"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)

9.

Era il pomeriggio del sabato. Erano in piedi, all’ombra del roseto, e Amity lo guardava incollerita.

«Non mi hai visto fare niente di simile, e se lo dirai a qualcuno, ti darò del bugiardo!»

«Non ho bisogno di dirlo a nessuno. Io so quello che ho visto, e lo sai anche tu,» le rispose Len.

La sua grossa treccia bionda ondeggiava, per i movimenti repentini della sua testa.

«Non sono promessa a te.»

«Ti piacerebbe esserlo, Amity?»

«Forse. Non lo so.»

«E allora, perché baciavi Esaù?»

«Be’, perché,» rispose lei, in tono ragionevole, «Come faccio a sapere quale dei due mi piace di più, se non provo prima?»

«Va bene,» disse Len. «Va bene, allora.» Tese le mani, e l’attirò a sé, e poiché ricordava in qual modo l’aveva stretta Esaù, fu piuttosto rude. Per la prima volta la strinse veramente con forza, e sentì com’era morbido e sodo il suo corpo, e come si curvava. Gli occhi di Amity erano vicini ai suoi, così vicini che diventavano solo di un colore azzurro senza forma, e si sentì stordito, e chiuse gli occhi, e trovò le sue labbra nel buio.

Dopo qualche tempo, la scostò un poco da sé, e disse:

«E ora chi preferisci?» Stava tremando, ma sulle guance di Amity c’era solo un lieve rossore, e lo sguardo di lei era piuttosto calmo. Gli sorrise.

«Non lo so,» disse lei. «Dovrai riprovare…»

«È questo che hai detto a Esaù?»

«Che t’importa sapere quello che ho detto a Esaù?» Di nuovo, la treccia bionda dondolò sulla sua schiena. «Pensa agli affari tuoi, Len Colter.»

«Questi potrebbero essere affari miei.»

«Chi l’ha detto?»

«L’ha detto tuo padre, se proprio ci tieni a saperlo.»

«Oh,» disse Amity. «L’ha detto lui.» Improvvisamente, fu come se una pesante cortina fosse calata a dividerli. Lei indietreggiò, e la sua bocca s’indurì.

«Amity,» le disse. «Ascolta, Amity, io…»

«Tu lasciami in pace. Hai capito, Len?»

«Cosa c’è di diverso, adesso? Prima mi sembravi così ansiosa… in tutti questi mesi, e pochi minuti fa…»

«Ansiosa! È tutto quello che sai. E se pensi di poterti permettere, solo per il fatto di avere circuito mio padre dietro le mie spalle, di…»

«Non ho circuito nessuno, Amity! Ascolta!» La prese di nuovo, l’attirò a sé.

Lei sibilò, tra i denti:

«Lasciami andare, non appartengo a te, non appartengo a nessuno! Lasciami andare…»

Lui continuò a stringerla, lottando contro di lei. La sua ribellione lo eccitava, e rise, e chinò il capo per baciarla di nuovo.

«Amity, andiamo, io ti amo…»

Lei soffiò come una gatta, e gli graffiò la guancia. La lasciò andare, allora, e Amity non era più così bella, il suo volto era contratto, brutto, e i suoi occhi cattivi. Lei corse via, lungo il sentiero. L’aria era tiepida e il profumo delle rose era intenso, intorno a lui. Per qualche tempo rimase immobile, guardando il sentiero lungo il viale era fuggita, e poi ritornò lentamente nella casa, e nella camera che divideva con Esaù.

Esaù era sdraiato sul letto, semiaddormentato. Si limitò a grugnire, e a girarsi sul fianco, quando Len entrò nella stanza. Len aprì lo sportello dell’armadietto. Ne prese un piccolo zaino di tela robusta, e cominciò a riporvi le sue cose, metodicamente, infilando ogni oggetto nello zaino con forza eccessiva. Era rosso in viso, e la sua espressione era cupa e accigliata.

Esaù si girò di nuovo. Batté le palpebre, guardò Len, e disse:

«Cosa credi di fare?»

