"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)Libro Terzo19.I carri discendevano l’ampia strada ripida, in un grande cigolio di freni, e i muli dovevano faticare per non essere spinti avanti. Len guardò oltre il ciglio della strada, nella gola piena d’ombre azzurrine. Guardò a lungo, senza parlare. Esaù si avvicinò, si mise al suo fianco, e guardarono entrambi, allora. E fu Esaù a voltarsi, pallidissimo, irato, e fu lui a gridare al signor Hostetter: «Cosa credete che sia, uno scherzo? Credete che sia molto divertente, farci percorrere tutta questa strada, per…» «Oh, piantala!» disse Hostetter. Sembrava stanchissimo, ora, all’improvviso, e impaziente, e parlava a Esaù come un uomo può parlare a un bambino noioso. Esaù fece silenzio. Hostetter diede un’occhiata a Len, di sbieco. Len non si era voltato, non aveva alzato la testa. Continuava a guardare nel fondo della gola. C’era un paese, laggiù. Visto da quell’altezza, e con quell’angolazione, era soprattutto una collezione di tetti raggruppati intorno alle rive di un fiume circondato da un poco di vegetazione. Erano dei comunissimi tetti di comunissime casette, come Len ne aveva viste per tutta la vita, e pensò che quelle case dovevano essere fatte di tronchi. Nella parte settentrionale della gola c’era una piccola diga dietro la quale era racchiuso un occhio di acqua azzurra. Accanto alla diga, su di un pendio, si vedevano due alti edifici dall’aspetto inconsueto. Accanto a questi, delle rotaie salivano e scendevano il pendio, conducendo da un buco nella roccia a un mucchio di materiale frantumato. C’erano dei piccoli carri, sulle rotaie. Ai piedi del pendio c’erano diversi altri edifici, bassi e piatti, questi, lievemente curvi, di un colore rugginoso. Dall’altro lato della diga, una breve strada portava a un altro buco nella roccia, ma non c’erano rotaie, né carri, collegati a questo buco, e le rocce erano cadute fino a bloccare la strada. Len vide delle persone. Del fumo usciva da alcuni comignoli. Diversi muli tiravano una processione di minuscoli carri sulle rotaie, lungo il pendio, e dopo qualche minuto un rumore gli giunse, ancora lontano, remoto come quello di un’eco. Si voltò, allora, e guardò Hostetter. «Fall Creek,» disse Hostetter. «È una cittadina mineraria. Argento. Non della prima qualità, ma abbastanza buono, e in grande abbondanza. Continuiamo a estrarlo. Non c’è alcun segreto su Fall Creek, né mai c’è stato.» Fece un ampio gesto con la mano, scuro in volto. «Noi viviamo qui.» Len disse, lentamente: «Ma non è Bartorstown.» «No. E il nome non è esatto, inoltre. Non si tratta, in realtà, di una vera città.» Ancora più lentamente, Len disse: «Papà mi disse che non esisteva alcun luogo simile. Mi disse che si trattava soltanto di un’idea, di un modo di pensare.» «Tuo padre aveva torto. Esiste un luogo simile, ed è reale. Abbastanza reale, per far lavorare centinaia e centinaia di persone per tutta la vita.» «Ma dove?» domandò Esaù, furioso. «Dove?» «Hai aspettato tanto tempo. Puoi aspettare ancora qualche ora.» Proseguirono la discesa, seguendo la tortuosa, ripida strada. L’ombra della montagna si allargò e riempì la gola, e cominciò ad avvolgere la parete orientale, salendo incontro a loro. Più in basso, sulla cresta di una vecchia cascata, alcuni pini raccoglievano la luce, e diventavano di un verde violento, troppo violento per i toni rossi e ocra della roccia. Len disse: «Fall Creek è un paese come tutti gli altri.» «Non si può uscire completamente dal mondo,» disse Hostetter. «Non si può ora, e non si poteva neppure un tempo. Le case sono di tronchi e muratura perché era necessario costruirle con il materiale a disposizione. In origine, Fall Creek aveva l’elettricità, perché allora tutti l’avevano. Ora nessuno ce l’ha, e così non l’abbiamo. La cosa più importante è di avere un aspetto normale, uguale a quello di tutti gli altri paesi: e allora nessuno fa caso a te, nessuno ti nota e ti sospetta.» «Ma un posto veramente segreto,» obiettò Len. «Un posto che nessuno conosceva.» Corrugò la fronte, cercando di