"La svastica sul sole" - читать интересную книгу автора (Dick Philip K.)CAPITOLO PRIMODa una settimana il signor R. Childan teneva d’occhio ansiosamente la posta. Ma il prezioso pacchetto inviato dagli Stati delle Montagne Rocciose non era ancora arrivato. Il venerdì mattina, quando aprì il negozio e vide sul pavimento solo lettere pensò: Si versò una tazza di tè istantaneo dal distributore a parete da cinque centesimi, poi prese una scopa e cominciò a spazzare; ben presto l’ingresso venne ripulito e il negozio Manufatti Artistici Americani, tutto tirato a lucido, era pronto per una nuova giornata, con il registratore di cassa pieno di spiccioli, un vaso di calendule fresche e la radio che suonava musica in sottofondo. All’esterno gli uomini d’affari percorrevano veloci il marciapiede diretti verso i loro uffici di Montgomery Street. In lontananza passò un tram a funicolare; Childan si soffermò a guardarlo con vivo compiacimento. Donne nei loro lunghi abiti di seta colorata… rimase a guardare anche loro. Poi il telefono suonò e Childan si voltò per rispondere. «Sì,» disse una voce familiare appena sollevò il ricevitore. Il cuore di Childan ebbe un sussulto. «Qui parla il signor Tagomi. Non è ancora arrivato il mio bando di reclutamento della Guerra Civile, signore? La prego di ricordare, me lo aveva promesso circa una settimana fa.» La voce brusca, risentita, sfiorava i limiti della buona educazione e delle regole di cortesia. «Non le ho forse dato un anticipo, signor Childan, signore, quando abbiamo concluso l’accordo? Questo deve essere un regalo, capisce? Gliel’ho spiegato. Un regalo per un cliente.» «Ho effettuato delle ricerche accurate sull’oggetto che le avevo promesso, signor Tagomi, signore. A mie spese,» cominciò Childan. «Infatti come lei ben sa, non è originano di questa regione e perciò…» Ma Tagomi lo interruppe: «Quindi non è arrivato.» «No, signor Tagomi, signore.» Una pausa gelida. «Non posso aspettare ulteriormente,» disse Tagomi. «No, signore.» Childan guardò stupidamente, oltre la vetrina del negozio, la giornata calda e luminosa e i palazzi di San Francisco. «Allora mi trovi qualcosa che lo sostituisca. Che cosa suggerisce, signor Chil «Ecco…» riuscì a farfugliare. «Una zangola per il burro. Una gelatiera del 1900 circa.» Il suo cervello si rifiutava di pensare. Proprio quando te ne dimentichi; proprio quando ti prendi in giro da solo. Aveva trentotto anni e ricordava i giorni prima della guerra. Altri tempi. Franklin D. Roosevelt e l’Esposizione Mondiale; il vecchio mondo migliore. «Potrei portarle in ufficio qualche esemplare interessante?» mormorò. Si accordarono per le due del pomeriggio. Sentendosi un po’ malfermo sulle gambe, si accorse che qualcuno era entrato nel negozio: una giovane coppia, un ragazzo e una ragazza, attraenti e ben vestiti. Una coppia ideale. Childan si calmò e si diresse in modo deciso e professionale verso di loro, sorridendo. Si erano chinati per osservare una vetrina accanto alla cassa e avevano preso un magnifico posacenere. «Salve,» disse, e si sentì meglio. I due gli sorrisero con gentilezza, senza la minima aria di superiorità. I suoi oggetti, che erano davvero i migliori del genere in tutta la Costa, li avevano un po’ spaventati; lui se ne accorse e gliene fu grato. Loro capirono. «Degli esemplari davvero magnifici, signore,» disse il giovane. Childan si inchinò spontaneamente. I loro occhi, caldi non solo di umanità ma della gioia condivisa per gli oggetti d’arte che lui vendeva, dei loro gusti e soddisfazioni reciproche, si fissarono su di lui; lo stavano ringraziando perché possedeva cose come quelle, che loro potevano vedere, prendere in mano ed esaminare, magari senza nemmeno acquistarle. «I suoi orecchini,» mormorò Childan. «Li ha forse acquistati qui?» «No,» rispose lei. «In patria.» Childan annuì. Niente arte