"Nel cuore della cometa" - читать интересную книгу автора (Benford Gregory, Brin David)VIRGINIABussò titubante. Poi, quando non ricevette nessuna risposta ovattata, bussò con più forza. Questo causò un breve, querulo grugnito. Quando finalmente il pannello si aprì con un sibilo, Virginia entrò e si fermò appena oltre la soglia, mentre la porta tornava a chiudersi con un risucchio alle sue spalle. Chiese, timidamente: — Ti si sono rotti dei campioni? Pareva un buon inizio. Il pericolo, sempre che ci fosse stato, era passato da tempo prima che lei fosse venuta a saperlo. Saul aveva già lasciato il reparto di planetologia, dove il campione si era rotto, ed era sceso là nel suo laboratorio biologico. Ma l'ondata di preoccupazione che aveva percorso l'equipaggio l'aveva indotta infine a raccogliere il coraggio necessario per aggrapparsi a un pretesto. — Uhmmm? — Saul era intento a studiare i suoi schermi, prendendo appunti con una calligrafia minuscola in un libretto con una matita di vecchio modello. Si meravigliò della sua eccentricità: la spedizione utilizzava marchiatori elettronici standardizzati e schede di registrazione. Saul doveva aver portato con sé un pacco di quaderni per appunti come parte del piccolo bagaglio personale concesso ad ognuno di loro e che non poteva superare il peso stabilito. Aveva sentito di gente che si era portata bottiglie di vino di annata, e caviale, ma non matite, per l'amor del cielo! Non disse niente. Era meglio lasciarlo lavorare ancora per qualche istante, farlo riemergere dagli abissi. Camminò in mezzo a quell'intrico di trasparenze contorte, luccicanti provette, alambicchi, cavi aggrovigliati, un gorgogliare e uno scorrere di fluidi negli analizzatori microbiologici. — Pochi minuti ancora, Virginia, e sarò da te. Saul neppure sollevò lo sguardo mentre scribacchiava, manovrava il suo analizzatore, corrugava le sopracciglia. Virginia s'incamminò lungo una solitaria corsia cercando di leggere gli indici sui banchi e di seguire la logica compatta e involuta del laboratorio. Qui Saul poteva smontare i geni come se fossero modellini di Lego, mescolare le molecole come carte da gioco. Trovava sempre bizzarro il modo in cui delle provette e delle soluzioni dall'aspetto innocente come quelle potessero estendersi, trasporre la vita umana lungo nuovi sentieri, e chiuderne altri. Come se quei macchinari addormentati nascondessero una forza mostruosa, inplacabile. Quel pomeriggio, nel percorrere la strada fin là, era stata colpita dal modo in cui la spedizione fosse proprio così: stanze separate, idee immensamente potenti staccate le une dalle altre, tutte che davano il proprio contributo, eppure isolate. Uomini e donne insaccati in cilindri, cubi e sfere. Si muovevano attraverso la silenziosa, angusta geometria della Si chiese se l'equipaggio avrebbe comunicalo meglio, una volta giù dentro il nucleo di Halìey. Molti di loro avevano lavorato durante l'intero anno impiegato dal viaggio verso l'esterno, ma lei era stata messa a dormire in una capsula per dieci mesi. Prima del lancio i problemi relativi al finanziamento avevano ridotto all'osso il programma preparatorio della spedizione; non c'era stato il tempo di conoscere o anche soltanto d'incontrare la maggior parte dell'equipaggio. Aveva studiato i progetti dell'insedamento nel nucleo di Halley. Parevano splendidi come uno schema, un diagramma, una cianografia realizzati sulla Terra, ma adesso ognuno di loro sarebbe vissuto in un labirinto euclideo, in gabbia. Il lieve borbottio della ruota gravitazionale non faceva altro che sottolineare l'artificialità nella quale si trovavano incassati. Lei sentiva profondamente l'esistenza degli interni e degli esterni, delle sezioni e delle barricate. Cosi, per opporsi a tutto questo, era venuta li. Aveva raccolto tutto il proprio coraggio. Era uscita dal suo guscio. Passò irrequieta da una corsia all'altra. Ogni istante successivo era una separazione, che divideva un tormentato passato da un futuro che si spalancava vuoto: entrambe quelle immense distese di tempo premevano sul nervoso e traballante — Saul. Lui risalì da imprecisate profondità. — Uh, cosa, sì? — Sbatté gli