"Nel cuore della cometa" - читать интересную книгу автора (Benford Gregory, Brin David)CARLRepresse una fragorosa risata. Il passo cruciale, l'inserzione dei moduli per l'animazione sospesa nella testa della cometa non pareva affatto il culmine di un pericoloso viaggio di cinque anni d'una nave a vela, una prodigiosa impresa d'ingegneria, una moderna meraviglia… Pareva invece l'accoppiarsi di mostruosi genitali. L'esile chiatta, la Sotto, si spalancava il Pozzo 4. Il ghiaccio circostante era stato esposto di fresco dalle abrasioni e dai graffi dei mech: un ghiaccio cremoso, vergine, che non aveva più visto l'aspro baglio della luce del Sole da quando i pianeti e le comete si erano formati per la prima volta. Carl cominciò a ridacchiare, e tossì per nasconderlo. Con il sibilo del comunicatore della tuta, nessuno avrebbe saputo distinguere la differenza, probabilmente. Sbatté gli occhi, ma quell'illusione pornografica non voleva scomparire. — Bene. Fatto — rispose Carl. I dati di Jeffers vennero integrati nello stesso istante in cui parlava, e poi cominciò a ruotare nello schermo, linee verdi contro lo sfondo, che mostravano come la Sapeva che un branco di alti papaveri stavano guardando attraverso la TV, e Ould-Harrad si trovava sulla superficie sottostante, con gli occhi gelidi e critici. Certamente avrebbero trasmesso alla Terra una versione manipolata, in forma di segnale supercompresso. Occhi in abbondanza per sorprendere un eventuale errore. Osservate Carl Osborn che incastra novanta o più anime a metà pozzo, magari. Carl scosse la testa. Accese quattro jet dietro l'alloggiamento del motore centrale della — Fatto. — Ecco che andiamo — trasmise Andy Carrol. Andy sedeva a prua nella piccola cabina a bolla della nave, e ne aveva il controllo nominale. I getti avvamparono di un azzurro pallido a poppa. La — Perfetto! — Urlò Andy. — Prendo io la guida. La protuberanza della chiatta s'inserì con precisione, serrandosi ai binari che le avrebbero impedito di andare alla deriva una volta all'interno. Al comunicatore della tuta, Carl sentì delle grida di giubilo e perfino degli applausi che filtravano da un canale aperto collegato al salone della Il modulo della chiatta si separò, discese. Quelle chiatte a vela erano esili e leggere come un classico veliero del diciannovesimo secolo. La loro struttura snella e argentea trasportava capsule di animazione sospesa, provviste e un equipaggio-robot. Il tutto in moduli cilindrici ben sistemati lungo il telaio tubolare, la colonna vertebrale delle grandi ali che raccoglievano il vento solare. Adesso quei fogli sottilissimi erano ammainati, in attesa di svolgere il monotono servizio di specchi per le serre della superficie. Rimaneva il telaio nudo, una grande bestia adesso spogliata secondo la logica riduzionista, diventata uno scheletro. — Sto invertendo la direzione! — Andy fece arretrare la sua nave con cautela. Sarebbe scivolata giù lungo una pista diversa, dentro la propria cavità. Adesso Jeffers aveva preso il comando dei mech all'interno del pozzo per trainare in basso il modulo con i dormienti lungo quasi un chilometro di pozzo, dentro la camera che era stata preparata per accoglierlo. Carl accese il suo trasmettitore a conduzione ossea: la quinta sonata per violino di Beethoven, l'ultimo movimento, il liquido frusciare dell note del pianoforte. Un premio. Trascinare in giro grandi masse era roba standard, ma dava una sensazione diversa quando c'erano novanta vite umane in gioco. Aveva bisogno di calmarsi, di rilassarsi. Lo spettacolo principale era finito, ma aveva ancora molte ore di lavoro davanti a sé. Quel fluido e grazioso