"Guerra al grande nulla" - читать интересную книгу автора (Blish James)

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Ruiz-Sanchez si lasciò cadere in grembo la sottile lettera giunta con la posta aerea, e guardò senza vedere fuori del finestrino del rapido. Il treno aveva lasciato Napoli da un’ora e si trovava a mezza strada da Roma, ma Ruiz non aveva visto nulla di quel paesaggio che per tutta la vita aveva desiderato di conoscere. Ora aveva mal di capo. La scrittura di Michelis era quasi illeggibile. Il chimico doveva aver scritto quella lettera nelle peggiori circostanze che si potessero immaginare.

E dopo che l’emozione aveva peggiorato la calligrafia di Michelis, la fotocopiatrice l’aveva ridotta di dimensioni per farla stare su un singolo foglio di carta ultra-leggera per la posta via missile, e soltanto un uomo che conoscesse quella calligrafia come un assiriologo conosce il cuneiforme poteva sperare di decifrare quelle zampe di gallina.

Dopo qualche istante, Ruiz-Sanchez riprese a leggere da dove si era interrotto. Michelis diceva:


«È per questo che non ho assistito al crollo completo che è poi seguito. Sono ancora in dubbio quanto all’intera responsabilità di Egtverchi: forse i fumi esilaranti della Contessa hanno colpito anche lui, o lo hanno più o meno alterato, poiché il suo metabolismo, tutto sommato, non può essere del tutto differente dal nostro; ma naturalmente voi siete più in grado di me di valutare la cosa. Forse le mie illazioni non hanno alcun fondamento.

«Comunque, non ne so di più sulle devastazioni commesse nei piani inferiori di quel che abbiano detto i giornali. Qualora non li aveste letti, eccovi l’accaduto: Egtverchi e i suoi bravacci, bruscamente spazientiti, sia perché il trenino non avanzava con la velocità che essi avrebbero preferito, sia perché le attrazioni che si potevano vedere da esso non bastavano loro, sono partiti per una spedizione privata, non esitando ad abbattere le pareti divisorie tra le varie stanze, quando non riuscivano ad entrarvi in altro modo. Egtverchi, sebbene ancora abbastanza debole per un Lithiano, è tuttavia altissimo e le pareti divisorie non sembrano avere rappresentato per lui un problema.

«Ciò che è accaduto in seguito è piuttosto confuso e dipende molto dal giornalista di cui ci si fida di più. In base all’idea che ho potuto farmi fra tanti resoconti contraddittori, pare che Egtverchi non abbia fatto male a nessuno e che, se i suoi scherani si sono abbandonati ad atti di violenza, se ne sono prese nella misura in cui ne hanno date. Uno di loro è morto. Vittima principale dell’episodio è la Contessa, completamente rovinata. Alcune delle stanze in cui Egtverchi s’era introdotto e che non si trovavano sul percorso del trenino, ospitavano personaggi d’altro bordo. Essi sono stati scoperti nelle situazioni poco onorevoli previste per loro dai procuratori di gioia della Contessa. Quelli non ancora rovinati dallo scandalo sono decisi a vendicarsi sulla casa d’Averoigne.

«Impossibile naturalmente attaccare il Conte che non era informato di nulla. (A proposito, avete letto l’ultimo articolo di "H.O. Petard"? Molto notevole: grazie a una modifica alle equazioni di Haertel egli dimostra che è possibile vedere aggirando il normale spaziotempo, oltre che viaggiare. Teoricamente si potrebbe fotografare una stella e ottenere un’immagine contemporanea, non vecchia di molti anni luce. Un altro colpo alle teorie del povero vecchio Einstein.) Ma non è già più Procuratore di Canarsie, e se non strapperà in tempo i suoi quattrini dalle mani della Contessa finirà per ritrovarsi nei panni comuni di un troglodita medio. E per il momento nessuno sa dove si trovi e a meno che non abbia già letto i giornali è ormai troppo tardi perché egli possa intraprendere un’azione decisiva. In ogni caso, che egli agisca o non agisca, la Contessa resterà "persona non grata" nel suo ambiente fino al suo ultimo giorno di vita.

