"Guerra al grande nulla" - читать интересную книгу автора (Blish James)

CAPITOLO UNDICESIMO

Una vaga luce pioveva sulla zona acquitrinosa in cui giaceva Egtverchi, in un punto ad oriente dell’Eden, ma il giorno e la notte non erano ancora stati creati e non c’erano ancora né vento né onde a sospingerlo, mentre espelleva, con latrati, l’acqua dai polmoni e urlava nell’aria rovente. Pieno di speranza, agitò le membra spuntategli di recente ed ebbe una sensazione di movimento; ma non c’era luogo ove andare, non c’era nulla da cui fuggire. La luce, invariabile e grigia, assomigliava in modo rassicurante a un cielo perpetuamente coperto, ma Qualcuno aveva trascurato di dargli quel periodo regolare di tenebra e di nulla in cui l’animale, rafforzandosi dopo i suoi insuccessi, cerca nelle profondità del suo Io la gioia sufficiente ad accogliere un altro giorno nuovo.

«Gli animali non hanno anima», aveva detto Cartesio, gettando un gatto dalla finestra per dimostrare, se non il suo assunto, la sua fede, almeno, in esso. Il timido genio del razionalismo meccanicistico, che sapeva bene gettare gatti dalla finestra, ma non sapeva affatto barcamenarsi coi Papi, non aveva mai visto un vero automa, così che non s’era mai accorto che all’animale non l’anima manca, ma la mente. Una calcolatrice elettronica che possa in due secondi e mezzo soddisfare i parametri delle equazioni di Haertel per tutti i valori possibili è intellettualmente un genio, ma per quel che riguarda le emozioni è uno zero, anche a paragone di un gatto.

Esattamente come l’animale che, incapace di pensare, reagisce alle esperienze di ogni istante con la pienezza di emozioni immediatamente accusate (e immediatamente dimenticate) da tutto il suo corpo, ha bisogno di quella morte temporanea che è la notte per prolungare la sua esistenza, l’animale neonato ha bisogno delle battaglie della giornata per divenire l’adulto sonnolento e fiducioso a cui lo destinano i suoi geni; e anche in ciò Qualcuno aveva negletto Egtverchi. Alla fanghiglia era stata aggiunta una certa quantità di sapone, accuratamente dosata, in modo da consentirgli di dimenarsi sul pavimento della sua gabbia, ma non di progredire abbastanza da urtare la testa contro le pareti di essa. Ciò gli salvava la testa, ma rendeva inutili i muscoli delle sue zampe. Quando il suo periodo di gracidii fu terminato ed egli divenne un animale saltatore, si poté constatare che non saltava molto bene.

Ma anche questo, in un certo senso, era stato previsto. Non esisteva cosa alcuna, in questa sua infanzia, da cui avesse bisogno di fuggire a grandi balzi terrorizzati, né v’era luogo in cui un breve salto potesse portarlo. Anche il più lieve balzo finiva sempre con un urto invisibile, seguito da una scivolata alla quale nessun istinto lo aveva mai preparato: essa risultava sempre innocua, ma nessuno dei suoi riflessi lo aiutava a rialzarsi con eleganza. Del resto, un animale che ha sempre la coda dolorante non può essere certo elegante, indipendentemente dai suoi istinti.

Alla fine, dimenticò del tutto come saltare e si limitò a restarsene accoccolato in un angolo, aspettando la trasformazione successiva, e lanciando occhiate cupe alle teste che cominciavano ad affollarsi intorno a lui, nelle sue ore di veglia. Quando poté rendersi conto del fatto che quegli osservatori erano vivi come lui, ma molto più grandi, i suoi istinti erano talmente intorpiditi che ne risultò solo una vaga inquietudine, incapace di qualunque azione.

La nuova metamorfosi fece di lui un animale in grado di camminare, dalle gambe gracili e fiacche, dalla testa troppo grossa, inetta a valutare le distanze. Fu a questo punto che Qualcuno provvide a farlo trasferire nel terrario.

