"Il quinto giorno" - читать интересную книгу автора (Schätzing Frank)

6 aprile

Kiel, Germania

Due settimane dopo aver consegnato a Tina Lund i risultati definitivi delle analisi sui vermi, Sigur Johanson era seduto in un taxi che lo stava portando nel luogo più rinomato tra i geografi marini europei, il centro di ricerca Geomar.

Quando servivano notizie sulla formazione, sullo sviluppo e sulla storia del fondale marino, si consultavano sempre gli scienziati di Kiel. Persino James Cameron era andato lì per avere un riscontro sulla fattibilità di progetti come The Abyss o Titanic. Il lavoro degli scienziati del Geomar era difficile da spiegare alla gente comune. A prima vista, rovistare tra i sedimenti e misurare la salinità dell'acqua non sembravano attività destinate a portare un contributo concreto alla soluzione dei più urgenti problemi dell'umanità. In effetti, era difficile spiegare ai profani ciò che, ancora all'inizio degli anni '90, la maggior parte degli scienziati non aveva voluto credere: i fondali marini, lontani dalla luce e dal calore del sole, non erano un deserto roccioso privo di vita. Là sotto, la vita brulicava. Certo, si conoscevano da tempo le specie esotiche lungo le pareti dei camini idrotermali degli abissi. Tuttavia, quando fu chiamato a lavorare al Geomar, nel 1989, il geochimico Erwin Suess dell'Oregon State University aveva raccontato cose ancora più bizzarre: oasi di vita nei pressi delle fonti fredde abissali, misteriose energie chimiche che salivano dall'interno della Terra e massicci giacimenti di una sostanza che, fino ad allora, aveva ricevuto pochissima attenzione, in quanto ritenuta un prodotto bizzarro e privo d'importanza: l'idrato di metano.

Da poco le scienze della Terra cominciavano a uscire dall'ombra in cui loro stesse — come la maggioranza delle scienze — si erano relegate troppo a lungo. Cercavano di aprirsi all'esterno, nutrivano la speranza di poter prevedere e controllare le catastrofi naturali, le trasformazioni climatiche e ambientali. Sembrava che il metano potesse dare una risposta ai problemi energetici del futuro. La fame d'informazioni della stampa si era risvegliata e i ricercatori avevano imparato — all'inizio con timidezza, poi progressivamente con modi da popstar — a piegare a proprio vantaggio l'interesse che si era risvegliato.

IL taxista che stava portando Johanson verso il fiordo di Kiel sembrava non aver capito nulla di tutto ciò. Da venti minuti esprimeva il suo dissenso, chiedendosi come fosse possibile che avessero messo un centro di ricerca costato milioni nelle mani di alcuni pazzi, di gente che, ogni due mesi, partiva per una crociera dispendiosa, mentre quelli come lui riuscivano a campare a stento. Johanson, che parlava perfettamente il tedesco, non aveva voglia di correggere quelle convinzioni, anche perché il taxista era un fiume in piena. Inoltre parlava gesticolando e faceva sbandare paurosamente la macchina.

«Non si sa che cosa combinano», stava infatti brontolando. «Ma lei è un giornalista?» chiese poi, vedendo che Johanson non gli rispondeva.

«No. Sono un biologo.»

L'uomo cambiò argomento all'istante e si dedicò alle devastanti conseguenze delle frodi alimentari. Evidentemente aveva visto in Johanson uno dei responsabili di quello spreco. Borbottava contro la verdura geneticamente modificata, i costosissimi prodotti biologici e intanto provocava il suo passeggero. «Ah, un biologo. Lei sa che cosa si può mangiare senza preoccupazioni? Io non lo so. Non si può mangiare più nulla. Non si dovrebbe mangiare più nulla di quello che c'è in commercio. Non bisognerebbe dargli più nemmeno un centesimo.»

L'auto finì sulla corsia opposta.

«Se non mangia, morirà di fame», disse Johanson.

«E allora? Che importanza ha di cosa si muore? Se non si mangia si muore, se si mangia si muore per quello che si mangia.»

«Lei ha senza dubbio ragione. Personalmente, tuttavia, preferirei morire mangiando un filetto piuttosto che nello scontro con quell'autocisterna.»

Per nulla impressionato, il taxista imboccò l'uscita, tagliando tre corsie e sempre procedendo a grande velocità. L'autobotte strombazzò. Alla sua destra, Johanson vide il mare. Procedevano lungo la riva orientale del fiordo di Kiel. Dalla parte opposta, enormi gru svettavano verso il cielo.

Evidentemente il taxista aveva preso male l'ultima osservazione di Johanson, perché non aveva più detto una parola. Attraversarono le strade della periferia con le casette dal tetto spiovente, finché non comparve l'ampio complesso di edifici di cemento, vetro e acciaio che non avevano nulla a che fare con quella tranquillità piccolo borghese. Il taxista svoltò in modo brusco nella zona dell'istituto e si fermò facendo stridere le gomme. Johanson ispirò profondamente, pagò e scese con la consapevolezza di aver vissuto negli ultimi quindici minuti un'esperienza decisamente peggiore di quella sull'elicottero della Statoil.

«Mi piacerebbe proprio sapere che cosa combinano là dentro», disse il taxista. Sembrava quasi che parlasse al volante.

Johanson si chinò e lo guardò attraverso il finestrino del passeggero. «Lo vuole davvero sapere?»

«Sì.»

«Cercano di salvare il lavoro dei taxisti.»

L'altro lo guardò, sbalordito. «Non capita spesso di portare qui dei clienti…» mormorò.

«Ma per farlo la sua macchina deve muoversi. Se finisce la benzina, i vostri rottami potete anche demolirli, a meno che non si possa farli funzionare con qualcos'altro, e quel qualcosa è nel mare. Metano. Combustibile. Stanno cercando di renderlo utilizzabile.»

