"Guerra al grande nulla" - читать интересную книгу автора (Blish James)

CAPITOLO TREDICESIMO

Dal diario di Egtverchi: «13 giugno. 13° settimana di cittadinanza. Questa settimana sono rimasto a casa. Gli ascensori della Terra non si fermano mai al mio piano. Devo scoprirne il motivo. Questa gente ha sempre un motivo per tutto quello che fa.»

Fu nella settimana in cui Egtverchi non parlò alla radiotelevisione che Agronski scoprì bruscamente di non sapere più la propria identità. Anche se a quell’epoca non ne aveva riconosciuto la natura, i primi sintomi premonitori della malattia s’erano manifestati in occasione della conferenza a quattro, a Xoredeshch Sfath, quando aveva cominciato a rendersi conto del fatto che non sapeva minimamente di che stessero parlando Mike, il Padre e Cleaver. Dopo un poco, gli era parso che nemmeno loro ne sapessero niente; i nastri sottili di logica e d’emozione con cui si ostinavano ad ornare l’umida atmosfera di Lithia sembravano non essere più appesi a nulla e nemmeno sfiorare terreno alcuno su cui gli esseri umani ch’egli conosceva avessero posato mai il piede.

Poi, ritornato sulla Terra, s’era appena irritato quando il «Journal of Interstellar Research» aveva trascurato di invitarlo a partecipare alla preparazione dell’articolo preliminare su Lithia. L’avventura lithiana aveva cominciato ad apparirgli remota, come un sogno, ed egli già sapeva che tra loro non avevano altro da dirsi, su quell’argomento, che avesse un senso comprensibile a tutti.

E questo era poco male, ma fino a quel momento nulla poteva spiegare quella sensazione di disperazione senza fondo, di solitudine e di disgusto che si era abbattuta su di lui quando aveva scoperto quella cosa apparentemente insignificante in sé: che il suo programma favorito televisivo non sarebbe stato trasmesso quella sera. A parte questa particolarità, tutto sembrava andare per il meglio. Egli era stato invitato a passare un anno presso l’istituto sismologico di Fordham, in ragione dei suoi lavori precedenti sulle onde gravitazionali (le scosse dovute alle maree e i moti sismici veri e propri) e il suo arrivo era stato accolto con rispetto ed entusiasmo da parte dei Gesuiti che dirigevano il dipartimento scientifico della grande università. Il suo appartamento, nel padiglione degli studenti di scienze, non aveva nulla di monastico, anzi era quasi lussuoso per un uomo solo, ed era stata messa a sua disposizione tutta l’apparecchiatura strumentale che un geologo in simili circostanze possa sognare; era virtualmente libero dall’obbligo di tenere lezioni; si era fatto vari amici fra i neolaureati che gli erano stati assegnati come assistenti. Ciò nonostante, quella sera, mentre fissava sullo schermo il programma che si trasmetteva in sostituzione di quello di Egtverchi…

Retrospettivamente, ognuno dei passi che lo avevano portato verso l’abisso sembrava irrevocabile, e nello stesso tempo ognuno di essi era stato così insignificante! Era stato così felice all’idea di ritornare sulla Terra, e non per qualche suo aspetto particolare, ma per ritrovare la vista confortante delle cose familiari. Ma, tornato sulla Terra, non aveva trovato proprio nessun conforto nel rivedere le antiche cose familiari: anzi, parevano piuttosto squallide. Lo attribuì al fatto di essere stato libero, anzi, di essere stato quasi solo, su un pianeta pressoché spopolato; era prevedibile che ci sarebbe stata una certa scossa, nel riadattarsi a vivere la vita di una talpa tra milioni di talpe.

E invece non c’era stata nessuna scossa. Invece, c’era stata una stranissima mancanza di ogni tipo di sensazione, come se le cose familiari non avessero più avuto il potere di richiamare la sua attenzione. Mentre i giorni passavano, quel torpore intellettuale ed emotivo s’era accentuato, fino a divenire una specie di vertigine, come se egli fosse sul punto di precipitare senza veder nulla a cui aggrapparsi.

