"Guerra al grande nulla" - читать интересную книгу автора (Blish James)

CAPITOLO SECONDO

Dalla finestra, ovale, posta sulla facciata della casa dove Cleaver e Ruiz-Sanchez erano sistemati, si vedeva il terreno allontanarsi digradando con insidiosa dolcezza verso la linea indistinta della costa meridionale della Baia Inferiore, compresa nel Golfo di Sfath. Come quasi tutte le linee costiere di Lithia, il terreno era costituito in massima parte da acquitrini salmastri. Con l’alta marea la pianura era ricoperta fino a mezza via dalla casa da circa un metro d’acqua. A marea bassa, come quella sera, la sinfonia della giungla era accresciuta dai lugubri latrati di una sorta di pesci polmonati o dipnoi, spesso a gruppi d’una ventina per volta. Occasionalmente quando la piccola luna appariva piena nel cielo e le luci della città erano particolarmente fulgide, si poteva vedere la sagoma saltellante di qualche anfibio o il procedere sinuoso di un coccodrillo lithiano all’inseguimento di una preda più veloce di lui, ma che nondimeno sarebbe riuscito a catturare, prima o poi.

Più lontano (e di solito invisibile, anche durante il giorno, a causa della foschia dilagante) c’era l’altra costa della Baia Inferiore, che cominciava essa pure con pianure paludose, per poi continuare, al di là degli acquitrini, con la giungla che si spingeva a settentrione per centinaia e centinaia di chilometri, fino al mare equatoriale.

Dietro la casa, e visibile dalla finestra della camera da letto, si stendeva il resto della città, Xoredeshch Sfath, capitale del grande continente australe. Come la maggior parte delle città lithiane, la sua caratteristica che più colpiva un terrestre, era che essa pareva, per così dire, non esserci affatto. Le dimore lithiane erano basse e costruite con la terra ricavata dagli scavi per le fondamenta, così che sembravano essere tutt’uno col terreno circostante, anche agli occhi di un attento osservatore.

Molti degli edifici più antichi avevano forma rettangolare, ed erano costruiti in blocchi di terra pressata, senza calce. Con il passare dei decenni, i blocchi si assestavano e indurivano, e infine era più semplice lasciare inoccupato un edificio che più nessuno voleva, anziché demolirlo. Una delle prime disillusioni dei terrestri su Lithia era nata quando Agronski si era incautamente offerto di radere al suolo un tale edificio col TDX: un esplosivo polarizzato rispetto alla forza di gravità, sconosciuto ai Lithiani, che aveva la proprietà di esplodere lungo un piano orizzontale e che tagliava i profilati d’acciaio come burro. Il magazzino in questione, però, era grande, munito di pareti assai spesse, e aveva tre secoli lithiani (312 anni terrestri). L’esplosione si era svolta con uno schianto che aveva assai turbato i Lithiani, ma una volta spentasi l’eco, il magazzino era ancora in piedi, intatto.

Gli edifici più nuovi erano più appariscenti quando splendeva il sole: soltanto negli ultimi cinquant’anni i Lithiani avevano preso ad applicare all’edilizia le loro vastissime conoscenze sulla lavorazione delle sostanze ceramiche. Le nuove case assumevano migliaia di forme fantastiche — quasi biologiche, veniva voglia di dire — le quali, pur non essendo del tutto amorfe, non erano neppure uguali ad altre forme conosciute; ricordavano forse le costruzioni di sogno del pittore terrestre Dali, fatte con materiali come i fagioli bolliti. Ciascuna era unica, secondo il gusto del proprietario, eppure tutte partecipavano alle caratteristiche della comunità della terra dove erano nate. Anche queste case si confondevano perfettamente con il fondale del terreno e della giungla, ma molte di esse erano smaltate, e luccicavano in modo quasi accecante, per brevi momenti, nelle giornate di sole, quando la luce e l’angolo d’osservazione erano esattamente allineati. Queste macchie ondeggianti di luce, viste dall’alto, avevano indicato ai terrestri dove cercare la vita intelligente nascosta nella sterminata giungla lithiana. (Quanto al fatto che vi fosse vita intelligente sul pianeta, nessuno ne aveva mai dubitato; i tremendi impulsi radio emanati dal pianeta lo rivelavano anche a distanze astronomiche.)