contemporanea americana; solo il passato poteva essere rappresentato lì, in un negozio del genere. «Avete intenzione di trattenervi a lungo?» le domandò. «Nella nostra San Francisco?» «Io sono di stanza qui, a tempo indeterminato» rispose l’uomo. «Lavoro alla Commissione di Indagine per la Pianificazione del Livello di Vita nelle Zone Sinistrate.» Il suo volto tradiva un certo orgoglio. Ma non era un militare. Uno di quegli zotici in divisa che masticavano gomma, con le loro facce avide da contadino, che se ne andavano a zonzo per Market Street guardando a bocca aperta gli spettacoli osceni, i film erotici, il tiro a segno, i locali notturni da quattro soldi con fotografie di biondone di mezza età che si stringevano i capezzoli fra le dita rugose e rivolgevano sorrisi lascivi al passante… i quartieri più malfamati che costituivano gran parte della zona pianeggiante di San Francisco, baracche di lamiera e di legno che erano già spuntate dalle rovine ancor prima che cadesse l’ultima bomba. No… quell’uomo faceva parte dell’élite. Colto, educato, anche più del signor Tagomi, il quale era in fondo un alto funzionario addetto alla Missione Commerciale della Costa del Pacifico. Tagomi era un uomo anziano, e la sua mentalità si era formata ai tempi del Gabinetto di Guerra. «Cercavate oggetti d’arte etnica della tradizione americana per fare un regalo?» chiese Childan. «O magari volete arredare il nuovo appartamento per la vostra permanenza in questa città?» «Ha proprio indovinato,» rispose la ragazza. «Stiamo cominciando ad arredare. Ma non abbiamo ancora le idee chiare. Lei pensa di poterci consigliare?» «Potrei venire nel vostro appartamento, sì,» disse Childan. «Portare diversi esemplari e darvi dei consigli, con vostro comodo. Questa, naturalmente, è la nostra specialità.» Abbassò gli occhi in modo da nascondere la speranza. Poteva essere un affare da migliaia di dollari. «Sto per ricevere un tavolo in acero del New England, tutto con incastri in legno, senza chiodi. Un oggetto di bellezza e valore straordinari. E uno specchio che risale alla Guerra del 1812. Ho anche degli oggetti d’arte aborigena: un gruppo di tappeti in lana di capra, tinto con colori vegetali.» «Per quanto mi riguarda,» disse l’uomo, «preferisco l’arte delle città.» «Sì,» disse Childan, premuroso. «Mi ascolti, signore. Ho un pannello proveniente da un vecchio ufficio postale, originale in legno, quattro sezioni, dipinto da Horace Greeley. Un pezzo da collezionista dal valore inestimabile.» «Ah,» esclamò l’uomo, con gli occhi neri che brillavano per l’interesse. «E una radio Victrola del 1920 adattata a mobiletto per i liquori.» «Ah.» «E ascolti, signore: L’uomo sgranò gli occhi. «Vogliamo accordarci?» disse Childan, rendendosi conto che era il momento psicologicamente adatto. Estrasse dalla tasca interna della giacca una penna e un taccuino. «Prenderò il vostro nome e indirizzo, signori.» Dopo, mentre la coppia usciva dal negozio, Childan rimase in piedi con le mani dietro la schiena, a guardare la strada. Gioia. Se tutti i giorni fossero come quello… ma era ben più di una questione di affari, del buon andamento del suo negozio. Era l’occasione per conoscere socialmente una giovane coppia giapponese, che lo accettava come uomo invece che come Eppure tremava dalla paura, immaginandosi mentre bussava alla loro porta. Controllò i suoi appunti. I signori Kasoura. Sarebbe stato ricevuto, e certamente gli avrebbero offerto del tè. Lui si sarebbe comportato nel modo giusto? Avrebbe saputo come muoversi, come parlare, in ogni momento? O sarebbe caduto in disgrazia, come un animale, commettendo qualche sciagurato passo falso? La ragazza si chiamava Betty. Quanta comprensione nel suo volto, pensò Childan. Occhi gentili, in grado di capire. Senza dubbio, anche nel breve tempo che si era trattenuta nel negozio, lei