"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)2.Fu quella strana sensazione confusa a tenere sveglio Len, inizialmente, dopo che si fu sistemato per la notte sotto il carro di famiglia. Una sensazione fatta di inquietudine, nervosismo, ed eccitazione. L’aria era fresca, fuori, la coperta era calda, lui era piacevolmente sazio, dopo un’ottima e abbondante cena, e la giornata era stata lunga e faticosa. Le palpebre cominciavano a farsi pesanti, e tutto si faceva indistinto e remoto, mentre una piacevole coltre di oscurità scendeva su di lui, e poi, Dopo qualche tempo, cominciò a udire dei rumori. Mamma e papà russavano nel carro, sopra la sua testa, e il terreno della fiera era buio, tranne che per le ceneri rossigne degli ultimi fuochi. Tutto avrebbe dovuto essere immerso nel silenzio, ma non era così. I cavalli si muovevano, e i finimenti tintinnavano. Sentì un piccolo carro muoversi, cigolando e tintinnando, e più lontano, da qualche parte, un carrozzone pesante si muoveva con un cupo sferragliare, e i cavalli sbuffavano, tirandolo. Gli stranieri, i non Mennoniti come il biondo mercante vestito in pelle, erano partiti tutti, subito dopo il tramonto, dirigendosi al luogo della predica. Ma quelli che stavano andando alla predica in quel momento erano gli altri, coloro che non desideravano farsi vedere. Len dimenticò di aver sonno, pervaso da una nuova eccitazione. Rimase ad ascoltare gli zoccoli invisibili e le ruote furtive, e cominciò a pentirsi di avere promesso di andare alla predica. Si mise a sedere, a gambe incrociate, sotto il carrozzone, tenendo la coperta intorno alle spalle, per proteggersi dal fresco notturno. Esaù non era ancora venuto. Len si volse a fissare, nella direzione del carro dello zio David, sperando che Esaù si fosse addormentato. La strada da percorrere era lunga, faceva freddo ed era buio, e si sarebbero fatti sorprendere certamente. Oltre a questo, lui si sentiva colpevole… si era sentito in colpa per tutta la cena, e non aveva sostenuto lo sguardo di suo padre. Era la prima volta in vita sua che, deliberatamente e per propria scelta, lui disobbediva a suo padre, e sapeva che la colpa doveva risplendere a lettere di fuoco su tutto il suo volto. Ma papà non si era accorto di nulla, e chissà per quale motivo questo lo faceva sentire peggio, e non meglio. Voleva dire, infatti, che papà aveva tanta fiducia in lui da non preoccuparsi di cercare sul suo volto le tracce della colpa. Ci fu un movimento, nel buio, sotto il carro dello zio David, ed era Esaù, che si avvicinava silenziosamente, carponi. Ora glielo dico, pensò Len. Gli dirò che ho cambiato idea, che non voglio venire. Esaù scivolò più vicino. Sorrideva, e i suoi occhi scintillavano, nel riverbero del fuoco che covava sotto la cenere. Avvicinò il capo a quello di Len, e bisbigliò: «Dormono tutti. Arrotola la coperta, come se tu ci fossi ancora dentro… così, per precauzione.» Non ci vado, pensò Len. Ma le parole non uscirono mai dalle sue labbra. Arrotolò la coperta, obbediente, e scivolò furtivamente nella notte, seguendo Esaù. E non appena si fu allontanato dal carro, non appena l’oscurità ebbe nascosto il tendone e il riverbero del fuoco, fu contento. L’oscurità era piena di animazione, di movimento, del senso di andare a una destinazione precisa, con un’eccitazione segreta, e anche lui stava andando, anche lui partecipava a quel movimento e a quell’eccitazione. Il sapore delle cose proibite era dolcissimo nella sua bocca, e le stelle non gli erano mai sembrate così grandi e così luminose. Avanzarono prudenti, fino a quando