"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)

3.

Erano passate tre settimane, meno un giorno o due, e a Piper’s Run era ottobre, e sabato pomeriggio. Len sedeva solo sul gradino della veranda, dietro la fattoria.

Dopo qualche tempo la porta si aprì, dietro di lui, e capì dai passi strascicati e dal tonfo del bastone che stava uscendo la nonna. Ella si appoggiò con una mano ossuta e sorprendentemente forte al suo braccio, e discese i due scalini, e poi sedette, piegandosi come un ramo secco quando si spezza.

«Grazie, grazie,» disse la nonna, e cominciò a sistemare i diversi strati di sottane intorno alle vecchie caviglie.

«Vuoi una coperta?» domandò Len. «O vuoi il tuo scialle?»

«No, fa caldo, al sole».

Len sedette di nuovo accanto a lei. Con le sopracciglia aggrottate e la bocca in giù, sembrava vecchio quasi quanto la nonna, e molto più austero. Lei lo scrutò con attenzione, socchiudendo gli occhi, e Len cominciò a sentirsi inquieto, comprendendo che la nonna era venuta a cercare proprio lui.

«Sei molto pensieroso in questi giorni, Lennie».

«Penso di sì».

«Non sarai risentito, vero? Io odio la gente risentita».

«No, nonna».

«Tuo padre aveva ragione a punirti. Gli hai disobbedito, e adesso sai che te l’aveva proibito per il tuo bene».

Len annuì.

«Lo so».

Papà non era ricorso alla solenne bastonatura che Len aveva previsto. In realtà, era stato molto più gentile di quanto Len avesse potuto mai sognare. Aveva parlato molto seriamente di ciò che Len aveva fatto, e di ciò che aveva visto, e aveva concluso affermando che Len non sarebbe andato alla fiera, l’anno prossimo, e forse neppure l’anno successivo, a meno che, per allora, non avesse dimostrato di essere nuovamente degno di fiducia. Len pensava che papà si era comportato molto bene, ed era stato buono con lui. Lo zio David aveva frustato invece Esaù fino all’ultimo centimetro di pelle. E poiché in quel momento Len pensava che non avrebbe mai più voluto rivedere la fiera, la proibizione non era una punizione vera e propria.

Disse tutte queste cose alla nonna, che sorrise, il suo sorriso vecchio e sdentato, e gli accarezzò il ginocchio.

«Tra un anno la penserai diversamente. Sarà allora che la punizione comincerà a farti soffrire».

«Può darsi».

«Be’, dunque non te la sei presa, e allora deve esserci qualcosa d’altro. Di che si tratta?»

«Di niente».

«Lennie, ho avuto molto a che fare con i ragazzi, e so benissimo che non è naturale che un ragazzo sano come te se ne stia a rimuginare con aria così triste. E in una giornata simile, soprattutto, anche se è sabato!» Sollevò il capo, guardando il cielo di un azzurro profondo, e respirando l’aria dorata, e poi guardò i boschi che racchiudevano la fattoria, vedendoli non come gruppi di singoli alberi, ma come un glorioso disegno di colori dei quali aveva quasi dimenticato i nomi. Sospirò, per metà di piacere, per metà di rimpianto.

«A quanto sembra, questo è l’unico momento nel quale puoi vedere ancora i veri colori, quando gli alberi entrano nell’autunno. Una volta il mondo era pieno di colori. Non ci crederai, Lennie, ma una volta avevo un vestito rosso come quell’albero».

«Dev’essere stato bello». Cercò d’immaginare la nonna come una bambina vestita di rosso, e non vi riuscì, in parte perché non riusciva a immaginarla altro che vecchia, e in parte perché non aveva mai visto nessuno vestito di rosso.

«Era bellissimo,» disse la nonna, lentamente, e sospirò di nuovo.

Restarono così seduti sul gradino, senza parlare, senza guardare nessun punto in particolare. E poi, improvvisamente, la nonna disse:

«Lo so, lo so quello che hai. Stai ancora pensando all’uomo che hanno lapidato».