comprendere l’enigma. «Un luogo del quale non osate far sapere nulla a nessuno, ora… eppure vivete così, apertamente, in un paese normale, servito da una strada agevole, e gli stranieri vanno e vengono liberamente.» «Quando cominci a impedire alla gente di entrare, la gente penserà che tu abbia qualcosa da nascondere. Fall Creek è stata costruita per prima. Era stata costruita alla luce del sole. Le poche persone che vivevano in questa regione dimenticata da Dio si abituarono presto alla sua esistenza, si abituarono ai camion e agli aeroplani di tipo particolare che andavano e venivano. Era solamente una cittadina mineraria: Bartorstown venne costruita più tardi, dietro al paravento di Fall Creek, e nessuno l’ha mai sospettato.» Len stava riflettendo furiosamente, cercando di capire. Dopo un breve silenzio, domandò: «Nessuno ha sospettato nulla, neppure quando hanno cominciato ad arrivare tutti i nuovi abitanti?» «Il mondo era pieno di profughi, e migliaia di essi si dirigevano proprio verso i posti piccoli e sperduti come questo, rifugiandosi tra le montagne, il più lontano possibile dalle città.» Le ombre salivano, ora, ed essi entrarono nelle ombre, e venne il crepuscolo. Nel paese, si accendevano le prime lampade. Erano semplici lampade, come quelle che venivano accese a Piper’s Run, o a Refuge, o in migliaiai di altri paesi. La strada si allargava ed era pianeggiante, ormai. I muli erano stanchi, ma drizzarono le lunghe orecchie, e accelerarono l’andatura, sentendo la casa vicina, e i conducenti li richiamarono con aspre grida, e fecero schioccare le fruste come un crepitio di fucili nell’ombra del tramonto. C’era una vera e propria folla ad aspettarli, tra le piante, molte lanterne ardevano, le donne chiamavano i loro uomini che si trovavano sui carri, i bambini correvano intorno e gridavano lieti. Non avevano un aspetto diverso dalla gente che Len conosceva, dalla gente che aveva già visto in quell’angolo del paese. Indossavano gli stessi abiti, e i loro modi erano gli stessi. Hostetter ripeté la sua frase, come se avesse conosciuto con esattezza i pensieri di Len: «Bisogna vivere nel mondo. Non si può uscire da esso.» Len disse, con pacata malinconia: «Qui non c’è neppure quello che avevo a Piper’s Run. Niente fattorie, niente cibo, solo rocce e sassi intorno. Perché la gente rimane qui?» «Hanno una buona ragione.» «Deve essere molto, molto grande,» ribatté Len, in tono amaro, un tono che voleva indicare come ormai lui non credesse più a niente. Hostetter non rispose. I carri si fermarono. I conducenti scesero a terra, e tutti gli occupanti uscirono, ed Esaù aiutò a scendere Amity, pallida e smarrita, che si guardò intorno con aria diffidente. Bambini e ragazzi corsero a prendere i muli, e li condussero via, con i carri. C’erano tante, tantissime facce sconosciute, e dopo qualche tempo Len si accorse che tutti, indistintamente, stavano guardando lui ed Esaù. Si tennero vicini, allora, istintivamente, avvicinandosi a Hostetter. Hostetter si stava guardando intorno, chiamava a gran voce Wepplo, e il vecchio arrivo, sogghignando, tenendo il braccio attorno alla vita di una ragazza. La ragazza era piccola, con i capelli bruni e gli occhi vivi e guizzanti e neri, uguali a quelli di Wepplo, e un volto che aveva i lineamenti forse un po’ troppo pronunciati e decisi. Portava una camicetta col collo aperto e le maniche arrotolate, e una gonna che arrivava appena alla sommità degli stivali alti e morbidi. Guardò prima Amity, quindi Esaù, e poi Len, soffermandosi più a lungo su di lui, e non mostrò alcuna timidezza nell’incontrare il suo sguardo. «Mia nipote,» disse Wepplo, come se fosse fatta di oro puro. «Joan. La signora Amity Colter, il signor Esaù Colter, e il signor Len Colter». «Joan,» disse Hostetter. «Volete portare con voi la signora Colter, e farle compagnia per un poco?» «Certo,» disse Joan, senza nessun entusiasmo. Amity si strinse a Esaù, e accennò a una protesta, ma Hostetter la zittì, piuttosto seccamente. «Nessuno vi morderà; ed Esaù vi raggiungerà non appena gli sarà