"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)

4.

Len uscì dagli stramoni. Esaù balzò in piedi, impaurito, con aria vistosamente colpevole. Cercò di correre via, e di nascondere l’oggetto dietro la schiena, e di schivare un colpo improvviso, tutto nello stesso tempo, e quando vide che si trattava solo di Len cadde di nuovo a sedere sul tronco, come se le gambe gli si fossero piegate sotto il corpo.

«Perché hai fatto una cosa simile?» domandò, a denti stretti. «Credevo che fosse mio padre.»

Gli tremavano le mani. Stava ancora cercando di nascondere ciò che teneva tra di esse. Len si fermò dov’era, sorpreso dall’evidente spavento di Esaù.

«Che cos’hai?» domandò.

«Niente. Solo una vecchia scatola.»

Era una misera bugia. Len la ignorò. Silenziosamente, si avvicinò a Esaù, e guardò. L’oggetto aveva la forma di una scatola. Era piccolo, largo solo pochi centimetri, e piatto. Era di legno, ma aveva un aspetto diverso da quello di qualsiasi oggetto di legno che Len avesse visto prima di allora. Sul momento, non riuscì a stabilire quale fosse la differenza, ma c’era, ed era evidente. C’erano delle curiose aperture, e diversi bottoni che sporgevano dai lati, e in un punto c’era un rocchetto di filo infilato in un buco, solo che questo filo era metallico. L’oggetto ronzava e bisbigliava da solo.

Sorpreso, e non poco spaventato, Len domandò:

«Che cos’è?»

«Hai presente quella cosa di cui la nonna parla, a volte? La cosa da cui le voci escono nell’aria?»

«La tivù? Ma quella era grande, e si vedevano delle figure.»

«No,» disse Esaù, «Voglio dire quell’altra cosa, quella che aveva soltanto delle voci.»

Len respirò, un respiro lungo e un po’ rauco, e si accorse di tremare un poco, in tutto il corpo.

«Oh-h!» Allungò un dito, timoroso, e toccò la scatola ronzante, la sfiorò appena, per assicurarsi che fosse veramente là. Poi disse, «Una radio?»

Esaù posò l’oggetto sulle ginocchia, tenendolo stretto con una mano. L’altra mano si mosse fulminea, e afferrò la camicia di Len. Il volto di Esaù era così minaccioso, che Len non tentò neppure di divincolarsi, o di reagire. E poi, non avrebbe resistito in nessun modo, per timore che la radio potesse rompersi.

«Se lo dici a qualcuno ti ammazzo,» disse Esaù. «Lo giuro, che ti ammazzo.»

Lo guardò con tale furiosa insistenza, che Len non dubitò neppure per un momento che egli non stesse parlando seriamente. D’altronde, non si sentì di biasimarlo. Rispose:

«Non dirò niente, Esaù. Davvero… lo giuro sulla Bibbia.» I suoi occhi erano attirati irresistibilmente dalla cosa meravigliosa, spaventosa, magica che Esaù teneva sulle ginocchia. «Dove l’hai trovata? Funziona? Riesci a sentire davvero delle voci?» Si chinò, finché il suo mento fu quasi sulla coscia di Esaù.

Esaù lasciò andare la camicia di Len, e toccò di nuovo la liscia superficie di legno della scatola. Così da vicino, Len poté notare che intorno ai bottoni c’erano dei punti consumati dal contatto delle dita, e che c’era un angolo scheggiato. Questi piccoli particolari diedero improvvisamente il senso della realtà dell’oggetto. Qualcuno l’aveva posseduto e usato per molto, molto tempo.

«L’ho rubata,» dichiarò Esaù. «Apparteneva a Soames, il mercante.»

Quel nervo ormai familiare si contrasse e vibrò nello stomaco di Len. Indietreggiò un poco, e guardò Esaù, e poi si guardò intorno, come se si fosse aspettato di vedere una pioggia di pietre uscire dai bordi dei boschi, pietre scagliate da mani implacabili e invisibili.

«Ma tu come l’hai presa?» domandò, abbassando inconsciamente la voce.

«Ricordi quando il signor Hostetter ci ha fatti salire sul carro, e poi è sceso a cercare qualcosa?»