ondeggiare della musica da camera pareva a Carl una cosa naturale per lavorare a zero gravità. Non sarebbe mai riuscito a capire Jeffers o Sergeov, che ascoltavano quella roba rauca e pesante dei Clash Ceramic mentre lavoravano. Si lanciò verso il basso, facendo segno a quel punto lontano che era il colonnello Ould-Harrad. Rallentò sopra il Pozzo 6 per accompagnare l'ufficiale africano, il quale era capace di muoversi nello spazio, ma assai meno abituato a farlo in velocità attraverso le gallerie. Un errore, qui, poteva spiaccicarti contro una parete con un impatto da fratturarti le ossa. Ci volevano anni perché i terragnoli si convincessero, finalmente, che la mancanza di peso non significava assenza d'inerzia. Schizzarono verso il basso. Le pareti di filofibra sfrecciavano via accanto a loro, illuminate a intervalli regolari da pennellate di fosfori gialli elettrificati. Carl osservava il volto scuro di Ould-Harrad per cercarvi una qualche reazione, ma l'uomo teneva gli occhi fissi e attenti davanti a sé, senza dire niente. Carl avvertì una punta di delusione. Aveva rivestito lui stesso ì! pozzo, senza mech, impiegandoci quattordici ore al giorno per rispettare la scadenza. Ed era un bel lavoro. Ma che lui fosse dannato, se qualcuno aveva fatto anche un solo commento in proposito. Naturalmente Ould-Harrad era un ortho, e piuttosto intransigente, stando a pettegolezzi di corridoio. Durante il viaggio verso l'esterno quell'uomo si era mostrato remoto, formale, il suo volto impassibile non rivelava nulla. Era chiaro che si aspettava che i giovani arrivati si ricordassero del proprio posto. Era improbabile che desse il benvenuto a un percell addetto ai lavori più umili. Carl scrollò le spalle e alzò il volume della Quinta Sonata. Soltanto dopo un po' gli venne in mente che, dopotutto, stavano precipitando a testa in giù dentro un pozzo in cui le chiazze dell'illummazione fosforescente rimpicciolivano in distanza, convergendo… Perfino in quelle condizioni di microgravità era probabile che i campanelli d'allarme mentale di Ould-Harrad stessero squillando. — Attivi i freni. La cavità è soltanto a poche centinaia di metri davanti a noi. — Vedo. Bene — fu la sola risposta. Rallentarono mentre la galleria si allargava in una camera spaziosa, già in parte rivestita di un brillantte isolante verde tiglio. Il modulo della chiatta dei dormienti stava già discendendo dall'intersezione con il Pozzo 4, un'intrusione dal profilo tronco che quasi riempiva la metà non ancora isolata della cavità. Dunque, quel ghiaccio primordiale produceva luccicanti riflessi neri e grigio-azzurri per effetto delle sciabolate di luce delle lampade degli uomini e dei mech. Carl aveva aiutato a scavare quelle pareti rozzamente intagliate usando grossi laser industriali. Vene di polvere carbonacea e rugginosi conglomerati tracciavano misteriosi disegni arabescati su quelle ampie distese di ghiaccio nero, come se fossero stati scritti da qualche mano biblica. — Ahhh. — il suono sfuggì a Ould-Harrad quando si arrestò con una brusca frenata. Carl notò che l'uomo pareva sollevato. Forse avrebbero dovuto procedere più lentamente. — Su — gridò Jeffers sul canale aperto. — Dobbiamo seppellire queste bare. La voce autoritaria, dalla pronuncia difettosa, di Ould-Harrad, suonò inequivocabile. — Apprezzerei molto se voi uomini — Sissignore — rispose Jeffers, secco. — Stia sicuro. Carl trasmise: — Prendo i mech con la codifica azzurra. — E regolò il suo quadro dei comandi su una dozzina di forme che fluttuavano intorno. L'attrezzattura della chiatta delle capsule era quasi del tutto nascosta dai roboidi che le sciamavano