raggiunsero un sentiero aperto, e allora cominciarono a correre. Un calesse dalle altissime ruote passò veloce accanto a loro, superandoli, con il cavallo veloce e trafelato, ed Esaù ansò: «Vieni, vieni!» Rise, e anche Len rise, correndo. Pochi minuti dopo uscirono dal terreno della fiera, e si ritrovarono sulla strada principale, con i piedi che affondavano nella polvere alta di tre settimane senza pioggia. La polvere era sospesa nell’aria, agitata dal passaggio di molte ruote, sollevata dal vento dei carri e agitata di nuovo, prima ancora che avesse potuto posarsi. Delle figure di cavalli apparvero torreggianti nel buio, enormi e spettrali, scuotendo schiuma dai morsi. Tiravano un carro con il tendone aperto, e l’uomo che sedeva a cassetta aveva l’aspetto di un fabbro, con braccia enormi e muscolose e una corta barba bionda. Al suo fianco sedeva una donna robusta, dalle guance rosse, che portava uno straccio intorno alla testa, al posto di una cuffia, e aveva le gonne che si agitavano nel vento. Da sotto il tendone appariva una fila di piccole teste gialle come il grano. Esaù corse più forte, affiancandosi al carro, gridando, seguito da vicino da Len. L’uomo tirò le redini, arrestando i cavalli, e li guardò. Anche la donna li guardò, e poi entrambi scoppiarono in una risata. «Guardali!» esclamò l’uomo. «Dei piccoli cappelli piatti. Dove andate senza la mamma, piccoli cappelli piatti?» «Andiamo alla predica,» disse Esaù, furibondo per i «cappelli piatti», e più furibondo ancora per i «piccoli», ma non abbastanza furibondo per lasciare perdere l’occasione di ottenere un passaggio. «Possiamo venire con voi?» «Perché no?» disse l’uomo, e rise di nuovo. Disse qualcosa sui Gentili e sui Samaritani che Len non riuscì a comprendere bene, e qualcos’altro sull’ascoltare una Parola, e poi disse loro di salire, perché erano già in ritardo. I cavalli non si erano completamente fermati, anche se la loro andatura era stata rallentata, e Len ed Esaù correvano tra gli sterpi ai lati della strada, senza farsi distanziare. Si arrampicarono agilmente sul retro del carro, e si gettarono, ansanti, sulla paglia che copriva il fondo, e l’uomo incitò a gran voce i cavalli, che si lanciarono di nuovo al galoppo, facendo sobbalzare e ondeggiare il carro, mentre la polvere penetrava dalle fessure del fondo, bianca e insistente. La paglia era piena di polvere. C’era un grosso cane accovacciato su di essa, e c’erano sette bambini, e tutti fissavano Esaù e Len con occhi grandi, rotondi e ostili. I due ragazzi sostennero lo sguardo, e poi il più grande dei bambini puntò il braccio su di loro, e disse: «Guardate che buffi cappelli.» Tutti risero, a queste parole. «Cosa te ne importa?» rispose Esaù. «Me ne importa perché questo è il mio carro, e voi ci siete sopra, e se non vi piace la compagnia potete scendere». Poi continuarono a beffarsi dei loro vestiti, e Len ribollì di collera, pensando che loro non avevano alcun diritto di parlare. Erano scalzi, tutti e sette, e non avevano cappello in testa, anche se, a onor del vero, apparivano tutti sani e robusti, e benestanti, e soprattutto puliti. Malgrado tutto non rispose alle provocazioni, e anche Esaù rimase zitto. Tre o quattro miglia erano un percorso molto lungo, troppo lungo se lo si doveva percorrere a piedi, di notte. Il cane era molto amichevole, invece. Venne a leccare i loro volti con la lunga lingua ruvida, e si accovacciò imparzialmente sull’uno e sull’altro, coprendoli di attenzione per tutta la durata del viaggio. E Len si domandò se la donna seduta a cassetta sarebbe scesa sul terreno