"Guerra al grande nulla" - читать интересную книгу автора (Blish James)CAPITOLO DODICESIMOFu nella residenza sotterranea di Lucien le Comte des Bois d’Averoigne che fu data la festa in onore dell’ingresso nel mondo di Egrverchi, evento che complicò in modo notevole la vita già istericamente agitata di Aristide, maestro di cerimonie della Contessa. Ordinariamente, una festa del genere non avrebbe offerto nessuna difficoltà oltre ai semplici problemi tecnici che gli erano familiari e portavano il personale a quel culmine di frenesia che egli considerava il massimo di efficienza; ma dover preventivare la presenza addizionale di un mostro alto tre metri costituiva un affronto alla sua coscienza come al suo senso artistico. Aristide, nato Michele di Giovanni al tempo del barbaro contadiname di una Sicilia pre-rifugio, era un drammaturgo che conosceva bene il complesso palcoscenico su cui doveva lavorare. La dimora newyorkese del Conte si componeva di parecchi piani sotterranei. La parte di essa in cui si dava la festa spuntava di tutto un piano sopra la superficie di Manhattan, quasi che la parte sepolta della città stesse uscendo dalla tana del suo letargo o non avesse ancora finito di scavarla per sprofondarvi. La costruzione, aveva scoperto Aristide, era stata in origine una rimessa tramviaria, un brutto e squallido edificio di mattoni rossi costruito nel 1887, quando i tram erano la più moderna e promettente innovazione in materia di comunicazioni urbane. I binari, con il solco nel mezzo, giacevano ancora nel pavimento asfaltato, con soltanto una patina superficiale di ruggine: l’acciaio non si arrugginisce molto, in meno di due secoli. Al centro del piano terreno si trovava un enorme ascensore a vapore di vecchio tipo, con una gabbia di ferro battuto, che un tempo serviva a calare le vetture nel sottosuolo per essere tenute in riserva. Tanto a livello del suolo quanto più in basso, le rotaie correvano in tutte le direzioni e i loro scambi complicati finivano sempre per portare ai segmenti di binari entro l’immensa cabina dell’ascensore. Aristide, dapprima stupito alla scoperta di quella rete sotterranea, aveva prontamente imparato a utilizzarla nel modo migliore. I ricevimenti della Contessa, grazie alla genialità di Aristide, erano ora limitati nella loro fase più convenzionale ai tre piani superiori; ma Aristide aveva impiantato un piccolo treno composto di quattordici vagoncini a due poltrone, il quale serpeggiava placidamente sulle rotaie tramviarie, raccogliendo come passeggeri coloro che erano già annoiati di sole ciarle e bevande, e spingendosi con un rombo leggero fino all’ascensore, per essere calato giù — tra sibili acuti e una gran nuvola di vapore, che la Contessa era molto sofistica quanto all’apparente autenticità delle sue anticaglie — al piano inferiore, dove presumibilmente succedevano cose più interessanti. Come drammaturgo, Aristide inoltre conosceva bene il suo pubblico: rientrava nei suoi doveri far sì che tutto ciò che accadeva da basso fosse più interessante di ciò che s’era visto in alto. E conosceva anche le sue Ma che cosa poteva fare un uomo con un rettile-canguro alto tre metri e cinquanta? Dal luogo dove stava, un recesso discreto a colonnato nell’atrio del pianterreno, Aristide osservava i primi invitati avviarsi verso la sala del cocktail ufficiale, uno dei suoi anacronismi favoriti, che la Contessa sembrava disposta a permettergli di ripetere ogni anno. Richiedeva poche preparazioni: soltanto intrugli assurdi e pressoché letali, ma richiedeva che ospiti e personale indossassero costumi ridicoli. Però, il curioso rigore dei costumi faceva un simpatico contrasto con l’alleggerimento della psiche indotto dai liquori. Era ancora presto perché vi fosse molta gente: c’era la Senatrice Sharon, che agitava gaiamente le sopracciglia enormi a salutare gli altri invitati, rifiutando ogni bibita con ostentazione, sapendo che il suo buon amico Aristide aveva riunito per lei, al piano di sotto, cinque robusti giovani che lei non aveva ancora mai visto; c’era poi il Principe William d’East Orange, un giovane la cui disgrazia era di non avere vizi e che tornava sempre a prendere il trenino serpeggiante nella speranza ogni volta di scoprirne uno che gli andasse a genio; al suo fianco, stava il dottor Samuel P. Shovel, medico, uomo gioviale, dalle guance rubizze e i capelli candidi, gran sacerdote di psiconetologia, «La Nuova Scienza dell’Inconscio», uno dei beniamini di Aristide, in ragione della semplicità dei suoi gusti: il dottor Shovel, infatti, non desiderava niente di più complicato del dare un buon pizzicotto nelle parti molli. Faulkner, il maggiordomo capo, si avvicinò rigidamente ad Aristide. Faulkner regnava sul personale della Contessa come un despota orientale, ma non contava più niente appena Aristide era presente. — Devo far servire gli embrioni al vino? — domandò Faulkner. — Non siate così cieco e sciocco — disse Aristide. Aveva appreso le sue prime nozioni d’inglese da telefim sentimentali a tre dimensioni, cosa che dava alla sua conversazione ordinaria toni decisamente bizzarri; lui se ne rendeva pienamente conto, del resto, e ne faceva una delle sue armi principali per manovrare i tirapiedi, che non sapevano mai se li insolentisse per puro sport o perché realmente arrabbiato. — Scendete al piano inferiore, Faulkner. Sa avrò bisogno di voi, cosa che non credo, vi chiamerò. Faulkner fece un lieve inchino e scomparve. Lievemente seccato per l’interruzione, Aristide riprese la sua ispezione dei primi arrivati. C’era, naturalmente, anche la Contessa, che per il momento non gli poneva nessun problema. Il suo trucco dorato era ancora intatto, e i gioielli mobili, dalle grotticelle che Stefano era riuscito a creare nei suoi capelli, ammiccavano coi loro occhi di diamanti. C’erano poi i padrini dell’ingresso del mostro lithiano