«Sto facendo i bagagli.»

«I bagagli!» Esaù si drizzò a sedere sul letto, completamente sveglio. «Perché?»

«Perché la gente di solito fa i bagagli? Me ne vado.»

Esaù mise un piede sul pavimento.

«Sei diventato matto? Cosa vuoi dire… così, semplicemente, vuoi andartene? Credi che io non abbia qualcosa da dire, eh?»

«No, non hai niente da dire, su questo, almeno. Tu puoi fare quello che vuoi. Spostati, voglio quegli stivali.»

«Va bene! Ma tu non puoi… aspetta un momento! Cos’hai sulla guancia?»

«Cosa?» Len si passò il dorso della mano sulla guancia. La ritirò con una macchiolina rossa. Amity lo aveva graffiato profondamente.

Esaù cominciò a ridere.

Len si rialzò.

«Cosa c’è di tanto buffo?»

«Finalmente ti ha dato il fatto tuo, eh? Oh, non raccontarmi che è stato il gatto a graffiarti. So riconoscere i graffi di un gatto. Bene. Ti avevo detto di tenerti lontano da lei, ma non mi hai voluto ascoltare. Io…»

«Credi che lei ti appartenga?» domandò Len, a bassa voce.

Esaù sorrise.

«Avrei potuto dirti anche questo.»

Len lo colpì. Era la prima volta in vita sua che colpiva qualcuno con autentica collera. Vide che Esaù cadeva all’indietro sul letto, con gli occhi spalancati per la sorpresa, e una sottile striscia rossa che gli usciva dall’angolo della bocca, e tutto parve accadere molto lentamente, dandogli tutto il tempo per sentirsi colpevole e confuso e riempirlo di pentimento. Gli pareva di avere colpito un fratello. Ma era ancora in collera. Sollevò lo zaino, e si avviò alla porta, ed Esaù balzò dal letto, e lo afferrò per la spalla, costringendolo a girarsi.

«Mi hai picchiato, eh? Avanti, riprovaci!» disse, ansando. «Ti sei azzardato a farlo, sporco…» insultò Len con un epiteto che aveva appreso tra gli scaricatori dei moli, e agitò il pugno, con violenza.

Il pugno di Esaù partì, e Len fu lesto ad abbassarsi. Le nocche di Esaù gli sfiorarono il viso, e colpirono il legno solido della porta. Esaù gettò un grido di dolore, e cominciò a saltellare per la stanza, tenendo la mano sotto l’altro braccio, e imprecando. Len fece per dire qualche parola, per esprimere il suo dispiacere, ma cambiò idea, e si voltò di nuovo, pronto ad andarsene.

E il giudice Taylor era là fuori, nel corridoio.

«Smettila,» disse a Esaù, ed Esaù smise di lamentarsi, immobilizzandosi al centro della stanza. Taylor guardò i due giovani, e il suo sguardo indugiò sullo zaino che Len aveva in mano. «Ho parlato adesso con Amity,» disse, e Len capì che, dietro i suoi modi austeri, il giudice Taylor ribolliva di collera. «Mi dispiace molto, Len. A quanto sembra, ho commesso un errore.»

«Sì, signore,» disse Len. «Me ne stavo andando.»

Taylor annuì.

«In ogni modo,» disse, «Quanto ti ho detto è vero. Ricordalo.» Fissò poi, duramente, Esaù.

«Lasciatelo andare,» disse Esaù. «Io non mi muovo.»

«Io penso di sì,» disse Taylor.

«Ma lui…»

«L’ho colpito io per primo,» disse Len.

«Questo non ha importanza,» disse il giudice. «Raccogli le tue cose, Esaù.»

«Ma perché? Io guadagno abbastanza per pagare l’affitto. Non ho fatto niente…»

«Non so ancora esattamente ciò che hai fatto, ma molto o poco che sia, ora è finito. Questa stanza non è più da affittare. E se ti sorprendo di nuovo a ronzare intorno a mia figlia, ti farò cacciare da questa comunità. È chiaro?»