Len cominciò a tremare un poco. Non voleva, ma non riusciva ad arrestare quel tremito. E improvvisamente esclamò:

«Oh, nonna, è stato… aveva ancora uno stivale in un piede. Era tutto nudo, tranne quello stivale, e aveva un aspetto così strano. E continuavano a tirargli le pietre…»

Se chiudeva gli occhi, rivedeva ancora tutto… il sangue e il terriccio, insieme, sulla pelle bianca dell’uomo, e le mani della gente, che si alzavano e si abbassavano, si alzavano e si abbassavano…

«Perché l’hanno fatto, nonna? Perché?»

«È meglio che lo chiedi a papà».

«Lui ha detto che avevano paura, e che la paura induce la gente stupida a fare cose cattive, e che io dovrei pregare per loro». Len si passò sul naso il dorso della mano, violentemente. «Non pregherò per loro, neppure una parola, tranne che per augurare loro che qualcuno tiri delle pietre contro i loro volti, come hanno fatto a quell’uomo».

«Hai visto soltanto una cosa cattiva,» disse la nonna, scuotendo il capo, lentamente, da una parte e dall’altra, muovendo la bianca cuffia che le copriva i capelli, tenendo gli occhi chiusi e guardando dentro se stessa. «Se avessi visto tutte le cose che ho visto io, sapresti che cosa può fare la paura. Ed io ero più giovane di te, Lennie».

«È stato terribile, vero, nonna?»

«Io sono una donna vecchia, molto, molto vecchia, e mi capita ancora di sognare… C’erano fuochi nel cielo, fiamme rosse, qua e là e là e là». La sua mano sottile puntava verso tre punti distinti nel cielo, in semicerchio, verso occidente, e da sud a nord. «Erano città che bruciavano. Le città dove andavo sempre con mia madre. E la gente veniva di là, e i soldati, e c’erano dei rifugi in tutti i campi, e la gente gremiva le stalle e le case, dovunque trovava posto, e tutto il nostro bestiame veniva macellato per sfamare i profughi… quaranta capi di bellissime mucche. Quelli erano tempi terribili, terribili. È un miracolo se qualcuno è riuscito a sopravvivere».

«È per questo che hanno ucciso quell’uomo?» domandò Len. «Perché hanno paura che qualcuno possa far tornare tutte quelle cose… le città, e il resto?»

«Non è stato quello che hanno detto alla predica?» domandò la nonna, che lo sapeva molto, molto bene, perche lei stessa era stata quasi ogni giorno a prediche simili, molte decadi prima, quando il terrore aveva portato alla grande, impetuosa esplosione di fede, generando decine di nuove sette, e rafforzando straordinariamente quelle già esistenti

«Sì. Hanno detto che lui induceva in tentazione i ragazzi con un certo frutto, credo fosse quello dell’Albero della Conoscenza, come è scritto nella Bibbia. E dicevano che lui veniva da un posto che si chiama Bartorstown. Che cos’è Bartorstown, nonna?»

«Chiedilo a tuo padre,» disse la nonna, cominciando a frugare nel grembiule e a borbottare, «Dove ho messo il fazzoletto? Ero sicura di averlo preso…»

«Gliel’ho chiesto. Mi ha risposto che un luogo simile non esiste».

«Umf,» borbottò la nonna.

«Mi ha detto che solo i bambini e i fanatici credono alla sua esistenza».

«Be’, non ho intenzione di risponderti in modo diverso, così non cercare di indurmi a farlo».

«No, certo, nonna. Ma è mai esistito quel luogo… forse molto, molto tempo fa?»

La nonna riuscì a trovare il fazzoletto. Si asciugò il volto e gli occhi con esso, e si soffiò il naso, lo ripose nel grembiule, mentre Len aspettava.

«Quando ero bambina,» disse la nonna, «Ci fu quella grande guerra».