Qui finalmente gli ormoni della sua adolescenza si svegliarono e cominciarono a scorrergli nel sangue. Le risposte appropriate a un mondo come quella minuscola giungla erano state iscritte imperativamente su ognuno dei suoi cromosomi; e qui, tutto ad un tratto, egli si sentì quasi a casa sua. Cominciò a camminare sulle gambe malferme nella verzura del terrario, con un surrogato di gioia, cercando qualche cosa da fuggire qualche cosa da combattere, qualche cosa da mangiare, qualche cosa da imparare. Tuttavia, alla lunga, fu molto se poté trovare un angolo per dormire, che, nel terrario, la notte era più sconosciuta che mai.

Fu sempre là che per la prima volta divenne consapevole di certe differenze tra le creature che lo osservavano e talvolta lo molestavano. Due di esse erano quasi sempre visibili, separatamente o insieme; erano quelle che lo molestavano, anche se non sempre si trattava di maltrattamenti, che talvolta questi esseri, con le loro cocenti punture e le loro mani maldestre, gli davano da mangiare qualche cosa che egli non aveva assaporato o gli facevano qualche altra cosa che gli piaceva e lo infastidiva insieme. Non riusciva a comprendere quella situazione, ma essa non gli era gradita.

Dopo qualche tempo, si sottrasse alla vista di tutti gli osservatori, eccettuati quei due (quando non si sottraeva anche a questi, dato che passava il suo tempo a dormire). Quando ne aveva bisogno, chiamava: «Szan-cetz». (Non poteva dire «Liu»: la sua lingua legata al mesenterio e il suo palato quasi fesso ancora non potevano dominare una combinazione così ardua di liquide: doveva attendere di essere adulto per cose del genere.)

Poi cessò di chiamare e prese l’abitudine di restarsene apaticamente acquattato presso lo stagno al centro della giungla in miniatura. L’ultima sera della sua esistenza di lucertola, nel porre la protuberante scatola cranica nella cavità muscosa dove faceva più buio, sentì nel sangue che all’indomani, quando si fosse destato al suo destino di creatura pensante, sarebbe stato vecchio di quell’età che è la maledizione di coloro i quali non sono mai stati giovani un solo istante. Domani, sarebbe stato una creatura pensante, ma quella sera la stanchezza era in lui…

E poi si svegliò; e il mondo com’era cambiato! Le porte molteplici che pongono in comunicazione i sensi con l’anima s’erano chiuse; improvvisamente, il mondo era diventato una cosa astratta. Egli aveva compiuto il passaggio dall’animale all’automa, che tanti guai aveva destato, ad oriente dell’Eden, nel 4004 a.C.

Non era un uomo, ma avrebbe dovuto lo stesso dare il suo tributo per il pedaggio di quel ponte. A partire da quel momento, nessuno più sarebbe stato in grado di indovinare che cosa egli sentisse nella sua anima animale, lui stesso meno d’ogni altro.


— Chi sa a che cosa pensa? — domandò Liu perplessa, fissando la testa enorme, grave, del Lithiano, che si chinava verso di loro dall’altro lato della porta di piroceram trasparente. Egtverchi (egli aveva detto loro il suo nome prestissimo) poteva sentirla, anche se il laboratorio era diviso in due; ma non disse nulla. Finora s’era mostrato tutt’altro che ciarliero, sebbene lettore vorace.

Ruiz-Sanchez non rispose, anche se il giovane Lithiano, alto quasi tre metri, destava in lui un sentimento di perplessità e di timore: lo stesso sentimento che egli, Ruiz-Sanchez, destava in Liu… ma il Gesuita riteneva che le sue ragioni d’allarme nei riguardi del Lithiano fossero più importanti! Lanciò un’occhiata in direzione di Michelis.

Il chimico finse di ignorare entrambi. Ruiz-Sanchez poteva capire tutto ciò, almeno per quel che lo riguardava: il loro tentativo di redigere in comune un rapporto imparziale sulla spedizione di Lithia per il «J.I.R.» s’era rivelato disastroso per le relazioni, già tese, fra i due scienziati. Ma quella stessa tensione, come il Gesuita poteva vedere, addolorava Liu senza ch’ella stessa se ne accorgesse; e questo, lui non poteva ammetterlo. Liu non c’entrava, era innocente. Fece un tentativo disperato per attirare l’attenzione di Michelis…

— Attualmente, è nel suo periodo di apprendimento — disse, — e passa necessariamente la maggior parte del tempo ad ascoltare. Bisogna un po’ rifarsi alla famosa leggenda del bambino lupo che, allevato da animali, giunge a un dato momento nelle città senza conoscere il linguaggio degli uomini, ma con questa differenza: che i Lithiani non imparano la loro lingua durante l’infanzia, e quindi non hanno nessun «blocco» che impedisca loro di impararla agli inizi della vita adulta. Ecco perché Egtverchi ha bisogno di ascoltare continuamente (i nostri bambini lupo, nella maggioranza dei casi, invece non imparano a parlare). E infatti egli ci sta ascoltando anche in questo momento.