occhi, le rughe spiccavano ancora intorno ai suoi occhi assorti. — Mi spiace… — Cosa… hai scoperto? Nel momento stesso in cui lo disse, Virginia sussultò. — Qualcosa di maledettamente strano. — Saul scosse la testa come se quasi sospettasse un errore. La sua matita rotolò sulle callosità granulose e macchiate della sua mano. — Cosa? — Contaminanti, credo. Carabattole della Terra dentro i campioni. Quel dannato Quiverian… — Si arrestò, il suo sguardo venne attirato da qualcosa sullo schermo. — Un secondo, forse questo… Virginia guardò l'ingranditore mentre lui guidava le microsonde per separare ed estrarre minuscoli campioni da parecchie masse oblunghe e chiazzate. Come riuscisse a distinguere una macchia marrone da un'altra era un mistero. A quel livello gli esperimenti diventavano un'arte insondabile. I micromanipolatori traducevano i suoi minuscoli movimenti in grazia chirurgica, il suo tocco seguiva quel folle guazzabuglio di antichi cristalli, l'attorcigliarsi e il serrarsi repentino dei viscidi e sgargianti idrocarburi. Dita agili e una mente indagatrice. Mozart e Picasso erano stati ugualmente incomprensibili. Lavorava metodicamente in silenzio, risucchiato dai suoi torbidi misteri. Si rilassò e osservò la sua «parete climatica». Il contratto dava ad ogni uomo dell'equipaggio il diritto di coreografare il proprio ambiente. Saul aveva scelto bene: un fiume azzurro scendeva divagando fino a una palude color smeraldo sotto uno stormo di bianchi uccelli dalle ali sbattenti che sfioravano la sua scintillante superficie. Le immagini erano ferme, precise; spruzzi luccicanti s'innalzavano là dove un uccello affondava un'ala nell'acqua e roteava su se stesso per atterrare. Più oltre, frammenti d'isole sparsi qua e là punteggiavano un pallido mare. Sulla sinistra candide distese di spiaggia costellavano quell'abbacinante giornata estiva. Il New England, forse il Massachussetts. Sì, aveva letto che un tempo era stato ad Harvard. E d'estate, naturalmente. Aveva scelto un periodo dell'anno che portava con sé un confortante calore, qualcosa per tenere a bada il gelo dell'antico ghiaccio che ben presto li avrebbe circondati. Era il tardo pomeriggio, sulle pareti del laboratorio, e lentamente i raggi del sole stavano diventando sempre più obliqui col procedere delle ore. Il fronte di una tempesta sfregava il proprio muso sull'orizzonte, i venti sferzavano le ombre vellutate che si raccoglievano sotto gli alberi nodosi. Virginia sentì un calore rassicurante che s'irradiava da quella scena, anche se sapeva che era in realtà la lana che lei indossava a fare quell'effetto. Saul indossava un due pezzi di cotone, azzurro con strisce bianche, con un ampio colletto rinascimentale come unico strappo alla regola. Poteva vedere che Saul non era un uomo che badasse molto al vestire… sarebbe andato in giro nudo, se la natura e la società l'avessero consentito. Mentre lei lo guardava pensosa, lui scosse la testa irritato, produsse un — Fatto? — Sì, senza nessun risultato. — Tambureggiò con le dita la superficie della scrivania. — Che cosa stavi cercando? — Qualche contaminante che mi era parso di vedere. Era… be', no, niente più del solito. — Faremo il primo turno insieme — azzardò lei. — Allora avremo tempo in abbondanza per lavorare alle nostre ricerche. Lui annuì. — Non vedo l'ora. Sedici mesi di pace e di tranquillità, a scavare il ghiaccio e a badare ai nostri simili sotto ghiaccio. — Ancora qualche settimana e cominceremo a ibernare la gente. Lui annuì distrattamente. Poi disse a un tratto: — Sono un ospite ben scadente… Qualcosa dal bar? — Ti rimangono ancora delle razioni alcooliche? — In questo laboratorio? Posso fare tutto quello che voglio. Ho la mia birra, se te la senti di rischiare. — Certo. — Sentiva il bisogno di rompere il ghiaccio, di raggiungerlo. Il suo volto era complesso, una lavagna sulla quale il tempo aveva scritto dappertutto, la bocca e gli occhi in conflitto fra loro. I suoi occhi parevano scrutare qualcosa di remoto, forse un problema che stava lentamente venendo a fuoco, un intelletto implacabile. Però le sue labbra tradivano quella concentrazione. Si torsero in una curva