"Il quinto giorno" - читать интересную книгу автора (Schätzing Frank)12 aprileTrondheim, Norvegia L'invito raggiunse Johanson mentre si stava preparando per andare al lago. Dopo il suo ritorno da Kiel, aveva raccontato a Tina dell'esperimento nel simulatore di abissi marini, però era stata una conversazione breve. Tina era impegnatissima in diversi progetti e il tempo che le rimaneva lo trascorreva con Kare Sverdrup. Johanson aveva l'impressione che non fosse concentrata su quella faccenda. Sembrava totalmente presa da qualcosa che non aveva a che fare col suo lavoro, ma preferì evitare di farle domande. Qualche giorno dopo, Bohrmann lo chiamò per comunicargli le ultime novità. A Kiel avevano continuato gli esperimenti sui vermi. Johanson, che aveva già preparato le valigie e stava uscendo di casa, decise che, prima di uscire, avrebbe potuto fare una telefonata a Tina e spiegarle cosa stava succedendo. Ma non riuscì a pronunciare neppure una parola. «Non puoi venire da noi?» gli chiese subito lei. «Dove? All'istituto?» «No, al centro di ricerca della Statoil. Ci sono in visita i capi progetto. Da Stavanger.» «E che cosa dovrei fare? Raccontare loro una storia dell'orrore?» «Quello l'ho già fatto io. Ora vogliono i particolari. Ho proposto che sia tu a spiegarli», disse Tina. «Perché proprio io?» chiese Johanson. «Perché no?» «Avete montagne di analisi», disse Johanson. «Potrei solo ripetere quello che altri hanno già scoperto.» «Potresti fare di più», ribatté Tina. «Potresti… esprimere le tue sensazioni.» Per un attimo, lui fu incapace di parlare. «Sanno che non sei un esperto di ricerche petrolifere, e tantomeno un vero specialista di vermi e simili», proseguì concitata. «Ma tu all'NTNU hai un'ottima fama, sei neutrale e non compromesso come noi. Noi giudichiamo dal nostro punto di vista.» «Voi giudicate secondo l'ottica della fattibilità.» «Non solo! Guarda che alla Statoil ci sono molte persone, ognuna delle quali è in grado di determinare al meglio una cosa specifica e…» «Idioti specializzati, appunto.» «Per niente!» Tina era seccata. «Con gli idioti specializzati questi progetti non si possono fare. Qui tutti sono troppo coinvolti. Mio Dio, come posso esprimerlo… Abbiamo bisogno di più opinioni dall'esterno.» «Dei vostri affari io non capisco nulla», disse Johanson. «Naturalmente non ti costringe nessuno.» Tina sembrava sempre più nervosa. «Puoi anche lasciar perdere.» Lui alzò gli occhi al cielo. «Va bene, non ho intenzione di lasciarti in questa situazione. Tra l'altro ci sono anche alcune novità da Kiel e…» «Posso considerarlo un sì?» «Va bene! Quand'è l'incontro?» «Ce ne saranno diversi, d'incontri. In effetti siamo tutti molto presi.» «Va bene. Oggi è venerdì. Il fine settimana non ci sono e lunedì potrei…» «Questo è…» lo interruppe lei. «Veramente sarebbe…» «Sì?» disse Johanson, tormentato dai peggiori presentimenti. Lei lasciò trascorrere qualche secondo. «Cosa avevi intenzione di fare durante il fine settimana?» chiese poi, in tono colloquiale. «Saresti andato al lago?» «Brillante intuizione. Vuoi venire con me?» Lei rise. «Perché no?» «Oh, oh! E Kare che ne pensa?» «Non m'interessa. Che cosa dovrebbe pensare?» Rimase in silenzio per qualche istante, poi sbottò: «Maledizione!» «Se tu fossi brava in tutto come nel tuo lavoro…» mormorò Johanson. Forse lei non lo sentì neppure. «Sigur, per favore! Non puoi rinviare la tua gita? Ci troviamo tra due ore e pensavo… Non sei tanto lontano da qui, non sarà una cosa lunga. Ti libererai in un batter d'occhio. Potresti partire già stasera.» «Io…» «Dobbiamo andare avanti con questa faccenda. Abbiamo dei tempi da rispettare, sai che costi ci sono, e ci sono già i primi rallentamenti soltanto perché…» «Va bene, vengo!» «Sei