Esaù lo guardò, furioso, ma non disse niente. Cominciò ad ammucchiare le sue cose sul letto. Len uscì, passando davanti al giudice, percorse il corridoio, e scese le scale. Uscì dalla porta posteriore, e passando davanti alla cucina riuscì a vedere, attraverso la porta socchiusa, Amity curva sul tavolo, che singhiozzava disperatamente, e la signora Taylor che la fissava con un’espressione inorridita e strana, con una mano alzata, come se avesse voluto accarezzarla sulla spalla, ma si fosse improvvisamente fermata a metà e avesse dimenticato il gesto.

Len uscì dal cancello posteriore, evitando accuratamente il roseto.

Il sabato era una coltre silenziosa e pesante sulla comunità. Len percorse i vicoli, camminando frettoloso nella polvere. Non aveva idea di dove stesse andando, ma l’abitudine e la conformazione generale di Refuge lo portarono al fiume, e sui moli, là dove i quattro grandi magazzini di Dulinsky erano allineati. Si fermò là, incerto e imbronciato, e solo allora cominciò a comprendere che la situazione era cambiata radicalmente, per lui, nel giro di pochi minuti.

Il fiume scorreva verde come vetro di bottiglia, e tra gli alberi dell’altra riva i tetti di Shadwell scintillavano sotto il sole caldo. C’erano diversi battelli fluviali ormeggiati al molo. Gli uomini di quei battelli erano in città, o dormivano sottocoperta. Niente si muoveva, all’infuori del fiume, e delle nubi, e di un gattino che si divertiva a giocare da solo sul ponte di uno dei battelli. Alla sua destra, più avanti, c’era il grande rettangolo spoglio là dove sarebbe sorto il nuovo magazzino. Le fondamenta erano già state gettate. Tronchi e assi erano disposti in grandi pile precise, e c’era una segheria, sotto la quale si vedeva una montagnetta di segatura gialla. Due uomini, distanti tra loro, se ne stavano a oziare all’ombra. Len corrugò la fronte. Lo guardavano, come se fossero stati di guardia.

Forse era così. Il mondo era stupido, e pieno di gente stupida. Gente paurosa, che temeva di vedersi crollare addosso il cielo se anche una minima cosa fosse stata cambiata. Un mondo stupido. Lo odiava. Amity viveva in esso, e sempre in esso era nascosta Bartorstown, da qualche parte, in modo che nessuno potesse mai scoprirla, e la vita era oscura e piena di frustrazioni di ogni genere.

Stava ancora rimuginando tra sé tutti questi tenebrosi pensieri, quando Esaù arrivò sul molo.

Esaù portava le sue cose in un fagotto preparato frettolosamente, e il suo viso era rosso e minaccioso. Aveva il labbro tumefatto, da un lato. Gettò rabbiosamente il fagotto a terra, si mise davanti a Len, e dichiarò:

«Ho un paio di cose da sistemare con te.»

Len respirò forte dal naso. Non aveva paura di Esaù, e si sentiva così depresso e abbattuto che una rissa sarebbe stata accolta come un diversivo gradito. Non era alto come il cugino, ma aveva le spalle più larghe e massicce. Si mise in posizione, e attese.

«Perché ti è venuta voglia di andare via, e ci hai fatto sbattere fuori entrambi?» domandò Esaù.

«Io me ne sono andato. Tu sei stato sbattuto fuori.»

«Ho un bel cugino, io. Che cosa hai detto al vecchio Taylor, per fargli fare quello che ha fatto?»

«Niente. Non ne ho avuto bisogno.»

«Cosa intendi dire?»

«Non gli vai a genio, ecco cosa voglio dire. Non provocarmi a una rissa, se proprio non ne hai intenzione, Esaù.»

«Te la sei presa, eh? Be’, prenditela pure, e io ti dirò una cosa. E potrai riferirla al giudice. Nessuno potrà tenermi lontano da Amity. La vedrò tutte le volte che ne avrò voglia, e farò tutto quello che vorrò con lei, perché a lei vado a genio, piaccia o non piaccia a suo padre.»