intorno, un esercito di moscerini che montavano le varie sezioni. I dormienti sarebbero stati immagazzinati in tre cavità ben distanti le une dalle altre per ridurre al minimo la probabilità che un unico incidente potesse paralizzare la missione. Le squadre tecniche — computer, scienze della vita, operazioni meccaniche — vennero suddivise in maniera uguale. Quelle capsule a forma di scatola vennero disposte verso l'esterno come le braccia d'una stella marina che si dipartivano dalla vertebra centrale degli apparati di sopravvivenza e controllo. Le apparecchiature del sistema di sopravvivenza si estendevano, perifericamente, formando una specie di zaino bitorzoluto su ciascuna bara. Carl non poteva fare a meno di vederle in quel modo, sia per l'aspetto, sia considerando il fatto che i dormienti, nel loro interno, erano quanto di più vicino alla morte avrebbero potuto essere… pur potendo ancora tornare indietro. Ogni capsula doveva venir sistemata in nicchie di duroplastica che le proteggevano ma allo stesso tempo permettevano all'interno di scambiar calore con il ghiaccio vicino. L'idea originaria era stata quella di lasciare che il ghiaccio raffreddasse direttamente i dormienti, ma su Encke Carl aveva visto i risultati di quel sistema: c'era un sacco di anidride carbonica e di neve amorfa che potevano vaporizzare in maniera esplosiva, facendo saltare le valvole e i sigilli delle «bare». Non era una buona idea utilizzare sostanze volatili nel vuoto spinto. Così, i tecnici avevano dovuto predisporre dei paracolpi per proteggere i dormienti dai fremiti, dagli urti e dalla morte improvvisa per congelamento. — Impacca quegli ortho come sardine — trasmise Jeffers sul comunicatore a corto raggio. — Non voglio che si sentano soli. Jeffers stava sistemando dei tubi in un punto lì accanto, la sua trasmissione era schermata da quella degli altri. Carl attivò una morsa autoserrante, terminando il proprio lavoro. Poi si allontanò con un calcio. — Riposati un momento. Qui ci sono anche dei percell. — Non dannatamente molti. — Era stato Sergeov a parlare, il quale comparve alla vista sbucando da dietro l'argentea sfera d'uno scambiatore di calore. Lo spaziale russo era veloce, abile; mentre Carl guardava, si spostò di colpo, afferrò un cavo da un groviglio che assomigliava a un piatto di spaghetti e lo inserì in un armadietto di controllo. Quell'agilità rendeva quasi invidioso Carl. Quasi. Il trattamento percell aveva eliminato le malattie del sangue che Sergeov avrebbe erditato dai suoi genitori… ma lo aveva anche privato delle gambe. Carl si chiese quante volte quella gelida frase analitica l'avesse fatto infuriare, diventare rosso in faccia, indotto a stringere la mano a pugno. Sergeov era stato uno dei primi, fortunati, insuccessi… ancora vivi. Quei sopravvissuti avevano suscitato i primi timori. La plebaglia poteva Se era normale riuscire a trangugiare una mezza bottiglia di vodka e anche così riuscire senza difficoltà a far stare in equilibrio i bicchieri vuoti gli uni sopra gli altri, fino a cinque, sì, allora Sergeov era normale. Meglio che normale. Era andato direttamente nello spazio, dove le gambe, in effetti, erano un intralcio. Tutti quei muscoli e quelle ossa massicce erano inutili in caduta libera, esigendo cibo, ossigeno e tempo per tenerli in esercizio. Rimasugli della lotta contro la gravità. Sergeov era vissuto in orbita dall'età di dieci anni, guadagnando le paghe più alte come assemblatore. Le sue braccia parevano tronchi d'albero; una volta, quand'erano in orbita intorno alla Terra, Carl l'aveva visto trattare un impotente ispettore ortho come se fosse stato una