«Sì, è andato a prendere una cassetta dal carro di Soames… oh!»

«Era nella cassetta. C’erano delle altre cose, credo fossero dei libri, e altri oggetti più piccoli, ma era buio, e non osavo fare rumore. Potevo sentire che si trattava di qualcosa di diverso, come le vecchie cose delle quali la nonna parla a volte. Così l’ho nascosta nella camicia.»

Len scosse il capo, più con stupore che con rimprovero.

«E per tutto il tempo noi pensavamo che tu fossi svenuto. Perché l’hai fatto, Esaù? Voglio dire, come hai potuto indovinare che ci fosse qualcosa d’importante nella cassetta?»

«Be’, Soames veniva da Bartorstown, no?»

«È quanto hanno detto alla predica. Ma…» Len s’interruppe, perché la verità era una logica conseguenza di quelle parole. Tutto fu chiaro, per lui, abbagliante come se una grande luce si fosse accesa improvvisamente nella sua mente. Guardò la radio. «Veniva da Bartorstown. Perciò una Bartorstown esiste. È reale.»

«Quando ho visto Hostetter ritornare al carro reggendo quella cassetta, ho dovuto guardarci dentro, per scoprire che cosa conteneva. Non avrei mai toccato delle monete, o altre cose del genere, ma questa…» Esaù accarezzò la radio, rigirandola con delicatezza tra le mani. «Guarda questi bottoni, guarda come è fatta questa parte. Nessun fabbro di nessun villaggio potrebbe mai fare una cosa simile, Len. Deve essere stata fatta a macchina. Il modo in cui è montata, come è fatta dentro…» cercò di guardare attraverso le aperture della griglia, muovendo la radio in modo che la luce filtrasse all’interno. «Dentro ci sono le cose più strane.» Posò di nuovo la radio. «All’inizio non sapevo che cosa fosse. Lo sentivo soltanto. Ma dovevo averla!»

Len si alzò, lentamente. Camminò sull’argine del fiume, e guardò in basso, osservando le acque’ torpide, lente e per metà coperte di foglie rosse e oro.

Esaù disse, nervosamente:

«Che ti prende? Se vuoi fare la spia, dirò che l’hai rubato insieme a me, dirò che…»

«Non ho intenzione di dire niente, io,» lo rimbeccò Len, con ira. «Tu hai avuto questa cosa per tre settimane, e non mi hai detto niente, e io sono capace di mantenere un segreto.»

«Non osavo dirti niente,» rispose Esaù. «Sei molto giovane, Lennie, e hai sempre dato ascolto a tuo padre.» Aggiunse, con un fondo di verità, «Inoltre, non ci siamo quasi più visti, dalla notte della predica.»

«Non importa,» disse Len. Importava naturalmente, e molto, e lui si sentiva ferito e offeso per la mancanza di fiducia dimostrata da Esaù verso di lui, ma non voleva farlo sapere al cugino. «Stavo solo pensando…»

«Che cosa?»

«Be’, il signor Hostetter conosceva Soames. È andato alla predica per cercare di aiutarlo, e poi ha preso la cassetta dal carro di Soames. Può darsi…»

«Sì,» disse Esaù. «L’ho pensato anch’io. Può darsi che anche il signor Hostetter venga da Bartorstown, e non dalla Pennsylvania, come tutti credono.»

Grandi visioni di spaventose e meravigliose possibilità si aprirono nella mente di Len. Rimase là, sull’argine del Pymatuning, mentre le foglie d’oro e porpora scendevano fluttuando lente, e i corvi ridevano della loro aspra risata piena di scherno, e gli orizzonti si allargarono e brillarono intorno a lui fino a stordirlo. Poi ricordò per quale motivo si trovava là, o meglio per quale motivo papà lo aveva mandato nei campi e nei boschi a meditare, e pensò che solo pochi minuti prima lui aveva fatto la pace con Dio e con il mondo, e che quella sensazione era stata meravigliosa. E adesso era tutto scomparso un’altra volta.

Si voltò, finalmente.

«Riesci a sentire delle voci con questa?»