«Anche ora, sono incapace di decidere se Egtverchi abbia agito intenzionalmente o se tutto ciò non sia stato che un incidente causato da un eccesso d’impulsività. Egli annuncia che la settimana prossima risponderà agli attacchi dei giornali parlando alla televisione (questa settimana nessuno può vederlo, per ragioni che egli si rifiuta di render note) ma non vedo che cosa potrà dire che gli faccia recuperare una frazione minima della benevolenza di cui godeva prima della festa. È già parzialmente convinto che le leggi terrestri non sono che capricci istituzionalizzati, e il suo pubblico è composto per buona metà di bambini!

«Vorrei che foste il tipo d’uomo solito dire: "Ve l’avevo detto!" Avrei almeno la malinconica consolazione di assentire. Ma è troppo tardi ormai, per tutto questo. Se avete un po’ di tempo libero, scrivetemi, vi prego, per consigliarmi e inviate una lettera espresso. Siamo nei guai fino al collo.

Mike


«P.S. Liu e io ci siamo sposati ieri. Prima di quanto avessimo deciso, ma entrambi abbiamo sentito una inspiegabile necessità di far presto, un’urgenza disperata. Come se qualche evento d’importanza cruciale stesse per verificarsi. Penso che qualcosa infatti stia per accadere. Ma che cosa? Scrivetemi, vi prego. M.»


Ruiz-Sanchez emise un gemito involontario, attirando su di sé gli sguardi distratti dei suoi compagni di viaggio: un polacco con una giubba di pelle di montone, che aveva passato la totalità del viaggio a divorare un formaggio mostruoso e graveolente, un barbuto vedantista hollywoodiano in sandali e tunica di iuta, le cui occupazioni a Roma in un Anno Santo sembravano almeno problematiche.

Il Gesuita chiuse gli occhi per non vederli. Il sole splendeva con un fulgore quasi intollerabile. E dire che Mike perfino la mattina delle nozze non aveva cessato di pensare a quei problemi! Non c’era da stupire che la sua lettera fosse così difficile a leggersi. Riaprì gli occhi: per un attimo vide un boschetto d’olivi fuggire dietro le colline di terra bruciata che si stagliavano sul cielo di un azzurro incredibilmente luminoso. Poi bruscamente, le colline si ammassarono per incombere sopra di lbro, e poi con un fischio il treno si avventò entro una galleria.

Ruiz riprese le lettera, ma le zampe di gallina si confusero penosamente e una fitta improvvisa gli attraversò l’occhio sinistro. Dio Onnipotente, che stesse per divenir cieco? Ma no, che assurdità! Non aveva altro che un po’ di stanchezza agli occhi. Il dolore era dovuto a un’infiammazione del seno sfenoidale sinistro, disturbo che l’aveva colpito fin dalla partenza da Lima per l’umido Nordamerica, e che si era aggravato durante la permanenza su Lithia.

Il suo guaio era la lettera di Michelis, questo era chiaro. Era inutile cercare di accusare gli occhi o la sinusite, che soltanto sostituivano quelle mani che non portavano neppure l’anfora in cui Egtverchi era stato portato al mondo. Nulla rimaneva del suo dono, se non la lettera.

E che risposta poteva dare?

Be’, soltanto ciò che Michelis, ovviamente, stava cominciando a capire da solo: che il motivo della popolarità e del comportamento di Egtverchi risiedevano nel fatto che il Lithiano era mentalmente ed emotivamente un disadattato grave. Era stato privato della normale educazione lithiana, che gli avrebbe insegnato come sia importante sopravvivere in una società essenzialmente predace. Quanto alle norme e alle credenze della Terra, non le aveva assimilate che a metà, e poi Michelis lo aveva costretto a passare direttamente dallo stato di scolaro a quello di cittadino. Ora che aveva avuto occasione di vedere con quale ipocrisia alcune di quelle norme fossero rispettate, esse, per la mentalità rigorosamente logica del Lithiano, non potevano rappresentare nulla di più d’una specie di gioco. (Anche il concetto di gioco era una sua acquisizione terrestre; su Lithia il concetto non esisteva.) Ma non aveva nessun codice morale lithiano su cui ripiegare come alternativa o rifugio, dato ch’era totalmente ignaro della civiltà lithiana, così come era ignaro dei mari, delle savane e delle giungle di Lithia.

Insomma, un bambino lupo.

Il rapido sbucò dalla galleria con la stessa violenza con cui vi era entrato; e di nuovo il bagliore del sole costrinse il Gesuita a chiudere gli occhi. Quando li riaprì, ne fu compensato dalla vista di un’estesa vigna a terrazza. Il treno doveva essere ora nei paraggi di Terracina. Tra breve, con un po’ di fortuna, Ruiz avrebbe potuto vedere il monte Circeo; ma per il momento, quelli che lo interessavano erano i vigneti.