della predica, rotolandosi a terra, e se l’uomo si sarebbe rotolato a terra con lei. Pensò che sarebbero apparsi molto stupidi, in questo caso, e ridacchiò, e d’un tratto scoprì di non essere più in collera contro i sette bambini gialli che continuavano a criticare pesantemente i loro vestiti e il loro aspetto. Finalmente il carro si fermò tra molti altri, disposti in un campo aperto, molto vasto, che scendeva con un dolce pendio verso un piccolo fiume, largo solo sei o sette metri, ora che si era nel pieno della stagione asciutta, e poco profondo, tra gli alti argini. Len pensò che doveva esserci molta gente, almeno quanta ce ne era stata alla fiera, solo che tutti erano ammassati, vicinissimi, disposti in una specie di approssimativo circolo, con molta gente seduta al centro. Un carro piatto, con i cavalli staccati, venne spinto vicino all’argine del fiume. Tutti erano voltati verso il carro, e un uomo era in piedi sopra di esso, illuminato da un grande falò. Era un uomo giovane, alto, col torace largo. La barba nera gli scendeva fin quasi alla cintola, lucida come le penne di un corvo in primavera, ed egli la scuoteva muovendosi, agitando la testa e gridando. Aveva la voce alta e penetrante, e non giungeva in un flusso costante di parole, ma a brevi frammenti che parevano lacerare l’aria, improvvisi e penetranti come lame di pugnale, arrivando chiari fino alle ultime file, prima che quello successivo venisse scagliato contro coloro che ascoltavano. Ci volle un minuto buono, prima che Len capisse che l’uomo stava predicando. Era abituato a prediche del tutto diverse, nelle riunioni del sabato, quando papà, o lo zio David, o chiunque altro lo volesse, potevano alzarsi e parlare con Dio, o di Dio. Essi lo facevano sempre con calma, con voce posata e tenendo le mani giunte. Era stato a osservare dall’alto del carro. In quel momento, prima ancora che le ruote si fermassero, Esaù gli diede una gomitata, e disse: «Vieni!» Saltò giù, oltre l’asse posteriore del carro. Len lo seguì. L’uomo gridò loro qualcosa a proposito della Parola, e tutti e sette i bambini fecero smorfie e boccacce. Len disse, educatamente: «Grazie per il passaggio». Poi si mise a correre dietro a Esaù. Da quel punto, il predicatore sembrava piccolo e lontano, e Len non poteva capire molto di ciò che diceva. Esaù bisbigliò: «Penso che sia meglio avvicinarci… da questa parte, ma non fare rumore». Len annuì. I due ragazzi scivolarono tra i carri, e notarono che c’erano altre persone che, apparentemente, preferivano rimanere nascoste. Si mantenevano ai margini della folla, fra i carri, e Len poteva intravedere soltanto le figure oscure i cui contorni erano disegnati dal riflesso del fuoco. Alcuni si erano tolti il cappello, ma il taglio degli abiti e dei capelli denunciavano la loro origine in maniera altrettanto inequivocabile. Appartenevano al popolo di Len. Sapeva quello che provavano. Lui stesso provava una certa vergogna, al pensiero di essere visto là in mezzo. Mentre lui ed Esaù avanzavano faticosamente verso il fiume, la voce del predicatore si faceva più forte. C’era qualcosa di stridente, in essa, qualcosa che muoveva il sangue e lo spirito, come il grido di uno stallone furioso. Le parole giunsero più distinte: «…divennero idolatri, seguendo le vie di strani dèi. Voi lo sapete bene, amici. I vostri stessi genitori ve l’hanno detto, le vostre nonne e i vostri vecchi nonni ve l’hanno confessato, come i cuori della gente erano pieni di malvagità e di bestemmia, e di bramosia e lussuria…». Len sentì la pelle formicolare per l’eccitazione. Seguì