— Ma perché non risponde alle nostre domande? — domandò Liu turbata, evitando di guardare direttamente Michelis.

— Perché, secondo il suo punto di vista, non ha ancora niente da dirci — disse Ruiz. — E ai suoi occhi non abbiamo l’autorità necessaria per rivolgergli delle domande. Qualunque Lithiano adulto potrebbe interrogarlo, ma a quanto pare noi non ne abbiamo i requisiti; e quella che Mike chiama «parentela adottiva» non significa nulla per una creatura adattata a un’infanzia solitaria.

Michelis non disse nulla.

— Prima, almeno, ci chiamava — riprese Liu in tono triste. — Cioè, almeno chiamava voi.

— La cosa è diversa. Prima si trattava di una reazione di piacere; non aveva nulla a che vedere con l’autorità o con l’affetto. Se prendiamo un gatto, o anche un topo, e gli impiantiamo un elettrodo nel setto o nel nucleo caudato, in modo che possa stimolare elettricamente il proprio cervello col semplice atto di premere una leva, allora possiamo addestrarlo a fare qualsiasi cosa (tra quelle che può fare, beninteso) in cambio della sola ricompensa di quella piccola scossa nel cervello. Nello stesso modo, un gatto, un ratto da laboratorio, un cane, imparano a rispondere al proprio nome, o a fare qualche azione, per ottenere piacere. Ma non possiamo aspettarci che l’animale ci rivolga la parola o risponda alle nostre domande soltanto per il fatto che può fare certe azioni sotto stimolo.

— Non ho mai studiato questi antichi esperimenti sul cervello — disse Liu. — Mi paiono una cosa orribile.

— Anche a me — rispose Ruiz. — È un antico filone di ricerche che, per chissà quale motivo, si è interrotto. Non ho capito perché i nostri megalomani non l’abbiano mai applicato agli esseri umani. Una dittatura basata su questo principio potrebbe davvero durare mille anni. Comunque, la cosa non ha niente a che vedere con ciò che mi chiedevate di Egtverchi: quando sarà maturo per parlare, Egtverchi parlerà. Frattanto, non abbiamo la statura necessaria, per costringerlo a rispondere alle nostre domande. Per ottenere questo, dovremmo essere degli adulti Lithiani, altri quattro metri.

Gli occhi di Egtverchi si ricoprirono della loro membrana, poi, bruscamente, il Lithiano giunse le mani.

— Voi siete già troppo alti per me — disse con la sua voce rauca, attraverso l’altoparlante.

Colta da una gioia improvvisa, Lìu batté le mani.

— Avete visto, Ramon? Avete visto? Egtverchi, che cosa vuoi dire? Spiegaci che cosa hai voluto dire.

Egtverchi mormorò a titolo sperimentale:

— Liu, Liu, Liu…

— Sì, proprio così, Egtverchi. Continua, continua… che cosa volevi dire? Spiegaci che cosa volevi dire.

— Liu…

Egtverchi parve aver perso interesse a proseguire. Ogni colore era scomparso dai suoi bargigli. Riprese il suo atteggiamento di statua.

In quell’istante, Michelis emise un colossale sbuffo di disprezzo. Liu si volse di scatto, e così pure Ruiz, anche senza averne avuto l’intenzione.

Ma era troppo tardi. Il massiccio chimico della Nuova Inghilterra aveva già voltato loro la schiena, come disgustato con se stesso per avere interrotto il proprio silenzio. Lentamente, anche Liu si volse dall’altra parte, forse soltanto per nascondere il proprio viso a tutti, compreso Egtverchi. Ruiz venne lasciato solo, al vertice di quel tetraedro di disinteresse.