in società, il dottor Michelis e la dottoressa Meid; costoro rischiavano forse di presentare problemi particolarissimi, perché su di loro Aristide non era riuscito a saperne abbastanza per conoscere quali loro gusti personali avrebbero amato vedere soddisfatti ai piani inferiori. Eppure quei due erano gli ospiti chiave: la loro importanza era seconda soltanto alla impossibile creatura stessa. E a questo proposito c’era nell’aria un potenziale esplosivo, come Aristide sapeva con fatale certezza, dato che la impossibile creatura era in ritardo d’oltre un’ora; e la Contessa aveva fatto sapere a tutti i suoi invitati, oltre ad Aristide, che il Lithiano sarebbe stato l’ospite d’onore: metà degli invitati erano venuti soltanto per vedere lui. In quel momento nella sala c’era solo un funzionario dell’ONU, il quale aveva in testa uno stranissimo cappello: una specie di casco da automobilista, largamente munito di apparecchi di comunicazione e d’altri aggeggi indefinibili, tra cui occhiali da sommozzatore capaci di oscurarsi per diventare uno schermo televisivo tridimensionale in miniatura, e un certo dottor Martin Agronski, che Aristide non riusciva a dimensionare e considerava pertanto con l’intenso sospetto che riservava alle persone di cui non poteva indovinare le debolezze. Il volto di Agronski era petulante almeno quanto quello del Principe d’East Orange, ma poiché era molto più anziano, era difficile che fosse là per le stesse ragioni. Del resto, aveva qualche cosa a che fare con l’ospite d’onore, cosa che indisponeva ancor più Aristide. Agronski sembrava conoscere Michelis, ma per ragioni inesplicabili sembrava evitarlo ad ogni occasione; dedicava la maggior parte del suo tempo a sorbire uno dei punch più forti che Aristide avesse fatto preparare, con la tetra determinazione di un non bevitore che crede di poter acquisire un contegno perfetto intossicando la propria timidezza. Chissà se una donna…? Aristide fece un segno piegando il dito levato. Il suo assistente sgattaiolò fuori da dietro una decorazione floreale, la testa inclinata dall’abitudine delle riverenze, soffocando perfino il suono dei suoi passi felpati in omaggio all’arrivo del trenino in stazione; nello stridore dei freni, tese l’orecchio verso la bocca di Aristide. — Osservate quell’individuo — disse Aristide senza muovere le labbra, indicando Agronski con una mossa impercettibile dell’anca. — Fra mezz’ora sarà completamente ubriaco. Portatelo fuori prima che crolli, ma che non lasci assolutamente la casa. Può darsi che la padrona lo cerchi più tardi. Sarà meglio trasportarlo nella camera di riposo e fargli un’iniezione appena cominci a muoversi. L’assistente fece un cenno di assenso e si allontanò trotterellando, piegato quasi in due. Aristide parlava ancora in buon inglese corrente, commerciale; buon segno, finché durava… Aristide riprese a osservare gli ospiti. Erano lievemente aumentati da qualche minuto a quella parte; ma egli ritenne più importante studiare le reazioni della Contessa all’assenza dell’ospite d’onore. Per il momento lo stesso Aristide non correva pericolo alcuno, sebbene potesse già indovinare l’irritazione in certe allusioni della Contessa. Fino a quel momento, tuttavia, s’era limitata a lanciare le sue frecciate contro i padrini del mostro, il dottor Michelis e la dottoressa Meid, che sembravano entrambi molto imbarazzati a rispondere. Michelis continuava a ripetere, con una cortesia sempre più seccata a misura che la pazienza gli sfuggiva: — Madame, ignoro assolutamente quando verrà. Non so nemmeno dove abiti. Ha promesso di venire. Il fatto che sia in ritardo non mi stupisce, ma non dubito che finirà per arrivare. La Contessa si allontanò, ancheggiando con petulanza. Cominciava il pericolo, per Aristide: la Contessa non aveva mezzi di pressione sui padrini del mostro, quale che fosse la loro ignoranza della situazione. In virtù di chissà quale dote ereditaria, Lucien le Comte des Bois d’Averoigne, Procuratore di Canarsie, aveva avuto l’accortezza di ripartire giudiziosamente il suo denaro: ne dava il novantotto per cento alla moglie e utilizzava il restante due per cento per scomparire quasi tutto l’anno. Si diceva perfino che si dedicasse a ricerche scientifiche, sebbene nessuno sapesse in quale campo; certo, non poteva essere né la psiconetologia né l’ufonica, altrimenti la Contessa lo avrebbe saputo, dato che entrambe le scienze erano di moda. E, senza il Conte, la Contessa sarebbe stata una nullità, sostenuta soltanto dal denaro; se la creatura lithiana non fosse venuta, la Contessa non avrebbe potuto fare altro contro i suoi padrini che togliere i loro nomi dalla lista degli invitati alla prossima festa (cosa che comunque avrebbe fatto in qualsiasi caso). Invece, eran molte le cose che poteva fare ad Aristide. Licenziarlo non poteva, naturalmente (egli conservava con la massima cura certi particolari incartamenti a difesa di questa eventualità), ma poteva rendergli la vita professionalmente molto difficile. Chiamò con un cenno il suo secondo. — Riserverete alla Senatrice Sharon il canapè delle emozioni appena ci saranno altre dieci persone in questo piano — ordinò seccamente. — Non mi piace l’aria che tira, Appena gli invitati saranno abbastanza numerosi, dovremo farli salire sui convogli in miniatura; la Sharon non è il capro espiatorio ideale per questo genere di cose, ma dovrà rassegnarsi. Seguite il mio consiglio, Cyril, o rimpiangerete il giorno in cui siete nato. — Ai vostri comandi, Maestro — disse rispettosamente l’uomo, che non si era mai chiamato Cyril. Michelis dapprima non aveva quasi badato al trenino, se non come a una cosa curiosa, ma esso era diventato più chiassoso con il passar del tempo. Pareva compiere il suo percorso in cinque minuti, ma Michelis finì per accorgersi che in realtà c’erano tre convogli; il primo caricava passeggeri di quel