Len annuì. Il signor Nordholt, il maestro di scuola, aveva raccontato loro molte cose sulla guerra, e nella mente di Len l’episodio era connesso con il Libro dell’Apocalisse, una cosa grande e spaventosa.

«Durava già da molto tempo, penso,» continuò la nonna. «Ricordo che alla tivù ne parlavano moltissimo, e mostravano le immagini di bombe che producevano delle nubi uguali a enormi funghi, e ognuna poteva da sola spazzar via una città. Oh, sì, Len, c’era una pioggia di fuoco che scendeva dal cielo, e molti ne furono consumati! Il Signore la diede al nemico perché un giorno diventasse la pala con cui nettare la Sua aia.»

«Ma vincemmo noi.»

«Oh, sì, alla fine vincemmo noi.»

«Fu allora che costruirono Bartorstown?»

«Prima della guerra. Fu il governo a costruirla. Questo accadeva quando il governo era ancora a Washington, ed era molto, molto diverso da oggi. Più grande… diverso. Non so, una bambina non si preoccupa molto di queste cose, non ricordo bene. Ma so che costruivano moltissimi posti segreti, e Bartorstown era il più segreto di tutti, si trovava da qualche parte, a ovest… nessuno sapeva dove.»

«Se era così segreto, come facevi a sapere che esisteva?»

«Lo dicevano alla tivù. Oh, certo, non dicevano dove fosse, né a che cosa servisse… e aggiungevano che poteva trattarsi soltanto di una voce, di una notizia non vera. Ma il nome lo ricordo.»

«Allora,» disse Len, sommessamente, «Allora era vero!»

«Ma questo non vuole dire che sia vero oggi… che Bartorstown esista ancora. Si tratta di cose accadute molto, molto tempo fa. Forse ne è sopravvissuto soltanto il ricordo, come ha detto tuo padre, per suggestionare i bambini e i fanatici.» Aggiunse acidamente, a bassa voce, che lei, personalmente, non apparteneva né alla prima, né alla seconda categoria. Poi disse: «Non pensarci, Len, abbandona l’idea, non avere alcun commercio col Diavolo, e lui non ne avrà con te. Non vorrai che ti accada quello che è accaduto a quell’uomo, alla predica?»

Len ricominciò a sudare caldo e freddo. Ma la curiosità lo indusse a domandare ugualmente:

«Bartorstown è un posto così terribile, allora?»

«Deve esserlo,» disse la nonna, con acida saggezza, «Se tutti pensano che lo sia. Oh, lo so! Per tutta la vita ho dovuto tenere a freno la lingua. Io posso ricordare il mondo come era prima. Ero soltanto una bambina, ma grande abbastanza per ricordarlo… avevo quasi la tua età, allora. E ricordo benissimo come diventammo tutti Mennoniti, quando prima nessuno di noi lo era stato. A volte vorrei…» Si interruppe, e guardò di nuovo gli alberi fiammeggianti. «Come mi piaceva quel vestito rosso!»

Un altro silenzio.

«Nonna.»

«Be’, cosa c’è?»

«Com’erano le città, in realtà?»

«È meglio che tu lo chieda a tuo padre.»

«Sai benissimo quello che dice sempre. Inoltre, lui non le ha mai viste. Tu sì, nonna. Tu puoi ricordarle.»

«Il Signore, nella Sua infinita saggezza, le ha distrutte. Non tocca a noi giudicare. Né a te, né a me.»

«Non sto giudicando… sto solo chiedendo. Com’erano le città?»

«Grandi. Cento Piper’s Run non avrebbero fatto la metà neppure della più piccola città. Avevano tutte dei pavimenti solidi, con passeggi ai lati per la gente, e grandi, spaziose strade al centro per le automobili, e c’erano dei grandi edifici che salivano nell’aria, verso il cielo. C’era molto rumore, e l’aria aveva un sapore diverso, e c’era sempre moltissima gente che andava in fretta da qualche parte, avanti e indietro. Mi piaceva sempre andare in città. Nessuno pensava, allora, che fossero delle cose malvage.»

