"Nel cuore della cometa" - читать интересную книгу автора (Benford Gregory, Brin David)CARLKato morì per primo. Si stava occupando dei mech da costruzione — robot che installavano le travi sul ghiaccio polveroso e grigio-nero della cometa. Dal punto in cui si trovava Carl, su un'altura a un chilometro di distanza, la tuta di Kato appariva come una macchia arancione fra grandi e goffi e grigi fuchi operai. Non c'era nessun suono, malgrado le nubi di polvere e di gas soffiate verso l'esterno là, vicino all'uomo e alle sue macchine. Soltanto un po' di elettricità statica interferiva con un concerto di Vivaldi che aiutava Carl a concentrarsi nel suo lavoro. Fu soltanto un caso che Carl sollevasse lo sguardo proprio un attimo prima che accadesse. Non lontano da Kato, ancorate vicino al polo Nord del nucleo solido della cometa, otto cuspidi fusiformi svettavano verso l'alto formando una torre piramidale. Al vertice si annidava l'antenna trivellatrice a microonde, una sorta di tazza rovesciata. Kato lavorava a un centinaio di metri di distanza, dimentico della furibonda energia che veniva scagliata dentro il ghiaccio proprio lì, accanto a lui. Spesso, Carl aveva pensato che la trivella assomigliava a un grottesco ragno accovacciato. Dal foro sotto di esso uscivano fiotti regolari di vapore surriscaldato. Come se stesse pazientemente scavando una galleria per inseguire la sua preda, il ragno sputava invisibili microonde giù nel pozzo, a raffiche di cinque secondi l'una. In risposta, qualche istante dopo ogni raffica, un getto giallo-azzurro di gas surriscaldato schizzava fuori dal foro sottostante, balzando su dalla galleria appena scavata. L'ondeggiante getto colpiva le lastre deflettrici e si divideva in sei pennacchi, che si disperdevano a ventaglio verso l'esterno senza danneggiare la cupola dell'antenna a microonde. La trivella era intenta a quell'operazione da parecchi giorni, martellando pazientemente il nucleo della cometa per aprirvi delle gallerie, usando scariche di onde elettromagnetiche centimetriche, sintonizzate sulla frequenza che disgregava le molecole di anidride carbonica. Carl avvertiva un debole tremore sotto i piedi tutte le volte che partiva una scarica. L'orizzonte di antico ghiaccio grigio s'incurvava in tutte le direzioni. Affioramenti di neve pura clatrata sorgevano in mezzo alla tenebra, polvere spugnosa, d'un bianco sbiadito contro i bruni chiazzati di rosso-ruggine. Kato e i suoi mech lavoravano vicini alla trivella a microonde, spostandosi su pastoie subito sopra il ghiaccio grigio sporco. La debole gravità del nucleo cometario non era sufficiente a tenerli giù mentre si muovevano. Sopra di loro sottili getti di gas ionizzato ondeggiavano, animati da una debole fluorescenza, contro il nero totale della notte, dando l'impressione di accarezzare lo spaziale giapponese. Kato supervisionava i suoi robot meccanici di acciaio e ceramica mentre svolgevano il lavoro pericoloso. Voltava la schiena al ragno. Carl stava per tornare a occuparsi del proprio lavoro. La trivella scoppiettava metodicamente, trasformando il ghiaccio in vapore. Poi, una delle enormi zampe del ragno si liberò, schizzando fuori come un tappo, accompagnata da un silenzioso sbuffo di neve. Carl sbatté gli occhi. Il generatore di microonde continuò a lanciare le sue scariche, quando la gamba si staccò dal suo ancoraggio, sollevandosi verso l'alto e facendo inclinare il complesso. Non ebbe il tempo di provare orrore. Il raggio investì Kato solo per un secondo. Fu sufficiente. Carl vide Kato girarsi con un sussulto, come per scappare. Più tardi si rese conto che quel movimento doveva essere stato un'ultima contrazione d'agonia. Il raggio colpì il ghiaccio sotto l'uomo, riversando nella tenebra circostante fiotti di gas giallo e arancio. Vivaldi scomparve sotto un ruggito di statica. Quello sferzante raggio invisibile stava tracciando un sentiero ardente. Traballò, ondeggiò, poi s'inclinò ancora di più. Si stava allontanando dall'orizzonte. Verso di lui. Annaspando, Carl cercò il quadro