«Non ho ancora sentito niente,» disse Esaù. «Ma voglio insistere, fino a quando ci riuscirò.»

Tentarono l’impresa per tutto il resto del pomeriggio, girando cautamente i diversi bottoni, uno dopo l’altro. Esaù aveva girato un bottone più del dovuto, altrimenti Len non avrebbe mai sentito il rumore che lo aveva attirato là, e gli aveva fatto compiere quella sconcertante scoperta. Nessuno dei due aveva la più remota idea di come funzionasse una radio, né di quale fosse lo scopo dei bottoni, e delle aperture, e del rocchetto di sottile filo metallico. Potevano procedere soltanto per esperimenti, e quello che riuscivano a captare era il rumore ormai familiare, quello fatto di sfrigolii, sibili, e gracidii. Ma perfino quel suono confuso era per loro un vero prodigio. Era un suono che non avevano mai udito prima, pieno di mistero, e dava la sensazione di grandi spazi invisibili, ed era prodotto da una macchina. Non lasciarono la radio fino a quando il sole non fu così basso sull’orizzonte da riempirli di timore, e costringerli ad andarsene. Allora Esaù nascose con ogni cura la radio nel tronco cavo di un albero, avvolgendola prima in un panno, e assicurandosi che il bottone principale fosse girato fino in fondo, fino a produrre un piccolo scatto, il modo per impedire alla radio di produrre anche il più lieve rumore: il rumore avrebbe potuto attirare l’attenzione di qualche cacciatore, o di qualche pescatore, che fosse passato casualmente di là, ed Esaù non voleva correre questo rischio.

Quell’albero cavo diventò il perno intorno al quale giravano le giornate di Len, e fu la cosa più eccitante che si potesse immaginare, ma anche quella che procurava le maggiori frustrazioni. Ora che aveva una ragione vera per andare là, gli sembrava sempre più difficile, se non impossibile, trovare il tempo e le scuse per addentrarsi nei boschi, che erano stati la mèta di tutte le sue peregrinazioni nei giorni e negli anni precedenti. La stagione cambiò, cominciò a fare freddo, e venne la pioggia, e poi la brina, e poi cadde la neve. Il bestiame doveva essere portato nelle stalle, all’inizio della stagione fredda, e da quel giorno c’era poco tempo a disposizione, nella giornata, occupata completamente dalle necessità di tanti animali da sfamare, lavare, accudire. C’era la mungitura, e poi il pollaio da vedere, e poi da dare una mano alla mamma a mescolare il burro e a portare la legna da ardere per la stufa, e così via.

Dopo le faccende del mattino, che doveva sbrigare quando era appena chiaro, egli percorreva un miglio e mezzo di strada fino al villaggio, su strade che un giorno erano piene di fango, e il giorno dopo ghiacciate e dure come il ferro. Sul lato occidentale della piazza del villaggio, oltre la bottega del fabbro, ma prima di quella del ciabattino, c’era la casa del signor Nordholt, il maestro di scuola, e là, con gli altri ragazzi di Piper’s Run, Len doveva combattere contro l’aritmetica e le lettere, le letture e la storia della Bibbia, fino a mezzogiorno, quando veniva lasciato libero di ritornare a casa, sempre a piedi, e sempre su quella strada difficilmente praticabile. E poi c’erano tutte le altre cose. Spesso Len pensava di avere più da fare di papà e di suo fratello James messi assieme.

Suo fratello James aveva diciannove anni, e stava per sposare la figlia maggiore del signor Spofford, il mugnaio. Era molto simile a papà, grande e grosso e tranquillo, fiero della sua bella barba recente, malgrado essa fosse quasi rosea. Quando il tempo era bello, Len andava con lui e con papà nella legnaia, oppure in giro, a riparare le staccionate o a pulire le siepi, e a volte andavano tutti a caccia, sia per procurarsi la carne che per procurarsi le pelli degli animali, perché nulla veniva sprecato, né gettato via. C’erano cervi, tassi, opossum, procioni e roditori, secondo la stagione dell’anno, e scoiattoli; e si diceva, anche se le voci erano molto vaghe e confuse, che gli orsi che vivevano nelle parti più selvagge della Pennsylvania avessero deciso di scendere dalle loro colline, per spingersi a ovest, fino all’Ohio; e a volte, se l’inverno era molto duro, c’erano voci che parlavano di branchi di lupi a nord, nella regione dei laghi. C’erano delle volpi da tenere lontane dai pollai, e topi da tenere lontani dal grano, e conigli da tenere lontani dal frutteto. E tutte le sere c’era di nuovo la mungitura, e le faccende da sbrigare prima del riposo, e poi la cena, e il letto. Non rimaneva molto tempo, perciò, per la radio.