piano; il secondo riportava gruppi di persone dal piano inferiore, scaricando adepti straordinariamente esilarati tra gli ultimi arrivati (i quali stavano attenti a conservare il contegno serio e compito); e il terzo treno, generalmente vuoto data l’ora poco avanzata, riportava dal secondo piano sotterraneo gaudenti dagli occhi vitrei, che i domestici della Contessa facevano efficientemente dirottare lungo una sorta di pensilina coperta, bene in disparte dall’ingresso principale e accuratamente nascosta agli sguardi dei futuri candidati ai livelli inferiori. Quindi il ciclo ricominciava. Michelis aveva tutte le intenzioni di starsene lontano dal trenino. Non gli piaceva fare il diplomatico, soprattutto ora che tutta la sua diplomazia non serviva a nulla, e inoltre era abituato a star solo, e i ricevimenti gli davano fastidio: perfino quelli piccoli, per non parlare di quelli grandi come questo. Dopo qualche tempo, però, cominciò a stancarsi di ripetere la solita scusa per Egtverchi, e si accorse che il salone da cocktail a pianterreno era quasi vuoto: in effetti la sua presenza e quella di Liu costringevano la loro ospite a fermarsi contro la propria volontà. Quando Liu si accorse che il trenino non solo faceva il giro di quel piano, ma scendeva nel sottosuolo, Michelis non ebbe più scuse per rimanerne lontano. L’ascensore rapì tutto il resto degli ultimi arrivati, lasciandosi dietro soltanto i domestici e qualche attaché scientifico sbalordito, che probabilmente s’era sbagliato di ricevimento. Michelis cercò con lo sguardo Agronski, la cui presenza lo aveva stupito, ma il geologo era scomparso. In treno, tutti urlarono d’allegria e di finto terrore, quando l’ascensore a vapore cominciò a trasportare il convoglio verso il piano inferiore, sprofondando nella nera tenebra e in un’umidità che sapeva di ruggine. Quindi le grandi porte si spalancarono bruscamente davanti a loro e il treno si mosse per uscire facendo una brusca virata sulle rotaie. Il suo muso a forma di spazzaneve si spinse subito poi attraverso una serie di doppie porte volanti, sprofondò i passeggeri in tenebre ancora più nere, e si fermò del tutto con un sussulto stridulo. Nell’oscurità si levò un fuoco di fila di acute risate isteriche lanciate dalle donne, e di più gravi urla maschili. — Oh, non ne posso più! — Henry, sei tu? — Lasciami, brutta sozza. — Come mi gira la testa! — Attenzione, questo treno del diavolo si rimette in moto. — Scendi dal mio piede, figlio d’un cane. — Ehi, dico, voi non siete mio marito! — Oh, signora mia, e neppure lo vorrei essere. — Quella donna farebbe meglio a piantarla. Quindi le voci furono soffocate dall’urlo di una sirena, così prolungato e assordante che le orecchie di Michelis continuarono a ronzare anche dopo che il suono aveva superato i limiti estremi dell’audibilità. Poi un gran gemere di macchinari, una pallida luce violetta… Il trenino stava ora serpeggiando nel vuoto, non sostenuto da niente. Stelle multicolori, ma fioche, turbinavano un po’ da per tutto, sorgendo da una parte del treno, passandovi sopra e poi tramontando sotto di esso, con un periodo di soli dieci secondi, da un «orizzonte» all’altro. Si udirono altre urla e altre risate, insieme con una specie di cigolio frenetico, poi la sirena ululò di nuovo, prima debolmente, poi trasformandosi in un sibilo penetrante, che echeggiava dentro la scatola cranica, prima di morire a poco a poco verso gli infrasuoni. Liu si aggrappò al braccio di Michelis, ma lui non poteva fare altro che attaccarsi come un disperato alla sua poltrona. Ogni cellula del cervello gli lampeggiava d’allarme, ma era come paralizzato, in preda alla vertigine… Delle luci. L’universo si ristabilizzò immediatamente. Il piccolo treno riposava sornione sui suoi binari sostenuti da supporti a mensola. Non si era mai mosso. Nel fondo di un immenso imbuto, invitati coi capelli in disordine guardavano i passeggeri del trenino, quasi accecati, e li prendevano in giro sguaiatamente. Le «stelle» non erano state altro che macchie di pittura fluorescente, illuminate da lampade a raggi ultravioletti. L’illusione di roteare nel vuoto era stata indotta dalla sirena, che aveva turbato i canali semicircolari: l’orecchio interno che dà il senso dell’equilibrio. — Tutti a terra! — gridò una voce maschia, possente. Michelis guardò in basso, cautamente; gli girava ancora un po’ il capo. Chi aveva urlato l’ordine era un uomo con un gualcito abito da sera e dei capelli rosso fuoco; le sue spalle prepotenti avevano fatto scoppiare una delle cuciture della giacchetta. — Dovrete prendere il treno successivo: questa è la regola. Michelis pensò di rifiutarsi; poi cambiò idea. Probabilmente, saltare giù dal vagoncino era meno rischioso che non il battersi con due persone che s’erano già guadagnate il diritto di «uscita» sulla sua poltrona e quella di Liu. Ogni luogo ha le sue regole di condotta. Una scaletta fu loro tesa, e Michelis, quando giunse il loro turno, aiutò Liu a scendere. — Non fare opposizione — disse a bassa voce. — Se la piattaforma si mette a muoversi, cerca di mantenere l’equilibrio. Hai un accendino? Eccoti il mio. Se qualcuno ti si avvicina troppo, dagli un calcio, ma non avere paura per i macchinari: sembrano in perfetta efficienza. Lo erano, ma Liu era atterrita e Michelis nutriva sentimenti omicidi quando finalmente giunse il treno successivo per portarli via; fu lieto di non avere sollevato discussioni con il suo predecessore: se qualcuno si fosse rifiutato di cedergli il posto, Michelis sarebbe stato capace di torcergli il collo. La doccia di profumo che lo inzuppò quando il convoglio penetrò nella sala successiva non migliorò precisamente il suo umore, ma almeno la sala non richiedeva una partecipazione attiva. La sala consisteva in un bel giardino di nobili proporzioni, fatto di vetro soffiato in ogni tinta possibile, nel