Esaù, che s’insinuava tra una confusione di ruote e di zampe di cavalli, trattenendo il respiro. E finalmente raggiunsero un punto dal quale potevano vedere, al riparo di uno spazio d’ombra tra le ruote di un carro, senza essere notati, mentre il predicatore era a pochissimi metri da loro. «Perché essi peccarono di lussuria, fratelli miei! Essi bramavano tutto ciò che era strano, e nuovo, e innaturale. E Satana vide che così era, e accecò i loro occhi, gli occhi celestiali dell’anima, facendoli diventare dei bambini sciocchi, che gridavano di gioia cercando il lusso e i beni materiali, e tutti i piaceri che inaridivano l’anima. Ed essi dimenticarono Dio». Un gemito e un ondeggiamento parvero attraversare la folla che sedeva sul terreno. Len impugnò saldamente due raggi delle ruote, e infilò la testa tra di essi, sporgendosi. Il predicatore balzò fino all’orlo del carro. Il vento notturno agitava la sua lunga barba, e i lunghissimi capelli neri, e dietro di lui il fuoco bruciava e generava fumo e scintille, e anche gli occhi del predicatore parevano ardere dello stesso fuoco, enormi e neri. Egli tese avanti il braccio, puntandolo contro la folla, e disse, in uno strano, aspro bisbiglio che aveva la forza e l’intensità di un grido: « Di nuovo, l’ondeggiamento e il mugolio, un suono cupo, profondo, lamentoso. Questa volta il mugolio fu più forte, l’ondeggiamento più pronunciato. Il cuore di Len aveva cominciato a battere precipitosamente. «Sì, fratelli! Essi dimenticarono. Ma Dio dimentica? No, io vi dico. Egli non dimentica! Egli li vedeva. Egli osservava le loro iniquità. Egli vedeva che il Diavolo si era impadronito di loro, e vedeva che essi ne erano contenti… sì, amici miei, essi amavano il vecchio Satana, il Traditore, e non volevano lasciare le sue vie per le vie del Signore. E perché? Perché le vie di Satana erano più facili e più comode, e c’era sempre un nuovo vizio, c’era sempre un nuovo piacere ad attenderli dietro l’angolo del sentiero che conduceva in basso…» Len si accorse che Esaù, rannicchiato al suo fianco nella polvere, stava fissando il predicatore con gli occhi scintillanti, e la bocca spalancata. Anche il battito del cuore di Len si fece più tumultuoso. La voce del predicatore aveva l’effetto di una sferzata, una sferzata che agiva su nervi che lui non aveva mai saputo di avere. A un certo punto, dimenticò completamente la presenza di Esaù. Rimase aggrappato ai raggi delle ruote, e pensò, avidamente, «Va’ avanti, va’ avanti!» «E così che cosa fece Iddio, quando Egli vide che i Suoi figli si erano allontanati da Lui? Voi sapete che cosa Egli fece, fratelli miei! Voi lo sapete!» Il lamento e l’ondeggiamento, e il lamento diventò un cupo, basso, minaccioso ululato. «Egli disse: "Essi hanno peccato! Hanno peccato contro le Mie leggi, e contro i Miei profeti, che li misero in guardia, già nell’antica Gerusalemme, dalle facili lusinghe dell’Egitto e di Babilonia! E si sono esaltati nel loro orgoglio. Si sono arrampicati fino ai cieli che sono il Mio trono, e hanno squarciato la terra che è lo sgabello dei Miei piedi, e hanno liberato il sacro fuoco che sta nel cuore stesso delle cose, e che Io soltanto, il Signore Geova, posso toccare!" E Dio disse ancora, "Malgrado tutte le loro nequizie, io sono un Dio pietoso, lento all’ira ed eterno nell’amore. Che essi si purifichino, dunque, dei loro peccati!"» L’ululato si fece più alto, e per tutto il vasto campo aperto ci fu un tendere di braccia e un movimento di teste. «"Che si purifichino dei loro peccati!"» gridò il predicatore. Il suo corpo era teso come