Da quel che aveva potuto osservare finora, le regioni italiane erano molto meno interrate del resto del mondo, e gli italiani passavano in superficie una gran parte della loro esistenza. In complesso, questa situazione era stata causata dalla povertà: nel suo insieme, l’Italia non era stata abbastanza ricca per partecipare alla corsa ai Rifugi su una scala pari a quella degli Stati Uniti. C’era tuttavia un enorme Rifugio a Napoli, e quello che si stendeva nel sottosuolo di Roma era il quarto del mondo; se questo era stato scavato, lo si doveva ai fondi pervenuti da tutto il mondo occidentale, oltre che a una mano d’opera volontaria, soprattutto dopo che i primi scavi profondi avevano rivelato incredibili ricchezze archeologiche.

In parte era anche ostinazione. La popolazione italiana, la quale non aveva conosciuto altra vita che al sole e per il sole, non s’era mai convinta della necessità di trasformarsi in un popolo di talpe. E ciò aveva fatto sì che di tutte le nazioni facenti parte del Rifugio (da cui erano esclusi soltanto i paesi irrimediabilmente depressi o scarsamente popolati) l’Italia fosse la meno compiutamente interrata.

Roma doveva essere dunque la più sana, e di gran lunga, tra le capitali del mondo. Eventualità, pensò ad un tratto Ruiz-Sanchez, che nessuno avrebbe previsto, trattandosi di un complesso fondato nel 753 a.C. da un bambino lupo.

Che ciò fosse soprattutto vero per il Vaticano, il Gesuita non ne aveva mai dubitato, ma la Città del Vaticano non era Roma. Questa riflessione gli ricordò che egli doveva essere ricevuto il giorno dopo in udienza speciale dal Santo Padre, avanti la cerimonia del bacio dell’anello: prima delle dieci, dunque, e probabilmente verso le sette del mattino, dato che il Santo Padre era molto mattutino e in un anno come quello Santo doveva dare udienze quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. Ruiz aveva avuto quasi un mese per prepararsi, perché l’ordine gli era giunto a poca distanza da quello del Collegio, di presentarsi all’Inquisizione; ma si sentiva meno preparato che mai. Si chiese da quanto tempo un Papa non esaminasse personalmente un Gesuita caduto in una palese eresia, e che cosa avesse potuto dire il reo; senza dubbio la trascrizione era conservata nel Vaticano, così com’era stata scritta da qualche cerimoniere papale (assiduo come sempre nel suo dovere verso la storia, come tutti i suoi predecessori) ma Ruiz non avrebbe certamente avuto il tempo di leggerla.

D’altra parte c’erano in serbo per lui abbastanza noie da tenerlo più che occupato. Il problema di orientarsi per la città non era dei minori, tanto per cominciare, e poi c’era quello dell’alloggio. Nessuna delle case religiose lo avrebbe accolto — la voce s’era diffusa — e le sue magre risorse non gli permettevano di scendere a un albergo, anche se (nel caso le cose volgessero al peggio) aveva riservato una camera in uno degli alberghi più cari: forse gli avrebbero consentito di dormire in un ripostiglio… La sola alternativa accettabile era quella di trovare una pensione, impresa tutt’altro che facile, dato che quella trovatagli dall’agenzia era troppo lontana da San Pietro. L’agenzia non aveva potuto far altro che consigliargli di dormire nel Rifugio, soluzione che lui era stato contrario ad adottare. «Dopo tutto — gli aveva detto in tono aggressivo l’impiegato dell’Agenzia, — è un Anno Santo!» Un po’ come se avesse detto: «Non sapete che siamo in guerra?».

Aveva ragione, l’impiegato. Si era in guerra, infatti. Il Nemico si trovava a cinquant’anni luce e nello stesso tempo era alle porte.

Qualcosa lo indusse a guardare la data sulla lettera di Michelis: risaliva, scoprì con stupore e inquietudine, a due settimane prima. Ma il timbro postale era in data odierna, la lettera era stata imbucata infatti soltanto sei ore prima, in tempo per il missile dell’alba in partenza per Napoli. Michelis doveva averla tenuta in tasca per molto tempo; o vi aveva apportato delle aggiunte? Ma la riproduzione fotografica e la riduzione, insieme con l’affaticamento degli occhi di Ruiz, non permettevano di scorgere la differenza.