aveva colto l’immagine delle sue speranze e delle sue sconfitte. Le sue speranze… all’improvviso ebbe come un senso di vertigine. Quali aspirazioni aveva, ai confini della follia se non del suicidio? Ma si sapeva, esistevano relazioni fra giapponesi e Si accorse che le sue mani tremavano ancora. Poi gli venne in mente l’appuntamento delle due con il signor Tagomi; a quel pensiero, le mani smisero di tremare e il nervosismo si trasformò in risolutezza. Per farsi venire l’ispirazione, si accese una sigaretta alla marijuana, un eccellente tabacco Land-O-Smiles. Nella sua stanza di Hayes Street, Frank Frink era a letto e si domandava come avrebbe fatto ad alzarsi. Il sole filtrava attraverso la tapparella sul mucchio di vestiti caduti a terra. Insieme ai suoi occhiali. Li avrebbe calpestati? Meglio tentare di raggiungere il bagno facendo un’altra strada, pensò. Strisciando o rotolando. Aveva un gran mal di testa ma non si sentiva triste. Il giorno prima, in fabbrica, aveva commesso un errore. Si era rivolto nella maniera sbagliata al signor Wyndham-Matson, il quale aveva un viso schiacciato e un naso simile a quello di Socrate, un anello con diamante e la lampo dei pantaloni d’oro massiccio. In altre parole, un potente. Un trono. I pensieri di Frank vagavano senza lucidità. E adesso avrebbe dovuto comparire di fronte alla Commissione di Giustificazione dei Lavoratori per una revisione della sua categoria d’impiego. Visto che non era mai riuscito a comprendere i rapporti fra Wyndham-Matson e i La sua testa continuava a elaborare piani mentre lui se ne stava a letto fissando il vecchio lampadario sul soffitto. Per esempio, poteva introdursi clandestinamente negli Stati delle Montagne Rocciose. Ma c’erano rapporti molto stretti con gli Stati Americani del Pacifico, e avrebbero potuto chiedere la sua estradizione. Il Sud, allora? Il suo corpo ebbe un sussulto. Ugh. Quello no. Come bianco avrebbe avuto a disposizione un’ampia varietà di posti, in effetti più di quelli di cui poteva godere negli S.A.P. Ma… quel genere di posti non gli andava a genio. E poi, peggio ancora, il Sud intratteneva strettissimi legami economici, ideologici e Dio sa che altro, con il Reich. E Frank Frink era ebreo. Il suo vero nome era Frank Fink. Era nato sulla Costa Orientale, a New York, e nel 1941 era stato arruolato nell’Esercito degli Stati Uniti d’America, subito dopo il crollo della Russia. Quando i giap avevano preso le Hawaii, lo avevano spedito sulla Costa Occidentale. Alla fine della guerra si era ritrovato lì, sul lato giapponese della linea di divisione. E si trovava ancora lì, quindici anni dopo. Nel 1947, il Giorno della Capitolazione, era quasi impazzito. Provava un odio viscerale per i giapponesi e aveva giurato vendetta; aveva sepolto trenta centimetri sottoterra, in una cantina, le sue armi d’ordinanza, ben avvolte e oliate, pronte per il giorno in cui lui e i suoi compagni sarebbero insorti. Comunque il tempo si era rivelato la miglior medicina, cosa che lui non aveva preso in considerazione. Se adesso ripensava a quell’idea, il grande bagno di sangue, l’epurazione dei Ma aspetta. C’era un tizio, un certo signor Omuro, che aveva assunto il controllo di una vasta area di proprietà immobiliari, nel centro di San Francisco, e che per un certo tempo era stato il padrone di casa di Frank. Un gran figlio di buona donna, pensò. Uno squalo che non provvedeva mai alle riparazioni, che divideva le stanze ricavandone altre stanze sempre più piccole, che alzava i prezzi degli affitti… Omuro aveva spolpato i poveri, soprattutto gli ex militari senza lavoro e quasi senza risorse durante la depressione all’inizio degli anni 50. Comunque era stata una delle missioni commerciali giapponesi che aveva chiesto la testa di Omuro per i suoi profitti eccessivi. E al giorno d’oggi una simile violazione della legge