centro del quale modelli giavanesi viventi posavano per dei diorami d’una lussuria appena velata; benché le situazioni evocate fossero drammatiche all’estremo, i modelli, eccettuata la respirazione appena percettibile, non muovevano un muscolo; erano altrettanto immobili quanto il fogliame di vetro. Con grande sorpresa di Michelis, che al di fuori delle scienze non aveva praticamente nessun senso estetico, Liu guardava quelle scene immobili con una specie di approvazione grave e contenuta. — È un’arte assai difficile, suggerire la danza senza movimento — mormorò improvvisamente la donna, come se avesse letto nel suo pensiero. — Difficile col pennello, ma quasi impossibile col corpo. Credo di conoscere l’artista che ha ideato tutto ciò. Sì, non può essere che lui… Il chimico la fissò come se la vedesse per la prima volta e dall’onda di gelosia che lo sommerse seppe di amarla. — Chi? — domandò con voce roca. — Tsien-Hi, non c’è dubbio. L’ultimo dei classici. Lo credevo morto, ma questa non può essere una copia. Davanti alla porta d’uscita, il trenino si soffermò per un istante: quanto bastava perché due modelli, che nonostante il pudore dei loro movimenti parevano oscenamente vivi, ponessero loro in mano un ventaglio coperto di disegni a china, fatti col pennellino. Dopo una sola occhiata, Michelis si ficcò in tasca il suo, timoroso di ammettere la proprietà di quell’oggetto mediante un gesto così impegnativo come quello di buttarlo via: ma Liu indicò in silenzio un ideogramma e piegò il proprio ventaglio con grande rispetto. — Sì — disse. — È proprio lui. Questi sono gli schizzi originali. Non avevo mai creduto di poterne possedere uno… Il trenino si lanciò bruscamente in avanti. Il giardino svanì, ed essi si trovarono immersi in un caos vago e colorato, di emozioni incomprensibili. Non c’era nulla da vedere, da ascoltare o da toccare, e tuttavia Michelis si scoprì toccato fino al profondo dell’anima, e poi colpito ancora e ancora. Lanciò un grido, e udì confusamente di non essere il solo che gridava. Lottò per conservare il dominio di se stesso, ma non riuscì a riprenderlo, e… no, ra l’aveva quasi ripreso… Se soltanto fosse riuscito a Ci riuscì, per un istante, e comprese cosa stava succedendo. La nuova cella era un lungo corridoio, diviso in quindici scomparti da pareti di aria in movimento. Entro ciascuno degli scomparti aleggiava fumo colorato, contenente un qualche gas che doveva colpire direttamente l’ipotalamo. Michelis riconobbe alcuni di quei gas: erano dei rozzi composti allucinogeni, inventati nel periodo d’oro dei tranquillanti, il secolo scorso. Sotto le ondate di paura, esaltazione religiosa, coraggio folle, brama di potere, e altre emozioni innominabili indotte da quei gas, provò una cupa rabbia intellettuale verso un modo così rozzo di pasticciare con i farmaci psicotropici al solo scopo di provare delle momentanee «esperienze»; tuttavia sapeva che quel tipo di stimolanti mentali non era affatto raro, nella civiltà del Rifugio. Quei fumi godevano della fama di non dare un’intossicazione permanente (e in effetti non la davano, per la maggior parte), ma tendevano certamente a ingenerare un’abitudine: anziché una necessità, facevano sorgere nel consumatore una dipendenza volontaria, che è una cosa molto diversa, ma che non è necessariamente meno pericolosa. Una cortina nebbiosa e rosata, all’estremità del corridoio, risultò essere antiserotonina pura e concentrata: un vero atarassante, che spogliò la sua mente di ogni emozione, ad eccezione di una vaga soddisfazione generica per tutte le cose dell’universo. Ciò che dev’essere è già stabilito… tutto va per il meglio… c’è pace in ogni cosa… In questo stato di condiscendenza acritica, i passeggeri del trenino furono sottoposti a una lunga serie di burle complicate ed atroci, disposte una dopo l’altra come in una catena di montaggio. L’ultima beffa consisteva in una ricreazione tridimensionale di un campo di concentramento del secolo precedente: lo scenografo, con arte diabolica, aveva disposto le cose in modo che coloro che erano nel trenino credessero di dovere essere i prossimi a finire nel forno. Quando la porta della fornace si chiuse alle loro spalle, scese su di loro un soffio di ossigeno puro, che ebbe il potere di schiarire la mente; tremanti d’orrore al pensiero di ciò che erano stati pronti ad accettare con gioia, i passeggeri vennero fatti scendere dal treno per unirsi a un gruppo di ex vittime, che ora si stavano sganasciando dalle risate. L’unico desiderio di Michelis era quello di fuggire (soprattutto, non aveva alcuna intenzione di rimanere lì a prendersi beffe del prossimo carico di passeggeri sbalorditi) ma era troppo esausto per allontanarsi dall’anfiteatro, e Liu non riusciva a muovere un passo. Dovettero quindi rimanere seduti laggiù e attendere di essersi ripresi. E furono fortunati ad averlo fatto. Mentre stavano centellinando le loro bevande (Michelis aveva nutrito turpi sospetti sul liquore ambrato che era contenuto nel suo bicchiere, ma la sostanza si rivelò non essere altro che dell’onesto brandy, molto gradito) il treno successivo fu salutato da un rombo scrosciante di applausi, mentre tutti si alzavano in piedi. Egtverchi era arrivato. C’era una vera turba ora nella sala da cocktail a pianterreno, ma Aristide era tutt’altro che felice; e tra il personale, varie teste erano già cadute. Aristide aveva in sé come un sesto senso, delicatissimo, che non mancava mai di avvertirlo quando una festa cominciava a inacidire, ed era già da molto che quel sesto senso aveva acceso il rosso del segnale d’allarme. L’arrivo dell’ospite d’onore, in particolare, era stato un fiasco enorme. Non erano presenti né la Contessa, né i padrini del mostro, né uno degli ospiti realmente importanti che erano stati invitati espressamente per l’ospite d’onore, e l’ospite d’onore stesso aveva