di comando. Fece scattare il coperchio di sicurezza, e schiacciò ripetutamente il pulsante di contrordine. Le orecchie gli schioccarono quando la tempesta di statica s'interruppe. Ogni mech e ogni congegno ad alta energia su quel lato del nucleo della Halley fu disattivato. Quel sottile dito a microonde smise di scrivere sul ghiaccio a poche dozzine soltanto di metri da Carl. Il ragno cominciò a crollare. Il decimillesimo di gravità della Halley era troppo debole per tener giù un generatore a microonde mentre «sparava», ma senza la spinta ascensionale del gas in espansione e della pressione delle radiazioni, la debole attrazione di quel mondo di ghiaccio tornava a imporsi. La struttura barcollò e cominciò la sua lenta e dolorosa caduta. — Cosa diavolo stai facendo? Non ho più energia. Quello doveva essere Jeffers. Altre voci farfugliavano attraverso la linea di comunicazione. — Mayday! Kato è ferito. — Carl schizzò lungo il ghiaccio grigio-sporco. I suoi jet a impulsi fiammeggiarono con fulminea agilità, volando istintivamente col minimo spreco d'energia, come risultato di molti anni di addestramento. Attraversare la superficie corrugata di Halley era come salpare con consumata destrezza su un grigio mare ghiacciato sotto il cielo nero. Contro ogni speranza, cercò di chiamare la figura avvolta dalla tuta spaziale arancione, distesa bocconi sul campo di neve sventrato. — Kato… Quando si avvicinò di più, Carl trovò qualcosa che assomigliava, più che a un uomo, a un pollo annerito, contorto e male arrostito. Poi toccò a Umolanda. Il programma di lavoro non lasciò molto tempo per piangere Kato. Una squadra medica discese dall'ammiraglia, la Già da parecchi anni Carl aveva imparato a lavorare anche quando era afflitto da notizie sconvolgenti, incidenti, intoppi. Scordarsi della morte di un compagno di lavoro non era facile. Gli era piaciuta l'energia di Kato, e ancor più il suo vivido senso dell'umorismo e la sua sfacciata fiducia. Carl promise al suo amico almeno una festa in suo ricordo all'insegna d'una sbronza il più solenne possibile. Lui e Jefferson fissarono il ragno, riancorando il piede e riassestando la gamba. Carl tagliò via la porzione danneggiata. Jeffers sorresse l'alimentatore dell'ossigeno mentre lui metteva in posizione un nuovo, affusolato segmento di trave. Ad un segnale di Carl, l'altro spaziale diresse un getto di gas sopra le giunture, e il metallo si animò, autosaldandosi in un abbagliante arco arancione. Completarono la riparazione ancora prima che il corpo di Kato venisse riportato sulla Umolanda giunse da oltre il bordo del nucleo della Halley, con i pallidi getti azzurri che la spingevano lungo il cavo che correva da un polo all'altro. Il modo più facile di spostarsi intorno a quell'irregolare palla di ghiaccio era di agganciarsi al cavo e attivare i getti della tuta, sorvolando la superficie a pochi metri d'altezza. Le ancore magnetiche venivano mollate automaticamente, durante il tragitto, per minimizzare la frizione. Umolanda era incaricata del lavoro interno, di rimodellare, cioè, gli scavi irregolari per ottenere stanze e gallerie. Incontrò Carl accanto all'ingresso del Pozzo 3, a un chilometro dal luogo dell'incidente. All'orizzonte, il ragno scavatore aveva ripreso a sgobbare. — Brutta faccenda, quella di Kato — trasmise Umolanda. — Già. — Carl fece una smorfia a quel macabro ricordo. — Un tipo simpatico, anche se era sempre appiccicato a quelle anticaglie di film a 3D tutto il tempo. — Per lo meno è stato rapido — commentò Umolanda. A ciò, lui non aveva da aggiungere nessuna osservazione, e comunque non gli piaceva parlare troppo, là fuori. Interferiva col suo lavoro, e basta. Gli occhi liquidi di Umolanda lo studiarono attraverso il casco a bolla macchiato qua e là di sporco. L'anello del collo nascondeva il suo mento fesso. Fu sorpreso nel constatare come quella omissione la facesse apparire una donna per ogni altro verso straordinariamente attraente, la pelle color ebano tesa sugli alti zigomi in un artistico profilo ironico. Strano, come