"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)

6.

Dapprima apparve la nube di polvere, in fondo alla strada. Poi la cima del tendone lampeggiò, bianca, colpita dai raggi del sole, un biancore vivissimo tra il verdeggiare degli alberi. Il tendone si fece più grande e più rotondo, e il carro cominciò ad apparire, sotto di esso, e i cavalli che lo tiravano cominciarono ad apparire più chiaramente, dalla confusa macchia nera e tumultuosa della prima apparizione alla fila sgranata di sei grandi cavalli bai che trottavano fieri come imperatori, con i morsi schiumanti e i finimenti tintinnanti.

In alto, a cassetta, sedeva il signor Hostetter, che impugnava orgogliosamente le redini, la barba fluente nel vento, e il cappello e gli abiti ricoperti della polvere bruna della strada.

Len disse:

«Ho paura».

«Perché diavolo hai paura?» domandò Esaù. «Non devi andare, no?»

«E forse neppure tu dovresti andare,» borbottò Len, guardando il ponte di legno che tremava, mentre il carro vi passava sopra ondeggiando, con un grande fragore. «Non credo che sia così facile».

Era giugno, e tutt’intorno le foglie lucide e verdi risplendevano. Len ed Esaù erano fermi vicino a Piper’s Run, proprio ai confini del villaggio, dove la ruota del mulino pendeva inerte nell’acqua, e i martin pescatori saettavano come frecce di fiamma azzurra. La piazza del villaggio era a meno di cento metri di distanza, e là vi era riunita tutta la cittadinanza, tutti coloro che non erano troppo piccoli, o troppo vecchi, o troppo malati per essere portati fuori. C’erano amici e parenti venuti da Vernon e da Williamsfield, da Andover e da Farmdale e da Burghill, e dalle fattorie solitarie sul confine della Pennsylvania, che erano più vicine in linea d’aria a Piper’s Run che a qualsiasi altro villaggio della loro regione. Era la festa delle fragole, il primo grande avvenimento sociale dell’estate, nel quale persone che non si vedevano dalla prima nevicata dell’inverno potevano incontrarsi e parlare e rimpinzarsi allegramente, seduti all’ombra colorata sotto gli olmi.

Una frotta di ragazzi si era messa a correre lungo la strada, incontro al carro. Ora stavano correndo accanto a esso, gridando parole di saluto e domande al signor Hostetter. Le ragazze, e i bambini ancora troppo piccoli per correre, se ne stavano ai margini della piazza, e agitavano le braccia e chiamavano, le ragazze con le loro cuffie e le lunghe gonne che fluttuavano nel vento tiepido, i bambini che parevano le riproduzioni dei loro padri, in miniatura, con piccoli cappelli bruni e abiti tessuti a mano. Poi tutti cominciarono a muoversi, un’ondata che attraversava la piazza e si avvicinava al carro, che procedeva sempre più lento, e infine si fermava, con i sei grandi cavalli che drizzavano il capo e sbuffavano orgogliosi, come se avessero compiuto una grande impresa a portare il carro fin là, e ne fossero giustamente fieri. Il signor Hostetter agitò la mano e sorrise, e un ragazzo si arrampicò a cassetta e gli mise tra le mani un cestino di fragole.

Len ed Esaù rimasero dov’erano, osservando da una certa distanza il signor Hostetter. Len si sentì pervadere da uno strano brivido, in parte dovuto al senso di colpa che provava per la radio rubata, in parte dovuto a un senso di complicità, perché lui conosceva un grande segreto sul conto del signor Hostetter, e questo segreto lo metteva in disparte, lo isolava dagli altri. C’era qualcosa, però, che gli impediva di sostenere lo sguardo del signor Hostetter.

«Come intendi fare?» domandò a Esaù.

«Troverò il modo».