Gli occhi di Len erano grandi e rotondi.

«C’erano dei grandi cinematografi, enormi, con i sedili imbottiti, e dei supermercati grandi due volte il granaio, con dentro ogni sorta di cibi, avvolti in pacchi lucidi e colorati… quante cose che tu non hai mai sentito nominare, Len, si potevano comprare, tutti i giorni della settimana! Lo zucchero bianco, per noi era la cosa più normale e comune. E spezie, e verdure fresche durante tutto l’inverno, congelate in piccole mattonelle. E quante cose c’erano nei negozi! Oh, tante cose che non posso neppure tentare di descriverti, vestiti e giocattoli e lavatrici elettriche e libri e radio e apparecchi tivù…»

Cominciò a dondolarsi un poco avanti e indietro, e i suoi vecchi occhi brillavano.

«Natale,» disse. «Oh, a Natale! Con tutte le vetrine decorate e piene di luci e di musiche! Colori, luci, e gente che rideva. Non era malvagio. Era meraviglioso.»

Len spalancò la bocca. Rimase così, a bocca aperta, mentre un passo pesante vibrò sul pavimento dall’interno, e allora cercò di avvertire la nonna, perché tacesse… ma lei aveva dimenticato la sua presenza.

«Tanti film di cow-boys alla tivù,» borbottò la vecchia, ripercorrendo i sentieri dei decenni tormentosi. «Musica, e donne in bellissimi abiti che lasciavano le spalle scoperte. Pensavo che sarei diventata come loro, un giorno, da grande. Tanti libri illustrati, e il negozio del signor Bloomer con il gelato e le colombe di cioccolato a Pasqua…»

Papà uscì dalla porta. Len si alzò, e scese gli scalini. Papà lo guardò, e Len si fece piccolo piccolo, pensando che nelle ultime settimane la vita era stata fatta solo di guai.

«L’acqua,» disse la nonna, «Che scendeva da rubinetti lucidi e scintillanti, quando lo si desiderava. E il bagno proprio in casa, e la luce elettrica…»

Papà disse a Len:

«Sei stato tu a farla parlare?»

«No, davvero,» disse Len. «Ha cominciato da sola, con un vestito rosso…»

«Tutto facile,» disse la nonna. «Tutto facile, e lucente, e comodo. Così era il mondo. E poi se ne è andato. Così presto.»

Papà disse:

«Mamma.»

Lei lo guardò, obliquamente, e i suoi occhi parevano due scintille sbiadite, che si riaccendevano per brevi istanti. Lei disse:

«Cappello-piatto.»

«Andiamo, mamma…»

«Vorrei che ritornasse tutto,» disse la nonna. «Vorrei avere un vestito rosso, e un apparecchio tivù, e un bagno lindo e bianco di porcellana, e tutte le altre cose. Era un mondo buono. Come vorrei che non fosse mai finito.»

«Ma è finito,» disse papà. «E tu sei una vecchia pazza a giudicare la bontà di Dio.» Non parlava tanto a lei, quanto a Len, ed era molto in collera. «Una, una soltanto di quelle cose ti aiutò forse a sopravvivere? Quelle comodità aiutarono la gente delle città? Sì o no?»

La nonna girò il capo, e non volle rispondere.

Papà scese il gradino, e si mise davanti a lei.

«Mi hai capito, mamma. Rispondimi. Sì o no?»

Gli occhi della nonna si riempirono di lacrime, e la scintilla si spense, in essi.

«Io sono una vecchia,» disse. «Non è giusto che tu mi parli così.»

«Mamma, rispondi: una soltanto di quelle cose aiutò forse la gente delle città, anche una sola persona, a sopravvivere?»

La nonna lasciò ricadere il capo sul mento, e lo mosse a stento da una parte e dall’altra.