Il taxista aggrottò la fronte, poi disse: «Sa qual è il problema? Che nessuno ci spiega queste cose».

«C'è su tutti i giornali», replicò Johanson.

«C'è sui giornali che legge lei, caro signore. Nessuno si sforza di spiegarlo a me.»

Johanson era tentato di rispondere. Invece si limitò ad annuire e chiuse la portiera. Il taxi voltò e sfrecciò via.

«Dottor Johanson!» gridò qualcuno. Da un edificio rotondo di vetro uscì un giovane abbronzato e venne verso di lui.

Johanson gli strinse la mano. «Gerhard Bohrmann?»

«No, Heiko Sahling, biologo. Il dottor Bohrmann arriverà con un quarto d'ora di ritardo, sta tenendo una lezione. Posso accompagnarla da lui, oppure magari andiamo a berci un caffè al bar.»

«Lei che cosa preferisce?»

«Per me è lo stesso. Molto interessanti i suoi vermi, sa?»

«Se ne è occupato lei?»

«Ce ne siamo occupati tutti. Venga, conserviamo il caffè per dopo. Gerhard finirà tra poco; intanto andiamo a sentire la sua lezione.»

Entrarono in un foyer molto elegante. Sahling lo condusse lungo una scalinata e sopra una passerella d'acciaio. Per essere un istituto scientifico, il Geomar somigliava fin troppo a un edificio che volesse vincere un premio architettonico, pensò Johanson.

«In genere le lezioni si tengono nell'auditorium», spiegò Sahling. «Ma oggi abbiamo in visita una scolaresca.»

«Lodevole.»

Sahling sorrise. «Per i quindicenni non c'è differenza tra un auditorium e un'aula. Allora abbiamo girato con loro per tutto l'istituto. Avevano il permesso di guardare ovunque e di toccare quasi tutto. Abbiamo tenuto il deposito delle rocce per ultimo. Lì Gerhard racconta loro la storia della buona notte.»

«Su che cosa?»

«Sugli idrati di metano», rispose Sahling. Aprì una porta a vetri. La passerella proseguiva anche oltre. Il deposito delle rocce era grande come la metà di un hangar. L'edificio era aperto verso il molo e Johanson fissò lo sguardo su una nave molto grande. Lungo le pareti erano accatastate casse e apparecchiature. «Qui vengono immagazzinati provvisoriamente i campioni», disse Sahling. «Prevalentemente sedimenti e campioni di acqua marina. Archiviamo la storia della Terra. Ne siamo particolarmente orgogliosi.» Sollevò una mano, facendo un cenno di saluto. Da sotto, un uomo molto alto rispose e tornò a dedicarsi al gruppo di adolescenti. Johanson si appoggiò al parapetto della passerella e lo ascoltò.

«… Uno dei momenti più eccitanti che abbiamo vissuto», stava dicendo il dottor Gerhard Bohrmann. «La benna, a circa ottocento metri di profondità, aveva scavato alcuni quintali di sedimenti infarciti di una sostanza bianca e aveva versato i frammenti sul piano di lavoro. Per essere precisi, solo quello che era arrivato in superficie.»

«Era nel Pacifico», mormorò Sahling. «Nel 1996, sulla Sonne, circa cinquanta miglia marine al largo dell'Oregon.»

«Dovevamo fare in fretta. L'idrato di metano è molto instabile e inaffidabile», proseguì Bohrmann. «Credo che non ne sappiate molto di queste cose, quindi cercherò di spiegarlo in modo che nessuno muoia di noia. Che succede negli abissi marini? Tra le altre cose, c'è del gas. Il metano biogeno, per esempio, si forma in milioni di anni, attraverso la decomposizione dei resti di animali e piante. Quando le alghe, il plancton e i pesci si decompongono, liberano una gran quantità di carbonio organico. Della decomposizione si occupano alcuni batteri. Negli abissi marini, ci sono temperature molto basse e una pressione straordinaria. Ogni dieci metri, la pressione dell'acqua aumenta di un bar. I sommozzatori in carne e ossa arrivano a cinquanta metri di profondità, massimo settanta. Ma è tutto lì. Il record d'immersione con aria compressa è di centoquaranta metri, ma è una cosa che sconsiglio vivamente. Simili tentativi in genere finiscono con la morte. E qui stiamo parlando di una profondità di cinquecento metri! Lì la fisica funziona a modo suo. Per esempio, se una grande concentrazione di metano sale dall'interno della Terra fino al fondale marino, laggiù succede una cosa straordinaria. Il gas si lega con l'acqua fredda degli abissi e diventa ghiaccio. Vi sarà capitato di leggere sul giornale il concetto di ghiaccio di metano. Non è del tutto corretto. Non è il metano a congelare, bensì l'acqua circostante. Le molecole dell'acqua si cristallizzano in minuscole strutture a gabbia, al cui interno si trova la molecola di metano. Comprimono il gas e lo costringono in uno spazio più ristretto.»

Uno studente alzò la mano, esitante.

«Hai una domanda?»

Il ragazzino nicchiò. «Cinquecento metri non è proprio profondo, vero?» disse infine.

Bohrmann lo osservò per alcuni secondi in silenzio, poi disse: «Non sei particolarmente impressionato, vero?»

«Sì, certo. Pensavo solo che… Jacques Picard è stato con un batiscafo nella fossa delle Marianne, ed è profonda undicimila metri. Voglio dire, quella sì, che è profonda. Perché quel ghiaccio non si trova anche laggiù?»

«Tanto di cappello… Hai studiato la storia dei viaggi umani negli abissi. E tu, cosa pensi?»

Il ragazzo rifletté un po', poi scrollò le spalle.

«Ma è chiaro», rispose una ragazza al suo posto. «Laggiù c'è pochissima vita. Dai mille metri di profondità viene decomposta poca materia, quindi c'è poco metano.»