Eppure, sia da sveglio che nel sonno, la radio non gli usciva mai dalla mente. Due cose erano legate a essa: un ricordo e un sogno. Il ricordo era la morte di Soames. Il tempo lo aveva trasfigurato, fino a renderlo più alto, e più nobile, e più splendido di quanto mai fosse stato qualsiasi mercante dai capelli biondi, e la luce del falò che lo aveva illuminato si era confusa con la gloria del martirio. Il sogno era quello di Bartorstown. Era stato composto pezzo per pezzo dalle storie narrate dalla nonna, e da alcuni frammenti di sermoni, e dalle descrizioni classiche del paradiso. Quella Bartorstown aveva dei bianchi edifici immensi che salivano verso il cielo, ed era piena di suoni e di colori, e di persone vestite in fogge strane, e risplendeva di luce, ed era piena di tutte le cose che la nonna aveva descritto, macchine e generi di lusso e mille e mille piaceri.

La cosa più tormentosa di quella piccola radio era che lui ed Esaù sapevano che si trattava di un legame con Bartorstown, e che se essi avessero saputo usarla avrebbero potuto udire realmente le voci degli uomini di Bartorstown parlare delle meraviglie di Bartorstown. Forse avrebbero potuto scoprire addirittura dove si trovava, e come la si poteva raggiungere, se si desiderava farlo. Ma per Esaù andare nel bosco era difficile almeno quanto per Len, e nei pochi momenti rubati al lavoro quotidiano essi non riuscirono a ottenere dalla radio che dei rumori privi di senso.

La tentazione di rivolgere alla nonna qualche domanda sulle radio era quasi superiore alle capacità di resistenza di Len. Ma non osava farlo, e comunque era sicuro che la nonna non doveva saperne più di quanto ne sapeva lui.

«Abbiamo bisogno di un libro,» disse Esaù. «Ecco quello che ci manca. Un libro che spieghi come funzionano queste cose.»

«Sì,» disse Len. «Certo. Ma come pensi di procurartelo?»

Esaù non rispose.

Le grandi ondate di freddo calarono dal nord e dal nord-ovest, una dopo l’altra. Cadde la neve, che poi si sciolse nel vento caldo venuto dal sud, e poi il pantano che rimase nei campi gelò, per le nuove ondate di freddo, mentre la temperatura si abbassava. Qualche volta piovve, invece, una pioggia gelata e insistente, e i boschi nudi gocciolavano. La pila di concime dietro il fienile si trasformò in una bruna montagna collosa. E Len pensava.

Forse era stato merito dello stimolo offerto dalla radio, o semplicemente lui stava diventando adulto, o entrambe le cose si erano unite… ma lui vedeva le cose che lo circondavano in una luce diversa, come se fosse riuscito a distaccarsi un poco da esse, evitando di farsi confondere alla vicinanza. Questo nuovo tipo di prospettiva non era con lui sempre, certo: anzi, in prevalenza lui era troppo stanco o troppo affaccendato per pensare ad altre cose. Ma di quando in quando vedeva la nonna seduta accanto al fuoco, intenta a lavorare a maglia con le sue mani vecchie e malferme, e si sentiva triste per lei perché era vecchia, e pensava alla lunga vita che aveva avuto e a tutto ciò che aveva visto, mentre la piccola Esther, una copia in miniatura della mamma, con la cuffietta leggera e il piccolo grembiule e tutte le gonne, era giovane e cominciava a vivere allora.