«Sei un chiacchierone,» disse Len. «È l’unica cosa che sai fare, delle grandi chiacchiere e basta.»

«Starei zitto, se fossi in te,» disse Esaù, amaramente. «Se non fosse stato per te, non sarei mai partito da casa. Ci sarei anche adesso, forse avrei già tutta la fattoria, e una moglie, e dei bambini, se ne avessi voluto… non sarei un vagabondo che gira il paese alla ricerca di…»

«Silenzio!» ordinò perentoriamente Len.

«D’accordo, ma sai cosa voglio dire… e non so neppure dove andare a dormire, stanotte. Tu mi hai portato solo dei guai, Len, e adesso ne combini anche con la mia ragazza.»

Sopraffatto dall’indignazione, Len disse:

«Esaù, sei un maledetto, lurido bugiardo.»

Ed Esaù lo colpì.

Len si era infuriato a tal punto da dimenticare la sua posizione di guardia, e il colpo lo prese di sorpresa. Gli cadde il cappello, e sentì un intenso dolore allo zigomo. Respirò affannosamente, e avanzò verso Esaù. Si colpirono, e caddero avvinghiati sul molo, per qualche minuto, e d’un tratto Esaù disse:

«Smettila, smettila, sta arrivando qualcuno, e lo sai cosa ci aspetta, se scoprono che stiamo lottando di sabato.»

Si separarono, respirando affannosamente. Len raccolse il cappello, cercando di assumere un atteggiamento indifferente. Con la coda dell’occhio, vide che Mike Dulinsky e altri due uomini stavano arrivando sul molo.

«La finiremo più tardi,» bisbigliò a Esaù.

«Certo.»

Si misero da un lato. Dulinsky li riconobbe, e sorrise. Era un uomo grande e grosso, che tendeva alla pinguedine. Aveva degli occhi penetranti che parevano vedere ogni cosa, anche le cose più segrete, ma erano occhi freddi, che non si riscaldavano mai, neppure quando sorridevano. Len ammirava Mike Dulinsky, e lo rispettava. Ma non provava un affetto vero e proprio, per lui. I due uomini che lo accompagnavano erano Ames e Whinnery, entrambi proprietari di magazzini.

«Bene,» disse Dulinsky. «Siete venuti a dare un’occhiata al progetto?»

«Non proprio,» disse Len. «Noi… ehm… potremmo avere il permesso di dormire nell’ufficio, stanotte? Noi… noi non siamo più a pensione dai Taylor.»

«Oh?» disse Dulinsky, inarcando le sopracciglia. Ames fece un rumore ironico, che non era esattamente una risata. «Ma certo. Fate come se foste a casa vostra. Avete la chiave con voi? Bene. Venite, venite, signori.»

Si allontanò con Whinnery e Ames. Len raccolse il suo zaino, ed Esaù il suo fagotto, e s’incamminarono lungo il molo per raggiungere l’ufficio, un lungo capannone a due piani dove si svolgevano tutte le pratiche riguardanti i magazzini. Len aveva la chiave dell’ufficio, perché uno dei suoi compiti era quello di aprirlo, tutte le mattine. Mentre armeggiava intorno alla serratura, Esaù si voltò a guardare, e disse:

«Li ha accompagnati a vedere le fondamenta del magazzino. Non hanno l’aria troppo felice.»

Anche Len si voltò. Dulinsky stava agitando le braccia, e parlava animatamente, ma Ames e Whinnery sembravano preoccupati, e scuotevano ripetutamente il capo.

«Ci sarà bisogno di qualcosa di più di un discorso, per convincerli,» disse Esaù.

Len brontolò qualcosa, ed entrò. Pochi minuti più tardi, dopo avere riposto i pochi oggetti che possedevano in un armadietto vuoto, sentirono entrare qualcuno. Era Dulinsky, solo. Li fissò negli occhi, con espressione dura, e disse:

«Anche voi avete paura? Anche voi avete intenzione di voltarmi le spalle, e tagliare la corda?»