Ad un certo punto di questo processo, egli aveva cominciato ad ascoltare le trasmissioni di Egtverchi: per semplice curiosità, gli pareva, entro i limiti in cui si può ricordare una cosa tanto lontana nel tempo. In quelle trasmissioni c’era qualcosa che gli era utile, anche se non avrebbe saputo dire che cosa. Come minimo, a volte Egtverchi lo divertiva. A volte la creatura gli ricordava in modo oscuro che su Lithia, per quanto egli fosse stato lontano dal modo di pensare e dagli scopi degli altri membri della commissione, egli era quasi unico; la cosa era confortante, pur trattandosi di un conforto molto esiguo. E a volte, durante gli attacci più feroci di Egtverchi contro la Terra che era familiare ad Agronski, provava un certo moto di piacere, come se Egtverchi fosse stato qualcuno che si vendicava per lui di nemici nascosti e sconosciuti. Ma la maggior parte delle volte, Egtverchi non riusciva a penetrare l’opaca atmosfera malsana che si era stretta intorno a lui; le trasmissioni erano semplicemente un’abitudine.

Intanto, sempre più spesso si accorgeva di non capire che cosa stessero facendo i suoi colleghi, o, in quei pochi casi in cui lo capiva, gli pareva che si trattasse di qualcosa di assolutamente banale; perché la gente si incatenava a certe assurde routine? Dove volevano andare, di così importante? L’aria di preoccupazione sicura e opaca con cui il troglodita medio si recava al lavoro, passava le ore di lavoro, e tornava nuovamente al proprio angolo nella sua zona bersaglio, gli sarebbe parsa tragica, se gli attori non fossero stati degli zeri così assoluti; la totale immersione delle persone che credevano importanti se stesse o il proprio lavoro gli sarebbe parsa assurda se egli avesse potuto trovare al mondo qualcosa che fosse degno della sua attenzione, ma ormai il sapore si stava allontanando da ogni cosa. Perfino le bistecche, da lui tanto desiderate quando era su Lithia, ormai erano soltanto una delle tante cose da fare: un esercizio di coltello, forchetta, denti e di riposo pomeridiano.

A volte, in brevi guizzi istantanei, gli capitava di invidiare gli scienziati Gesuiti. Essi credevano sempre all’importanza della geologia: un’illusione che ad Agronski pareva appartenere al lontano passato, anche se erano trascorse soltanto poche settimane. Anche la loro religione sembrava costituire per loro una fonte continua di eccitazione intellettuale, soprattutto durante quello, che era l’Anno Santo. Le sue conversazioni con Ruiz-Sanchez, due anni prima, gli avevano insegnato che l’ordine dei Gesuiti è la corteccia cerebrale della Chiesa, che a loro erano affidati i più complessi problemi di morale, di teologia e d’organizzazione. In particolare, ricordava, i Gesuiti avevano la responsabilità di soppesare i problemi politici e di fare le loro raccomandazioni a Roma. E a Fordham, Agronski aveva saputo che quell’anno sarebbe venuta la soluzione, per proclamazione del Santo Padre, d’una delle grandi questioni dogmatiche del Cattolicesimo; paragonabile al dogma dell’Assunzione di Maria Vergine, proclamato un secolo prima; discussioni appassionate, di cui aveva sentito dei frammenti nel refettorio, gli avevano consentito di concludere che i Gesuiti avevano già esposto il loro punto di vista; quella che restava ancora da discutere era la decisione più probabile che Papa Adriano avrebbe definitivamente preso. Il fatto che vi fossero ancora dei dubbi lo sorprese un poco, finché alcuni brani di conversazione, colti in refettorio, gli fecero capire che le decisioni dell’Ordine non erano assolutamente vincolanti. Ad esempio, i Gesuiti dell’epoca si erano vigorosamente opposti alla dottrina dell’Assunzione, nonostante il fatto che fosse una chiara preferenza personale del Papa; il dogma era stato proclamato: la decisione presa in San Pietro era inappellabile.

