"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)

5.

Esaù stava per scoppiare in lacrime. Abbassò rabbiosamente il libro che teneva in mano, e disse, furibondo:

«Non capisco cosa significhino le parole, e allora a che cosa mi serve? Semplicemente, ho corso un grosso rischio per niente!»

Aveva letto e riletto il libro di fisica, e quello sulla radioattività, che successivamente era stato messo in disparte, perché apparentemente non aveva niente a che fare con le radio, e comunque era incomprensibile, dalla prima all’ultima riga. Ma il libro di fisica… un altro bizzarro uso della parola, che per poco non aveva indotto Esaù a non prenderlo, quando aveva cercato nella biblioteca del signor Nordholt… conteneva una parte che riguardava le radio. L’avevano letta e riletta, scambiandosi opinioni e commenti, fino a quando le parole strane e impronunciabili non si erano impresse nelle loro menti, fino a quando essi non furono in grado di tracciare diagrammi di onde e circuiti, triodi e oscillatori, anche in sogno… senza capire neppure lontanamente quale fosse il loro significato.

Len raccolse il libro, che Esaù aveva lasciato cadere a terra, e ripulì la copertina dal terriccio. Poi lo aprì di nuovo, guardò una pagina, e scosse il capo. Disse, amaramente:

«Non dice come fa a uscire la voce».

«No. E non dice nemmeno a che cosa servono i bottoni e il rocchetto». Esaù rigirò la radio tra le mani, con aria sepolcrale. Sapevano, ormai, che uno dei bottoni serviva a renderla rumorosa o quieta… viva o morta, pensava inconsciamente Len. Ma tutti gli altri bottoni rimanevano un mistero. Rendendo il rumore molto sommesso, e avvicinando la radio all’orecchio, avevano appreso che il suono usciva da una delle aperture. A che cosa servissero le altre due era un altro mistero. Nessuno dei bottoni, o delle aperture, assomigliava agli altri bottoni o alle altre aperture, e così era logico sospettare che tutti servissero a differenti propositi. Len era sicurissimo che una delle aperture servisse a fare uscire il calore, come il ventilatore nei fienili, perché appoggiando la mano sull’apertura si poteva avvertire un certo aumento del calore, dopo qualche tempo. Ma questo lasciava ancora molti misteri insoluti, uno dei quali era l’enigmatico rocchetto di filo metallico. Tese le mani, e prese la radio da Esaù, perché gli piaceva tenerla tra le mani, per quella specie di fremito sommesso che la pervadeva, qualcosa di simile a una macchia d’erba di palude nel vento.

«Il signor Hostetter deve sapere come funziona,» disse.

Erano ormai sicuri, in cuor loro, che il signor Hostetter, come il signor Soames, fosse venuto da Bartorstown.

Esaù disse:

«Sì. Ma non possiamo chiederglielo».

«No».

Len continuava a rigirare la radio tra le mani, accarezzando i bottoni, il rocchetto, le aperture. Un vento gelido faceva sbattere i rami nudi degli alberi, sopra le loro teste. C’era del ghiaccio nel Pymatuning, e il tronco caduto sul quale il ragazzo sedeva era freddo e pungente come se fosse stato anch’esso di ghiaccio.

«Mi chiedo se, forse…» cominciò, lentamente.

«Sì?»

«Be’, se parlano tra loro con queste radio, non lo faranno certo di giorno, vero? Voglio dire… di giorno la gente potrebbe sentirli. Se fossi io, aspetterei fino a notte, quando la gente dorme».

«Be’, non sei tu a farlo,» disse Esaù, acidamente. Ma rifletté su quelle parole, e gradualmente l’idea si fece strada nella sua mente. «Però scommetto che hai ragione. Scommetto che fanno proprio così! Noi l’abbiamo maneggiata solamente di giorno, e naturalmente di giorno loro non parlano. Prova a immaginare il signor Hostetter, intento a parlare per radio di giorno, nella piazza del mercato, con tutta la gente intorno, e tanti ragazzi pronti a intrufolarsi in tutti i carri!»

Si alzò in piedi, e cominciò a camminare su e giù per la radura, soffiandosi sulle dita intirizzite per scaldarsi.

«Dobbiamo fare dei piani, Len. Dobbiamo riuscire a venire qui durante la notte».

«Sì,» disse Len, entusiasta, e immediatamente si pentì di quanto aveva detto. Non sarebbe stata un’impresa così facile.

«Una caccia al tasso,» disse Esaù.

«No. Mio fratello vorrebbe certamente venire… e anche mio padre».

La caccia all’opossum offriva gli stessi problemi, e la caccia al cervo era un avvenimento che non avrebbe attirato solamente papà e il fratello James, ma molte altre persone delle fattorie vicine.

«Be’, continua a pensarci». Esaù cominciò a riporre i libri e la radio nel nascondiglio. «Io devo tornare a casa».