Non lasciò loro il tempo di rispondere, e indicò, con un breve cenno del capo, il molo, oltre la porta.

«Loro hanno paura. Anche loro vogliono costruire nuovi magazzini. Vogliono che Refuge cresca e li faccia diventare sempre più ricchi, ma non vogliono assumersi nessun rischio. Prima di agire, vogliono vedere che cosa succede a me. Bastardi. Ho tentato di convincerli che, se lavorassimo tutti uniti… Perché il giudice vi ha sbattuti fuori? È per causa mia?»

«Be’,» disse Len. «Sì.»

Esaù si voltò a fissarlo, sorpreso, ma non disse niente.

«Ho bisogno di voi,» disse Dulinsky. «Avrò bisogno di tutti gli uomini che potrò procurarmi. Spero che vogliate restare con me, ma non cercherò di trattenervi contro la vostra volontà. Se siete preoccupati, se avete paura, farete bene ad andarvene adesso.»

«Non so cosa ne pensi Len,» disse Esaù, sogghignando. «Ma io intendo restare.» Non pensava certamente ai magazzini, in quel momento.

Dulinsky si volse a fissare Len, che arrossì, e guardò il pavimento.

«Non lo so,» disse. «Non è che io abbia paura, ma può darsi che io voglia, semplicemente, abbandonare Refuge, e proseguire lungo il fiume.»

«Non dovrai pentirti di avere deciso di restare qui,» disse Dulinsky. «E non intendo forzarti.»

«Lo so che non intendete farlo,» disse Len, ostinato. «Ma desidero riflettere, prima di prendere una decisione, nell’uno o nell’altro senso.»

«Resta qui,» disse Dulinsky. «E diventerai ricco. Un mio bisnonno venne qui dalla Polonia, e non riuscì mai a diventare ricco perché tutto era già stato costruito. Ma ora c’è tutto da ricostruire, e il momento è quello giusto per ricominciare. Io intendo farlo, e diventare ricco. Lo so bene, quello che può averti detto il giudice. È un negativista. Ha paura di credere in qualcosa. Io no. Io credo nella grandezza di questo paese, e so che le catene arcaiche che ci tengono stretti devono essere spezzate, se questo paese dovrà di nuovo crescere. Le catene non si spezzeranno da sole. Qualcuno… uomini come me e come voi… dovrà farlo.»

«Sì, signore,» disse Len. «Ma desidero ugualmente riflettere.»

Dulinsky lo studiò per un attimo, e poi sorrise.

«Non ti convinci facilmente, vero? Non è una brutta cosa… Va bene, rifletti quanto vuoi.»

Poi se ne andò. Len guardò Esaù, ma la collera era scemata, ormai, e non se la sentiva di ricominciare la rissa. Disse:

«Vado a fare due passi.»

Esaù scrollò le spalle, e non lo seguì. Len camminò lentamente lungo i moli, pensando alle barche dirette a occidente, chiedendosi se tra esse alcune fossero segretamente dirette a Bartorstown, domandandosi quale senso avesse andare ciecamente da un luogo all’altro, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto, o potuto, fare. Raggiunse la fine del molo, e scese da esso, passando accanto al luogo nel quale sarebbe sorto il nuovo magazzino. I due uomini lo osservarono attentamente, fino a quando non si fu allontanato.

Forse non aveva pensato consciamente di prendere quella direzione, ma dopo qualche altro minuto di vagabondaggio senza mèta apparente, egli si ritrovò ai limiti del recinto dei mercanti, una vasta area di terra battuta, dove i carri erano allineati tra lunghe file di stalle e di recinti per le contrattazioni e di alloggi permanenti per gli uomini. Len andava spesso là, in parte perché il lavoro che svolgeva per Dulinsky lo richiedeva, ma c’era un motivo più profondo per questa sua preferenza. In quel luogo si udivano tutte le storie e le voci e i pettegolezzi delle grandi strade polverose, e a volte si udivano perfino notizie su Piper’s Run, e c’era la speranza inestinguibile di ascoltare, un giorno, la parola che aveva aspettato di udire per tanti e tanti mesi, per tanti anni.