Dalla finestra della camera da letto, Ruiz-Sanchez lanciò un’occhiata verso la città, almeno per la decimillesima volta, mentre si avvicinava all’amaca di Cleaver. Xoredeshch Sfath era per lui una cosa viva: non assumeva mai due volte lo stesso aspetto. La trovava stranamente affascinante. E singolarmente diversa: le città della Terra erano molto diverse tra loro, certo, ma nessuna di esse le assomigliava.

Ruiz-Sanchez esaminò il polso e la respirazione di Cleaver: tutt’e due erano troppo accelerati, anche per Lithia, dove l’alto tenore di anidride carbonica elevava l’acidità del sangue dei terrestri e stimolava i loro riflessi respiratorii. Il Gesuita ritenne comunque che Cleaver non corresse gravi pericoli finché il suo consumo d’ossigeno fosse rimasto all’attuale livello. Per il momento dormiva profondamente, anche se non pacificamente, e non gli avrebbe fatto male essere lasciato solo per un po’.

Certo che se un allosauro selvaggio avesse fatto irruzione nella città… ma era un’eventualità così inverosimile come quella di un elefante in libertà nel centro di Nuova Delhi. Una cosa che poteva accadere, ma che non accadeva mai. E non c’erano, su Lithia, altri animali pericolosi capaci di penetrare in una casa, se questa era chiusa. Nemmeno i ratti (o per meglio dire quegli innumerevoli esseri simili ai Monotremi che ne erano l’equivalente lithiano) potevano infestare quelle case dalle pareti di porcellana.

Ruiz-Sanchez cambiò la caraffa d’acqua fresca nella piccola nicchia presso l’amaca e, tornato nel vestibolo, calzò stivali, impermeabile e cappello da pioggia. Quando aprì la porta di pietra, i rumori notturni di Lithia gli vennero incontro insieme con una folata d’aria marina impregnata di quel caratteristico odore di alogeni che viene detto «odore salmastro». Cadeva una lievissima pioggia, che determinava degli aloni intorno alle luci di Xoredeshch Sfath. In lontananza, sul mare, si vedeva un’altra luce: in movimento, questa. Con ogni probabilità era il battello a ruote che faceva rotta, lungo la costa, per Yllith, l’enorme isola che si stendeva attraverso tutta la Baia Superiore e separava il Golfo di Sfath dal mare equatoriale.

Fuori, Ruiz-Sanchez girò la ruota che sbarrava dall’esterno la porta, facendo uscire delle spranghe su tutta la sua periferia. Poi, trattosi dalla tasca dell’impermeabile un pezzo di gesso, tracciò sulla tavoletta adibita a quell’uso i simboli lithiani che significavano: «Malato in casa». Sarebbe bastato. Chiunque lo avesse desiderato, poteva aprire la porta, semplicemente girando la ruota (i Lithiani non avevano il concetto delle chiavi e delle serrature) ma i Lithiani erano anche creature supremamente sociali, che rispettavano le loro convenzioni come rispettavano le leggi naturali.

Dopo di che, Ruiz-Sanchez si diresse verso il centro della città e l’Albero Messaggero. L’asfalto della strada rispecchiava le luci gialle delle case e quelle bianche dei lampioni, posti a intervalli regolari. Ogni tanto incontrava un Lithiano alto quattro metri, simile a un canguro, e tra di loro correvano sguardi di reciproca curiosità, ma non c’erano molti Lithiani fuori di casa a quell’ora: la sera amavano starsene in casa, dediti ad attività la cui natura sfuggiva al Gesuita. Talvolta li scorgeva, ora isolati, ora a gruppi, muoversi dietro le finestre ovali delle case davanti alle quali stava passando. Alcuni avevano tutta l’aria di parlare.

Di che mai potevano parlare?

Era un quesito interessante. I Lithiani ignoravano il delitto, i giornali, non avevano sistemi di comunicazione fra le case, né arti nettamente differenziate dalle loro industrie, né partiti politici; erano loro parimenti sconosciuti pubblici divertimenti, nazioni, giuochi; non avevano religione, sport, culti, celebrazioni varie. Ciò nonostante non potevano trascorrere ogni minuto della loro vita a scambiarsi cognizioni, a parlare di filosofia e di storia o a fare progetti per l’avvenire! O forse sì? Forse, pensò d’improvviso Ruiz-Sanchez, una volta entrati in quelle loro case simili a vasi di porcellana, i Lithiani piombavano nell’inerzia, come tante acciughe in barile! Ma, proprio mentre formulava questo pensiero, il sacerdote superò un’altra casa, e vide le loro figure muoversi avanti e indietro…

Un refolo di vento gli cosparse il volto di goccioline fredde. Automaticamente, affrettò il passo. Se quella notte ci fosse stato vento, numerosi messaggi sarebbero giunti e partiti dall’Albero Messaggero. Questo ora torreggiava su di lui; era una specie di sequoia gigante, ritta presso l’imboccatura della valle del fiume Sfath, la valle che attraverso numerosi meandri si spingeva fin nel cuore del continente, là dove il Lango di Sangue, o Gleshchtehk Sfath, rigurgitava i suoi torrenti massicci.