costretto Aristide a far vedere, davanti a tutto il personale, di essere in preda al terrore. Aristide si vergognava atrocemente della sua paura, ma ormai non c’era più nulla da fare. Lo avevano avvertito, sì, che si trattava di un mostro, ma non di un mostro simile: una creatura di Un treno giunse sferragliando davanti alla camera di riposo, ma prima che si fermasse, la senatrice Sharon saltò fuori dalla stanza, tutta eccitata, tra uno sfarfallio di ciglia. — Ma guarda quello! — esclamò, stimolata dal quintuplice soccorso che Aristide le aveva fatto coscienziosamente trovare. — Guarda com’è E ciò costituiva un secondo fallimento per Aristide. Uno degli ordini fissi della Contessa era quello di dare alla senatrice il suo divertimento e poi di farla subito riportare al Rifugio, prima che il ricevimento vero e proprio cominciasse. Altrimenti la senatrice avrebbe passato il resto della notte a imporre chiassosamente la sua presenza e a cercare di sedurre ogni celebrità. Se la senatrice Sharon non scompariva all’inizio della serata, soddisfatta di ciò che aveva già incontrato, finiva col far scoppiare qualche scandalo. Il treno vuoto entrò lentamente nella sala, invitante. Il mostro lithiano lo vide e il suo sorriso si accentuò. — Ho sempre desiderato essere macchinista di treno — disse in un inglese bizzarro, ma nello stesso tempo più preciso di quel che Aristide poteva sperar di parlare in vita sua. — Così, voi siete il maestro di cerimonie. Buon uomo, ho portato due, tre, vari ospiti di mio gusto. Dov’è la nostra padrona di casa? Aristide con aria impotente indicò a caso una direzione e l’altissimo rettile, con un gracchiamento di soddisfazione, salì sulla prima vettura del trenino. S’era appena seduto che la banda si precipitò ad ammucchiarsi dietro di lui. Il treno si avviò con un sobbalzo, dirigendosi verso l’ascensore, che subito poi cominciò a sprofondare fra grandi getti di vapore. Era fatta. Aristide aveva lasciato che l’ingresso solenne del mostro facesse cilecca. E se anche aveva dei dubbi in merito, si dissiparono presto: non più di dieci minuti dopo, l’espressione sarcastica di Faulkner lo snobbava inequivocabilmente. Ecco che ci si guadagna ad essere un artista fedele alla sua padrona, si disse amaramente. Il giorno dopo, si sarebbe considerato fortunato se lo avessero preso come sguattero in una mensa collettiva, incartamenti ricattatori o no. E tutto questo perché? Perché non aveva saputo prevedere con esattezza l’arrivo di una creatura che non era nemmeno nata sulla Terra. Si avviò con passo deciso, tragico, verso la sala di riposo, pestando i piedi e dando vigorose gomitate a quegli assistenti che avevano l’ingenuità di farsi trovare sulla sua strada. Non poté pensare ad altro che a soprintendere personalmente alla ripresa fisica di un certo dottor Martin Agronski, lo sconosciuto invitato che sembrava vagamente connesso al Lithiano. Ma non si faceva illusioni. Il giorno dopo, il celebrato Aristide, factotum artistico della Contessa des Bois d’Averoigne, avrebbe potuto ringraziare Dio e baciare in terra se si fosse trovato nei panni di Michele di Giovanni, oriundo delle malariche piane di Sicilia. Michelis si pentì di avere preso il trenino non appena capì la costituzione del piano sotterraneo, perché comprese di non poter vedere l’arrivo di Egtverchi. Fondamentalmente, il piano era diviso, mediante pareti a prova di suono, in vari piccoli gruppi: alcuni erano solo leggermente più brilli e disinibiti del ricevimento ufficiale, ma gli altri si davano a tutto uno spettro di attività frenetiche. Lui e Liu compirono il giro completo prima che riuscisse a escogitare il modo per scendere dal treno; ogni volta che si sentiva pronto a tentare la discesa, il treno cominciava ad accelerare in modo imprevedibile, a scatti, dando l’impressione di un ottovolante nel cuore della notte. Comunque, poterono vedere l’unico arrivo che contava. Egtverchi, quando il trenino si fermò, dopo essere emerso dall’ultimo bagno di gas profumanti, apparve ritto nella vettura di testa, da cui discese coi propri mezzi. Nelle cinque vetture alle sue spalle, essi pure in piedi, stavano dieci giovanotti quasi identici, indossanti uniformi nere e verde lucertola, con bottoni d’argento, con le braccia incrociate sul petto, impassibili e severi, gli occhi fissi davanti a sé. — Ossequi — disse Egtverchi, con una profonda riverenza, che le sue braccia sauriane, piccole e sproporzionate, rendevano comica e insieme insolente. — Contessa, sono felice di fare la vostra conoscenza. Siete protetta da molti cattivi odori, ma li ho dominati tutti. La folla applaudì. La risposta della Contessa si perse nel baccano, ma evidentemente lei gli aveva ricordato di essere per natura immune ai fumi e sentori che invece disturbavano i Terrestri, perché Egtverchi ribatté vivacemente, con voce contrariata: — M’aspettavo una risposta del genere, e mi spiace di avere colto nel segno. Per il puro tutte le cose sono pure… Avete mai visto giovani più solidi e incrollabili? — Indicò con un gesto i suoi dieci seguaci. — Ma naturalmente ho barato. Ho tappato loro le nari con dei filtri, così come Ulisse riempì di cera le orecchie dei suoi marinai, perché non udissero il canto delle sirene. I miei uomini non temono nulla; credono che io sia un genio. Con aria da cospiratore, il lithiano materializzò un fischietto d’argento, e ne trasse una nota acuta e gorgheggiante, del tutto in contrasto col gesto che l’aveva preceduta. I dieci giovani guerrieri immediatamente crollarono. Tutta la prima fila della folla poté toccare col piede i loro corpi inerti, affronto che essi subirono con torpida indifferenza. — Ubriachi fradici — disse Egtverchi con un tono di paterna disapprovazione. — Inevitabile. In realtà non ho tappato loro le nari per nulla. Mi sono limitato a impedire alla loro formazione reticolare di comunicare