Non aveva mai sentito niente. Non aveva mai visto neppure un volto familiare, in particolare quello di Hostetter, e questo era strano, perché lui sapeva che Hostetter andava regolarmente a sud, d’inverno, e avrebbe dovuto attraversare il fiume, in qualche punto. Len era stato a tutti i traghetti, ma Hostetter non era mai comparso. Spesso si era domandato, in quegli anni, se Hostetter fosse ritornato per sempre a Bartorstown, o se gli fosse accaduto qualcosa… se fosse morto come Soames, il mercante biondo.

Il recinto dei mercanti era silenzioso, ora, perché non si facevano affari di sabato, e gli uomini sedevano pigramente e chiaccheravano all’ombra, o erano da qualche parte, per assistere alle funzioni religiose del pomeriggio. Len li conosceva quasi tutti, almeno di vista, ed essi conoscevano lui. Si unì a loro, lieto di trovare compagnia per distrarre la propria mente, almeno per un momento, dai problemi che l’angustiavano. Alcuni di essi erano Nuovi Mennoniti. Len provava sempre una certa vergogna, quando era in mezzo a loro, e un senso di colpa, e un senso di nostalgia, perché gli riportavano alla memoria le tante cose care alle quali avrebbe preferito non pensare mai. Non aveva mai lasciato capire a nessuno che, un tempo, era stato uno di loro.

Parlarono per qualche tempo. Le ombre si allungarono, e un venticello fresco cominciò a soffiare dal fiume. Intorno si cominciò a sentire l’odore del fumo e del cibo che cuoceva, e Len ricordò che non sapeva dove andare a cena, ora che la casa del giudice Taylor gli era preclusa. Così domandò ai mercanti se poteva restare con loro.

«Certo, sei il benvenuto!» disse un Nuovo Mennonita che si chiamava Fisher. «Sai cosa ti dico? Se andassi a prendere un po’ di legna per il fuoco, sarebbe una cosa splendida.»

Len prese la carriola, e la spinse verso il confine del recinto, dove si trovavano le grandi cataste di legna. Per arrivare là, dovette passare accanto alle stalle. Riempì la carriola di legna da ardere, e si voltò, per ritornare dai mercanti. Quando ebbe raggiunto un certo punto, accanto alle stalle, le linee dei carri lo nascosero, rendendolo invisibile dagli alloggi e dagli uomini, che erano in quel momento tutti affaccendati intorno ai fuochi. Le stalle erano buie. Un odore caldo di cavalli usciva da esse, insieme al rumore quieto, regolare, delle grandi mandibole che ruminavano.

Dall’oscurità uscì anche una voce, una voce che pronunciò il suo nome.

«Len Colter.»

Len si fermò.

Era una voce soffocata e frettolosa, quella, molto acuta, e insistente. Si guardò intorno, ma non riuscì a vedere niente. Doveva venire dalle stalle, o da uno dei carri.

«Non cercarmi, a meno che tu non voglia metterci entrambi nei guai,» disse la voce. «Devi solo ascoltare. Ho un messaggio per te, da parte di un amico. Mi ha detto d’informarti che non troverai mai quello che cerchi. Ti dice di ritornare a casa, a Piper’s Run, e di vivervi in pace. Ti dice…»

«Hostetter,» bisbigliò Len. «Siete Hostetter?»

«…di andare via da Refuge. Ci sarà un bagno di fuoco, e tu vi brucerai. Vattene, Len. Torna a casa. E adesso continua a camminare, come se nulla fosse accaduto.»

Len ricominciò a camminare. Ma disse, nell’oscurità delle stalle, con un grido soffocato di trionfo, quasi di esultanza:

«Voi sapete che esiste un solo luogo dove voglio andare! Se volete che io lasci Refuge, dovrete portarmi là.»

La voce rispose, con un sospiro sommesso:

«Ricorda la notte della predica. Non potrai sempre essere salvato.»