«Lo sapevo», mormorò Johanson sul ponte. «Le donne sono più intelligenti.»

Bohrmann sorrise compiaciuto alla ragazza. «Giusto. Naturalmente ci sono delle eccezioni. E in effetti si trovano idrati di metano anche a grandi profondità, anche a tre chilometri… basta che si depositino sedimenti con un alto contenuto di materiale organico. Per esempio, in alcuni mari dello zoccolo continentale. Abbiamo cartografato concentrazioni di idrati anche in acque molto basse, dove la pressione non dovrebbe essere sufficiente. Ma se la temperatura è molto fredda, si arriva comunque alla formazione di idrati, per esempio sullo zoccolo continentale polare.» Tornò a rivolgersi a tutta la scolaresca. «Tuttavia i giacimenti principali si trovano sulle scarpate continentali, tra i cinquecento e i mille metri. Metano compresso. Poco tempo fa, abbiamo esaminato, al largo della costa nordamericana, una montagna sottomarina alta mezzo chilometro e lunga venticinque chilometri. È costituita per lo più di idrati di metano. Una parte è sotto, nella roccia, l'altra è sul fondale marino. Abbiamo scoperto che l'oceano ne è pieno. Ma sappiamo anche altro: le scarpate continentali sottomarine sono tenute insieme prevalentemente dagli idrati di metano! È come la malta. Se si togliessero di colpo tutti gli idrati, la scarpata continentale sarebbe bucherellata come un formaggio svizzero. Con la differenza che il formaggio mantiene la propria forma anche coi buchi. Le scarpate, invece, crollerebbero!»

Bohrmann aspettò qualche secondo perché le sue parole facessero effetto, quindi riprese: «Ma non è tutto. Come vi ho detto, gli idrati di metano sono stabili solo con un'elevata pressione associata a temperature basse. Ciò non vuol dire che tutto il metano è congelato: lo sono solo gli strati superiori. Perché, nell'interno della Terra, le temperature tornano a salire e in profondità, nei sedimenti, ci sono bolle di metano non congelato. Rimangono gassose. Ma, visto che gli strati superiori congelati sono come un coperchio, il gas non può uscire».

«Ho letto qualcosa su questo argomento», disse una ragazza. «I giapponesi stanno cercando di estrarlo, vero?»

Johanson era divertito. Ricordava i suoi anni di scuola. In ogni classe c'era sempre uno studente eccezionalmente preparato che sapeva già la metà di quello che avrebbe dovuto imparare. Pensò che quella ragazza non fosse particolarmente benvoluta dai compagni.

«Non solo i giapponesi», rispose Bohrmann. «Tutto il mondo vorrebbe estrarlo. Ma è molto difficile. Quando portiamo in superficie i frammenti di idrati anche solo da ottocento metri di profondità, le bolle di gas si staccano dai detriti già a metà strada. Quello che riusciamo a portare in superficie non è poco, tuttavia è solo una parte di quello che abbiamo estratto. Ho detto che gli idrati di metano diventano subito instabili. Se a cinquecento metri di profondità la temperatura dell'acqua si alzasse di un solo grado, gli idrati potrebbero diventare instabili di colpo, così li potremmo prendere e infilarli subito in una cisterna con l'azoto liquido, dove rimarrebbero stabili. Ma venite un po' qua.»

«È bravo», osservò Johanson, mentre Bohrmann si avviava con la scolaresca verso una scansia di acciaio grezzo saldato. Vi erano stipati contenitori di diversa grandezza. In basso c'erano quattro taniche color argento. Bohrmann ne tirò fuori una a fatica, s'infilò i guanti e sollevò il coperchio. Si sentì un sibilo e uscì un vapore bianco. Alcuni degli studenti fecero istintivamente un passo indietro.

«È solo azoto.» Bohrmann infilò la mano nel contenitore e tirò fuori un blocco grande come un pugno, che sembrava un grumo di ghiaccio sudicio. Dopo pochi secondi, il grumo cominciò a sibilare e a scricchiolare debolmente. Lui fece un cenno alla ragazza che era intervenuta poco prima e, quando lei si fu avvicinata, staccò un pezzo dal grumo e glielo allungò. «Non aver paura. È freddo, ma non è pericoloso», le disse.

«Puzza», commentò la ragazza.

Alcuni studenti risero.

«Esatto. Puzza di uova marce. Questo è il gas. Si disperde.» Bohrmann ruppe il frammento in altri pezzi e li distribuì. «Guardate cosa succede. Le strisce di sporco nel ghiaccio sono particelle di sedimenti. Tra qualche secondo, non resteranno che qualche briciola e una pozzanghera d'acqua. Il ghiaccio si scioglie, le molecole di metano escono dalla loro gabbia e si volatilizzano. Si può descrivere anche così: quello che poco fa era stabile sul fondale marino, nel giro di pochissimo tempo si trasforma in niente. Ecco ciò che vi volevo mostrare.» Fece una pausa. Gli studenti avevano rivolto tutta la loro attenzione ai frammenti che, sibilando, diventavano sempre più piccoli. Di tanto in tanto si levavano commenti ironici sulla puzza. Bohrmann attese finché i frammenti non si furono sciolti, poi proseguì: «Ma intanto è successo anche qualcosa che non avete potuto vedere. Ed è decisivo per comprendere il rispetto che abbiamo per gli idrati. Poco fa, vi ho detto che le gabbie di ghiaccio sono in grado di comprimere il metano. Da ogni centimetro quadrato degli idrati che avete avuto in mano, si sono liberati 165 centimetri cubi di metano. Quando gli idrati si sciolgono, il volume aumenta di 165 volte. E di colpo. Quello che rimane è la pozzanghera nelle vostre mani. Puoi infilarci la punta della lingua», disse alla ragazza. «Dicci che sapore ha.»