«No,» disse papà. «E lo so, perché fosti tu stessa a raccontarmi che il cibo non giungeva più ai mercati, e tutto aveva smesso di funzionare nelle fattorie, perché non c’era più energia elettrica, non c’era più combustibile, non c’era più niente. E solo coloro che avevano sempre vissuto senza tutti i lussi di quella vita, e avevano fatto da soli, con il lavoro delle loro mani, senza avere alcun commercio con le città, soltanto loro hanno potuto sopravvivere senza danno, guidandoci tutti sul sentiero della pace, dell’abbondanza, e dell’umiltà davanti a Dio. E tu osi deridere i Mennoniti! Colombe di cioccolato,» disse ancora, pestando gli stivali sul terreno, con violenza, «Colombe di cioccolato! C’è da stupirsi se il mondo, quel mondo, è crollato?»

Si volse, per comprendere Len nel proprio sostegno.

«Non avete nessun senso di gratitudine nei vostri cuori, nessuno dei due? Non sapete essere riconoscenti del buon raccolto, e della buona salute, e della casa calda, e dell’abbondanza della mensa? Cosa deve darvi di più Dio perché siate felici?»

La porta si riaprì, e apparve sulla soglia mamma Colter, con il volto roseo e tondo e pieno di rimprovero, incorniciato dalla cuffia bianca.

«Elia! Stai alzando la voce con tua madre, e proprio nel giorno di sabato?»

«Sono stato provocato,» disse il padre di Len, e rimase immobile, respirando forte col naso, per un minuto buono. Poi, più calmo, si rivolse a Len. «Va’ nel fienile.»

Len sentì che il cuore gli scendeva fino alle ginocchia. Cominciò ad attraversare l’aia, con passo lento e pesante. La mamma si fece avanti, minacciosamente:

«Elia, il sabato non è il giorno…»

«È per il bene dell’anima del ragazzo,» disse papà, con una voce che escludeva ogni discussione. «Lascia questo a me, te ne prego.»

La mamma scosse il capo, ma ritornò nella casa. Papà seguì Len, che si avviava verso la porta aperta del fienile, e la nonna rimase seduta sul gradino.

«Non me ne importa,» bisbigliò la vecchia. «Quelle cose erano buone.» Dopo un momento ripeté, fieramente, «Buone, buone, buone!» Lacrime cominciarono a scenderle lentamente sulle guance, cadendo sul suo vestito di stoffa fatto a mano.

Nel fienile caldo, immerso nella penombra, e profumato di fieno, papà prese dal chiodo la cinghia, e Len si tolse la giubba. Aspettò, ma papà rimase fermo, guardandolo e corrugando la fronte, facendo scorrere il cuoio tra le dita. Alla fine egli disse:

«No, non è questo il modo,» e riappese la cinghia alla parete.

«Non intendi frustarmi?» bisbigliò Len.

«Non per la pazzia di tua nonna. È molto vecchia, Len, e i vecchi sono simili ai bambini. E poi, ha vissuto anni terribili, e ha lavorato duramente e sempre senza lamentarsi, per una lunga vita… forse non dovrei biasimarla troppo, se rimpiange le cose comode della sua infanzia. E suppongo che non sia possibile pretendere che un ragazzo non ascolti quelle parole.»

Voltò le spalle a Len, camminando su e giù tra i sostegni, e quando si fermò, continuò a voltare le spalle al ragazzo.

«Tu hai visto morire un uomo,» disse. «È questo il tuo problema, vero? È per questo che ti tormenti, e che hai cominciato a fare tutte quelle domande?»

«Sì, papà. Proprio non riesco a dimenticarlo.»

«Non dimenticarlo,» disse papà, con veemenza improvvisa. «Poiché l’hai visto, ricordalo sempre. Quell’uomo ha scelto di seguire un certo sentiero, e quel sentiero lo ha portato a una certa fine. La strada del trasgressore non è mai stata facile, Len. Non sarà mai facile.»