Dopo un’istante, Ruiz capì tutto il significato di quel ritardo: la risposta di Egtverchi ai giornalisti era stata diffusa dalla televisione già da una settimana e il suo programma stava per essere diffuso di nuovo quella sera!

Il programma di Egtverchi era trasmesso alle tre del mattino, ora di Roma; Ruiz si sarebbe levato prima ancora del Pontefice medesimo. Anzi, pensò tristemente, non avrebbe dormito affatto, quella notte.


Il rapido entrò nella Stazione Termini con cinque minuti d’anticipo. Ruiz non ebbe difficoltà a trovare un facchino, gli diede la mancia universale di mille lire per portare le sue due valigie, e gli fornì alcune istruzioni. L’italiano del sacerdote era sufficiente, ma piuttosto fuori dell’ordinario; il facchino sorrideva deliziato ogni volta che Ruiz apriva la bocca. L’aveva imparato leggendo, in parte Dante, in parte libretti d’opera, e se anche il suo accento era difettoso, in compenso le sue frasi erano molto fiorite: non poteva chiedere dove fosse il fruttivendolo senza dare l’impressione di volersi gettare nel Tevere se non avesse ottenuto la risposta. — Che albergo? — chiedeva il fattorino ogni tre paròle di Ruiz. — Che albergo?

Comunque, sempre meglio che l’atteggiamento dei francesi, incontrato da Ruiz nel corso di un viaggio a Parigi, quindici anni prima. Ricordava ancora un tassista che si era rifiutato di comprendere la sua richiesta di essere portato al Continental Hotel finché egli non ne aveva scritto il nome su un biglietto, dopo di che l’autista aveva detto, fingendo un’improvvisa comprensione: «Ah, ah? Lee Con-ti-nen-TAL?». Aveva poi scoperto che questo atteggiamento era quasi universale in Francia; i francesi volevano far sapere al forestiero che senza un accento perfetto si è totalmente incomprensibili.

Gli italiani, a quanto pareva, preferivano venire incontro al forestiero a metà strada. Il facchino sorrise alla prosa fiorita di Ruiz, ma lo condusse subito a un’edicola di giornalaio, dove egli poté comprare un settimanale nel quale la proporzione di testo che affiancava le fotografie prometteva un sufficiente resoconto di ciò che Egtverchi aveva detto la settimana prima; poi il facchino lo condusse esattamente all’indirizzo che Ruiz gli aveva chiesto. Ruiz gli raddoppiò subito la mancia : una guida così rapida poteva venire utile, ora che il tempo era poco; forse avrebbe nuovamente incontrato l’uomo.

Il facchino l’aveva condotto alla Casa del Passeggero, che godeva fama di essere la migliore istituzione del suo genere in Italia, la qual cosa, come poi scoprì Ruiz, voleva dire che era la migliore del mondo, perché non ci sono in nessun’altra parte del mondo degli istituti esattamente uguali agli alberghi diurni italiani. Là egli poté lasciare i bagagli, leggere la sua rivista e mangiare qualcosa al caffè, farsi tagliare i capelli e lustrare le scarpe, fare un bagno mentre i suoi abiti venivano stirati, e poi cominciare la lunga serie di telefonate che, sperava, gli avrebbero permesso di passare la notte in un letto: preferibilmente lì vicino, ma comunque in qualsiasi posto di Roma che non fosse il Rifugio.

Sorbendo il caffè, nella poltrona del barbiere, e perfino nella vasca da bagno, aveva avuto il tempo di leggere e rileggere il resoconto della trasmissione televisiva di Egtverchi. Il giornalista italiano non riportava esattamente le parole, per ovvie ragioni (Egtverchi aveva parlato per tredici minuti: il resoconto stenografico avrebbe occupato un’intera pagina) ma aveva riassunto tutti i punti salienti della conversazione del Lithiano, senza trascurare un solo concetto, tanto che Ruiz-Sanchez ne rimase impressionato.