La studentessa lo guardò, scettica. «In quella roba puzzolente?»

«Non puzza più. Il gas si è volatilizzato. Ma, se non ti fidi, lo farò io.»

Tra le risatine dei compagni, la ragazza abbassò lentamente la testa e leccò l'acqua. «È acqua dolce», gridò poi, sbalordita.

«Esatto. Quando l'acqua gela, il sale viene, per così dire, eliminato. Per questo l'Antartico è la più grande riserva d'acqua dolce della Terra. Gli iceberg sono d'acqua dolce.» Bohrmann chiuse il recipiente stagno con l'azoto liquido e lo infilò di nuovo nello scaffale. «Quello che avete visto è il motivo per cui l'estrazione di idrati è oggetto di sentimenti tanto contrastanti. Se i nostri interventi rendono instabili gli idrati, forse la conseguenza sarà una serie di reazioni a catena. Che cosa succederebbe se esplodesse la malta che tiene insieme la scarpata continentale? Che effetti ci sarebbero sul clima mondiale se tutto il metano delle profondità marine si liberasse nell'atmosfera? Il metano è un gas serra e potrebbe scaldare ulteriormente l'atmosfera; allora i mari diventerebbero ancora più caldi e così via. Noi stiamo riflettendo proprio su queste domande.»

«E allora perché cercate di estrarlo?» chiese un altro studente. «Perché non lo lasciate laggiù e basta?»

«Perché potrebbe risolvere i problemi energetici», disse la ragazza, facendo un passo in avanti. «Ho letto che i giapponesi non hanno combustibili propri e devono importarli. Il metano risolverebbe i loro problemi.»

«È una follia», ribatté il compagno. «Se crea più problemi di quelli che potrebbe risolvere, allora è solo dannoso.»

Johanson si mise a ridacchiare.

«Avete ragione entrambi.» Bohrmann sollevò le braccia. «Potrebbe risolvere i problemi energetici. Per questo non è più un problema esclusivamente scientifico. Le multinazionali dell'energia hanno preso in mano la ricerca. Stimiamo che negli idrati marini ci sia il doppio di metano-carbonio che in tutti i giacimenti di gas naturale, petrolio e carbone presenti sulla Terra messi insieme. Solo sulla dorsale di idrati al largo dell'America, cioè in un'area di ventiseimila chilometri quadrati, ne sono stipate trentacinque gigatonnellate. È cento volte il fabbisogno annuale di gas degli Stati Uniti!»

«È impressionante», disse Johanson sottovoce a Sahling. «Non sapevo che ce ne fosse tanto.»

«È anche di più», replicò il biologo. «Non mi ricordo esattamente il numero, ma lui lo sa di certo.»

Come se Bohrmann avesse sentito, disse: «Probabilmente — possiamo solo ipotizzarlo — nel mare ci sono più di diecimila gigatonellate di metano congelato. Inoltre vi sono anche riserve a terra, nel permafrost dell'Alaska e della Siberia. Solo per darvi un'idea della quantità, tenete presente che oggi, nei giacimenti utilizzabili di carbone, petrolio e gas naturale, ci sono in tutto circa cinquemila gigatonnellate. Non c'è da meravigliarsi se le società energetiche si stanno rompendo la testa per estrarre gli idrati. Una minima percentuale raddoppierebbe in un colpo le riserve energetiche degli Stati Uniti, che sono di gran lunga i maggiori consumatori. Ma è sempre la solita storia: le industrie vedono una gigantesca riserva di energia, la scienza una bomba a orologeria, quindi si cerca d'instaurare una collaborazione, naturalmente sempre nell'interesse dell'umanità. Così siamo arrivati alla fine della nostra spedizione. Grazie di essere stati qui». Ridacchiò sotto i baffi. «Volevo dire, di avermi ascoltato.»

«E di aver capito qualcosa», mormorò Johanson.

«Speriamo», aggiunse Sahling.

«Avevo un'immagine diversa di lei», disse Johanson alcuni minuti dopo, quando strinse la mano a Bohrmann. «Nelle foto su Internet hai baffi.»

«Tagliati.» Bohrmann si toccò il labbro superiore. «In fondo, è addirittura colpa vostra.»

«Come?»

«Ho riflettuto in continuazione sui vostri vermi. Anche stamattina. Ero davanti allo specchio e un verme è strisciato davanti al mio occhio interiore e ha fatto una rotazione che, per motivi inesplicabili, il mio rasoio ha seguito. Ho tagliato una punta e così ho sacrificato tutti i baffi alla scienza.»

«Allora ho sulla coscienza i suoi baffi.» Johanson sollevò le sopracciglia. «Ogni tanto cambiare fa bene.»

«Non c'è problema. Ricresceranno non appena partiremo per la spedizione. In mare se li fanno crescere tutti. Non so perché. Forse abbiamo bisogno di sembrare avventurieri per non soffrire il mal di mare. Venga, andiamo in laboratorio. O forse vuole prima una tazza di caffè? Possiamo fare una puntata al bar.»

«No, sono troppo curioso, il caffè può aspettare. Parte per un'altra spedizione?»

«In autunno», annuì Bohrmann, mente attraversavano passerelle e corridoi di vetro. «Vogliamo andare nella zona di subduzione delle Aleutine e fare ricerche sulle fonti fredde. Ha avuto fortuna a trovarmi a Kiel. Sono tornato dall'Antartico quattordici giorni fa; c'ero rimasto quasi otto mesi. La sua telefonata è arrivata un giorno dopo il mio rientro.»

«Posso chiederle che cos'ha fatto per otto mesi all'Antartico?»

«Ho portato gli uwis sul ghiaccio.»

«Chi?»

