"La svastica sul sole" - читать интересную книгу автора (Dick Philip K.)CAPITOLO SECONDOIl signor Nobosuke Tagomi stava consultando il divino Quinto Libro della Saggezza Confuciana, l’oracolo taoista chiamato da secoli Il gruppo di uffici al ventesimo piano del Nippon Times Building in Taylor Street dominava la Baia. Dalla finestra poteva osservare le navi che entravano, passando sotto il Golden Gate. Proprio in quel momento si vedeva un mercantile al di là di Alcatraz, ma il signor Tagomi non se ne curò. Andò verso la parete, sciolse la cordicella e abbassò la tapparella di bambù, coprendo la finestra. Il vasto ufficio centrale divenne più buio; adesso non doveva più socchiudere gli occhi per ripararsi dal riverbero. Adesso poteva riflettere con maggiore lucidità. Non aveva la possibilità, decise, di soddisfare il suo cliente. Qualunque cosa gli avesse portato il signor Childan, il suo cliente non ne sarebbe stato impressionato. Ben presto il cliente avrebbe raggiunto l’aeroporto di San Francisco a bordo del nuovo razzo tedesco, l’esclusivo Messerschmitt 9-E. Il signor Tagomi non era mai salito a bordo di un velivolo come quello. Al momento dell’incontro con il signor Baynes, sarebbe dovuto stare attento a simulare indifferenza, per quando grande si potesse rivelare il razzo. Essenziale evitare discorsi politici. Perché lui non conosceva le opinioni del signor Baynes sulle questioni attuali più importanti. Dentro il fascicolo sulla scrivania c’era un ritaglio del New York Times di un recente discorso del signor Baynes. Tagomi lo studiò scrupolosamente, chinandosi in avanti a causa di un leggero difetto delle sue lenti a contatto. Il discorso aveva a che fare con la necessità di effettuare ulteriori esplorazioni (era la novantottesima volta?) in cerca di sorgenti d’acqua sulla Luna. «Possiamo ancora risolvere questo lacerante dilemma,» diceva l’articolo, citando le parole del signor Baynes. «È il corpo celeste più vicino a noi, eppure è anche il più avaro di soddisfazioni, a parte lo sfruttamento a scopi militari.» Premendo il pulsante del citofono disse: «Signorina Ephreikian, la prego di venire qui con il registratore.» La porta esterna dell’ufficio scivolò di lato e apparve la signorina Ephreikian, quel giorno piacevolmente adorna di fiori azzurri fra i capelli. «Lillà,» osservò il signor Tagomi. Un tempo, quando ancora viveva a Hokkaido, in Giappone, aveva esercitato la professione di coltivatore di fiori. La signorina Ephreikian, una ragazza armena alta, dai capelli castani, fece un inchino. «È pronta con lo Zip-Track Speed Master?» le domandò il signor Tagomi. «Sì, signor Tagomi.» La signorina Ephreikian si sedette, con il registratore portatile a batteria pronto all’uso. Il signor Tagomi cominciò: «Ho domandato all’oracolo se il mio incontro con il signor Childan sarebbe stato vantaggioso, e con mio grande sgomento ho ottenuto in risposta il minaccioso esagramma “La Preponderanza del grande”. La trave maestra si piega. Troppo peso nel mezzo; tutto fuori equilibrio. Chiaramente lontano dal Tao.» Il registratore ronzava. Il signor Tagomi fece una pausa, riflettendo. La signorina Ephreikian lo guardò, in attesa. Il ronzio cessò. «Faccia accomodare un momento il signor Ramsey, per favore,» disse Tagomi. «Sì, signor Tagomi.» La ragazza si alzò, appoggiando il registratore; mentre usciva dall’ufficio i suoi tacchi risuonarono sul pavimento. Apparve il signor Ramsey con una grossa cartella di bolle di carico sotto il braccio. Giovane, sorridente, si fece avanti: indossava una elegante cravatta a stringa, tipica delle pianure del Midwest, una camicia a scacchi e dei blue jeans attillati e senza cinta, considerati molto esclusivi da coloro che seguivano l’ultima moda. «Come va, signor Tagomi?» disse. «È