civile giapponese, rigida e severa, ma giusta, era impensabile. Era un credito da ascrivere all’incorruttibilità dei funzionari giapponesi di occupazione, specialmente di coloro che erano giunti dopo la caduta del Gabinetto di Guerra. Ricordando l’austera, stoica onestà delle missioni commerciali, Frink si sentì rassicurato. Anche Wyndham-Matson sarebbe stato allontanato come una mosca fastidiosa, che fosse proprietario o meno della W-M Corporation. O almeno, così sperava. Si alzò dal letto e si diresse faticosamente verso il bagno. Mentre si lavava e si radeva ascoltò alla radio il notiziario di metà mattina. «Non deridiamo quest’impresa,» stava dicendo la radio quando lui chiuse per un attimo l’acqua calda. La radio diceva, «La Civiltà della Prosperità Comune deve fare una pausa e domandarsi se, nella nostra ricerca per fornire una equilibrata parità di doveri e responsabilità reciproche in relazione alle retribuzioni…» Il gergo tipico della gerarchia dominante, notò Frink. «…non abbiamo mancato di individuare l’arena futura in cui gli affari dell’uomo verranno decisi, che si tratti di nordici, giapponesi o negroidi…» E così via su questo tono. Mentre si vestiva, rimuginò compiaciuto la sua satira. In ogni caso, era un dato di fatto: il Pacifico non aveva fatto niente per colonizzare i pianeti. Si era immischiato — anzi inguaiato — con il Sud America. Mentre i tedeschi erano impegnati a lanciare nello spazio enormi sistemi di costruzione robotizzati, i giap continuavano a bruciare la giungla all’interno del Brasile, costruendo palazzoni d’argilla di otto piani per gli ex cacciatori di teste. Nel momento i cui i giapponesi fossero riusciti a far sollevare da terra la loro prima astronave, i tedeschi avrebbero già avuto il controllo dell’intero sistema solare. Nei tempi descritti dagli antichi libri di storia, i tedeschi erano arrivati in ritardo, mentre il resto dell’Europa dava gli ultimi ritocchi ai suoi imperi coloniali. Ma stavolta, rifletté Frink, non sarebbero arrivati per ultimi: avevano imparato la lezione. Poi pensò all’Africa e all’esperimento che i nazisti stavano portando avanti laggiù. E il sangue gli si fermò nelle vene, ebbe un attimo di esitazione, poi riprese a scorrere. Quell’immensa, vuota desolazione. La radio diceva, «…comunque dobbiamo considerare con orgoglio il nostro interesse per le fondamentali esigenze fisiche delle popolazioni di tutto il mondo, per le loro aspirazioni subspirituali che devono essere…» Frink spense la radio. Poi, non appena si fu calmato, la riaccese. Quel pensiero lo fece inorridire: l’antico, gigantesco cannibale, quasi-uomo, che adesso prosperava, ed era tornato a governare il mondo. «…possiamo deplorare,» stava dicendo la radio, la voce dei piccoli ventri gialli di Tokyo. Seduto sul letto, con una tazza di tè tiepido, Frink tirò fuori la sua copia dell’ Disse ad alta voce: «Come devo rivolgermi a Wyndham-Matson in modo da raggiungere con lui un accordo soddisfacente?» Scrisse la domanda sul blocco di carta, poi cominciò a muovere gli steli di millefoglie da una mano all’altra finché non ottenne la prima linea, l’inizio. Un otto. Questo già eliminava la metà dei sessantaquattro esagrammi. Divise gli steli e ottenne la seconda linea. Ben presto, esperto com’era, ebbe tutte e sei le linee; l’esagramma era davanti a lui e non ebbe bisogno di consultare il libro. Era in grado di riconoscerlo come l’Esagramma Quindici. Eppure provò una certa delusione. C’era qualcosa di fatuo nell’Esagramma Quindici. Troppo prevedibile. Doveva per forza essere modesto. Ma forse c’era un’idea, dietro tutto ciò. In fin dei conti lui non aveva alcun potere sul vecchio W-M. Non poteva imporgli di riassumerlo. Tutto ciò che poteva fare era adottare il punto di vista dell’Esagramma Quindici; era quel momento particolare in cui ci si doveva limitare