— Sarà davvero una bella esibizione, per un aspirante cittadino delle Nazioni Unite — disse improvvisamente Michelis, in tono di amarezza, senza voltarsi. — Suppongo che era quanto vi aspettavate chiedendomi di venire qui. Che cosa vi ha indotto a parlarmi dei grandi progressi che avrebbe fatto? Da come parlavate, a questo punto dovrebbe già essere in grado di enunciare complicati teoremi matematici.

— Il tempo — disse Egtverchi, — è una funzione del cambiamento, e il cambiamento è l’espressione della validità relativa di due proposizioni, una delle quali contiene un tempo t e l’altra un tempo t primo, che differiscono tra loro soltanto per il fatto che l’una contiene la coordinata t e l’altra la coordinata t primo.

— Giustissimo — disse freddamente Michelis, volgendo lo sguardo verso la testa massiccia di Egtverchi. — Ma so benissimo da dove viene tutta questa farina. Se sai fare soltanto il pappagallo, ti ci vorrà ben altro per diventare un cittadino della nostra cultura, mi puoi credere.

— Chi siete? — domandò Egtverchi.

— Il tuo garante, e che Dio mi aiuti — disse Michelis. — Ho un certo nome e una discreta riputazione e posso garantirti che se vuoi avere diritto di cittadinanza su questo pianeta, Egtverchi, dovrai fare qualcosa di meglio che cercar di passare per Bertrand Russell o per Shakespeare.

— Non credo che possa capire questi concetti — intervenne Ruiz. — Abbiamo tentato di spiegargli la proposta di naturalizzazione, ma non ha dato minimamente a vedere che avesse capito. Ha appena finito di leggere i Principia, così che non c’è nulla di assurdo nel fatto che si verifichi un certo «feed-back», come si dice in cibernetica: un certo ritorno di informazione. È una cosa che gli capita di tanto in tanto.

— In un «feedback» di primo grado — mormorò Egtverchi con voce sonnolenta — se le connessioni sono invertite, la minima perturbazione si aggraverà da sé. In un «feedback» di secondo grado, un’uscita dai limiti normali provocherà variazioni fortuite nella rete, le quali cesseranno solo quando il sistema sarà ridivenuto stabile.

— Gran Dio! — gridò selvaggiamente Michelis. — Dove sei andato a prendere questa roba? Basta! Se credi di darmela a intendere per un solo istante…

Egtverchi chiuse gli occhi e tacque. Michelis urlò di nuovo:

— Insomma, vuoi o non vuoi parlare?

Senza aprire gli occhi, Egtverchi riprese: — Conseguentemente, il sistema potrà sviluppare funzioni vicarie, se alcune delle sue parti siano andate distrutte.

E tacque di nuovo. S’era addormentato.

Anche ora, gli capitava molto spesso di addormentarsi.

— Reazione di fuga — spiegò dolcemente Ruiz. — Ha creduto che lo minacciaste.

— Mike — disse Liu, con una specie di gravità disperata, — che cosa avete intenzione di fare? Non vi risponderà mai, soprattutto se gli parlerete con quel tono. Malgrado il suo aspetto, è ancora un cucciolo, un bambino. È chiaro che impara tutte queste cose automaticamente e che ogni tanto gli capita di ripeterle, quando gli sembrano appropriate, ma se continuiamo a interrogarlo non sa come proseguire. Abbiate un po’ di fiducia in lui! Dopo tutto, non è stato lui a chiedervi di far venire il comitato per la naturalizzazione.

— E a me, perché non date un po’ di fiducia? — disse Michelis con aria infelice. Poi divenne pallido. È così Liu.

Ruiz lanciò un’occhiata sul Lithiano addormentato, e, accertatosi che Egtverchi dormiva davvero, premette il pulsante che faceva calare la cortina metallica davanti alla porta trasparente. Fino all’ultimo, videro che Egtverchi rimaneva immobile. Ora si erano isolati, lontano da lui; Ruiz non sapeva se la cosa avesse importanza per il Lithiano, ma aveva i suoi dubbi sull’innocenza delle risposte di Egtverchi. In verità, non aveva fatto altro che pronunciare una frase enigmatica, rivolgere una semplice domanda, ripetere alcuni brani delle sue letture, eppure, chissà come, ogni cosa da lui fatta aveva contribuito a peggiorare i loro rapporti.