proprio una bella giornata, signore.» Il signor Tagomi fece un inchino. Il signor Ramsey si irrigidì all’improvviso e si inchinò anche lui. «Ho consultato l’oracolo,» disse il signor Tagomi, e la signorina Ephreikian tornò a sedersi, riprendendo il registratore. «Lei si rende conto che il signor Baynes, che come sa bene, arriverà di persona fra poco, fa riferimento all’ideologia nordica in merito alla cosiddetta cultura orientale. Io potrei fare lo sforzo di abbagliarlo e di favorirne una migliore comprensione con autentici capolavori dell’arte grafica cinese o con ceramiche del nostro periodo Tokugawa… ma il nostro compito non è quello di convertire la gente.» «Capisco,» disse il signor Ramsey; il suo viso caucasico era deformato per lo sforzo dovuto alla concentrazione. «Perciò noi terremo conto del suo pregiudizio e gli offriremo invece un prodotto americano di grande valore.» «Sì.» «Lei, signore, è di discendenza americana. Benché si sia preso il disturbo di scurire il colore della sua pelle.» Fissò intensamente il signor Ramsey. «L’abbronzatura è merito della lampada solare,» mormorò Ramsey. «Solo per acquisire un po’ di vitamina D.» Ma la sua espressione umiliata era eloquente. «Le assicuro che ho autentiche radici…» Ramsey si impappinò. «Non ho troncato tutti i legami con… con i modelli etnici indigeni.» Il signor Tagomi disse alla signorina Ephreikian, «Riprenda, prego.» Il registratore ricominciò a ronzare. «Consultando l’oracolo e ottenendo l’Esagramma Ta Kuo, Ventotto, ho anche ricevuto la sfavorevole linea nove. Essa dice: «Questo indica chiaramente che alle due il signor Childan non avrà nulla di degno da offrirci.» Il signor Tagomi fece una pausa. «Diciamo la verità. Non posso fare affidamento sul mio giudizio per quanto riguarda gli oggetti d’arte americana. Ecco perché…» Esitò a lungo, prima di scegliere le parole. «Ecco perché lei, signor Ramsey, che è diciamo così un indigeno per nascita, mi è necessario. Ovviamente dobbiamo fare del nostro meglio.» Ramsey non sapeva che cosa replicare. Ma nonostante i suoi sforzi di nasconderlo, i suoi lineamenti tradivano un’ira risentita, una reazione muta e frustrata. «Adesso,» riprese il signor Tagomi. «Ho consultato ancora l’oracolo. Per motivi di riservatezza non posso rivelarle la domanda, signor Ramsey.» In altre parole, il suo tono voleva dire, lei e tutti i Il signor Ramsey e la signorina Ephreikian lo guardarono con grande attenzione. «Riguarda il signor Baynes,» disse Tagomi. Essi annuirono. «La mia domanda a proposito del signor Baynes ha prodotto, attraverso l’imperscrutabile opera del Tao, l’Esagramma Sheng, Quarantasei. Un buon responso. E la linea sei all’inizio e nove al secondo posto.» La sua domanda era stata: «riuscirò a trattare con il signor Baynes in modo proficuo?» E il nove al secondo posto lo aveva rassicurato che ci sarebbe riuscito. Diceva: Ovviamente il signor Baynes sarebbe rimasto soddisfatto di qualsiasi regalo l’importante Missione Commerciale gli avesse elargito tramite i buoni uffici del signor Tagomi. Ma il signor Tagomi, nel porre la domanda, aveva nel profondo della sua mente una richiesta più profonda, della quale era sì e no consapevole. Come capita spesso, l’oracolo aveva captato quella richiesta ancora più importante e, nel rispondere alla prima, si era fatto carico di rispondere anche alla seconda, presente solo a livello subliminale. «Come sappiamo,» disse Tagomi, «il signor Baynes ci sta portando un rapporto dettagliato sui nuovi stampi a iniezione costruiti in Svezia. Se riusciamo a stipulare un contratto con la sua ditta, saremo certamente in grado di sostituire con la plastica molti metalli di cui attualmente c’è scarsità.» Da anni gli Stati Americani del Pacifico tentavano di ottenere dal Reich un