la corda d’un arco, vibrante, e le scintille formavano come un’aureola, dietro di lui. «Dio parlò, ed essi furono mondati da ogni nequizia, fratelli! Con i loro stessi peccati vennero castigati. Vennero arsi col fuoco che essi avevano creato, sì, e le loro torri superbe svanirono nel grande fuoco della collera di Dio! E col fuoco e la fame e la sete e il terrore vennero scacciati dalle loro città, dai luoghi di nequizia e di lussuria, i nostri stessi padri, e i padri dei nostri padri, che avevano peccato, e i luoghi d’iniquità vennero distrutti, come fu per Sodoma e Gomorra». In qualche parte della folla una donna gridò e cadde all’indietro, battendo la testa sul terreno. Len non se ne accorse neppure. La voce del predicatore calò di nuovo in quel bisbiglio intenso e potente più di cento grida. «E così noi venimmo risparmiati, per misericordia di Dio, perché potessimo trovare la sua via, e seguirla». «Alleluia!» gridò la folla. «Alleluia!» Il predicatore sollevò le mani. La folla si calmò. Len trattenne il respiro, in attesa. I suoi occhi fissavano i neri occhi ardenti dell’uomo sul carro. Li vide socchiudersi, come gli occhi di un gatto quando sta per balzare sulla preda, solo che quegli occhi non erano del colore giusto. «Ma,» disse il predicatore. «Satana è ancora con noi». Le file della folla si spinsero avanti, con un gemito ferale, e vennero tenute a freno, completamente soggiogate, dalle mani del predicatore. «Lui vuole riprenderci. Sì, il Diavolo ricorda bene com’era quando aveva tutte quelle donne dolci e belle a servirlo, e tutti gli uomini ricchi e molli, e le città tutte risplendenti di luci, come suoi altari! Lui ricorda, e rivuole tutte queste cose! Così egli ci invia i suoi emissari… oh, fratelli miei, non sapreste mai distinguerli dalla brava gente timorata di Dio, con i loro modi suadenti e i loro abiti semplici e severi! Ma essi si aggirano in segreto facendo proseliti, insidiando con la tentazione i nostri ragazzi e i nostri giovani, facendo dondolare davanti ai loro occhi ingenui il frutto proibito del serpente, e sulla fronte di ognuno di essi c’è il marchio della bestia… il marchio di Bartorstown!» Len trasalì, e tese ancor più le orecchie, nell’udire quel nome. In passato, aveva sentito il nome di Bartorstown solo una volta, dalla voce della nonna, e lo ricordava bene, per la durezza con cui papà le aveva imposto di tacere. La folla ululò, e alcuni balzarono in piedi. Esaù si fece più vicino a Len, vibrante di eccitazione: «Non è grandioso?» bisbigliò. «Non è grandioso?» Il predicatore si guardò intorno. Questa volta non calmò la folla, lasciò che tutti si calmassero da soli, per l’ansia di ascoltare ciò che egli aveva ancora da dire. E in quel momento Len avvertì la presenza di qualcosa di nuovo nell’aria. Non capì che cosa fosse, ma si trattava di qualcosa di eccitante, tanto eccitante da riempirlo del desiderio di balzare in piedi e urlare e saltare su e giù, e nello stesso tempo si trattava di una cosa che lo riempiva d’incertezza, d’inquietudine. Era una cosa che la folla e il predicatore comprendevano, una muta corrente d’intesa tra loro… «Ora,» disse l’uomo in piedi sul carro, con calma, «Ci sono alcune sette, tutta gente timorata di Dio… non dico che non tentino di esserlo… che pensano che basti dire a uno di questi emissari di Satana: "Vattene, abbandona la nostra comunità, e non ritornare mai più". Ora, forse, costoro non si rendono conto che ciò che dicono, in verità, è, "Va’ a corrompere qualcun altro, noi vogliamo mantenere la nostra casa pulita"». Un secco, improvviso movimento