bambola di stracci. L'uomo aveva borbottato un insulto, ma l'aveva prontamente pagato con cinque minuti di umiliazione totale. Eppure, Sergeov non era un sostenitore dell'Altopiano Tre; sprecava le sue energie a raffica, scaricando la sua avversione su tutti i terragnoli. — Piantala di blaterare — disse Carl. — Vieni ad aiutarmi con questi paracolpi termici. — Comunque, è vero — insisté Sergeov. — E tutto per delle buone ragioni, sicuro. I percell lavorano bene, così vanno nello spazio. Jeffers intervenne: — e finiamo per fare gli autisti agli ortho al di là di Nettuno. Sergeov sogghignò. Le sue mani, che apparivano eccezionalmente larghe anche attraverso i guanti da vuoto, lavoravano rapidamente in mezzo ai cavi, agili, efficienti, libere dal contrappeso a effetto-leva delle gambe penzolanti. — Jefferson ribadì: — Hai dannatamente ragione. Quando potremmo, invece, fare il Carl chiese: — Cosa, per esempio? Jeffers si girò su se stesso con un braccio, afferrando con l'altro un laser a corto raggio che fluttuava libero. Lo attivò. Una scarica azzurro-bianca schizzò dentro il ghiaccio a molti metri di distanza. — Ehi! — gridò Sergeov. Una nebbia bianca esplose davanti a loro. Ribollì via dentro la cavità, diradandosi, ma Ould-Harrad aveva visto. — Ehi, non ho ordinato nessun lavoro di saldatura rapida qua dentro! — Mi spiace. — Sergeov strizzò l'occhio a Jeffers e gridò: — Era un piccolo ritocco, c'era bisogno di rifondere la giuntura di un loculo. — Quelle sono — Mi spiace. Sergeov sorrise mentre lo diceva. Ould-Harrad era a centinaia di metri di distanza e non poteva vedere il disegno che Jeffers aveva tracciato nel ghiaccio con l'istantanea facilità dovuta alla pratica:
— Non sapevo che tu fossi un figlio di Marte, Jeff — trasmise Carl. Un fiore-femmina racchiuso dal simbolo di Marte: la rappresentazione grafica di un sogno. Una volta che fosse stato possibile guidare le comete fin dentro il sistema solare interno, sarebbe stato possibile sfruttarle. Ancora più facilmente, una gomitata affibbiata ad arte a una cometa molto al di fuori di Nettuno, uno sbuffo di gas accuratamente calcolalo, avrebbe potuto mandare quelle palle di ghiaccio a schiacciarsi sulle pianure marziane. Martellare Marte con i nuclei cometari sarebbe servito a creare un'atmosfera. Forse, questo avrebbe perfino indotto i vulcani marziani a eruttare di nuovo. La lenta erosione naturale si sarebbe fermata. L'inaridente marcia degli eoni sarebbe stata messa in fuga: il sogno di Prometeo. Facendo il cielo d'un azzurro aspro, ammantando le montagne di ghiaccio e fiamme, si sarebbero graffiate profondamente le terre, lacerando il permafrost, e liberando altro ghiaccio più antico, sottostante. Nubi, nebbie, e poi la pioggia: un clima sconosciuto da quando il debole calore del Sole aveva fatto evaporare gli ultimi pantani alimentati dai fiumi semiasciutti sul fondo delle intristite valli marziane, miliardi di anni prima, durante quella falsa primavera. Fra un secolo o giù di lì, un essere umano adeguatamente adattato avrebbe potuto essere in grado di respirare su quella superficie. L'idea era vecchia, ma alcuni percell l'avevano fatta propria. Vedevano in Marte il solo luogo plausibile dove degli esseri umani geneticamente alterati potevano realmente trovare un posto dove vivere. Anche se era ancora arido e freddo e tormentato da strane tempeste, Marte poteva diventare un mondo in cui i loro discendenti, ancora più manipolati geneticamente, sarebbero stati la norma, mentre gli ortho avrebbero sputato fuori i propri polmoni nel giro di pochi minuti. — Per chi pensi che stia lavorando? — rispose Jeffers. — È folle — trasmise Carl. — La terraformazione impiegherà secoli. Non è la soluzione dei nostri problemi. — Un percell può aspettarsi di vivere nello spazio, quanto?, cento anni? Duecento? — Il volto largo, sudato, di Sergeov, irradiò di nuovo il suo inevitabile sorriso. Jeffers trasmise: — Buttiamoci dentro a un paio di bare. Potremo vederlo tutti. — Non siamo qui per far questo — disse Carl. — Jeffers sta soltanto guardando avanti — ribatté semplicemente Sergeov. — Troppo dannatamente avanti. — Non esserne troppo sicuro — disse Jeffers, con voce misurata. Sergeov diede di gomito a Jeffers. — Anche tu sarai un Jeffers sbirciò Sergeov con attenzione. — Forse. O forse no. Carl corrugò la fronte. Tutto questo si stava svolgendo nei comunicatori a corta portata, e ne fu lieto. Carl aveva saputo quali erano le opinioni di Sergeov, ma rimase scioccato nel vedere che anche Jeffers amoreggiava con esse. Sergeov insistette: — Se gli ortho dicono no alla terraformazione di Marte, io dico sì, semplice. — È proprio là, nella simulazione della chimica e della fisica, chiaro come qualsiasi cosa — aggiunse Jeffers. — Metti dei mech a spinger giù comete là fuori, oltre Nettuno… ci vorrà un secolo, sì. Noi possiamo farcelo tutto dormendo. Carl trasmise: — Talvolta un uomo riesce a vedere con maggior chiarezza se tiene la bocca chiusa. — Indicò con un gesto Ould-Harrad che stava sfrecciando nella loro direzione. — D'accordo, interrompiamo — trasmise Jeffers. — Comunque, le cose stanno proprio così. Pensaci: il primo passo verso molto di più, forse — concluse Sergeov, scagliandosi lontano con un scrollata muscolare. Ould-Harrad ispezionò i piani di lavoro per i mech, poi se ne andò. Carl approfittò dell'occasione per allontanarsi e mettersi a lavorare da solo. Non gli era mai piaciuta la politica, e i loro discorsi fuori misura lo avevano inquietato. S'immerse nella dolce grazia planetare di Beethoven. Spostandosi attraverso le ombre color inchiostro e la gialla luce abbagliante dei fari, spingendo e rimorchiando, annusando l'odore acido della tuta, sentendo il I suoi genitori lo stavano conducendo in macchina lungo la costa, quando lui gliel'aveva detto. I quattro anni passati al Caltech erano trascorsi in un lampo di luce dorata e di notti di studio, scherzi di fine settimana e interminabili serie di problemi, laboratori, lezioni, e assai poco amore. Non ne aveva avuto il tempo. Sergeov era così sicuro che i percell erano speciali… be' d'accordo, sì, era magari anche logico che Sergeov dovesse pensarlo, per compensare ciò che non aveva mai avuto. Ma Carl sapeva che le cose stavano diversamente. Lui se l'era cavata bene perché aveva Per far bene qualcosa ci volevano sopportazione, costanza e uno stimolo continuo. Questi li aveva. L'intelligenza brillante, no. Così, mentre i suoi genitori lo conducevano lungo la costa, aveva lottato con quella verità interiore. Aveva presentato domanda a Berkeley per iscriversi all'istituto di astroingegneria e, contro tutte le aspettative, era stato accettato. Non gli avevano offerto nessuna borsa di studio, neppure un posto di assistente insegnante. Ciò significava che, comunque, non lo giudicavano un allievo eccezionale. Suo padre, in tutta onestà, aveva erroneamente scambiato questo per un altro sintomo del crescente pregiudizio contro i bambini creati da Percell. Carl sapeva che non era così. Le università sono bestie lente che non si lasciano smuovere dalla marea del pubblico pregiudizio. Il comitato di ammissione aveva indubbiamente considerato la sua media del 3,3 e avevano visto che era stato ottenuta soprattutto grazie ai buoni voti nei corsi di laboratorio