minimo di assistenza nel settore dei prodotti sintetici. Ma i grandi monopoli tedeschi della chimica, in particolare la I.G. Farben, avevano protetto i brevetti; detenevano, in effetti, il monopolio mondiale della plastica, specialmente nello sviluppo dei poliesteri. In questo modo l’attività commerciale del Reich era sempre in vantaggio su quella del Pacifico, e la sua tecnologia almeno dieci anni più avanti. I razzi interplanetari che lasciavano Festung Europa [Fortezza Europa] erano fabbricati soprattutto con materie plastiche resistenti al calore, molto leggere, ma così robuste da non risentire nemmeno dell’impatto con una grossa meteora. Il Pacifico non disponeva di nulla del genere; si usavano ancora le fibre naturali, come il legno, e naturalmente le diverse leghe metalliche. Il signor Tagomi rabbrividiva al solo pensarci; alle esposizioni industriali aveva visto alcuni dei manufatti tedeschi più avanzati, compresa un’automobile totalmente sintetica, la D.S.S. — Ma la sua domanda segreta, una domanda che non avrebbe mai potuto rivelare ai L’intuizione era, semplicemente, che il signor Baynes non fosse ciò che sembrava; che il vero motivo della sua venuta a San Francisco non fosse quello di stipulare un contratto per gli stampi a iniezione. Che in effetti il signor Baynes fosse una spia. Ma, anche se ne fosse dipesa la sua vita, il signor Tagomi non sarebbe mai stato in grado di capire che genere di spia fosse, per chi o che cosa lavorasse. All’una e quaranta di quel pomeriggio Robert Childan, con grande riluttanza, chiuse a chiave la porta esterna della Manufatti Artistici Americani. Trasportò sul marciapiede, non senza fatica, le pesanti borse, chiamò un taxi a pedali e disse al Il L’intera mattinata era trascorsa nella ricerca di un oggetto per il signor Tagomi, e l’amarezza e l’ansietà di Childan erano sempre sul punto di sopraffarlo, mentre guardava i palazzi che gli scorrevano accanto. Eppure… un trionfo. Un’abilità separata dal resto di lui: aveva trovato l’oggetto giusto, il signor Tagomi si sarebbe addolcito, e il suo cliente, chiunque fosse, ne sarebbe stato deliziato. Era riuscito miracolosamente a procurarsi una copia quasi intonsa del numero uno, volume primo, di La radio del taxi a pedali trasmetteva ad alto volume canzoni popolari, facendo a gara con le radio degli altri taxi, automobili e autobus. Childan non prestava ascolto; era abituato a quel frastuono. E non faceva caso nemmeno alle enormi insegne al neon con i loro annunci permanenti, che nascondevano alla vista praticamente ogni edificio di grandi dimensioni. In fin dei conti, anche lui aveva la sua insegna; di notte si accendeva e si spegneva insieme a tutte le altre della città. Del resto, in quale altro modo ci si poteva fare pubblicità? Bisognava essere realistici. In effetti il rumore delle radio, il frastuono del traffico, le insegne e la gente lo cullavano. Cancellavano le sue preoccupazioni. Ed era piacevole essere trasportato da un altro essere umano, avvertire lo sforzo dei muscoli del Si risvegliò provando un senso di colpa. C’erano troppe cose da programmare, non c’era tempo per un pisolino pomeridiano. Era vestito in modo adeguato per entrare nel Nippon Times Building? Magari sarebbe svenuto nell’ascensore ad alta velocità. Però aveva con sé le pastiglie contro il mal di moto, un prodotto tedesco. Le diverse forme di approccio… le conosceva tutte. Chi trattare educatamente, chi senza riguardo. Essere brusco con il portiere, con il fattorino dell’ascensore, con il centralinista, con l’accompagnatore, con qualunque persona che avesse mansioni puramente esecutive. Inchinarsi di fronte a ogni giapponese, naturalmente, anche se questo poteva significare inchinarsi qualche centinaio di volte. Quanto ai Ma gli poteva