Sotto la pressione dei venti che soffiavano lungo la valle, l’Albero si piegava e ondeggiava, appena un po’, ma quel poco bastava. Ad ogni movimento, il sistema delle sue radici, che si estendevano sotto l’intera città, esercitava trazioni e distorsioni nel massiccio cristallino, ormai sepolto, su cui era stata fondata la città, così addietro nella preistoria lithiana come lo era sulla Terra la fondazione di Roma. Ad ognuna di queste pressioni, il massiccio sepolto rispondeva con una vasta pulsazione cardiaca di onde radio: pulsazione intercettabile non solo su Lithia, ma anche a grande distanza nello spazio. I quattro membri del Comitato avevano avvertito le pulsazioni a bordo della loro astronave, quando Alpha arietis, il sole di Lithia, non era ancora che un minuscolo punto di luce, e si erano guardati l’un l’altro, smarrendosi nelle congetture più svariate.

Quelle pulsazioni, tuttavia, non erano altro che rumore. Come i Lithiani riuscissero a modularle per trasmettere messaggi (e non solo messaggi, ma anche la straordinaria rete di navigazione, insieme con un sistema di segnalazione del tempo su scala planetaria e molte altre cose) era un problema così lontano dalla comprensione di Ruiz-Sanchez come poteva esserlo la teoria delle trasformazioni affini insegnata dalla matematica superiore, anche se Cleaver diceva che si trattava di cosa straordinariamente semplice, una volta che la si fosse capita. Aveva a che fare con la fisica dei semiconduttori e dello stato solido: due campi in cui (sempre a quanto affermava Cleaver) i Lithiani erano molto più progrediti dei Terrestri.

Per un’improvvisa associazione d’idee che lo sorprese per un momento, gli venne in mente l’attuale massimo esponente terrestre della teoria delle trasformazioni affini, un uomo che firmava le sue relazioni «H.O. Petard», anche se il suo vero nome (appena più verisimile, del resto) era Lucien Le Comte des Bois d’Averoigne. Ruiz-Sanchez si accorse subito che quell’associazione d’idee non era poi così fortuita come gli era parso dato che Le Comte era un clamoroso esempio dell’alienazione quasi totale della fisica moderna dalle abituali esperienze fisiche dell’umanità. Il suo titolo non era realmente una patente di nobiltà, ma semplicemente una parte del suo nome, conservatosi nella sua famiglia anche molto tempo dopo che il sistema politico che aveva concesso il titolo era scomparso dalla faccia della terra, vittima della divisione del pianeta fra le varie economie dei Rifugi. E il nome stesso rifletteva più onore che il titolo, poiché il conte aveva pretese a una grandeur ereditaria che risaliva fino all’Inghilterra del tredicesimo secolo e a quel Lucien Wycham che era stato autore del Libro di Magie.

Certo, un’eredità legata ad alte cariche ecclesiastiche, ma il moderno Lucien — un cattolico passato all’ateismo — era anche una figura politica, almeno entro i limiti in cui l’economia dei Rifugi offriva rifugio a questo genere di figure; egli aveva l’ulteriore titolo di Procuratore di Canarsie: anche questo un titolo che, a capo di una brevissima riflessione, si rivelava essere un’assurdità, ma che nondimeno lo gratificava di una sua piccola rendita sotto forma di dispensa dal lavoro quotidiano. Il pianeta Terra, affetto da divisioni intestine e profondamente interratosi, era pieno di diciture come questa, incollate su grandi somme di denaro che non sapevano dove andare, ora che la speculazione era morta e il possesso di loro azioni era l’unico modo con cui un cittadino ordinario poteva esercitare un controllo sulle riserve in cui viveva. I detentori di grandi fortune rimasti non avevano altri sbocchi se non quello di consumarle in modi appariscenti, sprecandole su una tale scala di grandezza che lo stesso Veblen non avrebbe saputo trovarne un’altra, ad essa pari, nel passato. Se infatti questi grandi proprietari avessero cercato di esercitare una qualche influenza sull’andamento dell’economia, la loro classe sarebbe stata immediatamente abbattuta: se non dagli azionisti, allora dai cupi difensori delle ormai indifendibili città Rifugio.