Poi vedeva la mamma, sempre affaccendata intorno a qualcosa, a lavare, cucire, filare, tessere, ricamare, assicurarsi che la tavola fosse ben rifornita di cibo per gli uomini stanchi del lavoro e pieni di sano appetito, una donna solida, sicura, molto dolce e molto tranquilla. Vedeva la casa nella quale viveva, le familiari camere dipinte di bianco delle quali conosceva ogni fessura e sporgenza delle pareti di legno. Era una vecchia casa. La nonna diceva che era stata costruita solo un anno o due dopo la costruzione della chiesa. I pavimenti salivano e scendevano, e le pareti pendevano un poco, ma la casa era ancora solida come una montagna, fatta di grandi tronchi messi insieme dal primo Colter che era venuto là, molte generazioni prima della Distruzione. Una casa vecchia, eppure non era troppo differente dalle nuove case che venivano costruite ora. Quelle che erano state costruite durante l’infanzia della nonna, o subito prima, erano le case dall’aspetto realmente strano, piccole cose dal tetto piatto le cui pareti avevano dovuto essere in prevalenza rinforzate con grandi, robusti tronchi, e le cui finestre chiuse da assi inchiodate erano buchi grandi e privi di ragione. Lui si alzava e cercava di toccare il soffitto, e pensava che l’anno prossimo avrebbe potuto riuscirci. E una grande ondata di amore lo travolgeva, e pensava. Non me ne andrò mai da qui, mai, mai! E la sua coscienza doleva, con una forza quasi fisica, perché lui sapeva di comportarsi male a giocare con la radio proibita e con i sogni proibiti di Bartorstown.

Per la prima volta, lui vedeva davvero suo fratello James, com’era realmente, e lo invidiava. Il suo viso era placido e liscio come quello della mamma, e nei suoi occhi non brillava neppure una scintilla di curiosità. Lui non si sarebbe curato neppure dell’esistenza di venti Bartorstown sull’altra riva del Pymatuning, non avrebbe fatto nulla per raggiungerle, neppure per vederle. Lui voleva soltanto sposare Ruth Spofford e restare dov’era. Len intuiva confusamente che suo fratello James era uno di quei pochi privilegiati che non dovevano mai pregare Dio per ottenere da lui là grazia di un cuore contento.

Papà era diverso. Papà aveva dovuto lottare. La lotta aveva lasciato dei segni sul suo viso, ma erano segni buoni, segni di forza. E la sua serenità era diversa da quella del fratello James. Non era venuta così, spontaneamente. Papà aveva dovuto lottare e sudare per conquistarla, esattamente come si doveva sudare e lottare per avere un buon raccolto da un campo povero. Era qualcosa che si poteva avvertire, quando si era con lui, ed era una cosa bella, una cosa che si sarebbe desiderata anche per sé.

Ma era possibile? Si poteva rinunciare a tutti i misteri e a tutte le meraviglie del mondo? Era possibile non vedere mai tutte quelle cose, né desiderare di vederle? Era possibile soffocare l’ansia e la speranza di udire una voce dal nulla, una voce che usciva da una scatoletta quadrata?

In gennaio, subito dopo Capodanno, ci fu una vera e propria tempesta di ghiaccio, durante un sabato sera. Il lunedì mattina Len si mise in cammino per andare a scuola quando il sole era appena sorto, e ogni albero, ramo, ed erba intirizzita erano rivestiti di una brillante gloria di gelo. Si attardò sulla strada, contemplando i boschi familiari diventati strani e risplendenti come una foresta di vetro… una visione molto più rara e affascinante della coltre di neve che ricopriva spesso i rami, trasformando il paesaggio in una bianca distesa abbagliante… ed era tardi quando attraversò la piazza del villaggio, passando davanti al monumento di pietra eretto in memoria dei caduti di tutte le guerre dai cittadini di Piper’s Run. Un tempo sulla pietra c’era stata un’aquila di bronzo, ma ora non rimaneva altro che un grumo di metallo corroso che ricordava due artigli. Anch’esso era rivestito di ghiaccio, e il terreno era scivoloso, infido. Sui gradini della casa del signor Nordholt era stata cosparsa della cenere Len salì i gradini, arrivò sulla veranda, ed entrò nella casa.