anche capitare di incontrare uno schiavo. Le navi tedesche o del Sud attraccavano in continuazione al porto di San Francisco, e di tanto in tanto i neri erano autorizzati ad andare in giro, per brevi permessi. Sempre in gruppi di non più di tre individui. Dopo il tramonto dovevano rientrare; dovevano rispettare il coprifuoco anche sotto le leggi del Pacifico. Ma gli schiavi facevano anche gli scaricatori, e questi vivevano sempre sulla terraferma, in baracche costruite sotto i moli, appena sopra il pelo dell’acqua. Non ce n’era nessuno negli uffici delle missioni commerciali, ma se ci fosse stato un trasloco dalla nave… per esempio, doveva portare lui stesso le borse fino all’ufficio del signor Tagomi? Certamente no. Avrebbe dovuto trovare uno schiavo, anche a costo di aspettare in piedi per un’ora. Anche a costo di arrivare tardi all’appuntamento. Non era nemmeno concepibile che uno schiavo potesse vederlo mentre trasportava qualcosa; su quello doveva stare molto attento. Un errore simile gli sarebbe costato caro; chiunque lo avesse visto, non lo avrebbe più degnato della minima considerazione. Bisognava prendersela con i tedeschi, per questa situazione. Per la loro tendenza ad azzannare bocconi più grossi di quanto potessero masticare. Dopo tutto erano riusciti a malapena a vincere la guerra, e tutt’a un tratto si erano lanciati alla conquista del sistema solare, mentre in patria emanavano editti che… be’, almeno l’idea era buona. E in definitiva avevano avuto successo con gli ebrei, con gli zingari e con gli studiosi della Bibbia. E gli slavi erano stati ricacciati indietro di duemila anni, fino alle loro terre d’origine in Asia. Fuori dall’Europa, con grande sollievo di tutti. Rimandati a cavalcare gli yak e a cacciare con arco e frecce. E le grandi riviste patinate che si stampavano a Monaco e che circolavano in tutte le librerie e le edicole… si potevano vedere le fotografie, a colori e a tutta pagina: i coloni ariani con gli occhi azzurri e i capelli biondi che adesso laboriosamente dissodavano, aravano e coltivavano le terre nell’immenso granaio d’Europa, l’Ucraina. Quelli sì, che avevano l’aria felice. E le loro fattorie e le loro case erano pulite. Non si vedevano più le immagini di polacchi ubriachi, dal cervello ottenebrato, stravaccati su portici cadenti o impegnati a rubacchiare qualche rapa appassita nel mercato del paese. Era solo un retaggio del passato, come le strade malridotte in terra battuta che una volta, nel periodo delle piogge, si trasformavano in un pantano, e dove i carri sprofondavano. Ma l’Africa. Laggiù si erano semplicemente lasciati trascinare dall’entusiasmo, e c’era da ammirarli, anche se avrebbero fatto meglio ad avere un po’ più di pazienza e ad aspettare, per esempio, che fosse portato a termine il Progetto Terre da Coltivare. Ma Eppure c’erano voluti duecento anni per liberarsi degli aborigeni americani, e la Germania, in Africa, ce l’aveva quasi fatta in quindici anni. Quindi non era il caso di criticare, a rigor di logica. In effetti Childan, di recente, aveva avuto occasione di parlarne a pranzo con alcuni di quei mercanti. Evidentemente si aspettavano dei miracoli, come se i nazisti avessero potuto rimodellare il mondo con la bacchetta magica. No, si trattava di scienza e di tecnologia, e del loro eccezionale talento per il lavoro duro; i tedeschi non smettevano mai di impegnarsi. E quando si assumevano un compito, lo svolgevano bene. E comunque i voli su Marte avevano distolto l’attenzione del mondo dai problemi africani. Perciò tutto si riduceva a quello che lui aveva detto ai suoi colleghi negozianti; «ciò che i nazisti possiedono, e a noi manca, è… la nobiltà. Bisogna ammirarli per la loro dedizione al lavoro o per la loro efficienza… ma è il sogno, che