Con tutto ciò, non che il conte fosse una sorta di parassita ozioso. Negli ultimi tempi, aveva fatto parlare di sé per certi suoi interventi esoterici nelle equazioni di Haertel: quella descrizione del continuo spazio-temporale che, mangiandosi la contrazione Lorentz-Fitzgerald esattamente come Einstein si era mangiato Newton (cioè, in un boccone) aveva reso possibile il volo intersiderale. Ruiz-Sanchez non ne aveva mai capito una parola, ma, si disse con un sorriso, senza dubbio doveva trattarsi di una cosa semplicissima, appena uno l’avesse capita.

Quasi ogni conoscenza, dopo tutto, rientrava in questa categoria. O era semplicissima appena la si fosse capita, o apparteneva alla fantasia. Da buon Gesuita (Gesuita anche qui, a cinquanta anni luce da Roma) Ruiz-Sanchez sapeva sulla conoscenza qualcosa che Lucien Le Comte des Bois d’Averoigne aveva dimenticato e che Cleaver non avrebbe imparato mai: che ogni conoscenza passa per due fasi: l’annunciazione, quando da semplice rumore essa si trasforma in fatto, e la disintegrazione, quand’essa si trasforma di nuovo in rumore. Il processo che portava dall’una all’altra fase consisteva in una creazione di distinzioni sempre più sottili; l’esito, in una serie infinita di catastrofi per le successive teorie che si andavano formulando.

Il residuo era la fede.


Ritto come un uovo sull’estremità più grossa, l’alto salone dal tetto a cupola, ricavato dalla base stessa dell’Albero Messaggero, ronzava di vita, quando Ruiz-Sanchez vi entrò. Sarebbe stato difficile, tuttavia, immaginare qualcosa di più lontano da un normale ufficio postale terrestre.

Intorno alla circonferenza della base dell’uovo si notava un continuo andirivieni di altissime figure: i Lithiani entravano e uscivano dai numerosi accessi privi di porte, cambiando posto in quel turbine di movimento come elettroni passanti da un’orbita all’altra. Malgrado il numero, le loro voci erano così sommesse che il prete poteva sentire, frammisto al loro mormorio, il fruscio del vento fra i rami dell’Albero a grande altezza sopra il suo capo.

La faccia interna di quell’anello di sagome semoventi era limitata da una specie di rampa di legno nero, polito, ricavata nel tronco stesso dell’Albero. Dall’altra parte di questa divisione, che ricordava irresistibilmente a Ruiz-Sanchez la divisione d’Encke negli anelli di Saturno, una cerchia minuscola di Lithiani riceveva e distribuiva i messaggi, con calma, senza interrompersi un istante, senza mai commettere un errore (almeno, a giudicare dal modo in cui l’altra cerchia continuava nel suo moto) e senza visibile sforzo, affidandosi unicamente alla memoria. Ogni tanto, uno di questi specialisti lasciava la sua cerchia e si avvicinava a uno dei tavoli sparsi sul pavimento in leggero pendio, per conferire col suo occupante. Poi ritornava alla rampa nera. Talvolta invece restava al tavolo, il cui occupante andava in sua vece alla rampa.

Il pavimento era in pendio, così da formare una specie d’imbuto, e in fondo all’imbuto se ne stava ritto un vecchio Lithiano, isolato, le mani tenute a coppa sulle anse auricolari, immediatamente dietro le grandi mascelle, gli occhi ricoperti dalla loro sottile membrana, specie di palpebra nittitante, con esposte soltanto le fosse nasali e quelle post-nasali, sensibili al calore. Il vecchio non parlava a nessuno e nessuno lo consultava, ma la sua immobilità assoluta era evidentemente la sola ragione dei torrenti e contro-torrenti di individui che affluivano lungo l’anello esterno.