Il ragazzo stava fissando il carro con un’intensità quasi fanatica. Dalla notte durante la quale avevano udito le voci, Esaù era diventato strano, scontroso, qualcosa che era avvenuto dentro di lui, e non fuori, e a volte Len provava l’impressione di non conoscerlo più, di trovarsi con una persona completamente nuova e diversa e imprevedibile. Andrò laggiù, aveva detto, intendendo parlare di Bartorstown, e da quel momento era stato posseduto da quel pensiero, come un invasato, in attesa dell’arrivo del signor Hostetter.

Esaù prese il braccio di Len, improvvisamente, e strinse forte.

«Non vuoi venire con me?»

Len rimase immobile. Non disse niente per un lungo momento, non batté neppure ciglio, e poi rispose:

«No, non posso». Si scostò da Esaù. «Non adesso».

«Forse l’anno prossimo. Gli parlerò di te».

«Sì, forse».

Esaù cercò di dire qualche altra cosa, ma parve non trovare le parole adatte. Len si scostò di qualche altro passo da lui. Cominciò a salire l’argine, dapprima lentamente, e poi più in fretta, e infine si mise a correre, con gli occhi pieni di lacrime calde, brucianti, e la mente in tumulto, con una voce che gli gridava silenziosamente, Vigliacco, vigliacco, lui va a Bartorstown e tu non hai il coraggio di farlo!

Non si voltò indietro.


Il signor Hostetter rimase per tre giorni a Piper’s Run. Furono i giorni più lunghi e più difficili della giovane vita di Len. La tentazione continuava a mormorargli, insinuante. Puoi ancora andare, sei in tempo. E allora la Coscienza gli additava mamma e papà, la casa e il dovere, e la cattiveria di andarsene, di scappare senza una parola. Esaù non aveva degnato neppure di un pensiero lo zio David e la zia Maria, ma Len non poteva comportarsi allo stesso modo con papà e mamma. Sapeva che la mamma avrebbe pianto, e che papà si sarebbe assunto l’intera colpa, tormentandosi al pensiero di non essere stato capace di educare Len, e questa era la causa maggiore della sua mancanza di coraggio. Non voleva avere la responsabilità di rendere infelici i suoi genitori.

C’era anche una terza voce, in lui. Viveva nell’oscurità, celata dietro le altre, e non aveva nome. Era una voce che non aveva mai sentito prima, e che diceva soltanto, No… pericolo! ogni volta che pensava di andarsene con Esaù dal signor Hostetter. Questa voce si mise a parlare così forte, e con tanta fermezza, senza essere interrogata, che Len non riuscì a ignorarla, e infatti quando tentò di non farci caso si trasformò quasi in una costrizione fisica, simile alle redini di un cavallo, che lo spingeva da una parte o dall’altra, gli imponeva una parola o un’azione, impedendogli di fare qualcosa di definitivo, di compromettersi oltre ogni possibilità di ritorno. Fu il primo incontro attivo con il suo subcosciente, e Len non l’avrebbe mai più dimenticato.

Gironzolò per tutto il tempo per la fattoria, cupo, pensieroso, imbronciato, sotto il peso del suo segreto, sbrigando le diverse faccende e trovando tutte le scuse possibili per non andare in città quando la famiglia vi andava, e la mamma cominciò a preoccuparsi, e lo imbottì di tisane e di consigli. E per tutto il tempo le sue orecchie rimasero tese, vibranti come quelle di un animale dei boschi, in attesa di udire il rumore degli zoccoli di un cavallo sulla strada, in attesa di sentire la voce trafelata dello zio David annunciare che Esaù se ne era andato.

Alla sera del terzo giorno sentì finalmente il rumore di zoccoli di cavalli, zoccoli che si avvicinavano velocemente. In quel momento stava aiutando la mamma a sparecchiare la tavola, e la luce era ancora discreta nel cielo, rosseggiante con riflessi violacei a ponente. I suoi nervi si tesero con un’intensità quasi dolorosa. I piatti diventarono scivolosi e troppo pesanti, nelle sue mani. Il cavallo svoltò all’ingresso, entrando nell’aia, con il carro rumoreggiante sui sassi, e poi un secondo cavallo e un altro carro, e ancora un altro cavallo e un altro carro. Papà andò ad affacciarsi alla porta, e Len lo seguì, con un senso di infinita stanchezza, con una specie di malessere che si era impadronito improvvisamente di lui. Si era aspettato un cavallo e un carro, per l’arrivo dello zio David, ma tre…

Lo zio David era là, certo, e sedeva sul suo carro, ed Esaù era accanto a lui, immobile e bianco come un lenzuolo, e il signor Harkness sedeva dall’altro lato. Il signor Hostetter era sul secondo carro, con il signor Nordholt, il maestro di scuola, e il signor Clute che teneva le briglie. Il terzo carro era occupato dal signor Fenway e dal signor Glasser.