ironica, eppure erano piene e sensuali con un accenno di passione e d'energia. La mente gelida che governava quegli occhi non sapeva di quella soggiacente forza sommersa. Le contrazioni gareggiavano fra loro su quel viso, reso ancora più complesso dalla barba ispida, qui pallida, là chiazzata, una fronte luminosa la cui curva intercettava, riflettendo, un raggio dorato di quel tramonto nel New England. Con palese pregustazione fece schioccare i tappi di due bottiglie brune dal lungo collo, assomigliando d'uri tratto ad un robusto mercante un po' incanuito. Virginia si morse il labbro mentre entrambi sedevano. Adesso che aveva superato i primi momenti e intrapreso i passi che aveva riconsiderato cento volte, scoprì che non riusciva a toglierli gli occhi di dosso. — Sei qui a causa della nostra conversazione dell'altro giorno, non è vero? — lui disse. D'un tratto la sua espressione era più gentile, si stava aprendo verso l'esterno dopo essere uscito dalla sua autoimmersione. I suoi occhi incontrarono quelli di lei. — Ah… sì, sì. — Tanto valeva che l'attribuisse a quello. — Cos'è che aveva tua madre? — Il… lupus. — Ah, già. — Una fugace espressione di dolore guizzò nei suoi occhi. Si abbandonò sulla sedia a rete, si passò le mani dietro la nuca, si stiracchiò nella bassa gravità della ruota. — Mi ricordo quegli anni… In quel caso abbiamo trovato una soluzione pulita. Nessun effetto collaterale, come tu tanto chiaramente dimostri. Uhm. Hai mai visto un caso veramente grave? — No, ho letto… — Non è la stessa cosa. Sotto il microscopio le cellule non sono uno schieramento compatto di cilindri quasi regolari, sai, sono deformi, — Ma grande parte del merito può andare anche a te. Lui rise. — Mia cara, la mia carriera negli ultimi decenni è dipesa dal — Con noi percell… è diverso. Lui esibì uno stanco sorriso. Stanco e La donna corrugò la fronte. — Scusa, non sono chiaro. È una mia abitudine. Abbiamo tracciato una mappa di tutti i nucleotidi del DNA già molto tempo fa. Sapevamo dove si trovava ogni cosa: una grande mappa. Soltanto, non sapevamo qual era il suo — I miei geni non portano il lupus, voi sapevate come farlo. E i miglioramenti percell sono efficaci. — Ovviamente. — Un sorriso. Si sentì arrossire a quel complimento. Frugò dentro la propria mente alla ricerca di qualcosa di adeguato da replicare. — Abbiamo ogni genere di vantaggio… — È vero… — Era ancora pensoso, intento a riflettere su anni e periodi che lei non poteva conoscere. Eppure quei giorni non sarebbero morti, fintanto che ci fossero stati dei percell. E il retaggio viveva in ogni corridoio di quella spedizione. Saul sospirò. — Ma non è abbastanza vero. Sicuro, abbiamo messo sotto controllo i disordini dell'emoglobina, la malattia di Huntington, tutti i bersagli facili. Stacca via qualche molecola. Spunta, pota. Cambia il criptogramma e… presto fatto. — Ho letto che ci sono più di due milioni di persone che vi devono questo. — Hai messo le mani sul giornale clandestino proibito dei percell? — chiese lui, con finta serietà. — Sì, giusto. Tu sei delle Hawaii. Là abbondano ancora i sentimenti pro percell, no? Chi ha indotto i servizi di sicurezza ad approvare il tuo arruolamento? — Sono così in gamba che — Brava! — applaudì lui. — Brava, davvero. E — Davvero? — D'un tratto si era fatta seria. — Cosa… cosa c'è là dentro? Hanno… Saul agitò la mano. — Niente sulle tue idee sovversive. Non una virgola. I suoi occhi si spalancarono, la sua bocca formò un O sbalordito… e poi vide che Saul stava scherzando. — Ah… oh… eh. — Non gli importa se tu pensi che i percell sono in gamba quanto gli… com'è il gergo?