un tesoro.» «Devo venirti a prendere?» «No, sarò già là. Sono così felice, grazie! È molto gentile da parte tua.» E riagganciò. Johanson lanciò un'occhiata malinconica ai suoi bagagli. Quando entrò nella grande sala del centro di ricerca Statoil, si rese conto che la tensione nell'aria era quasi tangibile. Tina Lund era seduta in compagnia di altri tre uomini a un enorme, lucido tavolo nero. Il sole del tardo pomeriggio dava un po' di calore all'interno, arredato con vetro e acciaio e dipinto con tonalità scure. Le pareti erano letteralmente tappezzate da diagrammi e disegni tecnici. «Eccolo», annunciò la receptionist, consegnando Johanson ai presenti come se fosse un regalo di Natale. Uno degli uomini balzò in piedi e si diresse verso di lui con la mano tesa. Aveva corti capelli neri e portava occhiali alla moda. «Sono Thor Hvistendahl, vice direttore del centro di ricerca Statoil. Ci scusi se abbiamo approfittato del suo tempo con un preavviso così breve, però Tina Lund ci ha assicurato che lei non aveva in programma niente di meglio.» Johanson lanciò a Tina un'occhiata inequivocabile, poi strinse la mano all'uomo. «In effetti non avevo nulla in programma», disse. Tina sorrise tra sé e lo presentò agli altri. Come Johanson si era aspettato, uno di essi era giunto lì dalla sede centrale della Statoil, a Stavanger. Si trattava di un giovane tarchiato coi capelli rossi e con gli occhi chiari, dall'espressione amichevole. Era il rappresentante del management board, nonché un membro del comitato esecutivo. «Finn Skaugen», tuonò, stringendogli la mano. Il terzo uomo, completamente calvo, aveva un'espressione seria e profonde rughe intorno alla bocca; in più, era l'unico a portare la cravatta. Si trattava del diretto superiore di Tina. Si chiamava Clifford Stone, proveniva dalla Scozia ed era il capo progetto delle nuove esplorazioni. Stone fece un gelido cenno di saluto a Johanson. Non sembrava particolarmente entusiasta della presenza del biologo, ma forse era ombroso di natura. Aveva la faccia di chi non ride mai. Johanson scambiò qualche convenevole, rifiutò un caffè e si sedette. Hvistendahl tirò davanti a sé un pacco di fogli. «Veniamo subito alla faccenda», disse. «Conosce la situazione. Non siamo in grado di valutare con esattezza se siamo davvero impantanati o se la nostra reazione è stata esagerata. È al corrente delle norme cui si deve attenere l'industria petrolifera?» «Quelle emerse dalla Conferenza del mare del Nord?» azzardò Johanson. Hvistendahl annuì. «Sì, tra le altre. Siamo sottoposti a una serie di restrizioni. Da quelle connesse alle leggi per la tutela ambientale alle possibilità tecniche. Ma naturalmente sui punti non regolamentati bisogna fare i conti con l'opinione pubblica. In breve, dobbiamo essere cauti in tutto. Greenpeace e altre organizzazioni ci stanno addosso come le zecche, ma va bene così. Conosciamo i rischi di una trivellazione, e sappiamo che cosa ci aspetta se prendiamo in considerazione un giacimento e calcoliamo i tempi.» «Vuol dire che ce la possiamo cavare da soli», disse Stone. «In genere è così», annuì Hvistendahl. «Comunque non tutti i progetti arrivano alla fase esecutiva, e questo per motivi che può ben immaginare: la composizione dei sedimenti è instabile; corriamo il rischio di trivellare una bolla di gas; alcuni impianti non vanno bene a causa delle correnti e così via. In genere, però, riusciamo a capire in fretta che cos'è possibile fare. Tina esegue i test al Marintek; noi facciamo le solite prove, andiamo a vedere là sotto, facciamo ulteriori perizie, poi costruiamo.» Johanson si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. «Ma stavolta c'è quel verme», disse. Hvistendahl fece un sorriso tirato. «Per così