Lo zio David scese dal carro. Rivolse un cenno a papà, che si era già incamminato verso i carri. Il signor Hostetter li raggiunse, e poi il signor Nordholt e il signor Glasser. Esaù rimase seduto dove si trovava. Aveva la testa curva sul petto, e non la alzò. Il signor Harkness fissò Len, che era rimasto fermo sulla soglia. Il suo sguardo era offeso, sdegnato, accusatore, e triste. Len lo sostenne per una frazione di secondo, e poi abbassò gli occhi. Ora si sentiva scosso, il malessere era insostenibile, e c’era freddo, malgrado la tiepida sera di giugno, un gran freddo che pareva quello del bosco quando il ghiaccio aveva rivestito di scintille gli alberi e il terreno. Avrebbe voluto voltarsi e mettersi a correre e fuggire, ma sapeva che sarebbe stato inutile.

Gli uomini si avvicinarono, insieme, al carro dello zio David, e lo zio David disse qualcosa a Esaù. Esaù continuò a fissarsi le mani. Non parlò, non mosse il capo, e il signor Nordholt disse:

«Non intendeva dirlo, gli è solo sfuggito. Ma l’ha detto».

Papà si voltò, guardò Len, e disse:

«Vieni qui».

Len si mosse, lentamente. Non alzò il capo per guardare papà, non per la collera che avrebbe potuto leggere sul suo volto, ma per l’espressione triste e addolorata che vi avrebbe trovato.

«Len».

«È vero che avete una radio?»

«Io… sì».

«Tu hai letto certi libri che sono stati rubati? Sapevi dov’erano, e non l’hai detto al signor Nordholt? Sapevi quello che Esaù intendeva fare, e non l’hai detto né a me, né allo zio David?»

Len sospirò. Con un gesto curiosamente simile a quello di un uomo vecchio e stanco, sollevò il capo, e sollevò le spalle.

«Sì,» disse. «Ho fatto tutte queste cose».

Il volto di papà, nelle ombre, del tramonto che incupivano l’aria, si era trasformato in qualcosa di grigio e strano, qualcosa che pareva di granito.

«Benissimo,» disse. «Benissimo».

«Potete venire con noi,» disse il signor Glasser. «Per una distanza così breve, inutile preparare il vostro carro».

«Va bene,» disse papà. E lanciò a Len uno sguardo gelido e imperioso, che voleva dire, Vieni Con Me.

Len lo seguì. Passò davanti al signor Hostetter, che era in piedi, con la testa girata, e sotto la tesa del suo cappello, Len credette di scorgere un’espressione di pietà e di rammarico. Ma passarono senza parlare, ed Esaù non si mosse neppure. Papà salì sul carro, con il signor Fenway, e il signor Glasser salì dopo di lui.

«Dietro,» ordinò papà.

Len si issò pesantemente sul carro, e ogni movimento fu uno sforzo impietoso, per lui. Rimase aggrappato là, e i carri ripartirono in fila, uscirono dall’aia e attraversarono la strada contornando il campo occidentale, dirigendosi verso i boschi.

Si fermarono là dove crescevano i sommacchi. Scesero tutti, e gli uomini parlarono tra di loro. E poi papà si voltò e disse:

«Len!» Puntò il braccio verso i boschi. «Mostraci dov’è.»

Len non si mosse.

Esaù parlò, per la prima volta.

«Tanto vale che tu lo faccia,» disse, con una voce carica di odio. «Lo troveranno comunque, anche se dovranno bruciare l’intero bosco».