— Perché avete fatto questo? — volle sapere Liu.

— Per alleggerire un po’ l’atmosfera — disse Ruiz, tranquillamente. — Del resto, dorme; e poi non abbiamo niente da dire a Egtverchi. E forse Egtverchi non è ancora giunto a poter parlare con noi. Ma noi… noi dobbiamo parlare un po’ fra noi, non è vero, Mike?

— Possibile che abbiate ancora voglia di parlare, Ramon? — disse Michelis, che sembrava aver ritrovato il suo tono normale.

— Predicare è la mia vocazione — disse Ruiz. — Se questa mia vocazione dovesse trasformarsi in vizio, non è certo qui che conto di fare il mio atto di contrizione. Il fatto è, Liu, che quasi tutti i nostri guai derivano dalla divergenza di opinioni di cui credo di avervi parlato: Mike e io non siamo affatto d’accordo sul problema che Lithia pone alla razza umana; non siamo, anzi, nemmeno d’accordo sul fatto se Lithia ponga o non ponga un problema filosofico. Secondo me, questo pianeta è una bomba a scoppio ritardato. Mike trova la mia idea assurda. Inoltre, egli ritiene che un articolo generale destinato al pubblico scientifico non rappresenti il mezzo ideale per agitare problemi del genere, soprattutto quando questi siano stati posti ufficialmente e non ci si sia ancora pronunciati in merito. Ecco le ragioni profonde per le quali ci mostriamo i denti in questo momento, senza che, apparentemente, ci siano ragioni per farlo.

— Che argomento gelido, per fare una polemica! — disse Liu. — Gli uomini sono così esasperanti. Che importanza può avere, in questo momento, un simile problema?

— Non posso dirvelo — rispose Ruiz, desolato. — Non posso scendere a particolari: tutta la questione è un segreto di Stato. Mike ritiene che, in generale, il tipo di problemi che volevo discutere, sia già morto e sepolto.

— Ma noi vogliamo solo sapere quale sorte sia riservata a Egtverchi — ribatté Liu. — Il gruppo di studiosi dell’ONU deve essere già in viaggio. E voi due passate il vostro tempo a spaccare capelli in quattro, quando, fra una mezz’ora al massimo, quella che sarà in gioco sarà la vita di un… di un essere umano, non vedo come potermi esprimere diversamente?

— Liu — disse dolcemente Ruiz, — scusatemi, ma siete così intimamente convinta che Egtverchi sia proprio quello che voi intendete per essere umano: uno hnau, una’anima razionale? La sua conversazione, forse lo suggerisce? Voi stessa vi siete lamentata del fatto che non risponde alle domande, e che spesso ciò che dice pare assurdo. Ho parlato con dei Lithiani adulti, ho conosciuto bene il padre di Egtverchi; ebbene, Egtverchi non assomiglia molto ai Lithiani, ancor meno a un essere umano. Che si sia verifícato in queste ultime ore qualche evento che abbia avuto il potere di farvi cambiare idea?

— Oh, no! — rispose fervidamente Liu tendendo le mani verso il Gesuita. — Ramon, voi l’avete inteso parlare come l’ho inteso io… insieme ci siamo presi cura di lui… e sapete bene che è più che un semplice animale! Riesce a essere molto intelligente, quando vuole!

— Avete ragione, quando dite che lo spaccare i capelli in quattro è completamente fuori luogo — disse Michelis, voltandosi a guardare Liu con occhi scuri, stranamente addolorati. — Ma io non riesco a farmi ascoltare da Ramon. Egli si chiude sempre più in un suo sofisticato tormento teologico personale. Sono desolato che Egtverchi non sia così evoluto come avevo sperato, ma ho sempre preveduto che più si fosse avvicinato alla piena maturità della sua intelligenza, più ci avrebbe procurato guai seri.