non se ne fosse mai accorto prima. — Avete indagato sulla causa? — Ho controllato il punto dove la gamba del ragno si è mollata — rispose Carl. — Pare che una faglia, là sotto, abbia ceduto. Lei annuì. — Niente di sorprendente. Ho trovato delle cavità, sotto, formatesi quando il decadimento radioattivo ha riscaldato il ghiaccio, molto tempo fa, quando Halley si è formata. Se alcuni gas caldi liberati dalla trivellazione del ragno si sono aperti la strada verso la superficie attraverso una di quelle cavità, potrebbero aver minato l'ancoraggio del ragno. Carl fissò l'orizzonte, strizzando gli occhi, sforzandosi d'immaginare l'intera testa della cometa crivellata di gallerie serpeggianti. — Sì, credo che tu ci abbia azzeccato. — Ma il ragno non avrebbe dovuto interrompere la propria erogazione, non appena persa la messa a fuoco? — Appunto. — L'interruttore? Carl scrollò le spalle. — Quel maledetto interruttore di sicurezza era difettoso. Semplicemente, non è scattato — dichiarò in tono amaro. Le sopracciglia di Umolanda s'intrecciarono per la collera. — Ancora attrezzature difettose! — Già. Qualche bastardo sul lato Terra si è fatto un piccolo extra sulle spese generali. — Hai fatto rapporto? — Certamente. Comunque, per andare a prendere dei pezzi di ricambio la passeggiata è piuttosto lunga. — Ebbe un sorriso sardonico. Vi fu un breve silenzio, prima che Umolanda parlasse di nuovo. — Ci saranno sempre incidenti. Abbiamo perso gente anche su Encke. — Questo non facilita affatto le cose. — No… immagino di no. — Comunque, Encke era un bel vecchio torsolo di cometa. Antica. Prosciugata. Un bel po' di bella roccia sicura. — Raschiò leggermente il suolo con la punta dello stivale. Neve e polvere si levavano a nuvolette al minimo tocco. Umolanda si costrinse a sorridere. — Forse tutto questo ghiaccio avrà anche lo scopo di tenerci in vita sui tempi lunghi, ma su quelli brevi ci sta ammazzando. Carl indicò con un gesto tre mech lì accanto, in attesa di ordini. Le macchine erano già tutte butterate e insudiciate dalla poltiglia di neve primordiale e dalla polvere sferzante di Halley. — È la tua squadra. Kato le stava regolando. Ma forse preferisci dargli lo stesso un'ultima revisione. — Mi sembrano a posto. — Umolanda fischiò il codice colorato che compariva sul piccolo schermo dietro a quella più vicina, e annuì. — Almeno, con queste macchine un po' di fortuna l'abbiamo avuta. Il raggio a microonde non le ha colpite. Le porto giù con me ad allargare il Pozzo 3. Impastoiò i robot multibraccia simili a scatoloni e li rimorchiò con grazia fino all'ingresso della galleria. Carl osservò mentre li metteva in fila, al sicuro, per poi scomparire dentro il pozzo, guidando i mech come un pastore, anche se in realtà i mech erano scaltri come un bambino di dieci anni per certe cose, e assai più coordinati. Carl andò a controllare il resto dell'attrezzatura che gli altri membri dell'equipaggio stavano traghettando giù dalla In alto, sopra di lui, dei nastri trasparenti intessevano una danza lenta e solenne. Le scintillanti code gemelle di Halley erano come seta azzurro-verde. Adesso stavano sbiadendo, erano già passati molti mesi dalla breve vivacità estiva di cui la cometa godeva ogni settantasei anni. Ma gli immensi vessilli di polvere e di ioni si dispiegavano ancora, tracce impalpabili che ondeggiavano come davanti ad una pigra brezza, bandiere agitate da enormi angeli. La spedizione aveva scelto l'appuntamento con la cometa di Halley dopo il suo passaggio al perielio del 2061, quando lo sfrecciante planetoide era ormai ben avanti nella sua traiettoria verso l'esterno. Qui, al di là dell'orbita di Marte, il violento surriscaldamento del Sole non faceva più ribollire selvaggiamente quei giganteschi getti di molecole d'acqua, polvere e anidride carbonica che rendevano Halley così spettacolare durante la sua breve estate. Ma il calore dura. Per mesi, mentre Halley sfrecciava vicino al feroce Sole erosivo, ondate ad alta temperatura si erano diffuse verso il basso attraverso il