dire.» «Ammesso che le bestioline giochino qualche ruolo», borbottò Stone. «A mio avviso non ne giocano nessuno.» «Come fa a saperlo?» «Perché i vermi non sono una novità. Si trovano ovunque.» «Non come questi.» «Perché? Perché rosicchiano gli idrati?» Stone fulminò Johanson, pronto ad attaccare. «Ma i suoi amici di Kiel dicono che non c'è nulla di cui preoccuparsi, giusto?» «Non hanno detto questo. Hanno detto…» «Che i vermi non possono destabilizzare il ghiaccio.» «Lo divorano.» «Ma non lo possono destabilizzare!» Skaugen si schiarì la gola. Sembrò un'eruzione. «Credevo avessimo invitato il dottor Johanson perché volevamo sentire le sue valutazioni», dichiarò, guardando di traverso Stone. «E non per comunicargli quello che crediamo noi.» Stone si morse il labbro inferiore e fissò il piano del tavolo. «Se ho capito bene, nel frattempo Sigur ha ottenuto nuovi risultati», intervenne Tina, sorridendo con aria incoraggiante. Johanson annuì. «Posso farvi un breve riassunto.» «Animaletti di merda», borbottò Stone. «Probabile. Al Geomar ne hanno messi altri sei sul ghiaccio e tutti hanno iniziato a scavare. Due altri esemplari sono stati collocati su uno strato di sedimenti che non conteneva idrati e loro non hanno fatto nulla. Non hanno divorato e non hanno scavato, tuttavia erano irrequieti.» «Che cos'è successo a quelli che hanno scavato il ghiaccio?» «Sono morti.» «A che profondità sono arrivati?» «Hanno raggiunto la bolla di gas… Tutti tranne uno.» Johanson guardò Stone, che lo fissava da sotto le sopracciglia aggrottate. «Ma questo non porta a conclusioni definitive sul loro comportamento in natura. Sulla scarpata continentale, gli strati di idrati sono spessi dozzine, centinaia di metri. Gli strati nel simulatore misurano al massimo due metri. Bohrmann ritiene che nessuno dei vermi possa arrivare oltre i tre o quattro metri, ma questo è difficile da verificare nelle circostanze date.» «Perché i vermi muoiono?» chiese Hvistendahl. «Perché hanno bisogno di ossigeno e, nei buchi, l'ossigeno è scarso.» «Ma anche gli altri vermi scavano nel terreno», obiettò Skaugen. Poi proseguì con un sorriso: «Come vede ci siamo dati da fare per non apparire completamente idioti davanti a lei». Johanson restituì il sorriso. Skaugen gli piaceva. «Quegli animali s'infilano nei sedimenti», disse. «E i sedimenti sono forati. All'interno c'è abbastanza ossigeno. Inoltre è difficile che un animale scavi così in profondità. Negli idrati di metano, invece, è come se fossero infilati nel cemento. Prima o poi soffocano.» «Capisco. Conosce altri animali che si comportano così?» «Intende animali votati al suicidio?» «Si tratta di un suicidio?» «Il suicidio presuppone un'intenzione», disse Johanson. «E i vermi non agiscono con intenzione. Sono condizionati dal loro comportamento.» «Ci sono animali che si suicidano?» «Certo che ci sono», disse Stone. «Quei maledettissimi lemming si buttano in mare.» «Non lo fanno», disse Tina. «Certo che lo fanno!» Tina gli mise una mano sul braccio. «Tu paragoni le mele alle pere, Clifford. Per molto tempo si è accettata l'idea che i lemming si suicidassero collettivamente, perché una cosa simile sembrava interessante e fuori dal comune. Poi si è osservato meglio il fenomeno e si è scoperto che i lemming sono semplicemente cretini.» «Cretini?» Stone guardò Johanson. «Come sono cretini gli uomini quando sono in gruppo. I lemming che sono davanti vedono che là c'è una scarpata, ma vengono spinti da quelli dietro, come se fossero a un concerto pop. Si spingono l'un l'altro in mare, finché non riescono a fermarsi.» «Ci sono animali che si sacrificano. Questo è altruismo», intervenne Hvistendahl. «Sì, ma l'altruismo ha sempre un senso», ribatté Johanson. «Le api mettono