delle sue mani soffocò un grido della folla, come se egli avesse messo un tappo nella bocca di tutti. «No, amici miei. Questo non è il nostro metodo. Noi pensiamo ai nostri vicini come pensiamo a noi stessi. Noi onoriamo la legge del governo che dice che non ci dovranno essere più città. E noi onoriamo soprattutto la Parola di Dio, che dice che se il nostro occhio destro ci è motivo di scandalo, dobbiamo cavarcelo e gettarlo, e che se la nostra mano destra ci è motivo di scandalo, noi dobbiamo tagliarcela, e che il giusto non avrà parte alcuna con gli operatori d’iniquità, no, neppure se costoro fossero i nostri fratelli, o i nostri padri, o perfino i nostri figli!» Venne allora dalla folla un suono che infiammò Len, gli schiuse la gola, e gli riempì di bruciore gli occhi. Qualcuno gettò della nuova legna sul falò. Il fuoco sprizzò altissimo rugghiando in un torrente di scintille e in un bagliore giallo di fiamma, e ora c’era della gente che si rotolava per terra, uomini e donne, artigliando la terra con le dita e urlando. I loro occhi erano tutti bianchi, e non era affatto una cosa buffa. E sopra la folla e la luce del fuoco si levò la voce del predicatore, un ululato acuto e potente, come il grido di un grande animale nella notte. «Se c’è della malvagità tra voi, cacciatela!» Un ragazzo magro, con la barba che appena spuntava sul mento, balzò in piedi. Puntò il braccio. Gridò, «Io lo accuso!» e la schiuma apparve agli angoli della sua bocca. In un punto ci fu un improvviso, violento movimento. Un uomo era balzato in piedi, tentando di fuggire, e diversi altri lo avevano preso. Le loro spalle si muovevano, le loro gambe danzavano, e la folla intorno si agitava, spingendo e tirando. Finalmente lo trascinarono indietro, e Len poté vederlo chiaramente. Era il mercante biondo, William Soames. Ma il suo volto era diverso, ora, pallido, e pauroso, e raggelato. Il predicatore gridò qualcosa sulla radice e sui rami. Era accovacciato ora sull’orlo del carro, con le braccia levate alte, le mani protese verso il cielo. Cominciarono a spogliare il mercante. Gli strapparono la robusta giacca di cuoio dalla schiena, e strapparono i pantaloni di pelle dalle gambe, lasciandolo bianco e nudo. Portava ai piedi degli stivali leggeri, e uno gli venne tolto, mentre l’altro venne dimenticato, e rimase al suo posto. Poi tutti si ritirarono, scostandosi da lui, in modo che egli rimanesse solo al centro di uno spazio aperto. Qualcuno lanciò un sasso. Il sasso colpì Soames alla bocca. Egli vacillò un poco, e sollevò le braccia, ma un altro sasso lo raggiunse, e un altro ancora, e pezzi di legno e di terriccio, e la sua pelle bianca fu ben presto tutta macchiata e segnata. Soames cercò di voltarsi prima da una parte, poi dall’altra, cadde, incespicò, si piegò in due, tentando di trovare una via di scampo, cercando di evitare i colpi. Aveva la bocca aperta e i denti apparivano insanguinati, sangue che scorreva dagli angoli della bocca e macchiava la barba, ma Len non poté sentire se egli stesse gridando oppure no, perché la folla urlava, un suono ingordo, affannoso, acuto, osceno, e le pietre continuavano a cadere sull’uomo. Poi tutta la folla cominciò a spostarsi verso il fiume, trascinando Soames con sé. Il mercante si avvicinò, passando vicino al carro, vicino all’ombra dove Len se ne stava a guardare, aggrappato ai raggi, e Len poté vedere chiaramente i suoi occhi. Gli uomini lo pressavano da vicino, con gli stivali che calpestavano pesantemente la polvere, e anche le donne venivano, con i capelli scarmigliati e le pietre in mano. Soames