ghiaccio e la roccia, concentrandosi in cavità volatilizzate e in agglomerati di roccia sparpagliati qua e là. Adesso, perfino quando la cometa stava risalendo nella gelida oscurità del sistema solare esterno, c'erano ancora riserve di calore dentro di essa. Quella palla granuolosa, grigio-scura, era un frappé congelato d'acqua, anidride carbonica, idrocarburi, e acido cianidrico, dove ogni diverso tipo di neve sublimava in vapore a una differente temperatura. Inevitabilmente, in alcuni punti, il calore che vi filtrava, fondeva o vaporizzava il ghiaccio. Queste sacche erano in agguato. Carl stava assemblando le componenti d'un filtro a centrifugazione quando un grido improvviso, lacerante, gli uscì dal comunicatore della tuta. Poi, un silenzio sinistro. Il suo minischermo da polso ammiccò giallo-azzurro, giallo-azzurro: il codice di Umolanda. — Umolanda? Nessuna risposta. Carl afferrò il cavo polare e, una bracciata dopo l'altra, raggiunse l'imboccatura del Pozzo 3. I mech giravano intorno ad una frana, scavando il ghiaccio che si andava lentamente adagiando in mezzo a turbini di nebbia sfavillante. Nessun segnale da parte di Umolanda. Carl lasciò che i mech continuassero a lavorare ma tolse le pasticche della memoria dai loro ricettacoli per esaminarle mentre aspettava. Fu ben presto chiaro cos'era successo. Immersi nel ghiaccio, i mech avevano obbedientemente scalpellato le pareti della prima cavità. Umolanda li controllava con un comando a distanza, rimanendo nella galleria principale per non correre rischi. Il relé TV le diceva quando far cambiare routine ai robot, quando ritoccare i dettagli, quando scavare e quando minare. Umolanda si teneva impastoiata e controllava le operazioni sullo schermo del quadro di controllo portatile, passando occasionalmente al completo servocontrollo di un mech per eseguire un lavoro di levigazione che richiedesse una particolare abilità. Stava lavorando all'estremità opposta di quello che ben presto sarebbe stato un magazzino, quando un mech aveva colpito un vero e proprio macigno di due metri di diametro, costituito di scuro ferro nativo. Il capitano Cruz aveva loro chiesto di tenere gli occhi aperti nel caso in cui fossero saltate fuori risorse utilizzabili. Umolanda aveva messo all'opera tutti e tre i mech per recuperare il macigno. Sotto la sua guida, i mech avevano infilato delle leve sotto il blocco metallico cercando di liberarlo. Il cupo grumo nerastro aveva rifiutato di muoversi. Umolanda aveva dovuto intervenire di persona per controllare. Carl poteva immaginarsi il problema: i mech erano bravi, ma spesso era difficile vedere se utilizzavano l'angolo migliore. Carl ebbe una cupa premonizione. Il macigno aveva accumulato calore per settimane, lasciando che si diffondesse nella poltiglia subito dietro ad esso, una sacca di anidride carbonica e metano imprigionati. Questa zuppa spumeggiante sarebbe stata perforata nel suo punto critico, gli sarebbe bastata soltanto una temperatura un po' più alta o una frazione di pressione in meno per esplodere nella fase di vapore. Un mech fece scivolare la sbarra che usava come leva intorno al macigno, penetrando nella riserva di poltiglia. Umolanda vide il robot che barcollava, si riprendeva. Gli disse di provare di nuovo e si avvicinò un po' di più per osservare. Il mech era lento, cauto. La sua «giacca» d'alluminio era chiazzata e scolorita dopo parecchi giorni nel ghiaccio, ma il suo piccolo schermo con i dati mostrava che stava funzionando alla perfezione. Usando come punto di appoggio la propria pastoia alla parete, fece leva intorno al macigno, spinse… e il grumo di ferro si disincagliò. L'energia dei gas supercompressi si liberò di colpo con la violenza d'un maglio. L'esplosione scagliò via la sbarra utilizzata come leva, strappata al mech, come un missile sparato da un cannone. Umolanda era a due metri di distanza. La leva le si piantò nel ventre. Il microschermo della pasticca mnemonica si spense. Carl sbatté gli occhi per scacciare le lacrime. Aspettò fino a quando i mech non