possibile». Amity se ne andò, riluttante, appoggiandosi alla spalla della ragazza bruna. Sembrava una grossa matrona e non a causa del bambino, la cui nascita era ancora distante. La ragazza bruna lanciò uno sguardo malizioso e allegro a Len, e poi scomparve nella folla. Hostetter rivolse un cenno amichevole a Wepplo, e poi disse a Len e a Esaù: «Va bene, andiamo». Lo seguirono, e la gente li fissava e si scambiava commenti, non in maniera ostile, ma come se Len ed Esaù fossero stati uno spettacolo di straordinario interesse per tutti. Len disse: «Non sembrano molto abituati agli stranieri». «No, non agli stranieri che vengono a vivere tra loro. Comunque, è molto tempo che hanno sentito parlare di voi. Siete diventati dei personaggi, e la gente è curiosa». «I ragazzi di Hostetter,» disse Len, e sogghignò, per la prima volta da due giorni. Anche Hostetter sogghignò. Li condusse per un vicolo buio, fiancheggiato da case sparse, fino ad arrivare a una casa abbastanza grande, con un portico lungo tutta la facciata. La casa si trovava su di un pendio, più alta delle altre, di fronte alla miniera. Le assi che la coprivano erano vecchie e segnate dal tempo, e il portico era stato rinforzato più volte con tronchi d’albero. «Questo alloggio era stato costruito per il sopraintendente della miniera,» spiegò Hostetter. «Ora ci vive Sherman». «Sherman è il capo?» domandò Esaù. «Di molte cose, sì. Ci sono anche Gutierrez ed Erdmann. Anche loro hanno voce in capitolo, per certe altre cose». «Ma Sherman ci ha permesso di venire,» disse Len. «Ha dovuto parlarne agli altri. Hanno dovuto mettersi d’accordo». C’erano delle lampade accese nella casa. Salirono i gradini, e si trovarono sul portico, e la porta si aprì prima che Hostetter avesse potuto bussare. Una donna alta e sottile, con i capelli grigi e un volto simpatico, apparve sulla soglia, sorridendo e tendendo le braccia a Hostetter, che disse: «Ciao, Mary». E lei disse: «Ed! Bentornato a casa,» e lo baciò sulle guance. «Be’,» disse Hostetter. «È passato molto tempo». «Undici, no, no, dodici anni,» disse Mary. «È bello riaverti tra noi». Poi guardò Len ed Esaù. «Questa è Mary Sherman,» disse Hostetter, come se si sentisse in dovere di offrire una spiegazione. «Una vecchia amica. Giocava con mia sorella, quando eravamo tutti più giovani… mia sorella è morta, ormai. Mary, questi sono i ragazzi». Li presentò. Mary Sherman sorrise, con aria un po’ malinconica, come se avesse avuto molte cose da dire. Ma si limitò a dire: «Sì, li stanno aspettando. Entrate». Entrarono nel soggiorno. Il pavimento era nudo e pulito, le tavole di pino consumate fino a mostrare il disegno del legno. I mobili erano vecchi, e semplici, di un genere che Len conosceva già, e che veniva prodotto prima della Distruzione. C’era una grande tavola, con una lampada al centro, e tre uomini vi erano seduti attorno. Due avevano circa l’età di Hostetter, e uno era più giovane, sulla quarantina o poco più. Uno dei due anziani, un uomo grande e grosso e massiccio, col mento prefettamente rasato e gli occhi chiari, si alzò e venne a stringere la mano a Hostetter. Poi Hostetter strinse la mano agli altri due, e ci furono dei convenevoli, di persone che non si vedevano da molto tempo. Len si guardò intorno, sentendosi a disagio, e si accorse che Mary Sherman era già scomparsa. «Avvicinatevi,» disse l’uomo alto e grosso, e Len capì che stava parlando a lui e a Esaù. Avanzò nel circolo di luce, vicino alla tavola, ed Esaù si fece avanti con lui. L’uomo massiccio li studiò attentamente. I suoi occhi erano del colore del cielo invernale poco prima di una nevicata, acuti e penetranti. L’uomo più giovane sedeva accanto a lui, con i gomiti appoggiati sulla tavola. Aveva i capelli rossicci, e aveva gli occhiali, e aveva il viso stanco, non una stanchezza del momento, ma una perenne necessità di riposo mai soddisfatta. Dietro di lui, nell’ombra tra la tavola e la grossa stufa di ferro, c’era il terzo uomo, piccolo, scuro e scontroso, con una barbetta a punta, molto curata, e bianca come biancheria