«Lo so,» disse Len. «Ma solo perché è venuto da un posto che si chiama Bartorstown…»

«Bartorstown è molto più di un posto, come tu dici. Non so se esista oppure no, se sia reale come Pipers’s Run, e, anche se esiste, non posso neppure immaginare se una o tutte le cose che si narrano sul suo conto siano vere. Che siano vere o false, in realtà, non ha alcuna importanza. Gli uomini credono che siano vere. Bartorstown è un modo di pensare, Len. Il mercante è stato lapidato a morte perché aveva scelto quel modo di pensare.»

«Il predicatore ha detto che voleva far tornare le città. Bartorstown è una città, papà? Ci sono delle cose simili a quelle che aveva la nonna quando era bambina?»

Papà si voltò, e posò la mano sulla spalla di Len.

«Molte, moltissime volte, Len, in questo stesso posto, mio padre mi ha picchiato, per avere rivolto delle domande simili a questa. Era un bravissimo uomo, ma era simile a tuo zio David, più svelto con la cinghia che con la parola. Ho sentito tutte le storie, da mia madre e da tutti i vecchi della generazione precedente a quella di mia madre, che allora erano ancora vivi e ricordavano il passato assai meglio di lei. E pensavo che tutte quelle cose comode dovevano essere state belle, e mi chiedevo per quale motivo fossero state peccaminose. E mio padre mi diceva che ero destinato all’Inferno, e mi frustava, tanto che neppure riuscivo a rimettermi in piedi. Lui aveva vissuto i tempi della Distruzione, e il timor di Dio era più forte nel suo cuore di quanto non fosse nel mio. È stata una medicina amara, questa, Len, ma forse mi ha salvato. E se ci sarò costretto, ti tratterò allo stesso modo, anche se preferirei che tu non mi costringessi a farlo.»

«Cercherò di non costringerti, papà,» si affrettò a dire Len.

«Spero di no. Perché vedi, Len, è tutto così inutile. Dimentica, per un momento, il fatto che sia o non sia un peccato, e pensa soltanto ai fatti concreti. Tutte le cose di cui parla tua nonna, la tivù, le automobili, le ferrovie, e gli aeroplani, e perfino i missili, tutte quelle cose dipendevano dalle città.» Corrugò la fronte, e gesticolò un poco, cercando di spiegare il concetto. «Concentrazione, Len. Organizzazione. Come il funzionamento di un orologio, ogni rotellina dipende da ogni altra rotellina, per andare avanti. Un uomo non può costruire un’automobile, come un buon lavoratore può costruire un carro solido e funzionante. Ci volevano migliaia di uomini, che lavoravano insieme, in perfetto accordo, e che dipendevano da migliaia di altri uomini che lavoravano in altri posti, per preparare il carburante e gli pneumatici di gomma, affinché le automobili potessero camminare, dopo essere state costruite. Erano le città che rendevano possìbili tutte queste cose, Len, e quando le città scomparvero, tutte quelle cose non furono più possibili. Così non le abbiamo più. E non le avremo mai più.»

«Mai più, fino a quando durerà il mondo?» domandò Len, con la sensazione dolorosa di chi ha perduto qualcosa definitivamente.

«Questo è nelle mani di Dio,» disse il padre di Len. «Ma noi non dureremo quanto il mondo. Len, tanto varrebbe piangere sulla perdita dei Faraoni d’Egitto, che sono lontani da noi come tutte le cose perdute durante la Distruzione.»

Len annuì, pensieroso:

«Però ancora non riesco a capire, papà… perché hanno ucciso quell’uomo?»

Papà sospirò.

«Gli uomini fanno ciò che ritengono giusto, o ciò che ritengono necessario per proteggersi. Una piaga terribile è calata sul mondo. Quelli tra noi che sono riusciti a sopravvivere, hanno lavorato, e lottato, e sudato, per due generazioni, per riprendersi dalla catastrofe. Ora siamo di nuovo prosperi e in pace, e nessuno vuole che quella maledizione ritorni ad abbattersi sulle nostre teste. Quando scopriamo degli uomini che, apparentemente, ne portano il seme, decidiamo di agire contro di loro… secondo le maniere che ci sono proprie, e che sono differenti per ciascuno di noi. Alcuni, lo sai bene, seguono la via della violenza.»