attira. I voli spaziali prima sulla Luna, poi su Marte; non è quello il più antico desiderio dell’uomo, la più grande speranza di gloria? E poi, dall’altra parte, ci sono i giapponesi. Io li conosco bene; faccio affari con loro, in definitiva, un giorno sì e un giorno no. Sono degli orientali, diciamo la verità. Individui dalla pelle gialla. Noi bianchi dobbiamo inchinarci davanti a loro perché detengono il potere. Ma il nostro sguardo è rivolto alla Germania; in loro vediamo ciò che si può fare laddove il potere lo detengano i bianchi, ed è tutta un’altra cosa.» «Siamo quasi arrivati al Nippon Times Building, signore,» disse il Childan cercò di immaginare fra sé il cliente del signor Tagomi. Era evidente che si trattava di una persona molto importante; il suo tono al telefono, la sua grande agitazione, gli avevano comunicato l’evidenza del fatto. Gli venne subito in mente l’immagine di uno dei più importanti clienti, anzi acquirenti, che lui stesso aveva, un uomo che aveva contribuito molto a creargli una buona reputazione fra i personaggi d’alto rango che risiedevano nella zona della Baia. Quattro anni prima non trattava oggetti rari e preziosi come adesso; aveva un negozietto buio dove vendeva libri di seconda mano, sulla Geary; i negozi vicini trattavano mobili usati, o ferramenta, oppure si trattava di lavanderie. Non era una bella zona. Di notte, sul marciapiede, erano frequenti le rapine a mano armata, e si registravano anche casi di violenza carnale, nonostante gli sforzi del Dipartimento di Polizia di San Francisco e addirittura della Kempeitai, la polizia giapponese. Tutte le vetrine dei negozi avevano delle grate metalliche che la sera venivano abbassate per evitare i furti con scasso. Eppure in questo quartiere della città era capitato un anziano ex militare giapponese, il maggiore Ito Humo. Alto, magro, con i capelli bianchi, l’andatura impettita, il maggiore Humo aveva indicato per primo a Childan ciò che avrebbe potuto fare con quel tipo di commercio. «Sono un collezionista,» aveva spiegato il maggiore Humo. Aveva passato un intero pomeriggio frugando nel negozio in mezzo ai mucchi di vecchie riviste. Con la sua voce dolce gli aveva spiegato qualcosa che sul momento Childan non aveva capito bene; per molti giapponesi ricchi e colti, gli oggetti storici della cultura popolare americana rivestivano lo stesso interesse dei pezzi di antiquariato in genere. «Le farò un esempio,» aveva detto il maggiore. «Lei conosce le figurine chiamate “Gli Orrori della Guerra?”» E aveva guardato Childan con avidità. Dopo aver frugato nella memoria, alla fine Childan si era ricordato. Quando era ancora un bambino, quelle figurine venivano distribuite insieme alla gomma da masticare. Un centesimo al pezzo. Ne era stata stampata un’intera serie, e ogni carta rappresentava un orrore differente. «Un mio caro amico,» aveva proseguito il maggiore, «colleziona “Gli Orrori della Guerra”. Ormai gliene manca una sola: «Il lancio delle figurine,» aveva detto tutto a un tratto Childan. «Signore?» «Noi le lanciavamo in aria. Ogni figurina aveva un diritto e un rovescio.» Allora Childan aveva circa otto anni. «Ciascuno di noi aveva un pacchetto di figurine. Ci mettevamo in due, uno davanti all’altro, e ognuno dei due lasciava cadere una figurina che ricadeva a terra svolazzando. Il bambino la cui figurina atterrava sul diritto, con l’immagine visibile, le vinceva tutte e due.» Com’era piacevole ricordare quei momenti sereni, quei primi giorni felici della sua infanzia. Dopo avere riflettuto un po’, il maggiore Humo aveva detto: «Ho sentito il mio amico che parlava della sua raccolta, e non mi ha mai accennato a una cosa del genere. Alla fine l’amico del maggiore era capitato in negozio per ascoltare dalla viva voce