Lo zio David lo zittì, con uno schiaffo sulla bocca, e lo chiamò con un appellativo di collera biblica.

Papà disse, di nuovo:

«Len».

Len si arrese. Guidò il gruppo di uomini nei boschi. E il sentiero pareva sempre lo stesso, e così pure gli alberi, e il ruscello, e le familiari macchie di stramoni. Ma qualcosa era cambiato. Qualcosa era scomparso. Erano soltanto alberi, adesso, e stramoni, e il letto sassoso di un rivoletto d’acqua. Non appartenevano più a lui, non erano più il mondo che si faceva bianco di neve e scintillante di ghiaccio e fiammeggiante d’autunno e verdeggiante di tenera primavera. Tutte quelle cose erano chiuse e distanti, e i contorni erano aspri e duri, e i pesanti stivali degli uomini schiacciavano le felci.

Uscirono dagli stramoni nel punto in cui le acque dei due fiumi si riunivano. Len si fermò accanto all’albero cavo.

«Qui,» disse. La sua voce parve strana e diversa, nelle sue orecchie. L’ardore rosso di ponente giungeva chiaro in quel luogo, attraverso le acque e il cielo, dipingendo le foglie e l’erba di un verde livido, dando al bruno Pymatuning riflessi di rame. In alto dei corvi ritornavano a casa, in un lento, grave battito d’ali, lanciando durante il volo le loro risate di scherno. Len pensò che stessero ridendo di lui.

Lo zio David diede una spinta sgarbata, violenta a Esaù.

«Tirala fuori».

Esaù rimase per un momento immobile accanto all’albero. Len lo osservò, e vide l’espressione che egli aveva, nella luce del tramonto. I corvi se ne andarono, e ci fu silenzio.

Esaù infilò la mano nel cavo dell’albero. Tirò fuori i libri, avvolti nel telo, e li porse al signor Nordholt.

«Sono intatti,» disse.

Il signor Nordholt aprì il telo, scostandosi dall’ombra dell’albero, per vedere meglio.

«Sì,» disse. «Sì, sono intatti». Li avvolse di nuovo, gelosamente, e li tenne appoggiati al petto.

Esaù tirò fuori la radio.

Rimase così, tenendola stretta, e improvvisamente gli occhi gli si riempirono di lacrime, lacrime che scintillavano ma non cadevano. Gli uomini erano adesso esitanti. Il signor Hostetter disse, come se avesse già detto la stessa cosa più di una volta, ma avesse avuto paura che qualcuno non l’avesse capita:

«Soames mi aveva chiesto, nel caso gli fosse accaduto qualcosa, di prendere i suoi effetti personali e consegnarli a sua moglie. Mi aveva mostrato il cofano nel quale li conservava. La gente che era andata alla predica stava per assalire e bruciare il suo carro. Non ho avuto certo il tempo di fermarmi per vedere che cosa ci fosse nel cofano».

Lo zio David fece un passo avanti. Egli fece cadere la radio dalle mani di Esaù, con un colpo violento, calando il pugno come un maglio. La radio cadde nel terriccio erboso e nel muschio, ed egli la calpestò, con il suo stivale pesante, molte, molte volte. Poi raccolse ciò che ne restava, e gettò i resti nelle acque brune del Pymatunin.

Esaù disse:

«Ti odio. Vi odio tutti». Li guardò uno dopo l’altro. «Non potete fermarmi. Nessuno di voi può farlo. Un giorno andrò a Bartorstown».

Lo zio David lo colpì di nuovo, e lo prese per i capelli, e lo fece voltare, spingendolo verso gli alberi. Senza voltarsi, disse:

«Penserò io a lui».

Gli altri lo seguirono in fila, dopo che il signor Harkness ebbe frugato nel cavo dell’albero, per assicurarsi che non vi fosse rimasto qualche altro frutto proibito. E il signor Hostetter disse:

«Chiedo che il mio carro venga perquisito».

Il signor Harkness disse:

«Vi conosciamo da tantissimo tempo, Ed. Non credo che questo sia necessario».