Porse a Len la sua giubba.

«Ecco, puoi indossarla di nuovo. E ora va’ nei campi, e guardati attorno, e pensa a ciò che vedi, e domanda al Signore il dono più grande che Egli può darti, un cuore contento. E vorrei che tu pensassi all’uomo che hai visto morire come a un segno che ti è stato mandato per ricordarti il prezzo della follia, che è uguale a quello del peccato.»

Len indossò la giubba. Annuì, e sorrise a papà, con molto amore.

Papà disse ancora:

«Un’ultima cosa. Esaù ti ha spinto ad andare a quella predica.»

«Non ho detto…»

«Non ti ho fatto una domanda, ho fatto solo una constatazione. Conosco te e conosco Esaù. Ora ti dirò una cosa, e tu non dovrai ripeterla. Esaù è testardo, e si fa un punto d’orgoglio di essere ribelle in qualunque circostanza, credendo di dimostrarsi furbo. È nato per mettersi nei guai, come le scintille nascono per salire nella cappa del focolare, e non voglio che tu stia alle sue calcagna come un cucciolotto fedele. Se questo accadrà di nuovo, ti darò una battuta come non te la sei mai sognata. Hai capito?»

«Sissignore!»

«Allora vai.»

Len non se lo fece dire due volte. Filò dalla porta dell’aia come una freccia. Scavalcò il cancello, attraversò la carreggiata, e si addentrò nel campo occidentale, muovendosi ora con calma, con la testa china, e i pensieri che giravano e giravano e giravano nella sua testa, fino a stordirlo.

Il giorno prima gli uomini avevano tagliato il grano, e i lunghi falcetti avevano fatto whick-whick! sugli steli fruscianti, e i ragazzi avevano riunito i covoni. La mietitura era una delle cose che Lan amava di più. Tutti si riunivano e aiutavano tutti gli altri, e c’era un senso di eccitazione, un senso di vittoria finale nella lunga battaglia iniziata nel giorno della semina, l’idea di prepararsi a trascorrere l’inverno ben riforniti e in pace, qualcosa che era giusto e naturale come il cadere delle foglie e i preparativi degli scoiattoli. Len camminava lentamente, tra le file di stoppie e di alti covoni, e odorò il sole tra il grano seccato, e ascoltò i corvi che gracchiavano da qualche parte, al limitare del bosco, e allora i colori degli alberi cominciarono a giungergli. D’un tratto si rese conto che tutta la campagna era un incendio di bellezza pura, un falò di fuoco frusciante e vivo, e camminò lentamente verso i boschi, tenendo alta la testa, per vedere le creste di porpora e oro contro il cielo. C’era una macchia di sommacchi ai bordi del campo, così trionfalmente scarlatti da fargli chiudere gli occhi. Si fermò davanti a quello splendore, e si volse a guardare indietro.

Di là poteva vedere quasi tutta la fattoria, il preciso disegno dei campi, le staccionate ben curate che si stendevano serpentine a contornarli, le costruzioni raggruppate, dai tetti solidi e perfetti, colorati dalle stagioni e dagli anni di una patina grigio-argentea che scintillava nel sole. Le pecore brucavano placidamente sui pascoli alti, e in quelli più bassi c’erano le mucche, la cavalla da tiro, e i grandi cavalli dai forti muscoli, tutti lustro e grasso. Il fienile e il granaio erano pieni. La cantina degli ortaggi era ben rifornita di tuberi saporiti, la cantina della casa era piena di formaggi e di otri, di pancetta e di strutto, e di prosciutti appena affumicati, e avevano preso tutto quel ben di Dio dalla terra, con le loro mani, con il loro lavoro. Una sensazione di calore cominciò a pervadere Len, e insieme a essa venne un amore appassionato, inesprimibile per il posto che stava guardando, i campi e la casa, il fienile, i boschi, il cielo. Capiva bene, ora, che cosa aveva voluto dirgli suo padre. Questo era buono, e Dio era buono. Capì che cosa intendeva dire papà, parlando di cuore contento. Cominciò a pregare. Quando ebbe finito di pregare si voltò, e si addentrò tra gli alberi.