Bohrmann sorrise. «Gli Uberwinterer, gli 'svernatori'. Scienziati e tecnici. A dicembre hanno cominciato il loro turno nella stazione. La squadra al lavoro sta estraendo carote di ghiaccio da quattrocentocinquanta metri di profondità. Non è incredibile? Quel vecchio ghiaccio contiene la storia del clima degli ultimi settemila anni!»

Johanson pensò al taxista e disse: «La maggior parte delle persone non si entusiasma per cose simili. Non riescono a capire il rapporto tra la conoscenza della storia del clima e la fine delle carestie. Oltretutto non serve a vincere i prossimi mondiali di calcio».

«Qualche responsabilità l'abbiamo anche noi. La scienza si è chiusa nel proprio guscio», osservò Bohrmann.

«Lo crede? La sua piccola conferenza sembrava tutt'altro che 'chiusa'.»

«Però non so se questa apertura all'opinione pubblica serva a qualcosa», sospirò Bohrmann, mentre scendevano una rampa di scale. «Di fronte al disinteresse generale, i giorni di 'porte aperte' cambiano poco. Poco tempo fa ne abbiamo avuto uno e c'era un sacco di gente. Ma se avesse chiesto a qualcuno dei visitatori se sia giusto che vengano stanziati dieci milioni di nuovi finanziamenti…»

Johanson tacque per un attimo, poi disse: «Credo che il vero problema siano gli universi che dividono noi scienziati. Che ne pensa?»

«Perché comunichiamo poco?»

«Sì, la comunicazione è scarsa anche tra la scienza e l'industria, tra gli scienziati e i militari.»

«O tra la scienza e i colossi del petrolio?» chiese Bohrmann, scoccandogli una lunga occhiata.

Johanson sorrise. «Sono qui perché qualcuno ha bisogno di una risposta. Non per estorcerla.»

«L'industria e i militari dipendono dagli scienziati, che gli piaccia o no», s'intromise Sahling. «Comunichiamo, certo. Ma il problema è che non possiamo mediare i nostri punti di vista.»

«Del resto non lo si vuole neppure!» esclamo Johanson.

«Giusto. Ciò che i nostri uomini fanno sul ghiaccio potrebbe servire a evitare una carestia. Ma potrebbe anche portare alla costruzione di una nuova arma. Guardiamo la stessa cosa, ma ognuno la vede in modo diverso», disse Sahling.

«E tutto il resto ci sfugge», confermò Bohrmann. «Quegli animali che ci ha mandato, dottor Johanson, ne sono un buon esempio. Non so se per causa loro si dovranno mettere in discussione i progetti sulla scarpata continentale, ma, quando sono nel dubbio, tendo ad agire con precauzione e a sconsigliare gli interventi. Forse è questa la differenza di fondo tra l'industria e la scienza. Noi diciamo: finché non è sufficientemente provato quale ruolo abbiano questi vermi, non possiamo consigliare una perforazione. L'industria parte dalla medesima premessa, ma arriva a un altro risultato.»

«Finché non è dimostrato quale ruolo giochino questi vermi, non ne giocano nessuno», disse Johanson. E poi, guardando Bohrmann, aggiunse: «E lei che ne pensa? Giocano qualche ruolo?»

«Non posso ancora dirlo. Quello che ci ha mandato è… Sì, è a dir poco insolito. Non vorrei deluderla, quello che abbiamo scoperto finora avrei potuto anche dirglielo per telefono, ma… Insomma, ho pensato che lei volesse saperne di più. E qui possiamo mostrarle diverse cose.»

Raggiunsero una pesante porta d'acciaio. Bohrmann azionò un interruttore sulla parete e la porta si aprì senza un rumore. Nel centro della stanza oltre la porta si trovava un'imponente cisterna, alta come una casa di due piani. In essa, a intervalli regolari, erano inseriti degli oblò. Scale d'acciaio conducevano a passerelle circolari e poi alle apparecchiature, erano collegate alla cisterna tramite tubature.

Johanson entrò.

Su Internet aveva visto delle fotografie di quella cosa, ma non si era aspettato che fosse così grande. Fu colto da una vertigine all'idea della pressione mostruosa che doveva esserci in quella cisterna piena d'acqua. Lì dentro, un individuo non sarebbe sopravvissuto neppure un minuto. Quella cisterna era il motivo per cui Johanson aveva mandato una dozzina di vermi all'Istituto di Kiel. Si trattava di un simulatore di abissi marini. Conteneva un mondo artificiale, con tanto di fondale marino, scarpata e zoccolo continentale.

Bohrmann fece scivolare la porta d'acciaio alle sue spalle. «Ci sono persone che dubitano del senso e dello scopo di questa struttura», disse. «Il simulatore può dare solo un quadro approssimativo della realtà, ma è sempre meglio che dover uscire ogni volta in mare. Oggi come ieri, il problema della geologia marina rimane invariato: riusciamo a vedere soltanto una minuscola porzione della realtà. Perlomeno qui siamo in grado di avanzare tesi di ordine generale, benché sia necessario farlo con estrema cautela. Per esempio, possiamo studiare meglio la dinamica degli idrati di metano in diverse condizioni.»

«Lì dentro ci sono degli idrati di metano?» chiese Johanson.

«Circa due quintali e mezzo», rispose Bohrmann. «Recentemente siamo riusciti a estrarne una parte. Ma preferiamo non fare troppa pubblicità alla cosa. Le industrie vorrebbero che mettessimo subito il simulatore al loro servizio. E a noi farebbero molto comodo i soldi dell'industria. Ma non al prezzo di mettere in discussione la nostra libertà di ricerca.»

Johanson piegò la testa all'indietro e osservò la cisterna. Sopra di lui, sulla passerella circolare più alta, si era radunato un gruppo di scienziati. L'intera scena aveva un che d'irreale, come se fosse uscita da un film di James Bond degli anni '80.