… sì, gli D'un tratto, Virginia si accorse di aver avuto ragione, il suo atteggiamento davanti agli altri era una maschera. — Loro… pensano questo, vero? — Temo di sì. Molti di loro, comunque. — Anche se hanno lasciato che alcuni di noi partecipassero a questa spedizione? — Lasciato… — Saul cominciò, poi scosse la testa. — Avevano le loro ragioni. — Ma… — Virginia, ti è mai passato per la testa che togliersi dai piedi dei percell intelligenti, accaniti lavoratori, potenziali piantagrane, poteva essere un'idea molto attraente? — Naturalmente. — Corrugò la fronte. — E qualcuno di voi non è contento di essersi sbarazzato di tutto quel Lei dovette ammettere che Saul aveva ragione. Quando la — Quali, per esempio? Saul si sporse in avanti dalla sedia, dando l'impressione di essere sinceramente interessato. Gli obliqui raggi arancione del tramonto sul Massachussetts colpirono la sua chiazza di calvizie, eppure non sembrava molto vecchio, soltanto saggio e gentile, e serenamente potente. — Be'… mio padre pensava che fossi speciale. Che la nostra famiglia fosse unica, una specie di storico esperimento. — Ah. Un comportamento comune. — Io… io lo odiavo. — Ti sentivi speciale? — Mi sentivo… diversa. — In realtà non lo sei. — Prova a dirlo a — I tuoi genitori avrebbero dovuto proteggerti da questo. — Loro… ascoltavano. Quand'ebbi undici anni, ero la sola ragazza nella mia classe senza le calze di nylon. Così andai ai grandi magazzini e ne comperai un paio. Non avevo — Tua madre… — È morta quando avevo dieci anni. — Lupus. Virginia annuì. — Così, eri un monellaccio. Facevi il surf, ti crogiolavi nello splendore hawaiano. — Sì. Era bellissimo, ma… Fu mio padre ad allevarmi. Ricordo un giorno, quando stavo giocando a catch in T-shirt con i ragazzi, di aver sentito delle risatine a proposito dei miei seni che rimbalzavano su e giù… Questo accadeva su Maui, dove nessuno è particolarmente riluttante a parlare di queste cose. Così, tornai ai grandi magazzini. Una commessa dovette spiegarmi cos'erano i reggiseni… non sapevo neppure cosa significassero i numeri. Poi, in seconda media, cominciai a indossare gonne invece di jeans, perché lo facevano le altre ragazze. Un ragazzo diede un'occhiata alle mie gambe pelose, e mi disse: «Per Natale ti regalerò un rasoio». Avrei voluto morire! Il giorno dopo presi a prestito il rasoio di mio padre e mi tagliai l'osso dello stinco così malamente che ancora oggi ne conservo la cicatrice. — Capisco. D'un tratto Virginia si sentì imbarazzata. Tutto quello che aveva detto, per qualche motivo le era saltato fuori senza che questa fosse la sua intenzione. — Non ero molto in gamba in queste cose. Avevo l'abitudine di dirmi che era dovuto al fatto che mia madre era morta e non c'era nessuno in grado di spiegarmi. Così mi concentrai sulla matematica, sui computer. — E se tu non l'avessi fatto, oggi potresti essere una casalinga perfettamente felice, chissà dove, con i bambini che ti tirano i lacci del grembiule. Virginia esibì un sorriso furbesco, soffocando un improvviso, intimo dolore, spinta da un vecchio riflesso. — — Precisamente. Ma il volto di Saul era diventato pensoso, i suoi occhi riflettevano qualche rimescolio interiore. — Vi amo tutti, sai. — Tu… La sua voce era molto bassa. — Tutti i percell. Voi… pagate per i nostri… — I vostri cosa? — I nostri peccati. — Ma tu Agitò una mano, azzittendola. — Mi spiace. Io… talvolta mi ricordo com'era un tempo. Quali erano le nostre speranze, quello per cui lavoravamo. Adesso è tutto finito. È una delle ragioni principali per cui mi sono arruolato. Per sfuggire a un'intera coorte d'insuccessi. — Ma tu — No, smettiamola… Quei giorni sono impossibili da dimenticare, ma è inutile ricordarli. Meglio lasciarli andare. — Saul, io… io ti rispetto così… Ma lui agitò energicamente le mani davanti al proprio viso, bandendo ogni discorso. — Sai che ti dico, ti riempio di nuovo il bicchiere e… e… D'un tratto si girò di lato e sternuti. — Dannazione! Non riesco a sbarazzarmi di questo affare. — Prendi un anti. — L'ho fatto. I percell non dovevano soffrire raffreddori. I «sarti» dei geni, mentre stavano fagliando via l'anemia e il lupus, e le altre malattie stabilite, avevano spuntato il complesso di molecole codificate che avevano offerto ai virus la libertà di scorrazzare, e all'umanità un milione di anni di raffreddore e influenzi,. — Bene, allora… lascia che prepari un po' di tè. Sorrise ancora, ma i suoi occhi azzurro acciaio erano remoti, pensavano a qualcosa di lontano nel passato che lei non riusciva a immaginare. — Sì, benissimo. Mia madre… faceva questo. Poi arrivava la zuppa di pollo. — Rise, ma non con gli occhi. |
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