La stanza era ancora fredda, malgrado l’allegro scoppiettare del fuoco nel camino. Aveva il soffitto molto alto, e doppie porte ugualmente alte, e lunghe finestre, così che entrava più freddo di quanto il fuoco potesse eliminarne. I muri erano imbiancati, con molte decorazioni di legno lucido, di grana grossa. Gli studenti erano seduti su rozze panche, prive di schienale, con lunghi tavolini davanti. Erano disposti in ordine di altezza, i più piccoli davanti, i più alti dietro, le ragazze da un lato, i ragazzi dall’altro. Erano ventitré in tutto. Ognuno aveva una lavagnetta liscia, un gessetto, e uno straccio per cancellare, e tutto quello che veniva loro insegnato, a eccezione dell’aritmetica, veniva dalla Bibbia.

Quella mattina sedevano tutti immobili, con le mani in grembo, e ognuno cercava di confondersi nella stanza come un coniglio nella siepe, per non farsi notare. Il signor Nordholt era in piedi davanti a loro: era un uomo alto e magro, con la barba bianca e un’espressione di gentile fermezza che spaventava solo i più piccoli. Ma quella mattina il signor Nordholt era in collera. Era furibondo, lo si vedeva fiammeggiare di sdegno, e i suoi occhi dardeggiarono Len con uno sguardo di fronte al quale egli cercò di farsi più piccolo. Il signor Nordholt non era solo. C’erano anche il signor Glasser, il signor Harkness, il signor Clute, e il signor Fenway, che costituivano la legge e il consiglio di Piper’s Run, e che ora sedevano rigidamente in fila, osservando con occhi tempestosi gli studenti.

«Se ora il signor Colter vorrà avere la cortesia di occupare il proprio posto, gli saremo riconoscenti,» disse gelido il signor Nordholt.

Len scivolò al suo posto nell’ultimo banco, senza fermarsi a togliersi la pesante giacca e la sciarpa che gli circondava il collo. Rimase seduto là, cercando di farsi piccolo piccolo, di assumere un’aria innocente, chiedendosi cosa fosse successo per produrre una simile tempesta, e pensando con un senso di acuta colpa alla radio.

Il signor Nordholt disse:

«Per tre giorni, a Capodanno, io sono stato ad Andover, per fare visita a mia sorella. Non ho chiuso a chiave la porta, andandomene, perché non è mai stato necessario chiudere le porte contro i ladri, a Piper’s Run».

La voce del signor Nordholt era soffocata da un’intensa emozione, e Len ebbe la certezza che doveva essere accaduto qualcosa di veramente brutto. Ripensò frettolosamente alle sue azioni di quegli ultimi tre giorni, ma non trovò niente che gli potesse essere imputato.

«Qualcuno,» annunciò con voce sepolcrale il signor Nordholt, «Si è introdotto in questa casa, durante la mia assenza, e ha rubato tre libri».

Len s’irrigidì. Ricordò le parole che aveva detto Esaù, qualche tempo prima: «Abbiamo bisogno di un libro…».

«Questi libri,» proseguì il signor Nordholt, «Appartengono alla comunità di Piper’s Run. Sono libri anteriori alla Distruzione, e perciò insostituibili. E non servono per uso ozioso o indiscriminato, perciò desidero che siano immediatamente restituiti».

Si fece in disparte, e allora si alzò il signor Harkness. Era un uomo piccolo e massiccio, con le gambe arcuate per avere camminato per tutta la vita dietro a un aratro, e la sua voce aveva un tono rauco, gutturale. Durante le riunioni, era lui a recitare, sempre, le preghiere più lunghe. Egli guardò le file di banchi con due piccoli occhi d’acciaio che usualmente erano amichevoli come quelli di un cane.

«Ora,» disse il signor Harkness, «Rivolgerò una domanda a ciascuno di voi, a turno. Vi chiederò se avete preso i libri oppure no, o se sapete chi li abbia presi. E non voglio menzogne o false testimonianze».

Si avvicinò all’angolo di sinistra e cominciò, camminando lungo i banchi. Len ascoltò i monotoni No, signor Harkness che gradualmente si avvicinavano a lui, e sudò copiosamente, e cercò di sciogliere il nodo freddo che gli bloccava la lingua.