di bucato. Len ricambiò il loro sguardo, senza sapere quello che doveva provare… se essere in collera, o intimorito, o rispettoso. Cominciava a sudare, per il nervosismo di quell’attesa. L’uomo grosso disse, improvvisamente: «Io sono Sherman. Questo è il signor Erdmann,» l’uomo più giovane fece un breve cenno del capo, «E questo è il signor Gutierrez». L’ometto acido borbottò qualcosa. «So che entrambi siete Colter. Ma quale dei due è Len, e quale Esaù?» Si presentarono. Hostetter si era ritirato nell’ombra, e Len lo udì riempire la pipa. Sherman disse a Esaù: «Allora voi siete quello con la… ehm… con la madre in attesa». Esaù cercò di spiegare la cosa, e Sherman lo interruppe. «So tutto, e ho già rimproverato Hostetter per abuso di autorità, così possiamo lasciare le cose come sono, e non parlarne più, tranne che per un particolare. Voglio che la portiate qui domattina, alle dieci precise. Ci sarà qui il ministro. Nessuno deve saperne niente. Chiaro?» «Sì, signore,» disse Esaù. Sherman non era minaccioso né sgradevole. Era, semplicemente, un uomo avvezzo a dare degli ordini, e la risposta fu automatica. La sua attenzione si spostò da Esaù a Len, e domandò: «Perché volevate venire qui?» Len chinò il capo, e non rispose. «Avanti,» disse Hostetter. «Diglielo». «E come posso farlo?» esclamò Len. «Va bene, tenterò. Noi… noi pensavamo di trovare un posto nel quale la gente fosse diversa, nel quale fosse possibile pensare e parlare dei propri pensieri e delle cose del mondo senza mettersi nei guai. Dove ci fossero delle macchine e… oh, tutte le cose che esistevano una volta». Sherman sorrise. Non era più l’uomo massiccio dagli occhi freddi, abituato a dare ordini, ma un essere umano che aveva vissuto a lungo e aveva imparato a non lottare contro la vita. Come Hostetter. Come papà. Len lo riconobbe da quel sorriso, e allora comprese, d’un tratto, di non trovarsi completamente tra stranieri. «Avevate pensato,» disse Sherman, «Che noi dovevamo avere una città, come quelle antiche, con tutte le vecchie cose in essa». «Penso di sì,» disse Len, e non provava più collera, ora, ma solo rimpianto. «No,» disse Sherman. «Tutto ciò che abbiamo è la prima parte di quello che desideravate». Erdmann disse: «E siamo alla ricerca della seconda». «Oh, sì,» disse Gutierrez. La sua voce era sottile e scontrosa come lui. «Noi abbiamo una causa. Voi capirete… voi giovani avete a vostra volta una causa. Vuoi che ne parli, Harry?» «Più tardi,» disse Sherman. Si chinò in avanti, e parlò a Len e a Esaù, e i suoi occhi erano di nuovo duri, e freddi. «Dovete ringraziare Hostetter…». «Non del tutto,» intervenne Hostetter. «Anche tu avevi le tue ragioni». «Un uomo può sempre trovare una ragione per giustificarsi,» disse Sherman, freddamente. «D’accordo, comunque, ammetterò questo punto. Tuttavia, il merito va in gran parte a Hostetter. Se non fosse stato per lui, ora sareste morti entrambi, uccisi dalla folla in quel paese… come si chiamava?…». «Refuge,» disse Len. «Sì, questo lo sappiamo». «Non sto cercando dei ringraziamenti, cerco semplicemente di chiarire dei fatti. Vi abbiamo fatto un favore, e non voglio cercare di farvi capire quanto sia grande questo favore, perché non lo capirete fino a quando non sarete rimasti qui per un po’ di tempo. E allora non ci sarà bisogno che io vi dica niente. Nel frattempo, vi chiedo di ripagarci facendo quanto vi sarà detto, senza fare troppe domande». Fece una pausa. Erdmann si schiarì la voce, nervosamente, nel silenzio, e Gutierrez borbottò: «Diglielo subito, senza mitigare il colpo. Avanti». Sherman si voltò. «Hai bevuto, Julio?» «No. Ma lo farò». Sherman grugnì. «Be’, comunque quello che lui intende dire è questo: voi non lascerete più Fall Creek. Non fate niente che possa somigliare a una fuga. Abbiamo qualcosa di veramente grande in palio, qui, molto più di quanto possiate immaginare in questo momento, e non vogliamo correre rischi». Concluse, semplicemente, con poche, brevi parole: «Se lo tentaste, sareste fucilati». |
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