in conto di morire dopo la puntura, perché il pungiglione serve per la protezione dello sciame, specialmente della regina.» «Quindi non c'è nessuna intenzione nel comportamento dei vermi?» «No.» «Santo cielo!» sbuffò Stone. Voi state cercando di trasformare questi vermi in mostri che possono impedire la costruzione di stazioni di estrazione sul fondale marino. È stupido!» «Ancora una cosa», riprese Johanson, senza prestare attenzione al capo progetto. «Il Geomar vorrebbe fare delle ricerche sul campo. Naturalmente in collaborazione con la Statoil.» «Interessante.» Skaugen si chinò in avanti. «Vogliono mandare qualcuno?» «Una nave oceanografica. La «È molto gentile da parte loro, ma potrebbero usare la «Stavano già preparando una spedizione. Inoltre la «Quali dati?» «L'aumento della concentrazione di metano. I vermi, scavando, hanno liberato del gas che è finito in acqua. Inoltre vorrebbero dragare qualche quintale di idrati. Insieme coi vermi. Intendono fare osservazioni su grande scala.» Skaugen annuì e intrecciò le dita. «Finora abbiamo parlato solo dei vermi», disse. «Ha visto quella sinistra ripresa video?» «Di quella cosa in mare?» Skaugen sorrise cupamente. «La «Non so se i vermi debbano essere messi in relazione con quella… con quell'essere.» «E che cosa pensa che sia?» «Non ne ho idea», rispose Johanson. «Lei è un biologo. Le viene in mente qualcosa?» «Bioluminescenza. Lo fa pensare l'elaborazione del materiale video fatta da Tina. Gli esseri viventi più grandi non hanno bioluminescenza, almeno per quanto riguarda i mammiferi.» «Tina Lund ha alluso alla possibilità che si tratti di un calamaro gigante.» «Sì, ne abbiamo discusso», disse Johanson. «Ma è inverosimile. Struttura e superficie del corpo non permettono una simile conclusione. Inoltre presumiamo che gli «Allora che cos'è?» «Non lo so.» Calò il silenzio. Stone giocherellava nervosamente con una penna. «Posso chiedere che tipo di stazione state progettando?» riprese Johanson con tono riflessivo. Skaugen gettò un'occhiata a Tina. Lei scrollò le spalle. «Ho detto a Sigur che stiamo pensando a un impianto sottomarino. E che non sappiamo ancora se si potrà realizzare.» «Che cosa sa di tali strutture?» chiese Skaugen rivolto a Johanson. «Conosco i SUBSIS», rispose Johanson. «Da poco.» «Ne sa parecchio», commentò Hvistendahl. «Sta diventando uno specialista, dottor Johanson. Se farà altre tre o quattro riunioni con noi…» «Il SUBSIS è un primo stadio», sbuffò Stone. «Noi siamo ben oltre il SUBSIS. Possiamo andare più in profondità e i sistemi di sicurezza scongiurano ogni rischio.» «Il nuovo sistema è progettato dalla FMC Kongsberg, una ditta che elabora soluzioni per gli abissi», spiegò Skaugen. «Si tratta di uno sviluppo del SUBSIS. In verità, non abbiamo dubbi sull'istallazione di questi sistemi. Siamo solo indecisi se portare l'oleodotto a una delle piattaforme in superficie oppure farlo arrivare fino a terra. In entrambi i casi avremmo grandi distanze e dislivelli da superare.» «Non c'è anche una terza possibilità?» chiese Johanson. «Non si potrebbe usare una nave di produzione che galleggi proprio sopra la stazione?» «Sì, ma quest'ultima sarebbe sempre sul fondo», disse Hvistendahl. «Come ho già detto, sappiamo valutare i rischi, almeno finché sono rischi Johanson si sentiva a disagio. Stone lo fissava con crescente ostilità. Hvistendahl e Skaugen sembravano interessati, mentre Tina non tradiva la minima emozione. Ma Tina non aveva cercato di accordarsi con lui. Forse preferiva così. Forse voleva che fosse lui a mettere un freno al progetto. O forse no. Appoggiò le mani sul tavolo. «In linea di massima, costruirei la stazione», disse. Skaugen e Tina lo guardarono, sbalorditi. Hvistendahl aggrottò la