«Anch’io». Len guardò con rimpianto il grosso volume di storia, desiderando di poterlo portare con sé. Esaù lo aveva preso, impulsivamente, perché vi aveva visto delle immagini di macchine. Era una lettura difficile, piena di nomi strani, e di molte cose che lui non riusciva a capire, ma lo tormentava, ogni volta che si soffermava a leggere qualcosa, dandogli la smania di leggere ancora, di sapere che cosa sarebbe venuto nelle pagine successive. «Forse la cosa migliore sarebbe quella di approfittare della prima occasione per scivolare fuori di casa, e venire qui, indipendentemente l’uno dall’altro. Se tentiamo di venire tutti e due, sarà più difficile».

«Nossignore! Io ho rubato la radio, e ho rubato i libri, e nessuno dovrà sentire una voce senza che io sia qui!»

Aveva un aspetto così ferocemente deciso che Len si affrettò a dirgli di sì.

Esaù si assicurò che tutto fosse a posto, e poi indietreggiò. Guardò l’albero cavo, corrugando la fronte.

«Non credo che serva a molto ritornare qui, prima di allora. E ci sarà da lavorare molto, tra poco, alla fattoria. Cominceranno a nascere gli agnelli, e poi…».

Con un’amarezza profonda e matura che sorprese Len, allora, Esaù aggiunse, con forza:

«C’è sempre qualcosa, c’è sempre qualche ragione per cui non si può sapere, o imparare, o fare qualcosa! Ne sono stanco. E che io sia dannato se intendo passare tutta la vita a questo modo, scavando letame e mungendo le vacche!»

Len ritornò a casa, camminando lentamente lungo il sentiero del bosco, riflettendo profondamente su quelle parole. Poteva sentire che qualcosa cresceva dentro di lui, qualcosa che stava crescendo anche nell’animo di Esaù. Lo spaventava, questo. Non voleva che quella cosa oscura crescesse. Ma sapeva che, se avesse cessato di crescere, lui sarebbe stato parzialmente morto, non fisicamente, ma come le mucche e le pecore, che brucavano l’erba ma non si curavano di ciò che la faceva crescere.

Questo accadeva alla fine di gennaio.

In febbraio, per tutta la campagna uomini e ragazzi andarono con succhielli, e altri attrezzi nei boschi di aceri. I primi segni della primavera imminente cominciarono a respirarsi nell’aria ancora fredda. L’ultima nevicata intensa venne, si accumulò sul terreno e sugli alberi, e si sciolse intiepidita dal nuovo sole. Ci fu un periodo nel quale gelate e disgelo si alternavano, e papà cominciò a preoccuparsi per i nuovi germogli. Il vento soffiava gelido da nord-ovest, e pareva che la primavera non dovesse mai arrivare, ma era là, vicina. Il primo agnello venne al mondo belando. E, come aveva detto Esaù, non c’era tempo per niente, all’infuori del lavoro.

I salici diventarono gialli, e poi di un verde pallido, piumoso. Ci furono alcune giornate tiepide, che toglievano le forze e rendevano sonnolenti e pigri, come le grosse bisce dei fossi che oziavano al sole. Nuovi vitelli schiamazzavano barcollando dietro le madri, e altri ne sarebbero ancora venuti. Le mucche erano nervose e agitate, e nella mente di Len cominciò a formarsi un’idea. Era così semplice che si domandò per quale motivo non gli fosse venuta in mente già da molto tempo. Dopo avere sbrigato le faccende serali, quando suo fratello James ebbe chiuso il fienile, Len ritornò furtivamente indietro, e aprì la porta sul retro. Un’ora dopo erano tutti fuori, nel buio e al freddo, per radunare le mucche che si erano disperse nella campagna, e quando, tornati indietro, le contarono, scoprirono che ne mancavano ancora due. Papà borbottò qualcosa, infuriato, contro la stupida ostinazione di certe bestie che preferivano scappare e nascondersi sotto un cespuglio, dove se accadeva loro qualcosa non c’era nessuno in grado di aiutarle. Diede una lanterna a Len, e gli disse di raggiungere di corsa la fattoria dello zio David, che si trovava a mezzo miglio di distanza, lungo la strada, per chiedere a lui e a Esaù di venire ad aiutarli nelle ricerche. Fu così semplice, dopo tanti piani e tante preoccupazioni.

Len percorse quel mezzo miglio a passo veloce, con la mente intenta a prevedere le più svariate possibilità, e a prepararsi ad affrontarle, con una prontezza all’inganno che non mancò di spaventarlo. Era sempre stato piuttosto pigro, ma non era mai stato un bugiardo, ed era terribile scoprire con quanta rapidità si potessero imparare i vizi peggiori. Cercò di giustificarsi, pensando che in fondo non aveva mai detto a nessuno una bugia in modo diretto. Ma non serviva a niente. Era come uno di quei sepolcri imbiancati di cui si parlava nella Bibbia, belli all’esterno e pieni di corruzione dentro. E alla sua destra, mentre correva, vide i boschi rischiarati dal chiarore delle stelle, cupi e misteriosi nella notte.