Ruiz-Sanchez si fermò, stupefatto. Non era mai venuto prima d’ora all’Albero Messaggero (comunicare con Michelis e Agronski, i due altri Terrestri su Lithia, era stato fino a quel momento uno dei compiti di Cleaver) e si accorse di non avere la più pallida idea di quel che dovesse fare. La scena che si svolgeva sotto i suoi occhi faceva pensare più all’interno di una Borsa che a un centro di comunicazioni. Pareva incredibile che un così gran numero di Lithiani potesse avere messaggi personali urgenti da trasmettere ogni qual volta il vento soffiava; eppure pareva altrettanto improbabile che i Lithiani, con la loro economia stabile, basata sull’abbondanza, avessero qualcosa di equivalente a una Borsa per lo scambio di merci o di titoli azionari.

Non sembrava esservi altra soluzione che spingersi avanti, cercar di raggiungere la rampa di legno nero, e pregare uno dei Lithiani che si trovavano dall’altra parte di cercar di mettersi in comunicazione con Agronski o Michelis. Tutt’al più, si disse, potevano rifiutarsi di aiutarlo; oppure poteva non riuscire ad avere la comunicazione. Trasse un profondo respiro.

In quell’istante, il suo braccio sinistro fu preso nella stretta d’una mano salda a quattro dita, che gli teneva senza difficoltà tutto il braccio, dal gomito alla spalla. Per la sorpresa, emise tutto il respiro che aveva appena accumulato, poi si volse e vide la testa altissima di un Lithiano, china sollecitamente su di lui. Sotto la lunga bocca a forma di tagliola, i bargigli della creatura avevano una tinta acquamarina delicata e curiosa, in contrario con la cresta vestigiale, che era d’uno zaffiro argenteo, percorso da vene fuchsia.

— Voi siete Ruiz-Sanchez — disse il Lithiano nella sua lingua, in cui il nome del Gesuita, a differenza dei suoi compagni, si pronunciava abbastanza facilmente. — Vi ho riconosciuto dalla tonaca.

Ma era stato un puro caso. Ogni terrestre uscito sotto la pioggia con indosso l’impermeabile sarebbe stato preso per Ruiz-Sanchez, perché il sacerdote era l’unico terrestre che dava l’impressione, ai Lithiani, di indossare lo stesso tipo di abito in casa e fuori.

— Infatti, lo sono — rispose Ruiz-Sanchez con una punta d’apprensione.

— Io sono Chtexa, il metallurgista venuto recentemente a consultarvi su problemi di chimica, di medicina, e sulla vostra missione qui, oltre ad altre cose di minor importanza.

— Oh, sì. Sì, naturalmente. Avrei dovuto riconoscervi dalla cresta.

— Troppo onore. Non vi abbiamo mai visto qui, in precedenza. Desiderate parlare con l’Albero?

— Sì — rispose il Gesuita, con gratitudine. — In effetti sono nuovo a queste cose. Potreste dirmi quello che devo fare?

— Volentieri, ma non vi servirebbe a niente — rispose Chtexa, piegando il capo in modo che le sue pupille d’un nero inchiostro si trovassero a fissare direttamente gli occhi di Ruiz-Sanchez. — Occorre avere praticato il rito, che è molto complesso, fino a che non sia diventato un’abitudine. Noi ci siamo cresciuti in mezzo, ai nostri riti, ma io temo che vi manchi la coordinazione necessaria ad eseguirlo al primo tentativo. Se posso, in vece vostra, trasmettere il vostro messaggio…

— Ve ne sarei obbligatissimo. È per i nostri colleghi Agronski e Michelis. Si trovano a Xoredeshch Gton, sul continente nord-orientale, a circa 32 gradi Est, 32 gradi Nord…

— Sì, è il secondo segno di riferimento topografico allo sbocco dei piccoli Laghi, è la città dei vasai, la conosco bene. E che cosa volete comunicare?

— Che devono raggiungerci immediatamente qui, a Xoredeshch Sfath. E che il nostro soggiorno a Lithia è quasi terminato.

— Sebbene sia per me, questa, una notizia spiacevole, la trasmetterò ugualmente — disse Chtexa.

Il Lithiano con un balzo si mescolò al turbine di visitatori, lasciandosi dietro Ruiz-Sanchez, a congratularsi con la sua previdenza che lo aveva indotto a studiare il difficilissimo linguaggio Lithiano. Due dei quattro membri della Commissione avevano rivelato una lamentevole mancanza d’interesse per quella lingua parlata in tutto il pianeta. «Che imparino loro l’inglese» era stato il commento inconsapevolmente classico di Cleaver. Ruiz-Sanchez era stato poco favorevole ad approvare questo punto di vista in quanto la sua lingua materna era lo spagnolo, e in quanto delle cinque lingue straniere che parlava correntemente, l’Alto Tedesco Occidentale era quella che preferiva.

