuning, diretti a sud. La luna saliva nel cielo, dando loro la luce. L’acqua era un gorgogliare sommesso tra le rive, e le rane cantavano la loro monotona canzone, e nella mente di Len Colter il nome di Bartorstown suonava come il rintocco di una grande campana. |
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