cadde dall’argine nelle acque poco profonde del fiume. Gli uomini e le donne lo seguirono, e lo coprirono, come le mosche coprono un pezzo in decomposizione dopo un macello, e le loro mani si alzavano e si abbassavano, si alzavano e si abbassavano. Len girò il capo, e guardò Esaù. Stava piangendo, e il suo viso era bianco come il marmo. Esaù aveva le mani strette intorno allo stomaco, premute forte, e il suo corpo era curvo, e gli occhi erano enormi e fissi. Improvvisamente, egli si voltò e fuggì via, carponi, come un animale in fuga sul terreno. Len si affrettò a seguirlo, muovendosi sulle mani e sulle ginocchia, come un gambero, con l’aria scura e vorticante intorno a lui. Ora riusciva solo a pensare alle noci che Soames gli aveva regalato. Si sentì male, e dovette fermarsi a vomitare, premuto da qualcosa di terribilmente freddo e pesante. La folla stava ancora rumoreggiando, sulla riva del fiume. Quando Len si rialzò, Esaù era già scomparso nel buio. Preso dal panico, cominciò a fuggire tra le carrozze e i carri, chiamando, «Esaù! Esaù!», ma non ci fu risposta, o, se c’era, non poté udirla perché il rumore della morte violenta risuonava nelle sue orecchie troppo forte. Sbucò alla cieca in uno spazio aperto, e là incontrò un’alta, torreggiante figura che allargò le lunghe braccia e lo prese. «Len,» disse. «Len Colter». Era il signor Hostetter. Len sentì che le ginocchia gli si piegavano. Tutto diventò molto buio e silenzioso, ed egli udì la voce di Esaù, e poi quella del signor Hostetter, ma quei suoni erano lontani e sottili, come voci portate dal vento in una giornata afosa. Poi si trovò su un carro, enorme e pieno di odori insoliti, e il signor Hostetter stava spingendo dentro al carro Esaù, dopo di lui. Esaù aveva il volto di un fantasma. Len disse: «Avevi detto che sarebbe stato divertente». Esaù rispose: «Non avrei mai pensato che loro…». Singhiozzò, e sedette accanto a Len, con la testa sulle ginocchia. «State fermi,» ordinò il signor Hostetter. «Devo prendere una cosa». Se ne andò. Len si alzò, e andò a guardare, con gli occhi irresistibilmente attirati verso il chiarore del fuoco e verso la folla che gemeva, singhiozzava, urlava, ondeggiava avanti e indietro, gridando che tutti erano salvi. Gloria, gloria, alleluia, il frutto del peccato è la morte, alleluia! Il signor Hostetter corse attraverso lo spazio aperto, verso il carro di un altro mercante, fermo accanto a una macchia d’albero. Len non riuscì a leggere il nome sul telone, ma fu sicuro che quello doveva essere il carro di Soames. Anche Esaù stava guardando, ora. Il predicatore aveva ricominciato a parlare, tenendo alte le braccia, con le mani al cielo. Il signor Hostetter balzò giù dall’altro carro, e tornò indietro di corsa. Portava sotto il braccio un cofanetto, lungo circa trenta centimetri. Salì di nuovo a cassetta, e Len si affrettò ad accostarsi a lui, dall’interno del carro. «Per favore,» supplicò. «Posso sedere accanto a voi?» Hostetter gli porse il cofanetto. «Mettilo dentro, presto. D’accordo, vieni qui. Dov’è Esaù?» Len si voltò a guardare. Esaù era raggomitolato sul fondo del carro, con il volto nascosto in un mucchio di stoffa. Lo chiamò, ma Esaù non rispose. «È svenuto,» disse Hostetter. Srotolò la frusta con uno schiocco imperioso, e gridò ai cavalli. I sei grandi bai si mossero come una sola bestia, tendendo i finimenti, e il carro si mosse pesantemente. Cominciò ad acquistare velocità, e il chiarore del falò rimase indietro, insieme alla voce della folla. C’era solo la strada buia, e gli alberi neri che la circondavano, c’era