fronte, mentre Stone si appoggiò allo schienale con un'espressione di trionfo. Johanson lasciò passare qualche secondo poi continuò: «Sì, la costruirei, ma solo dopo ulteriori ricerche del Geomar e dopo un suo nulla osta. Sulla creatura del video difficilmente avremo altre informazioni. Non sono nemmeno sicuro che ce ne dobbiamo occupare. Decisivo, invece, è comprendere quale effetto potrebbe avere sulla stabilità della scarpata continentale l'arrivo in massa di una specie finora sconosciuta di vermi che divora gli idrati. E anche i rischi per la stabilità che possono derivare dalle continue perforazioni. Finché tutto questo non sarà chiaro, il mio consiglio è congelare il progetto». Stone serrò le labbra. Tina sorrise. Skaugen scambiò uno sguardo con Hvistendahl. Poi guardò Johanson negli occhi e annuì. «La ringrazio, dottor Johanson. Grazie per il suo tempo.» Più tardi, quando Johanson aveva già caricato il suo fuoristrada e stava facendo un giro in casa per controllare che fosse tutto a posto, qualcuno bussò alla sua porta. Era Tina. Aveva appena iniziato a piovere e lei aveva i capelli come incollati alla testa. «È andata bene.» «Davvero?» Johanson si fece di lato per permetterle di passare. Lei entrò, si scostò i capelli bagnati dalla fronte e annuì. «In fondo, Skaugen aveva già deciso. Voleva solo la tua benedizione.» «E chi sono io, per benedire i progetti della Statoil?» «Ti ho già detto che hai un'ottima fama. Ma per Skaugen la questione va oltre. Dovrà assumersi delle responsabilità, e tutti gli esperti lavorano per la Statoil oppure sono in qualche modo collegati con le multinazionali, quindi devono essere considerati di parte. Voleva qualcuno che non giocasse sottobanco e tu sei fuori da questo vespaio e completamente disinteressato alla messa in opera della stazione.» «Allora Skaugen ha congelato il progetto?» «Finché il Geomar non avrà chiarito la situazione.» «Accidenti!» «Gli piaci.» «Anche lui mi piace.» «Sì, la Statoil si può considerare fortunata ad avere al vertice uno come lui.» Tina era rimasta nell'ingresso e teneva le braccia abbandonate lungo i fianchi. Benché fosse sempre in movimento e sicura di sé, in quel momento appariva stranamente indecisa. Frugò con gli occhi la stanza. «Dov'è il tuo bagaglio?» «Perché?» «Non volevi andare al lago?» «Il bagaglio è in macchina. Hai avuto fortuna, stavo per uscire di casa.» La fissò. «Posso fare ancora qualcosa per te, prima di potermi tranquillamente ritirare nella mia solitudine? E ti assicuro che stavolta parto! Basta rinvii.» «Non volevo fermarti. Volevo solo raccontarti cosa aveva deciso Skaugen e…» «Molto gentile da parte tua.» «E chiederti se la tua offerta è ancora valida.» «Quale?» chiese lui, benché lo sapesse benissimo. «Mi avevi proposto di venire con te.» Johanson si appoggiò alla parete vicino al guardaroba. Improvvisamente si vide piombare addosso una montagna di problemi. «Ti ho anche chiesto che cosa ne pensa Kare.» Tina scosse bruscamente la testa. «Non devo chiedere il permesso a nessuno, se è questo che intendi.» «No, non intendevo questo. Semplicemente non voglio equivoci.» «Non ce ne saranno», disse lei, convinta. «Se voglio andare al lago, è una decisione esclusivamente mia.» «Non mi sembra il caso…» L'acqua le scendeva dai capelli e le scorreva sul viso. «Allora perché l'hai proposto?» chiese. Di colpo capì che cosa lo disturbava. Nello stesso istante, comprese perché negli ultimi giorni Tina era stata così distratta nel lavoro. «Se voi due avete dei problemi, lasciami fuori dal gioco», borbottò. «Capito? Puoi venire, ma io non sono qui per mettere Kare sotto pressione.» «Forse la tua immaginazione si è spinta un po' troppo in là», disse Tina. «Va bene. Forse hai ragione. Lasciamo