Evidentemente, per la sua risposta, Egtverchi aveva raccolto diverse notizie così come gli erano arrivate via radio e senza un criterio preciso; e se n’era servito per lanciare un brillante attacco estemporaneo alla presunzione e alla simulata moralità dei Terrestri. Il filo conduttore era stato riassunto dal giornalista italiano nella frase dell’Inferno dantesco: «Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?», nel grido cioè dei Suicidi, che possono parlare solo quando le Arpie li straziano e il sangue scorre. Il tutto rappresentava un’accusa massiccia che, senza giustificare minimamente la condotta di Egtverchi, volgeva in ridicolo il fatto che potesse esistere uomo talmente senza macchia da avere il diritto di scagliare la prima pietra. Evidentemente, il Lithiano aveva assimilato da cima a fondo la violenta opera di Schopenhauer Norme per la discussione.

Il giornale italiano informava inoltre il suo pubblico che quando la compagnia televisiva aveva creduto opportuno sospendere le trasmissioni del signor Egtverchi, ne era stata impedita da una valanga di telefonate, telegrammi e radiogrammi. Ormai la compagnia televisiva, incoraggiata dalla ditta Bifalco, che finanziava il programma televisivo di Egtverchi, diffondeva quasi ogni ora informazione statistiche, comprovanti che le trasmissioni del Lithiano rappresentavano chiaramente un successo spettacolare. «Il signor Egtverchi — continuava il giornale italiano, — è ormai divenuto il collaboratore più prezioso che esista al mondo. Nessuno più dubita ora che il Lithiano verrà incoraggiato a mostrare ancor più chiaramente quegli aspetti del suo personaggio pubblico per i quali era stato prima condannato. Insomma, questa creatura extraterrestre è divenuta di colpo un’autentica miniera d’oro.»

L’articolo era insieme ben scritto ed eccessivamente acceso (combinazione caratteristica di Roma), ma Ruiz, non avendo il testo della trasmissione, doveva prenderlo così com’era. Tuttavia, sia i sunti del giornalista che la passione del suo linguaggio parevano giustificati: anzi, forse l’uomo aveva minimizzato la situazione.

Ma, almeno a Ruiz, parve di sentire direttamente la voce di Egtverchi. L’accento era familiare e perfetto. E la trasmissione era stata rivolta a un pubblico composto per metà di bambini! Era mai esistito veramente, si chiese il Gesuita, un individuo preciso, chiamato Egtverchi? Se sì, era posseduto dal demonio, ma Ruiz non poté crederlo. Non c’era mai stato un vero Egtverchi che il diavolo potesse possedere. Era da cima a fondo il prodotto dell’immaginazione dell’Avversario, come lo era stato Chtexa, come lo era stato l’intero pianeta di Lithia. Già nel simulacro di Egtverchi Egli aveva abbandonato ogni sottigliezza, già osava mostrarsi nudo; sostenendo menzogne, creando discordia, seminando malanni, corrompendo l’infanzia, uccidendo l’amore, sollevando eserciti…

E tutto ciò durante un Anno Santo!

Ruiz-Sanchez rimase come di pietra, con una mano infilata per metà nella tasca della giacca estiva, lo sguardo alzato al soffitto della stanza. Doveva ancora fare due telefonate, nessuna delle quali al generale del suo Ordine, ma ora aveva cambiato idea.

Era stato incapace, per tutto questo tempo, di interpretare quei segni evidenti… o era invece mentecatto come gli eretici hanno fama di essere? Sì, capace di scorgere un Dies irae nel vapore di un bagno pubblico? Armageddon in TV? L’abisso che si spalanca per far uscire un pagliaccio che diverta i bambini?

Non sapeva. Era sicuro soltanto che per quella notte non avrebbe avuto bisogno di un letto; era di pietre che aveva bisogno. Uscì dalla Casa del Passeggero il più rapidamente possibile, lasciandosi dietro tutto quello che possedeva; trovò da solo la strada. La guida indicava una chiesa su un lato di Piazza della Repubblica, presso le Terme di Diocleziano.

La guida non s’era sbagliata, infatti. Eccola là, la chiesa: Santa Maria degli Angeli. Non si fermò sotto il portico a rinfrescarsi, sebbene il sole del tardo pomeriggio scottasse quasi come quello di mezzogiorno. Domani avrebbe fatto molto più caldo… irrimediabilmente più caldo. Varcò in fretta il portale.

Dentro, nella fredda penombra, s’inginocchiò e, in preda a un terrore glaciale, pregò.

Ma, in fin dei conti, poi non gli parve che la preghiera l’avesse molto sollevato.