Nel mondo, apprese Agronski nella sua generale nausea, non c’era nulla che fosse altrettanto certo. Alla fine, i suoi colleghi di Fordham gli parvero altrettanto remoti quanto lo era stato, su Lithia, Ruiz-Sanchez. Nel 2050 la Chiesa Cattolica Romana era sempre la quarta del pianeta come numero di fedeli: dopo Isiam, Buddismo, e le sette Hindi. Dopo il Cattolicesimo veniva il numero confuso delle chiese protestanti, che poteva forse superare i cattolici se si incameravano in esso tutti coloro che nel mondo non avevano una fede ben definita; ed era probabile che agnostici, atei e altri senza interessi, presi come gruppo separato, fossero numerosi almeno come gli ebrei, e forse anche di più. Quanto allo stesso Agronski, egli non apparteneva a nessuno di questi gruppi: si stava allontanando alla deriva; stava lentamente cominciando a dubitare dell’esistenza dell’universo fenomenico stesso, e non poteva indursi a speculare su una cosa, probabilmente irreale, fino a convincersi che aveva importanza l’organizzazione intellettuale che gli veniva imposta sopra, Alto Anglicana o Logico Positivista che fosse. Quando una persona non prova più interesse per le bistecche, che gli importa del modo in cui sono state fatte crescere, macellate, cucinate e servite?

Ora, l’invito alla festa in onore di Egtverchi era quasi riuscito a forare la densa nebbia ch’era calata come una pesante cortina fra lui e il resto del Creato. Aveva creduto che la vista di un Lithiano vivo avrebbe fatto qualche cosa, sebbene non sapesse precisamente che cosa. Senza contare che aveva una gran voglia di rivedere Mike e il Padre, memore di essere stato un tempo loro amico. Ma il Padre era partito e Mike di quanti anni luce s’era allontanato, ora che aveva stretto relazione con una donna (e di tutte le insignificanti ossessioni dell’umanità, Agronski era oggi deciso ad evitare soprattutto la tirannia del sesso). Quanto allo stesso Egtverchi, non si rivelava che una caricatura terrestre e inquietante di ciò che Agronski ricordava dei Lithiani. Disgustato di sé e degli altri, Agronski aveva badato bene a tenersi in disparte dal resto della compagnia e così facendo s’era ubriacato senza rendersene conto. Non ricordava altri particolari del ricevimento, salvo il fatto di fare a pugni con qualcuno in una ampia sala scura, circondata da travi metalliche: come essere all’interno della Torre Eiffel a mezzanotte. Questo ricordo pareva comprendere delle inesplicabili nubi di vapore, e delle scosse che intensificavano la sua nausea, come se lui e il suo anonimo avversario fossero stati calati nell’inferno mediante un pistone idraulico lungo mille chilometri.

Quando s’era svegliato verso mezzodì del giorno dopo, la sua vertigine era aumentata di mille volte, insieme con l’orribile sensazione d’essere destinato a un olocausto, e il peggior mal di testa che ricordasse dal giorno in cui, al primo anno d’università, s’era ubriacato di sherry. Gli ci vollero due giorni per liberarsi dei postumi di tanta intossicazione, ma le sensazioni sgradevoli persistettero. Non poteva sopportare il cibo, le parole sulla carta non avevano senso, non poteva fare un passo dalla sua poltrona senza chiedersi se al passo successivo il mondo non rischiava di capovolgersi o scomparire. Nulla più aveva colore, volume, massa o struttura: le proprietà secondarie delle cose, che avevano continuato a sfuggire dal suo mondo fin da quell’episodio su Lithia, ormai erano fuggite del tutto, e le qualità primarie le stavano seguendo velocemente.

La fine era chiara e prevedibile. Non sarebbe rimasto altro che il minuscolo plesso di abitudini acquisite, al centro del quale sarebbe vissuta quell’entità fuggevole, misteriosa, che era il suo Io. Quando una di queste abitudini lo portò davanti al televisore, facendogli girare la manopola, era troppo tardi per salvare qualcosa. Non c’era più nessuno nell’universo, tranne lui, più nessuno e più niente.

Salvo che, quando lo schermo s’illuminò ed egli non vide apparire Egtverchi, si accorse che perfino quell’Io non aveva più nome. Entro il sottile involucro di una rinunciataria coscienza di sé, non restava altro che un vuoto, così vuoto come un vaso capovolto.