«Nella cisterna, si possono regolare pressione e temperatura», proseguì Bohrmann. «Al momento, corrispondono a una profondità marina di ottocento metri. Sul fondo è immagazzinato uno strato di idrati stabili spesso due metri, che in natura corrisponde a una quantità da venti a trenta volte superiore. Al di sotto dello strato, simuliamo il calore dell'interno della Terra e così abbiamo gas libero. Quindi un fondale marino completo in scala.»

«Affascinante», disse Johanson. «Ma che cosa fate esattamente? Voglio dire, potete osservare lo sviluppo degli idrati, ma…» Cercava le parole adatte.

Sahling gli venne in aiuto. «Che cosa facciamo qui, oltre a osservare?»

«Sì.»

«Attualmente stiamo cercando di mettere a punto le condizioni di un'era geologica di cinquantacinque milioni di anni fa. Più o meno tra Paleocene ed Eocene, sembra che sulla Terra ci sia stata una catastrofe climatica di grandi dimensioni. L'oceano si è letteralmente ribaltato. Il settanta per cento di tutti gli esseri viventi sul fondale marino è morto. Intere zone degli abissi si sono trasformate in luoghi inadatti alla vita. Invece sui continenti c'è stata una rivoluzione biologica. Nell'Artico sono comparsi i coccodrilli e i primati, e i moderni mammiferi sono migrati dalle latitudini subtropicali verso il Nordamerica. Una confusione straordinaria.»

«Come fate a saperlo?»

«Grazie ai carotaggi. Tutta la conoscenza sulla catastrofe climatica deriva da carotaggi a duemila metri di profondità sui fondali marini.»

«I carotaggi spiegano quello che è successo?» chiese Johanson.

«C'entra il metano», rispose Bohrmann. «A quell'epoca, il metano si deve essere surriscaldato e la gran massa di idrati è diventata instabile. Le scarpate continentali sono scivolate e hanno liberato altro metano. Nel giro di qualche millennio, forse addirittura di secoli, si sono sprigionati nell'oceano e nell'atmosfera miliardi di tonnellate di gas. Un circolo vizioso. Il metano genera un effetto serra trenta volte superiore a quello dell'anidride carbonica. L'atmosfera si è riscaldata e, a sua volta, ha riscaldato ulteriormente gli oceani che hanno liberato altri idrati, e così via, all'infinito. La Terra era diventata un forno. L'innalzamento attuale della temperatura delle acque profonde, compreso tra i due e i quattro gradi, non è niente a confronto dell'innalzamento di quindici gradi avvenuto allora, ma non è da sottovalutare», concluse.

«Per alcuni un disastro, per altri… un inizio di riscaldamento. Capisco. Nel prossimo capitolo della nostra breve conversazione inseriremo anche il declino dell'umanità, vero?» disse Johanson.

«Non accadrà così presto. Ma effettivamente ci sono alcuni indizi, secondo i quali ci troviamo in una fase di delicata fluttuazione dell'equilibrio. Le riserve di idrati nell'oceano sono molto instabili. È questo il motivo per cui dedichiamo tanta attenzione ai vostri vermi.»

«Che cosa c'entra un verme con le condizioni di stabilità degli idrati di metano?» domandò Johanson.

«Di fatto nulla. Il verme del ghiaccio popola la superficie degli strati superiori del ghiaccio per molte centinaia di metri. Ne scioglie qualche centimetro e si accontenta dei batteri.»

«Però questo verme ha le mascelle…»

«Quel verme è una creatura senza senso. Guardi lei stesso.»

Si avviarono verso un quadro di comando semicircolare alla fine del padiglione. A Johanson ricordava la centrale di comando di Victor, solo un po' più grande. La maggior parte delle due dozzine di monitor era accesa e mostrava riprese dall'interno della cisterna.

«Osserviamo quello che succede con ventiquattro telecamere; inoltre ogni centimetro cubo è sottoposto continuamente a misurazioni», spiegò Bohrmann. «Le macchie bianche sui monitor della fila superiore sono idrati. Vede? Qui a sinistra c'è la zona in cui, ieri mattina, abbiamo messo i policheti.»

Johanson socchiuse le palpebre. «Vedo solo ghiaccio», disse.

«Osservi meglio.»

Johanson studiò ogni particolare dell'immagine e improvvisamente si accorse di due macchie scure. Le indicò. «Che cos'è? Un infossamento?»

Sahling scambiò qualche parola col tecnico. L'immagine s'ingrandì, rendendo visibili i due vermi.

«Le superfici sono bucate», disse Sahling. «Ecco il filmato accelerato.»

Johanson vide i vermi che si muovevano, contraendosi sul ghiaccio. Ogni tanto annusavano qua e là, come per capire da dove venisse l'odore. Nella riproduzione accelerata, i loro movimenti erano strani e bizzarri. I ciuffi setolosi vibravano, come elettrizzati.

«Stia attento ora!» esclamò Sahling.

Uno dei vermi si era fermato. Sembrava percorso da onde pulsanti.

Poi sparì nel ghiaccio.

«Mio Dio, scava», mormorò Johanson.

Il secondo animale era un po' distante e muoveva la testa come se seguisse il ritmo di qualche musica. D'un tratto estrasse fuori la proboscide con le mascelle chitinose.

«Mangia il ghiaccio!» urlò Johanson, fissando il video. Ma, nello stesso istante, pensò: Di che ti meravigli? Vivono in simbiosi coi batteri che estraggono gli idrati di metano, e quindi hanno le mandibole per scavare. Tutto ciò lasciava spazio a una sola conclusione: i vermi volevano arrivare ai batteri che si trovano nel ghiaccio più profondo. Johanson continuò a fissare, come stregato, i corpi pelosi che si rivoltavano negli idrati. A velocità accelerata le parti posteriori del loro corpo vibravano. Poi, in modo improvviso, sparirono, lasciando solo le macchie scure dei buchi sul ghiaccio. Non c'è motivo di agitarsi, pensò allora. Anche altri vermi scavano. Alcuni trivellano le navi fino a distruggerle… Ma perché scavano gli idrati? «Dove sono gli animali?» chiese.