La cucina della fattoria dello zio David era calda e accogliente. C’era odore di cavoli e di vapore e di stivali messi ad asciugare, e tutto era così lindo e pulito che Len esitò a entrare, anche se si era pulito gli stivali sui gradini, fuori. C’era uno straccio messo davanti alla porta, e lui rimase fermo là sopra, riferendo il suo messaggio, tentando di riprendere fiato, e cercando, nello stesso tempo, di attirare l’attenzione di Esaù senza assumere un atteggiamento troppo scopertamente colpevole. Lo zio David brontolò e imprecò sommessamente, ma cominciò a infilare gli stivali, e la zia Maria gli andò a prendere la giacca e la lanterna. Len respirò profondamente.

«Mi sembra di avere visto qualcosa di bianco muoversi nei campi, a ovest,» disse. «Avanti, Esaù, andiamo a vedere!»

Ed Esaù lo seguì, con il cappello di traverso e un braccio ancora fuori della giacca. Corsero via, insieme, prima che lo zio David potesse pensare a fermarli e saltarono qua e là sopra le buche colmate dalla pioggia recente, tuffandosi nel campo occidentale, deviando sempre più verso i boschi. Len nascose la lanterna sotto la giacca, in modo che lo zio David non potesse vederla dalla strada, quando entrarono veramente nei boschi, e continuò a tenerla nascosta per qualche tempo, dopo, sapendo che non c’era alcun pericolo di smarrirsi, anche al buio, su quel sentiero che conosceva bene come la propria casa.

«Dopo potremo dire che la lanterna si è spenta,» disse a Esaù.

«Certo,» disse Esaù, con una strana voce tesa. «Facciamo presto».

Si affrettarono. Esaù prese la lanterna, e corse audacemente davanti al cugino. Quando giunsero al posto nel quale i due fiumi s’incontravano, egli posò al suolo la lanterna, e prese dal tronco cavo la radio con mani che tremavano. Len sedette sul vecchio tronco caduto, con la bocca aperta, le mani premute sui fianchi indolenziti. Il Piper’s Run stava ruggendo come un vero fiume, gonfio e impetuoso fino agli argini alti. C’era un vortice di spuma, nel punto in cui le sue acque si gettavano in quelle del Pymatuning. L’acqua era tumultuosa, bianca di spuma, altissima, ora, quasi allo stesso livello del terreno sul quale si trovavano, e rifletteva confusamente il chiarore delle stelle, e la notte era piena di quel suono impetuoso.

Esaù lasciò cadere la radio.

Len balzò avanti, lanciando un grido. Esaù riafferrò la scatola, velocissimo e frenetico, prendendola per il rocchetto sporgente. Il rocchetto si staccò, e la radio continuò a cadere, più piano, però, pendendo dal filo tenuto dalle mani di Esaù. Cadde, con un soffice tonfo, sull’erba dell’anno prima. Esaù rimase a guardare con occhi sbarrati la scatola, l’erba, il rocchetto, e il filo.

«Si è rotta,» disse. «Si è rotta».

Len s’inginocchiò subito sul terreno.

«No, non si è rotta. Guarda». Avvicinò la radio alla lanterna, e la indicò. «Vedi quelle due piccole molle? Il rocchetto può uscire, e il filo si svolge…».

Eccitatissimo, girò il bottone. Era una cosa che non avevano saputo, né tentato, prima di quel momento. Aspettò che iniziasse il ronzio. Questa volta, era molto più forte che in passato. Indicò a Esaù di indietreggiare, e l’altro obbedì, srotolando il filo, e il rumore si fece sempre più forte, e d’un tratto, senza alcun preavviso, una voce d’uomo disse, raschiante e molto, molto lontana:

«…ritornare anch’io alla civiltà il prossimo autunno, spero. Comunque, la roba è sul fiume, pronta da caricare, non appena…».

La voce scomparve in un rombo che pareva prodotto dal vento. Attonito, Esaù srotolò il filo fino in fondo. E una voce debole, debolissima, disse:

«Sherman vuole sapere se avete notizie di Byers. Non si è messo in con…»

E fu tutto. Il rombo e il rischio e il ronzio continuarono, così forti che i due ragazzi ebbero paura che si potessero udire lontano, nei campi dove proseguiva la ricerca delle mucche smarrite. Ancora una, due volte ebbero l’impressione di cogliere delle voci debolissime, in mezzo a quel fragore, ma non riuscirono a distinguere chiaramente altre parole. Len girò il bottone, ed Esaù riarrotolò il filo metallico nel rocchetto, e premette in modo che ritornasse al suo posto: il rocchetto rientrò nel suo spazio, con un lieve scatto delle piccole molle.

I due ragazzi riposero la radio nell’albero cavo, e raccolsero il lume rimasto sul terreno, e si allontanarono, attraverso i boschi notturni. Non parlarono. Non si scambiarono neppure un’occhiata. E nel vacillante chiarore della lanterna, i loro occhi erano grandi e scintillanti.