ebbero riaperto la galleria. Non c'era proprio nessuna necessità di affrettarsi. Il comandante della missione, Miguel Cruz, sospese le operazioni per due interi turni. La squadra d'insediamento aveva lavorato a tutto spiano per una settimana filata. Due morti in un giorno indicavano che stavano commettendo errori dovuti alla pura e semplice stanchezza. Carl risalì con l'ultimo traghetto. La superficie chiazzata pareva oscurarsi con la distanza: il nucleo cometario rimpicciolì fino a diventare un punto nerastro che galleggiava in una nube giallo-arancione. Malgrado l'alone confuso della chioma fosse ancora visibile con un piccolo telescopio dalla Terra, lì, a poca distanza dalla testa quei sipari tremolanti di ioni risplendevano appena, come un delicato merletto. Gas e grani di polvere continuavano ancora a staccarsi dalla superficie di Halley, rendendo rischioso il lavoro dei piloti dei cargo. La maggior parte dei gas proiettati verso l'esterno non erano generati dalle stimolo ormai morente del Sole, bensì dal calore residuo degli umani. L'incidente che aveva ucciso Umolanda aveva vomitato fuori una nebbia perlacea per un'ora, fino a quando il lago interno di poltiglia non era completamente evaporato all'esterno. Se qualcuno sulla Terra avesse guardato attraverso un potente telescopio, avrebbe captato un lieve rischiararsi sulla testa della cometa. Era un fugace monumento alla memoria. Quell'accecante tempesta aveva spinto i suoi mech dentro il pozzo, smuovendo abbastanza ghiaccio da seppellirla. Carl e gli altri avevano dovuto rimaner fuori fino a quando era stato troppo tardi per recuperarla e scongelarla a poco a poco per un possibile intervento medico. Umolanda era perduta. Mentre il traghetto navigava verso l'esterno, le code gemelle, una di polvere e l'altra di ioni fluorescenti, si allungavano nello spazio, pallidi e scorciati resti della gloria che aveva affascinato la Terra soltanto due mesi prima. Nastri sbrindellati si biforcavano verso il puntolino ardente di Giove. Inconsapevole, Carl se ne stava lungo disteso, sonnecchiando, mentre il traghetto si sollevava sempre più per incontrare la Quando entrarono sferragliando nella camera di equilibrio, Carl si sfilò la tuta e scivolò in direzione della mormorante ruota gravitazionale di prua. Scese lungo una delle scale fisse a pioli e, barcollando, uscì in mezzo all'inusuale attrazione d'un ottavo di gravità, avvertendo la stanchezza scendergli fin nel profondo delle ossa con l'arrivo del peso. Virginia veniva per prima, però. Non la vedeva da secoli. Era nel suo modulo di lavoro, naturalmente, a metà strada lungo la ruota. In quei giorni, era difficile che ne uscisse fuori. La porta si scostò con un sibilo. Quando Carl scivolò dentro quel mondo sferico di gusci di memoria incapsulati, c'era quasi un silenzio da cattedrale, una sensazione di presenza e di ronzante attività appena al di fuori della gamma uditiva. Carl prese posto con calma accanto al suo seggiolino su braccio snodabile, aspettando fino a quando lei non avesse potuto tirarsi fuori dallo stato interattivo. Collegata ai canali attraverso un'unione neurale diretta, e dei servomeccanismi applicati ai polsi, la donna si muoveva appena. Doveva senz'altro sapere che lui si trovava là, ma non ne dava nessun segno. Di tanto in tanto, il suo magro corpo si agitava e sussultava. I suoi lunghi lineamenti, mezzo polinesiani, erano rivolti verso i banchi d'immagini olografiche sospese sopra di lei, e i suoi occhi non guizzarono lateralmente neppure una volta per guardarlo. Fissava rapita scene multiple in movimento, masse slittanti di dati in continuo guizzare, diagrammi geometrici che mutavano e si evolvevano raccontando nuove storie. Carl attese, mentre lei risolveva qualche indecifrabile problema. Il suo lungo volto si tese per un attimo, poi si rilassò, come se avesse saltato qualche ostacolo. Era delicata, anche lei con gli zigomi alti, come Umolanda. Come un terzo dell'equipaggio della spedizione, era una percell, un prodotto del programma genetico per la