«No, lo esigo,» disse Hostetter, parlando forte, in modo che tutti potessero sentire. «Questo ragazzo ha fatto un’accusa che non posso lasciar passare. Chiedo che il mio carro venga perquisito, da cima a fondo, in modo che non possano sussistere dubbi sul fatto che io possieda qualcosa che non dovrei avere. I sospetti, una volta avviati, sono difficili da eliminare, e le notizie viaggiano. Non posso permettere che altre persone pensino di me quello che pensavano di Soames».

Un brivido percorse Len. Si accorse, improvvisamente, che Hostetter stava offrendo, nello stesso tempo, una spiegazione e delle scuse.

Comprese anche che Esaù aveva commesso un errore fatale.

Il viaggio di ritorno, attraverso il campo occidentale, parve molto, molto lungo. Questa volta i carri non entrarono nell’aia. Si fermarono nella strada, e Len e papà scesero, e gli altri si disposero diversamente, in modo che Esaù e lo zio David rimanessero soli sul loro carro. Poi il signor Harkness disse, quando tutto fu pronto:

«Domani desideriamo vedere i ragazzi». La sua voce era calma, una calma minacciosa come quella che precedeva un temporale. Tirò le redini, e il carro si mosse verso il villaggio, seguito dal secondo carro. Lo zio David si diresse dall’altra parte, verso la sua casa.

Esaù si sporse dal carro, e gridò, in tono isterico, a Len:

«Non ti arrendere. Non possono costringerti a smettere di pensare. Non importa quello che possono farti, ma non riusciranno a…».

Lo zio David girò il carro, e lo fece entrare nell’aia della fattoria.

«La vedremo,» disse. «Elia, voglio usare il tuo fienile».

Papà si accigliò, ma non disse niente. Lo zio David attraversò l’aia, dirigendosi verso il fienile, spingendo rudemente Esaù davanti a sé. La mamma uscì di corsa dalla casa. Lo zio David chiamò:

«Tu porta qui Len. Voglio che ci sia anche lui».

Papà si accigliò di nuovo, e poi disse:

«Va bene».

Tese le mani, come per arrestare la mamma, e la prese in disparte, e le mormorò qualche parola, a bassa voce, scuotendo il capo. La mamma guardò Len.

«Oh, no,» disse. «Oh, Lennie, come hai potuto!»

Poi si voltò, e rientrò precipitosamente in casa, nascondendosi il viso nel grembiule, e Len capì che stava piangendo. Papà indicò il fienile. Aveva le labbra strette, ed era molto pallido. Len pensò che a papà non piaceva quello che lo zio David stava per fare, ma che non se la sentiva di discutere.

Neppure a Len piaceva. Avrebbe preferito che la cosa fosse risolta tra lui e papà. Ma quel modo di fare era proprio dello zio David. Lui pensava sempre che un ragazzo non aveva più diritti, o più sensibilità, di qualsiasi altro oggetto o animale della fattoria. Len tremava, al pensiero di entrare nel fienile.

Papà puntò di nuovo il braccio, e Len obbedì.

Era buio, adesso, ma nel fienile era già accesa una lanterna. Lo zio David aveva staccato dal chiodo la cinghia di cuoio. Esaù era di fronte a lui, nell’ampio spazio libero tra le file di sostegni vuoti.

«In ginocchio,» disse lo zio David.

«No».

«In ginocchio!» E la cinghia schioccò.

Esaù emise un suono, tra il lamento e l’imprecazione. Si inginocchiò.

«Non rubare,» disse lo zio David. «Questo è il comandamento, e tu mi hai fatto diventare il padre di un ladro. Non dire falsa testimonianza. Tu mi hai fatto diventare il padre di un bugiardo». Il suo braccio si alzava e si abbassava, scandendo le parole, così che ogni pausa era sottolineata dal secco whuk! del cuoio contro le spalle di Esaù. «Tu sai cosa è scritto nel Libro, Esaù. Chi ama suo figlio lo castiga; chi odia suo figlio risparmia la frusta. E io non intendo risparmiarla».