Vi era stato tante volte che si era formato uno stretto sentiero battuto attraverso il bosco. Ora il passo di Len era leggero, e la sua testa era alta. Il largo cappello s’impigliava tra i rami più bassi, ed egli se lo tolse. Ben presto si tolse anche la giubba. Il sentiero procedeva vicino a una pista lasciata dai cervi. Diverse volte Len si curvò a vedere se non ci fosse qualche traccia recente, e quando attraversò una radura dall’erba alta e folta poté vedere le depressioni rotonde d’erba schiacciata, là dove i cervi avevano riposato.

Pochi minuti più tardi giunse in una lunga radura. La boscaglia si faceva più rada, ricacciata via dai grandi, maestosi aceri che crescevano in quel luogo. Len si mise a sedere, arrotolando la giubba, e poi si distese sulla schiena con la giubba sotto la testa, e guardò in alto, tra il fogliame degli alberi. I rami formavano un mutevole disegno d’ombra, che racchiudeva una nube di foglie dorate, e sopra di essi il cielo era così azzurro e profondo e quieto che pareva facile tuffarsi in esso, e lasciarsi cullare dal suo tepore. Di quando in quando, una breve pioggia di foglie dorate scendeva dai rami, veleggiando lentamente nell’aria quieta, uno sfarfallare pigro e colorato che rischiarava le ombre della radura. Len meditava, ma i suoi pensieri non avevano più una forma precisa. Per la prima volta, dalla notte della predica, erano pensieri semplici e lieti. Dopo qualche tempo, pervaso da un senso di pace totale, scivolò nel torpore del dormiveglia. E poi, d’un tratto, si rizzò a sedere di scatto, con il cuore che batteva forte, e il sudore improvviso sulla fronte.

C’era un rumore nei boschi.

Non era un rumore giusto, come quelli prodotti da un animale, o da un uccello, o dal vento, o dai rami degli alberi. Era uno scoppiettio e un sibilo e uno sfrigolio, tutti mescolati, e nel bel mezzo di quella strana confusione venne un improvviso rombo. Non fu forte, pareva sottile e lontano, eppure pareva venire da vicino. Improvvisamente il rumore finì, come se fosse stato troncato di netto dalla lama di un coltello.

Len rimase immobile, tendendo l’orecchio.

Il rumore si udì di nuovo, ma debolissimo, ora, furtivo, e si mescolava al fruscio prodotto dalla brezza tra i rami più alti degli alberi. Len si mise a sedere, e si tolse le scarpe. Poi avanzò, scalzo e silenzioso, sul tappeto di muschio e d’erba, all’estremità della radura, e poi, cercando di procedere nel modo più silenzioso possibile, avanzò lungo il letto asciutto di un torrentello, fino a quando la boscaglia non si diradò di nuovo in un boschetto di noci. Attraversò il boschetto, s’immerse in una macchia di stramoni, e avanzò carponi, fino a quando non poté guardare dall’altra parte. Il suono non era aumentato d’intensità, ma era più vicino. Molto più vicino.

Oltre gli stramoni c’era un pendio erboso, un prato dove le viole crescevano numerose in primavera. Era un pendio a forma di cuneo, proprio dove il fiume che dava il nome al villaggio si gettava nel lento e limaccioso Pymatuning. C’era un grande albero che sporgeva i suoi rami sul fiume, all’estremità, con metà delle radici esposte dall’erosione del terreno a causa delle molte piene del corso d’acqua. Era il luogo più segreto che si poteva trovare in un pomeriggio di sabato in ottobre, proprio nel cuore dei boschi, nel punto più lontano dalle fattorie che si trovavano su entrambe le rive del fiume.

Esaù era là. Sedeva curvo su un tronco caduto, e il rumore veniva da qualcosa che lui teneva tra le mani.