al cervello i fumi della Contessa, fino al mio segnale. Ora essi hanno avuto tutte le allucinazioni d’un colpo; non è un peccato? Madame, abbiate la bontà di farli portare via, tanta dissolutezza m’imbarazza. Dovrò instaurare una disciplina ferrea. La Contessa batté le mani. — Aristide! Aristide! — Manipolò la minuscola radiotrasmittente nascosta fra i suoi capelli, ma non ottenne risposta. La sua espressione bruscamente passò dalla gioia infantile a un furore puerile. — Dove s’è cacciato quel sudicio bifolco… Michelis, esasperato, riuscì ad aprirsi la strada fino a entrare nel campo visivo di Egtverchi. — Si può sapere dove diavolo credi di essere? — gli disse con voce rauca. — Oh, buona sera, Mike. Sono stato invitato a una festa, esattamente come te. Buona sera, cara Liu. Contessa, conoscete i miei genitori adottivi? Sì, non c’è dubbio che li conosciate… — Certo — disse la Contessa, voltando con ostentazione le nude spalle a Liu e Michelis e guardando di sotto le palpebre dorate la testa torreggiante di Egtverchi, perpetuamente sorridente. — Passiamo nella sala accanto… c’è più spazio e vi staremo più tranquilli. Ne abbiamo abbastanza di questi trenini e dei loro viaggiatori. Dopo il vostro, i loro arrivi parranno tutti uguali. — Io coltivo l’unico — disse Egtverchi, — ma devo avere Mike e Liu al mio fianco, Contessa. Sono l’unico rettile dell’universo con genitori mammiferi e li adoro. Mi domando se ciò non sia un peccato. Non è interessante? Le palpebre dorate si abbassarono. Erano anni da che i maestri delle cerimonie della Contessa non la ponevano in presenza di un peccato così interessante che ella stessa potesse sperimentarlo, invece di farne approfittare gli invitati; e questo, tutti lo sapevano. La Contessa, si disse Michelis, aveva tutta l’aria di fiutarne uno, e poiché era donna di poca immaginazione, Michelis non ebbe dubbi su quale potesse essere. Malgrado il suo aspetto e la sua pelle di sauro, Egtverchi aveva qualcosa d’intensamente, indiscutibilmente mascolino. E anche d’intensamente puerile. Che la combinazione fosse capace di vincere la ripugnanza che la gente avrebbe dovuto provare davanti al suo aspetto incontestabilmente di rettile, era già stato dimostrato in occasione della sua prima intervista alla televisione. I suoi commenti perversi e subdoli sugli eventi e le usanze terrestri erano stati sbalorditivi, e si poteva prevedere che per la fine di quella settimana tutta l’intelligenza del mondo avrebbe incensato il suo nuovo idolo. Ma nessuno avrebbe potuto prevedere la valanga di lettere di bambini, di genitori e di donne sole che gli si era rovesciata addosso. Commentatore ormai di notizie alla televisione, Egtverchi era il primo oratore televisivo che avesse un pubblico composto per metà di intellettuali disingannati e per metà di bambini entusiasti. Era un fenomeno senza precedenti, almeno nel secolo presente. Inoltre, Egtverchi era accompagnato ovunque andasse da un gruppo di seguaci largamente squilibrati (sebbene la composizione esatta di questo seguito non fosse stata ancora analizzata pubblicamente dalla rete televisiva tridimensionale per la quale parlava). I corpi inerti dei suoi dieci adepti venivano in quel momento portati via dai domestici della Contessa, e Michelis li seguiva curiosamente con lo sguardo. Le uniformi erano suggestive, ma suggestive di che? Potevano essere benissimo dei semplici travestimenti, ideati soltanto per quella festa; se i dieci giovanotti crollati al suono del fischietto argenteo di Egtverchi fossero stati fisicamente dissimili, l’effetto sarebbe stato meno profondo, come Egtverchi di sicuro sapeva. E tuttavia il concetto d’uniforme era estraneo alla psicologia lithiana, mentre sulla Terra era profondamente significativo… ed Egtverchi la sapeva già più lunga sulla Terra della maggioranza dei terrestri. Degli squilibrati in uniforme, i quali ritenevano Egtverchi un genio incapace di sbagliarsi: che cosa poteva significare tutto ciò? Se Egtverchi fosse stato un uomo, la risposta sarebbe stata evidente. Ma egli non era un uomo, era un musico che suonava sull’uomo come su un organo. La struttura delle sue composizioni non sarebbe apparsa chiaramente se non dopo un lungo periodo di tempo, ammesso che si trattasse d’una struttura; poteva anche darsi che Egtverchi improvvisasse, almeno per il momento: supposizione già impressionante di per sé. E tutto questo era avvenuto nel giro di un solo mese, dopo la naturalizzazione di Egtverchi. La naturalizzazione stessa era stata una piacevole sorpresa. Michelis, tuttavia, non era molto sicuro delle proprie opinioni sulle altre sorprese che le erano poi succedute; per quelle che senza dubbio sarebbero venute in futuro, era decisamente allarmato. — Ho approfondito questo problema della parentela — Egtverchi stava ora dicendo. — So chi è mio padre, beninteso (noi lo sappiamo sempre al momento di nascere), ma presso i Lithiani il concetto di parentela è molto diverso dal vostro, che è — In che senso? — domandò la Contessa, piuttosto distratta. — Nel senso che parrebbe fondato su un certo rispetto per il bambino, su un atteggiamento quanto mai paziente e protettivo nei riguardi del suo benessere fisico e mentale. Mentre poi lo fate vivere in queste enormi caverne, completamente tagliato fuori da ogni contatto col mondo naturale; e gli insegnate ad aver paura della morte, cosa che ovviamente lo rende un tantino squilibrato, dato che non c’è nulla che si possa fare contro la morte. È come se insegnaste ai bambini ad avere paura della seconda legge della termodinamica, solo perché la materia vivente sembra non voler tener conto della degradazione dell’energia per un breve periodo di tempo. Quanto debbono detestarvi! — Dubito che sappiano della mia esistenza — disse freddamente la Contessa, che non aveva mai avuto figli. — Oh, essi detestano i loro genitori