perdere.» «Sì.» «Devo riflettere.» «Fallo.» Una pausa di silenzio. «Va bene», disse infine Johanson. Si chinò in avanti, le diede un bacio leggero sulla guancia e la spinse gentilmente fuori. Poi chiuse la porta alle loro spalle. Avrebbe fatto la maggior parte del tragitto col buio e sotto la pioggia, ma in fondo preferiva così. Avrebbe ascoltato «Ritorni lunedì?» gli chiese Tina, mentre si avviavano alla macchina. «Forse domenica pomeriggio.» «Possiamo sentirci per telefono.» «Certo. Cos'hai in mente di fare?» Lui scrollò le spalle. «Il lavoro non mi manca.» Si trattenne dal fare un'altra domanda su Kare Sverdrup. Ma Tina disse: «Kare è via tutto il fine settimana. È dai suoi genitori». Johanson aprì la portiera del guidatore e si fermò. «Non devi lavorare sempre.» Lei sorrise. «No. Naturalmente no.» «Inoltre… non potresti comunque venire con me. Non ti sei portata niente per trascorrere un fine settimana al lago.» «E che cosa serve?» «Prima di tutto buone scarpe. E poi qualcosa di caldo da indossare.» Tina si guardò. Calzava stivali coi lacci dalla spessa suola. «Cos'altro serve?» chiese. «Ma sì, ti ho detto, un pullover…» Johanson si passò una mano sulla barba. «In casa ne ho qualcuno.» «Mmm. Perché non si sa mai.» «Giusto. Perché non si sa mai.» La guardò. Poi scoppiò a ridere. «Okay, signora Complicazione. Ultima possibilità per venire.» «Io sarei quella complicata?» Tina spalancò la portiera del passeggero e sorrise. «Ne discuteremo durante il viaggio.» Era già buio quando raggiunsero la strada sterrata che portava alla casupola. La jeep si arrampicò lungo la riva, sotto la silhouette degli alberi. Davanti a loro c'era il lago, simile a un cielo adagiato nella foresta, e la sua superficie era piena di stelle. Le nuvole si erano aperte, mentre a Trondheim probabilmente stava ancora piovendo. Johanson portò la valigia in casa, poi raggiunse Tina sulla veranda, facendo scricchiolare le tavole di legno. Ogni volta che andava lì si sentiva avvolgere dal silenzio che, paradossalmente, diveniva ancora più evidente perché era pieno di rumori: fruscii, stridii e leggeri crepitìi, il lontano grido di un uccello, movimenti nel sottobosco, rumori inafferrabili. Una piccola scala conduceva dalla veranda a un prato che digradava dolcemente. Da lì si stendeva un pontile sghembo. In fondo era ormeggiata, immobile, la barca con cui a volte usciva a pescare. Tina guardava il lago. «E tutto questo è solo tuo?» chiese. «In genere sì.» Rimase in silenzio per un po'. «Devi stare proprio bene con te stesso.» Johanson sorrise. «Che cosa te lo fa pensare?» «Se qui non c'è nessun altro… vuol dire che la tua compagnia ti deve essere proprio gradita.» «Oh, sì. Quando sono qui posso fare quello che voglio. Posso piacermi, detestarmi…» Tina si voltò verso di lui. «Che cosa intendi? Che ti detesti?» «A volte. E quando accade mi detesto proprio per questo. Vieni dentro. Preparo un risotto.» Entrarono. Nella piccola cucina, Johanson affettò le cipolle, le fece soffriggere nell'olio d'oliva e aggiunse il riso carnaroli. Mescolò i chicchi di riso con un cucchiaio di legno finché non furono ricoperti di olio, aggiunse brodo di pollo e continuò a mescolare in modo che la massa non bruciasse. Nel frattempo, aveva tagliato a fettine dei funghi porcini, li aveva scottati nel burro e li aveva lasciati friggere a fuoco lento. Tina lo guardava, affascinata. Non sapeva cucinare, e Johanson lo sapeva: non aveva la pazienza necessaria per farlo. Lui stappò una bottiglia di vino rosso, lo lasciò decantare e riempì due bicchieri. La solita procedura, funzionava sempre. Avrebbero mangiato, bevuto, parlato, fumato. E poi sarebbe successo quello che di solito succedeva quando un vecchio bohémien e una giovane