Dopotutto lui non sapeva che si trattasse proprio di Esaù… non poteva averne la certezza. «Non dirai falsa testimonianza», aveva detto il signor Harkness, e darsi un’aria colpevole quando non lo si era, in fondo, era come prestare falsa testimonianza. Inoltre, se avessero fatto delle ricerche troppo accurate, se la loro attenzione si fosse concentrata su di lui, avrebbero potuto scoprire…

Gli occhi e l’indice di Harkness si puntarono su di lui

«No,» disse Len, «No, signor Harkness».

Gli sembrò che tutte le colpe e le paure del mondo pesassero e vibrassero in quelle semplici parole, ma il signor Harkness non indugiò, e passò a interrogare il ragazzo vicino a Len. Quando giunse in fondo all’ultimo banco, disse:

«Benissimo. Forse voi tutti dite la verità, forse no. Lo scopriremo. Ora vi dirò questo: se voi vedete un libro che non appartiene alla persona che lo usa, dovete venire subito da me, o dal signor Nordholt, o dai signori Glasser, Clute e Fenway. Dovete chiedere ai vostri genitori di comportarsi allo stesso modo. Avete capito bene?»

«Sì, signor Harkness».

«E ora, preghiamo. O Dio, che conosci tutte le cose, perdona il bambino o l’uomo che ha violato il Tuo comandamento che proibisce di rubare. Accompagna la sua anima in modo che si allontani dai sentieri del male, e imbocchi la via dell’onestà, e preparalo a sopportare con rassegnazione il castigo…».

Ritornando a casa, Len arrischiò una puntata nei boschi, correndo per compensare la maggiore distanza da percorrere. Il sole aveva sciolto una piccola parte dell’armatura di ghiaccio che aveva avvolto ogni cosa, ma lo scintillare era ancora vivido, e il riverbero gli faceva dolere gli occhi, e il terreno era una lastra di ghiaccio, scivoloso e infido. Quando raggiunse il vecchio albero cavo era stanco, ansava pesantemente, e tremava in tutto il corpo per la fatica.

C’erano tre libri nel cavo dell’albero, avvolti in uno straccio di tela, accanto alla radio, all’asciutto e al sicuro. Le copertine e la carta all’interno lo affascinarono, con i colori sbiaditi che colpivano l’occhio, e la trama inconsueta al tatto. In quei libri c’era qualcosa di strano e indefinibile… qualcosa che li rendeva singolarmente simili alla radio.

Uno era un libro verde scuro intitolato Fisica Elementare. Un altro era sottile e bruno, con un lungo titolo: Introduzione alla Radioattività e alle Scienze Nucleari. Il terzo era grosso e grigio, e si chiamava Storia degli Stati Uniti. Le parole dei primi due titoli non dicevano nulla a Len, tranne che vi riconosceva la parola Radio. Voltò le pagine, in fretta, con dita che tremavano, cercando di assorbire tutto con un solo sguardo, e vedendo soltanto stampa e disegni strani e confusi. Qua e là, sulle pagine, qualcuno aveva sottolineato, oppure scritto a margine: «Lunedì esperimento», o «Fino a qui», o «Scrivere per richieste al solito indirizzo».

Len avvertì un desiderio insaziabile di sapere, una frenesia che non aveva mai conosciuto in passato, perché nulla l’aveva fatta salire alla superficie del suo essere. Quei desideri erano violenti, gli salivano alla testa, così forti da farlo soffrire. Voleva leggere. Voleva prendere i libri e avvolgersi in essi e assorbirli fino all’ultima parola e all’ultima figura. Sapeva benissimo quale fosse il suo dovere, ma non lo fece, non l’avrebbe mai potuto fare. Avvolse amorevolmente i libri nel telo, e li rimise al loro posto, con prudenza, nell’incavo dell’albero. Poi si lanciò di nuovo di corsa nei boschi, sulla strada di casa, e la sua mente cominciava a tessere stratagemmi per ingannare papà e per dare un aspetto innocente ai suoi colpevoli viaggi nei boschi. La sua coscienza mandò un solo pigolio, non più acuto di quello di un pulcino di un giorno, e poi tacque.