Quanto ad Agronski, il suo atteggiamento era stato sensibilmente più sofisticato. Non che, aveva detto, il Lithiano fosse troppo difficile a pronunciarsi — non era certo più difficile del russo o dell’arabo — ma, in fin dei conti, «è impossibile afferrare i concetti che si nascondono dietro una lingua realmente estranea. Almeno nel poco tempo che dobbiamo passare qui.»

A questi due punti di vista Michelis non aveva mosso nessuna obiezione, ma, con tutta semplicità, s’era messo a studiare la lingua, per imparare almeno a leggerla; e se fosse riuscito poi a parlarla, non ne sarebbe rimasto sorpreso, e tanto meno i suoi colleghi. Era lo stile inconfondibile di Michelis, empirico e nello stesso tempo approfondito. Per quanto riguardava gli altri due modi di affrontare la questione, Ruiz-Sanchez, in cuor suo, pensava che fosse quasi un delitto permettere che degli uomini inviati su un nuovo pianeta per stabilire un primo contatto lasciassero la Terra con degli atteggiamenti mentali così campanilistici. Per comprendere una nuova civiltà, il linguaggio è l’essenziale: se non si comincia dalla lingua, Dio solo sa dove si potrebbe cominciare.

Quanto poi alla predilezione di Cleaver di chiamare i Lithiani «Serpenti», l’opinione che ne aveva Ruiz-Sanchez era tale che l’avrebbe rivelata, e a stento, solo al suo lontano confessore.

Alla luce, poi, di quel che accadeva sotto i suoi occhi in quel salone a forma d’uovo, che poteva pensare Ruiz-Sanchez della condotta di Cleaver nella sua qualità di responsabile delle comunicazioni in seno al Comitato? Egli non aveva potuto certo né trasmettere né ricevere messaggio alcuno tramite l’Albero, come invece aveva dichiarato di aver fatto. Probabilmente non si era mai avvicinato all’Albero più di quanto non si fosse avvicinato, ora, lo stesso Ruiz-Sanchez.

Naturalmente era ovvio che fosse stato in contatto con Agronski e Michelis con qualche mezzo, ma doveva essere stato un mezzo privato: un apparecchio radio trasmittente nascosto nei suoi bagagli, o… ma no, questo non era possibile. Sebbene fosse tutt’altro che un fisico, Ruiz-Sanchez respinse immediatamente questa soluzione; aveva pur sempre un’idea, anche se vaga, delle difficoltà che si sarebbero incontrate utilizzando una radio portatile in un mondo come Lithia, spazzato ininterrottamente su tutte le lunghezze d’onda dalle tremende pulsazioni che l’Albero strappava al massiccio cristallino. Il problema cominciava a preoccuparlo seriamente.

E a un tratto Chtexa fu di ritorno, riconoscibile più che per qualche particolarità anatomica (i suoi bargigli, ora, avevano la stessa tinta scarlatta di quasi tutti gli altri Lithiani della folla) per il fatto che si precipitava sul terrestre.

— Ho inviato il vostro messaggio — disse subito. — È stato registrato a Xoredeshch Gton. Ma gli altri terrestri non ci sono più. Non sono più nella città da parecchi giorni.

Era impossibile. Non più tardi del giorno prima, Cleaver aveva detto di aver parlato con Michelis.

— Ne siete sicuro? — domandò prudentemente.

— Sicurissimo. La casa che abbiamo dato loro è vuota. Le molte cose che essi vi hanno portato non ci sono più. — La grande creatura fece con la mano a quattro dita un gesto come di scusa, prima di soggiungere: — Penso che questa sia una risposta sgradevole per voi. Mi dolgo di dovervela portare. Le parole che mi rivolgeste la prima volta che ci incontrammo erano piene di buone notizie.

— Grazie. Ma non preoccupatevi — disse Ruiz-Sanchez. — Nessuno può tenere responsabile di una risposta il latore della stessa.