Sahling guardò il monitor. «Sono morti.»

«Morti?»

«Crepati. Asfissiati. I vermi hanno bisogno di ossigeno.»

«Lo so. È il senso di tutta la simbiosi. I batteri nutrono il verme ed esso, girando vorticosamente, procura l'ossigeno ai batteri. Ma cos'è successo qui

«Qui è successo che hanno scavato fino alla morte. Hanno fatto dei buchi, divorando il ghiaccio come se fosse un'autentica leccornia, finché non sono finiti nella sacca di gas, dove sono soffocati», spiegò Sahling.

«Kamikaze», mormorò Bohrmann.

«In effetti sembra proprio un suicidio», annuì Johanson. Poi aggiunse: «Oppure sono stati ingannati da qualcosa».

«Possibile. Ma da che cosa? All'interno degli idrati non c'è nulla che possa giustificare un simile comportamento.»

«Forse il gas che c'è la sotto?» ipotizzò Johanson, sfregandosi la fronte.

«Ci abbiamo pensato anche noi. Tuttavia non spiega perché essi si suicidino.»

Johanson rivide dentro di sé il brulichio sul fondale marino e il suo malessere crebbe. Se milioni di vermi si mettono a scavare nel ghiaccio, quali potrebbero essere le conseguenze?

Bohrmann sembrò intuire i suoi pensieri. «Gli animali non possono destabilizzare il ghiaccio», disse. «In mare, lo strato di idrati è molto più spesso che qui. Questi animaletti impazziti scalfiscono solo la superficie e al massimo un decimo dello strato di ghiaccio. Poi inevitabilmente muoiono.»

«E allora? Esaminerà altri vermi?»

«Sì. Ne abbiamo ancora qualcuno. Forse sfrutteremo anche l'occasione per dare un'occhiata sul posto. Credo che la Statoli ci darà il benvenuto. Nelle prossime settimane, la Sonne deve andare in Groenlandia. Potremmo anticipare la partenza della spedizione e fare una visita al luogo in cui ha trovato i policheti.» Bohrmann sollevò le mani. «Ma questa decisione non spetta a me. Devono prenderla altri. Heiko e io abbiamo solo avuto l'idea.»

Johanson guardò la gigantesca cisterna e pensò ai vermi morti al suo interno. Alla fine mormorò: «Sì, è una buona idea».

Più tardi, Johanson andò al suo hotel per cambiarsi. Cercò di raggiungere telefonicamente Tina Lund, ma non ci riuscì. La immaginò tra le braccia di Kare Sverdrup e riagganciò.

Bohrmann l'aveva invitato a cena in uno dei bistro più alla moda di Kiel. Si osservò nello specchio del bagno. Doveva spuntarsi la barba almeno di un paio di millimetri. Tutto il resto era a posto. La chioma — un tempo nera, ora striata di grigio — gli cadeva rigogliosa sulle spalle. Sotto le ciglia lunghe e nere lampeggiava lo sguardo di sempre. C'erano momenti in cui si compiaceva del proprio carisma. In altri — soprattutto di prima mattina — non riusciva più a scorgerlo. Fino ad allora erano bastate un paio di tazze di tè e un minimo di cura per rimettersi in ordine. Non molto tempo prima, una studentessa l'aveva paragonato all'attore tedesco Maximilian Schell, e Johanson si era sentito lusingato, ma poi aveva scoperto che Schell aveva settant'anni. Quindi aveva cambiato crema idratante.

Frugò nella valigia e scelse un pullover con la cerniera, si mise la giacca e si avvolse una sciarpa attorno al collo. Non era vestito bene, ma a lui piaceva così. Coltivava la propria trascuratezza e gli piaceva infischiarsene della moda. Solo nei momenti di profonda sincerità era disposto ad ammettere che il suo aspetto trasandato costituiva anch'esso una moda, che lui seguiva in modo non dissimile da come facevano gli altri, pronti ad adottare ogni nuova tendenza. E, sempre in quelle rare occasioni, ammetteva pure che dedicava più tempo alla sua chioma in disordine di quanto non facesse la maggior parte dell'umanità per mantenere una pettinatura perfetta.

Dopo aver sorriso alla propria immagine riflessa, uscì dalla stanza, lasciò l'hotel e prese un taxi per raggiungere il luogo dell'appuntamento.

Bohrmann lo stava aspettando. Chiacchierarono a lungo del più e del meno, bevvero vino e mangiarono delle sogliole fantastiche. Dopo un po', tuttavia, la conversazione ritornò sugli abissi marini.

Durante il dessert, come per caso, Bohrmann chiese: «Lei conosce i progetti della Statoil?»

«Solo a grandi linee. Non sono un esperto di questioni petrolifere.»

«Che cosa stano progettando? È difficile che vogliano costruire una piattaforma così al largo…»

«Non è una piattaforma», lo corresse Johanson.

Bohrmann sorseggiò il caffè, poi disse: «Mi scusi, non voglio costringerla a parlare. Non so quanto siano confidenziali queste informazioni, ma…»

«Non c'è problema. Sono un noto chiacchierone. Se mi confidano qualcosa, non può essere un segreto.»

Bohrmann rise. «Allora, cosa crede che vogliano costruire?»

«Stanno pensando a una soluzione sottomarina. A una stazione completamente automatizzata.»

«Qualcosa del tipo SUBSIS?»

«Cos'è il SUBSIS?» chiese Johanson.

«SUBSIS è l'acronimo di Subsea Separation and Injection System. Una stazione sottomarina. Ci lavorano da qualche anno sul giacimento di Trollfeld della fossa norvegese», spiegò Bohrmann.