Esaù non seppe tacere più a lungo. Len voltò le spalle.

Dopo qualche tempo, lo zio David si fermò, respirando affannosamente.

«Qualche tempo fa mi hai sfidato. Hai detto che non avrei potuto farti cambiare idea. La pensi ancora così?»

Rannicchiato sul pavimento, Esaù gridò a suo padre:

«Sì!»

«Pensi ancora di andare a Bartorstown?»

«Sì!»

«Bene,» disse lo zio David. «Vedremo».

Len cercò di chiudersi le orecchie, di non ascoltare. Pareva che non dovesse mai finire. A un certo punto, papà fece un passo avanti, e disse:

«David…».

Ma lo zio David disse soltanto:

«Pensa a tuo figlio, Elia. Ti avevo sempre detto che eri troppo tenero con lui». Si rivolse di nuovo a Esaù, «Hai cambiato idea, ora?»

La risposta di Esaù fu inintelligibile, ma il tono era quello di una resa abietta.

«Tu!» disse improvvisamente lo zio David a Len, prendendolo per il braccio. «Guardalo, e impara come finiscono l’arroganza e l’insolenza».

Esaù stava strisciando e gemendo sul pavimento del fienile, tra la polvere e il fieno. Lo zio David lo fece girare, con la punta dello stivale.

«Pensi ancora di andare a Bartorstown?»

Esaù gemeva e piangeva, tenendosi il volto nascosto tra le mani. Len cercò di liberarsi e voltarsi, ma lo zio David lo tenne fermo, con una stretta violenta e irresistibile. Dal suo corpo emanava un odore di sudore e di collera.

«Ecco il tuo eroe,» disse a Len. «Ricordalo, ricordalo bene, quando verrà il tuo turno».

«Lasciami andare,» bisbigliò Len. Lo zio David rise. Spinse via Len, e consegnò a papà la cinghia di cuoio. Poi si piegò, e prese Esaù per il colletto della camicia, e lo costrinse ad alzarsi in piedi.

«Dillo, Esaù. Dillo forte».

Esaù singhiozzava come un bambino piccolo.

«Sono pentito,» disse. «Sono pentito».

«Bartorstown,» tuonò lo zio David, nello stesso tono col quale Nahum doveva avere pronunciato la condanna della città maledetta. «Esci! Vieni a casa, a meditare sui tuoi peccati. Buonanotte, Elia, e ricorda… tuo figlio è colpevole quanto il mio».

Uscirono, nel buio della notte. Un minuto più tardi, Len sentì che il carro si allontanava.

Papà sospirò. Il suo volto era triste e stanco, e profondamente irato, una collera che era molto più spaventosa di quella violenta dello zio David. Disse, lentamente:

«Ho avuto fiducia in te, Len. Mi hai tradito».

«Non volevo farlo».

«Ma l’hai fatto».

«Sì».

«Perché, Len? Sapevi che queste cose erano cattive. Perché le hai fatte?»

Len gridò:

«Perché non ho potuto evitarlo! Io voglio imparare, io voglio sapere

Papà si tolse il cappello, e si rimboccò le maniche.

«Potrei fare una lunga predica su questo argomento,» disse. «Ma l’ho già fatto, ed è stato tutto fiato sprecato. Ricordi quello che ti ho detto allora, Len?»

«Sì, papà». Strinse la mascella e serrò i pugni.

«Mi dispiace,» disse papà. «Non avrei mai voluto fare questo. Ma devo purgarti del tuo orgoglio, Len, come è stato purgato Esaù».

Dentro di lui, Len disse, con fierezza, No, non lo farai non riuscirai a farmi strisciare ai tuoi piedi. Non rinuncerò a Bartorstown e ai libri e alla speranza di conoscere tutte le cose che esistono nel mondo, fuori da Piper’s Run!

Ma vi rinunciò. Nella polvere e nel fieno del fienile, egli rinunciò a tutte quelle cose, e al suo orgoglio con esse. E quella fu la fine della sua fanciullezza.