correzione delle malattie ereditarie di Simon Percell. Carl si chiese oziosamente se le ossa sottili, i lineamenti aristocratici, non fossero caratteristiche che lo stregone del DNA aveva introdotto alla chetichella. Era possibile. Quell'uomo era stato un genio. Però il volto di Carl era largo, e comune, e lui era stato «sviluppato» — come si diceva con quel gergo antisettico — a meno di un anno di distanza da Virginia. Così, era allora possibile che Simon avesse curato quei particolari soltanto con le donne. Viste le storie d'ogni genere che correvano su quell'uomo, non si poteva escludere la possibilità. Secondo un'opinione da tutti condivisa, Virginia Kaninamanu Herbert era chiaramente un esperimento riuscito. Una mescolanza di razze del Pacifico su una base hawaiana, aveva un'intelligenza pronta e acuta, deliziosamente imprevedibile. C'era un'energia irrequieta nei suoi occhi mentre si muovevano lanciando rapidi sguardi sfreccianti verso la tumultuante miriade d'immagini impalpabili davanti a lei. Poco più in basso, la sua bocca mostrava una tranquilla tensione, leggermente contratta, pensierosa e assorta. Carl pensava che non fosse particolarmente attraente nel senso usuale della parola: il suo lungo volto finiva per darle un aspetto allampanato, anche se la serena levigatezza della sua pelle color mandorla compensava questo effetto, ma la fronte era ampia, la bocca troppo larga, il mento tronco e squadrato, non stucchevolmente arrotondato come la moda esigeva oggi. A Carl non importava un bel niente. In lei c'era una verve compressa, una donna nascosta che lui bramava raggiungere. Eppure, da quando la conosceva, lei era sempre rimasta dentro il suo bozzolo di cortesia. Era amichevole, ma niente di più. Lui era deciso a cambiare quello stato di cose. Sullo schermo principale, delle travi ruotate obliquamente combaciarono le une con le altre in un preciso incastro. L'intelaiatura s'immobilizzò. Fatto. D'un tratto Virginia si animò, come se una qualche fluida intelligenza fosse tornata dai labirinti della macchina che le faceva da controparte. Si tolse gli imput dal polso. La bianca presa del suo connettore neurale lampeggiò brevemente quando la spina venne via. Scosse i capelli per rimetterli in ordine. — Carl! Speravo proprio che aspettassi che io finissi. — Sembra importante. — Oh, questo? — Liquidò con un gesto della mano quelle strutture tridimensionali di dati. — Soltanto un lavoro di riordino. Controllavo la simulazione dell'attracco e del trasferimento, quando trasporteremo tutti sotto. Ci saranno irregolarità a causa dell'orientamento casuale dei getti di gas diretti verso l'esterno, e sarà necessaria una continua compensazione. Stavo programmando i mech più perspicaci per quel lavoro. Adesso siamo pronti. — Non del tutto. — Sì, qualche giorno ancora… Oh, già. — La sua espressione si fece contrita. — Ho sentito. — Dannata sfortuna. — La sua bocca si torse per l'amarezza. — La stanchezza, ho sentito. — Anche quella. Lei allungò la mano e gli toccò, titubante, il braccio. — Non c'era niente che potevi fare. — Probabilmente. O… forse non avrei dovuto lasciarla scendere in quel buco subito dopo che Kato c'era rimasto. Cose del genere ti scuotono, alterano la tua capacità di giudizio. Rendono più probabili gli incidenti. — Non eri suo superiore. — Sì, ma… — — Già, lo so. — Su, vieni. Ti offro un caffè. — Una buona dormita, ecco quello che mi serve. — No, tu hai bisogno di parlare. Di avere contatti con la gente. — Per scambiare battute arcane con quei tuoi specialisti di computer? — Fece una smorfia. — Ci faccio sempre la figura dell'allocco. Con un movimento flessuoso lei lasciò il sedile della consolle, approfittando della bassa gravità per arricciarsi e sgomitolarsi a mezz'aria. — No davvero! — Qualcosa nella sua improvvisa, vivace allegria, sollevò il morale. — Spirito gioioso, quando mai un allocco tu fosti? — Che orribile modo di esprimersi! — Comunque, è vero. Su, vieni, il primo giro lo offro io. |
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