di Childan il resoconto storico. L’uomo, anche lui un ufficiale a riposo dell’Esercito Imperiale, era rimasto affascinato. «Tappi di bottiglia!» aveva esclamato Childan, senza preavviso. Il giapponese aveva sbattuto le palpebre, senza capire. «Noi collezionavamo i tappi delle bottiglie del latte. Da ragazzi. Quei tappi rotondi dove c’era scritto il nome della latteria. Ci devono essere state migliaia di latterie, negli Stati Uniti. Ognuna aveva un tappo diverso.» Gli occhi dell’ufficiale avevano brillato con un lampo di istintivo interesse. «Lei possiede ancora qualcuna delle sue vecchie collezioni, signore?» Naturalmente Childan non le possedeva. Ma… probabilmente era ancora possibile procurarsi quei vecchi tappi, ormai dimenticati, risalenti ai tempi prima della guerra, quando il latte veniva distribuito in bottiglie di vetro invece che in cartoni di plastica usa-e-getta. E così, pian piano, era entrato in quel genere di commercio. Altri avevano aperto negozi simili al suo, sfruttando la passione sempre crescente dei giapponesi per le cose americane… ma Childan era sempre stato un gradino più su degli altri. «Il prezzo della corsa,» disse il Childan lo pagò distrattamente. Sì, era molto probabile che il cliente del signor Tagomi assomigliasse al maggiore Humo; All’improvviso, in piedi davanti al Nippon Times Building, con le borse sul marciapiede accanto a lui, Childan pensò, con un brivido: Ma l’uomo doveva essere giapponese. Il primo ordine del signor Tagomi era stato un bando originale di reclutamento della Guerra Civile; di certo solo un giapponese poteva essere interessato a roba del genere. Era tipico della loro mania per l’inutile, del fascino legalistico che esercitavano su di loro i documenti, i proclami, le pubblicità. Si ricordava di uno di loro che aveva dedicato il suo tempo libero alla raccolta di avvisi pubblicitari di farmaci pubblicati sui giornali americani del 900. Ma c’erano altri problemi da affrontare. Problemi immediati. Uomini e donne, tutti ben vestiti, sciamavano attraverso le grandi porte del Nippon Times Building; le loro voci raggiungevano le orecchie di Childan, e lui si mise in movimento. Uno sguardo verso la sommità di quel gigantesco edificio, il più alto di San Francisco. Uffici, finestre, la favolosa architettura dei progettisti giapponesi… e ì giardini circostanti di piante nane sempreverdi, rocce, il paesaggio karesansui, la sabbia che imitava un torrente asciutto serpeggiante in mezzo alle radici, tra le semplici pietre piatte dalla forma irregolare… Vide un nero che aveva trasportato dei bagagli, e che adesso era libero. Childan lo chiamò subito. «Facchino!» Il nero trotterellò verso di lui, sorridendo. «Al ventesimo piano,» disse Childan con il suo tono più duro. «Appartamento B. Presto.» Indicò le borse e poi oltrepassò le porte del palazzo. Naturalmente non si voltò a guardare indietro. Un attimo dopo si ritrovò accalcato in uno degli ascensori rapidi; intorno a lui c’erano soprattutto giapponesi, i volti puliti che brillavano appena sotto la luce abbagliante dell’ascensore. Poi la spinta verso l’alto, che faceva venire la nausea, il rapido ticchettio dei piani che passavano; Childan chiuse gli occhi, si piantò saldamente sul pavimento e pregò che la corsa finisse subito. Naturalmente il facchino stava trasportando le borse servendosi di un ascensore di servizio. Sarebbe stato irragionevole consentirgli di salire insieme a loro. In effetti, notò Childan aprendo un attimo gli occhi e guardandosi intorno, lui era uno dei pochi bianchi all’interno dell’ascensore. Quando fu arrivato al ventesimo piano, Childan era già pronto mentalmente a inchinarsi, preparandosi all’incontro negli uffici del signor Tagomi. |
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