innanzi tutto — disse Egtverchi, — ma resta loro sempre odio sufficiente per ogni altro adulto del vostro pianeta. E me lo scrivono nelle loro lettere. Non hanno mai avuto nessuno a cui dirlo prima, mentre in me vedono qualcuno che non è responsabile dei loro tormenti, ma anzi critica tutto ciò ed è un tipo piuttosto buffo e inoffensivo che non li tradirà. — Tu esageri — disse Michelis a disagio. — Oh, no, Mike. Ho già impedito il verificarsi di parecchi omicidi. Uno di questi bambini, un piccino di non più di cinque anni, aveva un piano straordinariamente ingegnoso, più o meno ispirato al sistema di eliminazione delle immondizie. Egli era pronto a sbarazzarsi della madre, del padre e del fratello quattordicenne; e tutta la faccenda sarebbe stata attribuita a un errore di calcolo negli impianti sanitari della città. Davvero incredibile che un piccino di quell’età abbia potuto immaginare un piano così sottile! Ma sono convinto che avrebbe funzionato: queste vostre città Rifugio sono talmente complesse che basta un errore insignificante perché si trasformino in ordigni mortali. Non mi credi, Mike? Posso mostrarti la lettera. — No — rispose Michelis lentamente, — ti credo. Gli occhi di Egtverchi furono velati per un attimo dalla membrana nittitante. — Un giorno, lascerò che uno di questi piani giunga fino alle sue ultime conseguenze — disse. — Magari a titolo di dimostrazione. Qualcosa del genere sembra esser già nell’aria. Michelis non dubitò neppure per un istante che Egtverchi non fosse disposto a farlo, né che i risultati non fossero conformi alle sue previsioni. La gente non ricordava mai con troppa chiarezza la propria infanzia per prendere sul serio le rabbie e le frustrazioni che agitavano i bambini: e tanto più piccolo era il bambino, tanto più debole era il suo Super-io, tanto meno capace di tenere a freno le emozioni. Sembrava più che probabile che un essere come Egtverchi potesse attingere a quell’universo sotterraneo di furore impotente con maggior facilità ed efficacia di qualunque psicologo terrestre, per abile che fosse. Ed era proprio da lì, che occorreva attingere, se si sperava di porre qualche rimedio. Portare alla luce quel mondo di conflitti attraverso l’analisi psichica degli adulti serviva contro la nevrosi, ma quel metodo non si era mai rivelato efficace contro le psicosi; queste dovevano essere curate farmacologicamente, regolarizzando il metabolismo della serotonina mediante atarassici, i discendenti diretti dei gas e dei profumi esilaranti della Contessa. Aveva un certo effetto, sì, ma più che di una cura si trattava di un palliativo, come somministrare insulina o prodotti a base di zolfo colloidale a un diabetico. Il danno organico era già stato fatto. Nella sostanza devastata del cervello, i circuiti fondamentali di riverberazione, una volta messi in movimento, potevano essere interrotti, ma non mai sconnessi, se non ad opera della chirurgia distruttiva, metodo barbaro abbandonato ormai da oltre un secolo. Il guaio era che tutto ciò coincideva con alcuni aspetti preoccupanti che Michelis aveva scoperto nell’economia Rifugio, dopo il suo ritorno da Lithia. Essendo nato in quell’economia, Michelis l’aveva sempre considerata più o meno una realtà a cui non si poteva sfuggire; questo, almeno, era ciò che gli diceva la memoria. Forse, al tempo della sua infanzia, le cose erano state realmente diverse, e forse un po’ meno cupe; o forse era soltanto un’illusione ispiratagli dal silenzioso censore della sua mente. Ma gli sembrava che la gente allora accettasse le caverne e i corridoi senza fine, nella speranza che la prossima generazione non sarebbe più vissuta nel timore e avrebbe conosciuto un’esistenza migliore: un raggio di sole, un po’ di pioggia, una foglia che cade… Dalla sua infanzia, però, le restrizioni sulla vita in superficie si erano notevolmente allentate: nessuno ormai credeva più alla possibilità di una guerra nucleare, dato che la corsa ai Rifugi aveva portato la situazione a un vicolo cieco, ma in una certa misura l’atmosfera psichica invece di migliorare non aveva fatto che peggiorare. Il numero delle bande giovanili che infuriavano per i corridoi s’era accresciuto del quattrocento per cento, nel periodo in cui Michelis era stato lontano dal sistema solare; l’ONU spendeva ora più di cento milioni di dollari all’anno per il mantenimento di centri di ricreazione e rieducazione per adolescenti, ma questi centri venivano sistematicamente disertati, mentre le bande continuavano a moltiplicarsi. Le ultime misure prese contro di esse erano chiaramente punitive: un massiccio aumento nel costo dell’assicurazione (obbligatoria) sugli scooter elettrici, veicoli apparentemente innocui, lenti, di cui i teppisti usavano servirsi, prima, per facili reati come lo scippo, e poi per imprese più complesse e deleterie, come le massicce incursioni sui magazzini del cibo, le distillerie industriali, i negozi. Infine, il meccanismo che aveva fatto scattare le altissime tariffe assicurative era stata la nuova abitudine di allenarsi alle corse nei condotti per l’aerazione. Alla luce di ciò che aveva appena detto Egtverchi, diventava facile capire l’esistenza di queste bande ferocemente delinquenziali. Anche se nessuno credeva più alla possibilità di una guerra atomica, nessuno credeva nemmeno a un completo ritorno della vita in superficie. I miliardi di tonnellate di cemento e acciaio dei Rifugi erano chiaramente lì per restarci. Gli adulti, ormai, non avevano più speranze per i figli, tanto meno per se stessi. Mentre Michelis era stato lontano, nell’Eden di Lithia, sulla Terra il numero di crimini commessi senza motivo — crimini commessi soltanto per ottenere una distrazione dalla vita opprimente dei corridoi — avevano superato la somma di tutti gli altri reati messi insieme. Soltanto la settimana precedente, qualche stupido della Commissione