a far domande, sperare e aspettare fiduciosi. Al momento giusto il cielo lo avrebbe risollevato al suo vecchio lavoro o forse anche a qualcosa di meglio. Non c’erano linee da leggere, nessun nove e nessun sei. Era un esagramma statico. Perciò aveva finito. Non poteva diventare un secondo esagramma. Ma allora, ecco una nuova domanda. Si preparò e disse a voce alta: «Rivedrò Juliana?» Era sua moglie, anzi la sua ex moglie. Juliana aveva divorziato da lui un anno prima, e non la vedeva da mesi; anzi non sapeva nemmeno dove abitasse. Evidentemente aveva lasciato San Francisco, forse gli stessi S.A.P. Neanche i suoi migliori amici avevano sue notizie, o forse non volevano riferirgliele. Maneggiò laboriosamente gli steli di millefoglie, con gli occhi fissi sul punteggio. Quante volte aveva fatto domande su Juliana, in un modo o nell’altro? Ecco l’esagramma, formato dal passivo movimento casuale dei bastoncini. Casuale, eppure radicato nel momento in cui lui viveva, in cui la sua vita era legata a tante altre vite e particelle dell’universo. Il necessario esagramma che tratteggiava, nel suo schema di linee intere e spezzate, la L’esagramma. Il suo cuore ebbe un sussulto. Quarantaquattro. Kou. Il Farsi incontro. Il suo giudizio raggelante. Juliana… la donna più bella che avesse mai sposato. Ciglia e capelli nerissimi, tracce consistenti di sangue spagnolo distribuito come puro colore, perfino nelle labbra. Un’andatura elastica, silenziosa; ai piedi scarpe sportive, un ricordo del liceo. In realtà ogni suo capo d’abbigliamento aveva un aspetto sciupato, e dava la netta impressione di essere vecchio e lavato più volte. Tutti e due erano stati così poveri che, malgrado la sua bella figura, Juliana era stata costretta a indossare una camicetta di cotone, una giacca di tela con chiusura lampo, una gonna marrone di tweed e calze fino al ginocchio, e odiava sia lui che quell’abbigliamento perché, diceva, la faceva sembrare come una donna che giocasse a tennis o (peggio ancora) che andasse a raccogliere funghi nei boschi. Ma al di là di tutto, era stato inizialmente attratto dalla sua espressione singolare; senza una ragione particolare, Juliana accoglieva gli estranei con un portentoso, imbarazzante sorriso da Monna Lisa che li lasciava in sospeso tra reazioni contrastanti, indecisi se salutare o no. E lei era così attraente che il più delle volte decidevano di salutare, mentre Juliana si dileguava. Inizialmente lui aveva pensato che si trattasse di un semplice problema visivo, ma alla fine aveva deciso che tradiva invece una profonda, intima stupidità, altrimenti ben nascosta. E così, in conclusione, quel suo modo sfarfallante di salutare gli estranei gli era venuto a noia, così come quel suo modo di andare e venire senza rumore, senza apparente movimento, del tipo devo-fare-qualcosa-di-misterioso. Ma anche allora, verso la fine, lui non l’aveva mai vista se non come una invenzione diretta, letterale di Dio, calata nella sua vita per motivi che non avrebbe mai conosciuto. E per quella ragione — per una specie di intuizione religiosa, o per una grande fede in lei — non riusciva a darsi pace per averla perduta. Adesso sembrava così vicina… come se fossero ancora insieme. Quello spirito, ancora vivo e presente nella sua vita, che frugava nella sua stanza in cerca di… di qualunque cosa Juliana stesse cercando. E dentro la sua mente, ogni volta che prendeva i volumi dell’oracolo. Seduto sul letto, circondato da un desolato disordine, mentre si preparava per uscire e cominciare la sua giornata, Frank Frink si domandò chi mai in quello stesso momento, nella vasta, complessa città di San Francisco, stesse consultando l’oracolo. E se tutti ottenevano il suo stesso triste responso. E il tenore del Momento era negativo per loro come per lui? |
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