e di disegno. La matematica e la fisica l'avevano messo alle corde più di una volta, stordendolo a colpi di integrazioni complesse a più variabili e di elettronica quantistica. A nord di Ventura, l'allegro chiacchierio della sua matrigna traboccava di un entusiasmo che lui aveva sempre trovato un po' eccessivo. Non era mai stao capace di dimenticare la lenta morte di sua madre e di abituarsi a questa nuova donna nella vita di suo padre. Così, era rimasto lì, sul sedile posteriore, ad ammirare il paesaggio, cercando di pensare. Le fulve colline di agosto erano scomparse alle loro spalle, rivelando l'azzurro violaceo del mare. La Route 1 scivolava via mentre cercava di spiegare loro i propri dubbi. Le sue storie di remoti campi di battaglia intellettuali risuonavano vuote in contrasto con il solido mondo duraturo esterno. Granai consumati dalle intemperie, il loro legno reso argenteo dall'intensa luce del sole; file di eucalipti, lussureggianti frutteti sui fianchi delle colline, ponti ferroviari lunghi e sottili che scavalcavano su alti trespoli gole impervie, generatori a microfusione scolpiti dentro i pendii delle montagne, mucche che si tenevano immobili come statue all'ombra color inchiostro delle querce frondose. Tutta la spensierata, prodiga ricchezza della Terra. La Morro Bay pareva una distesa di vetro quando si fermarono lì per la notte. La sua matrigna tutta una serie di «ohòoo» e «ahàaa» nel vedere un agile yacht di alabastro che stava passando via, veloce, al largo, oltre la lingua di sabbia che avvolgeva la baia. Grazioso, sì. Ma a Carl piacevano di più i pescherecci agli ormeggi, sporchi di olio, arrugginiti, scagliosi e ingombri di attrezzature. Si misero a discutere davanti a una zuppa di pesce in un ristorante sul molo. Suo padre era talmente agitato che aveva bevuto lo chardonnay come se fosse acqua, e ne aveva ordinato un'altra bottiglia, tutto rosso in viso. La mattina dopo si era svegliato sapendo quello che doveva fare. Mentre passavano in mezzo ai pendii erbosi delle colline, girando verso l'interno in direzione di San Luis Obispo fra le basse montagne rocciose, lo disse: tutt'a un tratto e con chiarezza. E adesso, nel ricordarlo, si avvide di essere stato anche brutale. Suo padre aveva urlato. Oppure sarebbe anche riuscito a ottenere una laurea, e un ragionevole lavoro dietro una scrivania. E con incredibile fortuna, un dottorato. Ma sarebbe rimasto perpetuamente di seconda categoria. E avrebbe sprecato molti anni. Ricordava la mano di suo padre che fendeva l'aria, quel gesto offeso che abbracciava le colline più oltre. Carl lo ricordava nei particolari, come la grana d'una fotografia, malgrado i sette anni affollati che erano passati da allora. Anni di apprendimento su come lo spazio funzionava Era, per i percell, un luogo naturale in cui riunirsi, pattinando alti sopra le masse brulicanti e suppuranti che li temevano e li disprezzavano. C'era anche la bellezza nello spazio, certo, ma le nicchie che l'uomo si era scavato erano più simili alle chiatte arrugginite, ormeggiate alla Morro Bay, logore e puzzolenti, ammaccate e riparate alla meglio, in grado di funzionare bene ma dall'aspetto disastroso. Attorno a lui planavano masse voluminose, i fari trafiggevano la gelida penombra. Le bare venivano spinte dentro i loculi scavati nel ghiaccio nero. Il violino di Beethoven cantava accompagnato dalle increspature d'un pianoforte attraverso lo sbadigliante silenzio dei secoli. Carl continuò a faticare ripensando ai lunghi anni che aveva passato nello spazio, lontano dalle verdi confusioni della Terra. |
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