Pubblica dell’ONU aveva proposto di mettere dei tranquillanti nell’acqua potabile. L’Organizzazione Mondiale della Sanità l’aveva fatto espellere nel giro di ventiquattr’ore (se si fosse seguito il suggerimento, i crimini di quel genere sarebbero subito raddoppiati, perché l’uso dei tranquillanti avrebbe ulteriormente allentato i legami di responsabilità avvertiti dalla popolazione) ma il suggerimento era trapelato, e aveva fatto una pessima impressione sulla pubblica opinione. E l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva ragione di preoccuparsene. La sua ultima inchiesta demografica, sotto la denominazione «Pazzia», aveva rivelato un totale di trentacinque milioni di schizofrenici paranoici precoci, riconosciuti come tali e non ricoverati, ognuno dei quali avrebbe dovuto essere sottoposto immediatamente alle cure del caso, se non che, così facendo, l’economia Rifugio avrebbe subito una diminuzione di mano d’opera più grave di quella che qualunque guerra della storia avesse mai inflitto all’umanità. Ognuno di quei trentacinque milioni d’individui rappresentava un pericolo serio per i suoi vicini e i suoi compagni di lavoro, ma l’economia Rifugio era troppo complicata per poterne fare a meno: per non parlare, poi, dei casi non diagnosticati, ambulatoriali, che probabilmente erano il doppio. Era chiaro che l’economia Rifugio non poteva continuare ancora un pezzo e che era ormai alla vigilia del crollo psicotico… Con Egtverchi come medico curante? Assurdo. Ma chi altro? — Siete terribilmente di malumore, questa sera — la Contessa si stava lamentando. — Siete capace di divertire solo dei ragazzi? — No, soltanto me stesso — si affrettò a rispondere Egtverchi. — Perché, naturalmente, sono anch’io un ragazzo. Vedete, dunque: non solo ho per genitori dei mammiferi, ma sono lo zio di me stesso, visto che gli umoristi per ragazzi della televisione sono sempre gli zii di tutti. Non mi apprezzate secondo i miei meriti, Contessa; di minuto in minuto divento sempre più interessante, ma voi non ve ne accorgete. Potrei trasformarmi in vostra madre e voi non fareste altro che sbadigliare. — Vi siete già trasformato in mia madre — rispose la Contessa, con un’occhiata di sfida viperina. — Avete perfino le sue gote e gli stessi denti, insopportabilmente regolari. La voce anche! Mio Dio… Diventate qualcun altro, vi prego, purché non sia Lucien! — Mi tramuterei nel Conte, se potessi — disse Egtverchi, con quello che a Michelis parve un rammarico sincero — ma non ho nessuna affinità per le trasformazione affini; non capisco ancora nemmeno le teorie di Haertel. Domani, forse? — Mio Dio! — disse ancora la Contessa. — Mi domando come mi sia venuta l’idea d’invitarvi. Siete più noioso di quanto si possa sopportare. Non so perché vi sto ancora ad ascoltare. Ormai dovrei averne capito l’inutilità. Tra lo stupore generale, Egtverchi improvvisamente si mise a cantare con una voce limpida e acuta di soprano: — — Smettete immediatamente! — disse con una voce più nuda e dura d’una ferita. Sotto la doratura del trucco, la sua espressione era irriconoscibile. — Ma certo — rispose Egtverchi, soave. — Vedete bene che non sono vostra madre, dopo tutto. Conviene essere prudenti prima di fare certe accuse. — Lurido demonio ricoperto di scaglie! — Vi prego, Contessa; io ho le scaglie, voi un seno. È la natura che ci ha fatti così. Mi avevate chiesto di divertirvi; ho creduto che la mia canzoncina potesse riuscirvi gradita. — — In nessun luogo. L’ho ricomposta. Ho potuto vedere nei vostri occhi che siete normanna di nascita. — Ma come hai fatto? — domandò Michelis, incuriosito suo malgrado. Era la prima volta che rilevava qualità musicali in Egtverchi. — Attraverso i suoi geni, Mike — disse il Lithiano. La sua analitica mente lithiana aveva subito identificato la sostanza più che il senso della domanda. — È in questo modo che conosco il mio nome e quello di mio padre; E-G-T-V-E-R-C-H-I è lo schema genetico di uno dei miei cromosomi; gli alleli G, V, e I mi vengono, naturalmente, da mia madre; la mia corteccia cerebrale ha diretto accesso sensitivo alla mia composizione genetica. Noi vediamo la linea atavica ovunque volgiamo lo sguardo, così come voi vedete i colori: è uno degli spettri del mondo reale. I nostri antenati hanno selezionato questo senso in noi; non fareste male a imitarli. Può essere utile sapere chi sia un individuo ancor prima che abbia aperto bocca. Michelis si sentì scosso da un brivido. Si chiese se Chtexa avesse menzionato questo fatto a Ruiz-Sanchez. No, probabilmente; una scoperta così affascinante per un biologo avrebbe certamente spinto il Gesuita a parlarne. Ad ogni modo, era troppo tardi per chiederglielo, perché ormai era in viaggio per Roma; Cleaver era ancor più lontano; e, quanto ad Agronski, non era in grado di saper nulla. — Oh, ma noioso, noioso, noioso — disse la Contessa. Era tornata padrona di se stessa. — Certo, per coloro che lo sono — rispose Egtverchi col suo eterno sorriso che riusciva quasi sempre a rendere inoffensive le sue parole. — Ma mi ero proposto di divertirvi, e non avete apprezzato il mio spirito. Però spetta anche a voi di divertirmi, sapete; sono ospite qui. Che cosa avete per esempio nel vostro sottosuolo? Andiamo a vedere. Dove sono i miei soldati da week-end? Qualcuno li svegli; abbiamo una spedizione da fare. La folla degli invitati era stata ad ascoltare avidamente, felice di vedere la Contessa vacillare sotto gli attacchi ripetuti del Lithiano. Quend’ella chinò il torreggiante e dorato trofeo del capo, facendo strada verso i binali del trenino, acclamazioni confuse fecero tremare le pareti della sala. Liu si ritrasse a cercar rifugio contro Michelis, che le cinse con un braccio la vita. — Mike, non andiamoci — mormorò lei. — Torniamo a casa. Ne ho avuto abbastanza. |
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