— Anche il latore ha le sue responsabilità, almeno, questo è il nostro costume — disse Chtexa. — Nessun atto è interamente libero. E secondo il nostro punto di vista, voi avete perduto qualcosa, a causa della mia comunicazione. Le vostre parole sul ferro si sono rivelate piene d’informazioni preziose. Sarei estremamente lieto di potervi mostrare il modo in cui abbiamo saputo servircene, dato soprattutto che in cambio vi ho portato una cattiva notizia. Se voleste dividere la mia casa questa sera, senza pregiudizio per il vostro lavoro, potrei parlarvi dell’argomento. È possibile?

Ruiz-Sanchez soffocò la sua improvvisa eccitazione. Ecco la prima occasione, finalmente, di vedere qualcosa della vita privata dei Lithiani e attraverso di essa, forse, di avere qualche indizio della vita morale, della parte che Dio aveva assegnato ai Lithiani nell’eterno dramma del male e del bene, in passato e nei tempi a venire. Fino a quando egli non avesse saputo qualcosa di ciò, avrebbe potuto pensare che i Lithiani nel loro Paradiso Terrestre fossero buoni solo d’una bontà spuria: solamente basati sulla ragione, solamente delle macchine pensanti costituite di materia organica, tanti ULTIMAC forniti di coda… e privi di anima.

Restava tuttavia il triste fatto di aver lasciato, solo in casa, un uomo malato. Non c’erano molte probabilità che Cleaver si svegliasse prima del mattino seguente: gli aveva somministrato quasi quindici miligrammi di sedativo per ogni chilo di peso del suo corpo. Ma i malati, come i bambini, hanno reazioni che sfidano ogni regola. Se la massiccia carcassa di Cleaver avesse respinto quella dose, in forza di qualche crisi anafilattica impossibile a dominarsi in una fase così precoce della malattia, avrebbe necessitato di un’assistenza immediata. O almeno avrebbe sentito il bisogno di udire il suono di una voce umana, su quel pianeta che egli detestava e che lo aveva colpito quasi senza accorgersi della sua esistenza.

Tuttavia, il pericolo che Cleaver correva non era grave. Certamente non aveva bisogno di un’assistenza ininterrotta, un minuto dopo l’altro. E in fin dei conti, Cleaver non era un bambino, ma un pezzo d’uomo forte e robusto, e che non disdegnava di mostrarsi tale.

Inoltre, esisteva anche una cosa chiamata eccesso di devozione: una forma di orgoglio che colpiva i pii, e la Chiesa aveva scoperto da molto tempo che era assai difficile farne loro comprendere la natura. Nel caso peggiore, questo eccesso di devozione produceva i santi da ospedale, la cui attrazione per le cose più fastidiose e nocive richiama alla mente la venerazione tributata da talune sette Hindi agli insetti e ad altre repellenti forme di vita… o gli stiliti alla maniera di san Simone, i quali — pur essendo, senza dubbio, accetti a Dio — hanno fatto per secoli una pessima pubblicità alla Chiesa. E, in verità, Cleaver si era davvero meritato il genere di devozione che Ruiz-Sanchez si era proposto di dedicargli, almeno fino al presente momento, occupandosi di lui in quanto creatura di Dio… o, con maggior precisione, in quanto creatura che partecipava del divino?

Davanti a sé, egli aveva un intero pianeta, un intero popolo, no, meglio ancora, un intero problema teologico, una soluzione imminente al vasto e tragico enigma del peccato originale! Che dono da portare ai piedi del Santo Padre in occasione di un Giubileo, un dono infinitamente più grande, più solenne di quel che fosse stata la proclamazione della conquista dell’Everest per l’incoronazione di Elisabetta II d’Inghilterra!

Sempre che, naturalmente, questo fosse il risultato definitivo dello studio di Lithia. Sul pianeta non mancavano indizi secondo cui qualcosa di molto diverso, e temibile più d’ogni altra cosa, sarebbe potuto emergere dalle prolungate meditazioni di Ruiz-Sanchez. Nemmeno la preghiera aveva ancora avuto il potere di risolvere questo dubbio. Ma aveva il diritto, lui, di sacrificare una tale possibilità per amore di Cleaver?

Tutta una vita di meditazione su tali casi di coscienza aveva abituato Ruiz-Sanchez, al pari di molti altri brillanti membri del suo ordine, ad aprirsi rapidamente la via verso una decisione, tra i più complessi labirinti etici. Tutti i cattolici devono essere dedicati alla propria missione; ma un Gesuita deve essere, anche, agile.

— Grazie — disse con voce malferma. — Sarò molto lieto di dividere la vostra casa.