l’odore della polvere e la pace dei campi vicini. I cavalli rallentarono, allora, acquistando un’andatura meno precipitosa. Il signor Hostetter mise il braccio intorno alle spalle di Len, che si aggrappò a lui. «Perché l’hanno fatto?» domandò. «Perché hanno paura». «Di che cosa?» «Di ieri,» disse il signor Hostetter. «Di domani». Improvvisamente, con uno scoppio di collera violenta, egli li maledisse. Len lo fissò, con gli occhi e la bocca spalancati. Hostetter strinse le labbra, duramente, interrompendo a metà una parola, e scosse il capo. Len sentì che egli tremava in tutto il corpo. Quando il signor Hostetter parlò di nuovo, la sua voce era normale… o quasi. «Resta con la tua gente, Len. Non ne troverai di migliore». Len mormorò: «Sì, signore». Nessuno parlò, dopo quel breve scambio. Il carro procedeva sobbalzando sulla strada polverosa, e il movimento intontì Len, non l’intontimento sano della sonnolenza, ma quell’intontimento sconvolto da apprensioni e angosce che viene dopo che tutte le forze sono state consumate, quelle del corpo e quelle della mente. Esaù era silenzioso, sul fondo del carro, silenzioso e immobile. Finalmente i cavalli rallentarono ancora l’andatura, procedendo al passo, e Len vide che erano ritornati nel terreno della fiera. «Dov’è il vostro carro?» domandò Hostetter, e Len glielo disse. Quando furono vicini a esso, il fuoco ardeva di nuovo nella notte, e papà e lo zio David erano in piedi, accanto alle fiamme. Sembravano cupi e irati, e quando i ragazzi scesero dal carro essi non dissero niente, limitandosi a ringraziare Hostetter per averli riportati al carro. Len guardò suo padre. Avrebbe voluto gettarsi in ginocchio e supplicare, «padre, ho peccato». Ma non riuscì a fare altro che rimanere là, sconvolto e attonito, singhiozzando e tremando di nuovo. «Cosa è successo?» domandò suo padre. Hostetter glielo disse in cinque parole: «C’è stata una lapidazione». Papà guardò Esaù e lo zio David, e poi guardò Len, e sospirò. «Solo molto di rado essi fanno una cosa simile, e doveva essere proprio questa volta. L’avevamo proibito ai ragazzi, ma loro hanno voluto andare ugualmente, e così hanno visto». Disse a Len, «Calma, ragazzo, ora. Calma, è tutto passato». Lo spinse, non senza dolcezza, verso il carro. «Avanti, Lennie, prendi la tua coperta e dormi». Len s’insinuò sotto il carro, e si avvolse addosso la coperta, e giacque là, immobile. Un senso di oscurità e di debolezza scese su di lui, e il mondo cominciò a scivolare via, portando con sé il ricordo del volto in agonia di Soames. Attraverso il tendone udì che il signor Hostetter diceva: «Ho cercato di mettere in guardia quell’uomo nel pomeriggio, dicendogli che quei fanatici stavano facendo insinuazioni sul suo conto. L’ho seguito là, stanotte, per dirgli di andarsene. Ma sono giunto troppo tardi, non c’era più niente che io potessi fare». Lo zio David domandò: «Era colpevole?» «Di fare proseliti? Dovreste saperlo meglio di me. Gli uomini di Bartorstown non vanno in giro a fare proseliti». «Allora veniva da Bartorstown?» «Soames veniva dalla Virginia. Lo conoscevo come mercante, e come amico». «Colpevole o no,» disse in tono cupo papà, «È una cosa blasfema, indegna di un cristiano. Ma finché ci saranno dei capi pazzi o astuti, capaci di giocare sulle vecchie paure, una folla come quella diventerà sempre crudele». «Tutti noi,» rispose Hostetter, «Abbiamo le nostre vecchie paure». Salì di nuovo a cassetta, e se ne andò. Ma Len si addormentò ancora prima che il rumore delle ruote fosse cessato. |
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