«E le informazioni non mi vengono soltanto da Ramon. Ho esaminato personalmente i risultati dei "test" progressivi d’intelligenza. O testimoniano qualche cosa di fenomenale, o noi non abbiamo nessun mezzo sicuro per misurare l’intelligenza di Egtverchi. Che, in definitiva, è più o meno la stessa cosa. Se i test dicono il vero, che sarà di Egtverchi, quando avrà raggiunto la sua maturità? Egli è il prodotto di una civiltà non umana e per soprammercato si rivela un genio… e la sua condizione legale attuale è quella di un animale da zoo. O, peggio, è soltanto una cavia: è questo che la maggioranza del pubblico tende a considerarlo. Ai Lithiani non piacerà tutto ciò, e quel che più conta, al pubblico non piacerà tutto ciò quando avrà conosciuto i fatti.

«È per questo che fin dal principio ho sollevato tutta questa faccenda della naturalizzazione. Non vedo altra alternativa: dobbiamo restituirgli la libertà.»

Rimase in silenzio un istante, poi continuò, quasi con la sua antica cortesia:

— Forse sono un ingenuo. Non sono un biologo, e neppure un esperto in test psicologici. Ma pensavo che Egtverchi, ormai, fosse pronto; invece non lo è, e così, credo, Ramon l’avrà vinta per getto della spugna. La commissione lo esaminerà come è ora, e i risultati, ovviamente, non possono essere positivi.

Questa era anche, esattamente, l’opinione di Ruiz-Sanchez, il quale, tuttavia, non l’avrebbe certamente formulata così.

— Mi rattristerà molto vederlo andare, se deciderà di lasciarci — disse Liu, distrattamente. Era chiaro, tuttavia, che non pensava affatto a Egtverchi. — Mike, so che avete ragione; anch’io, in definitiva, non vedo altra soluzione: Egtverchi deve essere messo in libertà. È davvero intelligente: di questo non c’è dubbio. Ora che ci penso, anche il suo silenzio non è la reazione naturale di un animale, privo di risorse interiori. Padre, non possiamo fare nulla?

Ruiz alzò le spalle: non aveva nulla da dire. La reazione di Michelis alle ripetizioni e all’irresponsabilità di Egtverchi, naturalmente, erano esagerate, rispetto alla realtà della situazione, ed erano nate soprattutto dalla sua delusione per il risultato equivoco della spedizione su Lithia; amava le soluzioni chiaramente delineate, ed evidentemente pensava di avere trovato un ottimo strumento nella richiesta della cittadinanza. Ma c’era altro: in parte, naturalmente, collegato al legame, ancora non ammesso, che si stava formando tra il chimico e la ragazza. In quella singola parola, «Padre», Liu aveva eliminato il sacerdote dai genitori adottivi di Egtverchi e si era tradita a Mike.

E ciò che rimaneva da dire non avrebbe trovato orecchie disposte ad ascoltarlo. Michelis lo aveva già respinto definendolo un «sofisticato tormento teologico», esclusivo di Ruiz e privo di importanza al di là del prete. E ciò che veniva respinto da Michelis, presto avrebbe cessato di esistere agli occhi di Liu, se già non era cancellato.

No, non poteva davvero fare più nulla per Egtverchi. L’Avversario proteggeva con tutte le vecchie, potenti armi della divisione il figlio che aveva generato: era già troppo tardi. Michelis non conosceva l’abilità degli esaminatori del comitato di naturalizzazione dell’ONU, quando si trattava di scoprire l’intelligenza e la desiderabilità di un candidato, anche dietro la più spessa cortina fumogena dell’alienazione linguistica e culturale, e a qualsiasi età dopo che si era instaurata la malattia chiamata «favella». E non comprendeva le pressioni a cui era stata sottoposta la commissione perché chiudesse tutta la questione di Lithia mediante un fait accompli. Gli esaminatori avrebbero studiato Egtverchi per un’ora al massimo, dopo di che…

Dopo di che Ruiz-Sanchez sarebbe rimasto solo, senza il minimo alleato. Pareva che la stessa volontà di Dio comandasse che egli fosse spogliato di tutto, e che si presentasse davanti alla Porta Santa a mani vuote… privo perfino del conforto di Giobbe: sì, privo perfino del peso della fede.

Perché Egtverchi avrebbe certamente superato l’esame. Era già virtualmente in libertà… e molto più vicino ad essere un cittadino rispettabile di quanto non lo fosse lo stesso Ruiz-Sanchez.