«Non ne avevo mai sentito parlare.»

«Chieda al suo committente. Il SUBSIS è una stazione d'estrazione. Si trova a trecentocinquanta metri di profondità sul fondale oceanico, dove separa acqua e gas dal petrolio. Al momento, questo processo ha ancora luogo sulle piattaforme e l'acqua di produzione viene dispersa in mare.»

«Ma certo!» esclamò Johanson, ricordando che Tina aveva fatto cenno a quella cosa. «L'acqua di produzione rende sterili i pesci, no?»

«Il SUBSIS potrebbe risolvere questo problema. L'acqua inquinata viene immediatamente compressa nei pozzi di trivellazione, così spinge verso l'alto il petrolio, che a sua volta viene separato dall'acqua che viene ricompressa nel pozzo e così via. Il petrolio e il gas arrivano alla costa tramite oleodotti. In sé, è una cosa davvero raffinata…»

«Ma…»

«Non so se c'è un ma. A quanto pare il SUBSIS può lavorare senza problemi fino a cinquecento metri di profondità. Il costruttore sostiene che non ci sarebbero problemi neppure a duemila metri e i colossi petroliferi sperano nei cinquemila.»

«È realistico?» chiese Johanson.

«A medio termine, sì. Tutto ciò che funziona su scala ridotta funziona anche su grande scala, ne sono convinto, e i benefici sono a portata di mano. Ben presto le stazioni automatizzate faranno sparire le piattaforme.»

«Mi sembra però che lei non condivida l'euforia generale», osservò Johanson.

Bohrmann si grattò la testa. Sembrava che non sapesse come replicare. «Quello che mi preoccupa non è la stazione sottomarina, ma la faciloneria con cui si procede.»

«La stazione sarebbe telecomandata?»

«Sì, completamente. E da terra.»

«Ciò vuol dire che le riparazioni e la manutenzione sono fatte dai robot», osservò Johanson.

Bohrmann annuì.

«Capisco», disse Johanson.

«La questione ha pro e contro. Quando ci si addentra in un territorio sconosciuto, ci sono sempre dei rischi. E nessun luogo è più sconosciuto delle profondità abissali. È giusto automatizzare gli strumenti anziché rischiare vite umane. Va bene mandare un robot per osservare gli avvenimenti e fare qualche esperimento. Ma qui la questione è completamente diversa. Come pensano di riuscire a riportare sotto controllo un incidente a cinquemila metri di profondità, col petrolio che esce dal pozzo ad altissima pressione? Il terreno non si conosce. Gli unici dati noti sono quelli delle misure. Nelle profondità abissali siamo ciechi. Con l'aiuto dei satelliti, di sonar speciali o con le onde sismiche, possiamo disegnare una carta morfologica del fondo oceanico, precisa fino al mezzo metro. Col BSR — il Bottom Simulating Reflection — possiamo investigare la presenza di giacimenti di gas e di petrolio, in modo che si possa dire: 'Qui puoi trivellare', oppure: 'Qui c'è il petrolio, là gli idrati, e laggiù bisogna fare attenzione…' Ma che cosa ci sia là sotto — che cosa ci sia davvero — non lo sappiamo.»

«Quello che ho sempre detto», mormorò Johanson.

«Non vediamo gli effetti delle nostre azioni», mormorò Bohrmann. «Se succede un casino, non possiamo semplicemente far finta di niente… Non mi fraintenda, non sono contro l'estrazione di materie prime. Ma sono contrario a ripetere gli errori. Quando c'è stato il boom petrolifero, nessuno si è preoccupato di come smaltire i rottami installati allegramente in mare. Si sono scaricate sostanze inquinanti e chimiche nel mare e nei fiumi col motto: 'Tanto li assorbiranno'. Sono stati sprofondati nell'oceano materiali radioattivi; sono state sfruttate le risorse e annientate forme di vita senza minimamente curarsi di quanto complesse siano le interdipendenze.»

«Ma arriveremo alle stazioni automatizzate?» chiese Johanson.

«Senza dubbio. Sono economiche, rendono accessibili i giacimenti cui non arriverebbero gli uomini. E prossimamente tutti si butteranno sul metano. Perché brucia inquinando meno di tutti gli altri combustibili. Giusto! Perché un passaggio dal petrolio e dal carbone al metano rallenterebbe l'effetto serra. Giusto anche questo. È tutto giusto, finché si rimane sul piano ideale. Ma alle industrie piace confondere il piano ideale con quello della realtà. Vogliono confonderli. Fra tutte le previsioni, si sceglierà sempre quella più ottimistica, in modo che si proceda più velocemente, anche se non si sa nulla dell'universo in cui mettono le mani.»

«Ma come ci riusciranno? Come si fa a estrarre gli idrati se si distruggono lungo la strada per arrivare in superficie?»

«Anche per questo entrano in gioco le stazioni automatizzate. Si sciolgono gli idrati a grande profondità, per esempio riscaldandoli; s'imprigiona in imbuti il gas liberato e lo si convoglia in superficie. Sembra fantastico, ma chi ci garantisce che lo scioglimento non provochi una reazione a catena e che non si ripeta una catastrofe come nel Paleocene?»

«Crede davvero che sia possibile?»

Bohrmann allargò le braccia. «Ogni attacco mosso senza riflettere è un'azione suicida. Ma ormai si è già cominciato. L'India, il Giappone e la Cina sono molto attivi.» Sorrise, sconsolato. «E neppure loro sanno che cosa c'è la sotto. Non sanno nulla.»

«Vermi», mormorò Johanson, pensando alle riprese che Victor aveva fatto sul fondale oceanico. E alla sinistra creatura che era sparita così velocemente nell'oscurità.

Vermi. Mostri. Metano. Catastrofe climatica.

Doveva assolutamente bere qualcosa.