donna si trovavano da soli in un luogo romantico. Avrebbe fatto in modo che quella serata seguisse il proprio corso. Tina era seduta in cucina, indossava un pullover di Johanson e sembrava completamente rilassata, cosa che non avveniva da tempo. I tratti del suo volto avevano riacquistato delicatezza. Lui era irritato: aveva cercato di convincersi che lei non era il suo tipo… Troppo frenetica, troppo nordica, coi suoi capelli lisci e biondissimi. Adesso doveva ammettere che non era vero. Mangiarono in cucina. A ogni bicchiere, Tina era sempre più rilassata. Parlarono del più e del meno e stapparono un'altra bottiglia. Intorno a mezzanotte, lui disse: «Non fa tanto freddo. Hai voglia di fare un giro in barca?» Tina si portò le mani alla fronte e sorrise. «Con nuotata?» «Al tuo posto, lascerei perdere. Forse tra un paio di mesi, quando farà più caldo. No, andiamo in mezzo al lago, portiamo con noi la bottiglia e…» S'interruppe. «E?» chiese lei. «Guardiamo le stelle.» Si fissarono a lungo e Johanson sentì che la sua resistenza interiore stava cedendo. Sentiva se stesso dire cose che non avrebbe voluto dire; c'era qualcosa che premeva tutti i pulsanti giusti e tirava tutte le leve giuste per azionare il meccanismo. Risvegliava aspettative, invitava se stesso e Tina a fare quello che in genere si era portati a fare se ci si trova nei pressi di un lago solitario in compagnia di qualcuno. Avrebbe voluto essere ancora a Trondheim e, nel contempo, desiderava stringerla tra le sue braccia. Le si avvicinò finché non sentì il suo respiro sul viso. Malediceva la piega che avevano preso le cose, ma nel contempo non riusciva a trattenersi. «Bene. Allora andiamo», decise. Fuori non c'era vento. Percorsero il pontile e saltarono sulla barca. Tina perse l'equilibrio, e Johanson le afferrò un braccio. Avrebbe voluto ridere. Era una barchetta di legno, e gli era stata venduta insieme con la casa. La prua era coperta da un'asse che formava una piccola stiva. Tina si sedette là sopra a gambe incrociate, mentre Johanson accendeva il motore. Il cupo borbottio non sembrò disturbare la pace di quella magnifica notte attraversata dai rumori della foresta. Sembrava piuttosto in armonia con essi. Durante il breve viaggio non dissero neppure una parola. Infine Johanson mise al minimo il motore e poi lo spense. Si trovavano a buona distanza dalla casa. Lui aveva lasciato accese le luci della veranda, che si specchiavano nell'acqua vicina alla riva formando strisce increspate. Ogni tanto si sentiva un leggero tonfo: erano pesci che balzavano fuori dall'acqua per prendere un insetto. Johanson si avvicinò a Tina, la bottiglia piena a metà nella mano destra. La barca dondolava dolcemente. «Stenditi sulla schiena… e l'universo con tutto quello che racchiude sarà tuo. Prova», la invitò. Tina lo guardò. I suoi occhi splendevano nell'oscurità. «Hai mai visto le stelle cadenti?» gli chiese. «Sì. Più volte.» «E hai desiderato qualcosa?» «Sono piuttosto carente di sostanza romantica.» Si sedette accanto a lei. «Me le sono semplicemente gustate.» Tina ridacchiò. «Non credi a niente, vero?» «E tu?» «Io sono l'ultima persona al mondo che possa credere a qualcosa.» «Lo so. I fiori o le stelle cadenti non hanno il minimo effetto su di te. Kare avrà il suo bel daffare. La cosa più romantica che ti si possa regalare è un'analisi di stabilità delle costruzioni marine ad alta tecnologia.» Tina continuava a guardarlo. Poi gettò all'indietro la testa e si distese lentamente. Il pullover si alzò, mettendo in mostra l'ombelico. «Lo credi davvero?» Lui si appoggiò ai gomiti e la osservò. «No, non lo credo.» «Credi che non sia romantica?» «Credo che tu non abbia mai pensato che cosa vuol dire essere romantici.» I loro sguardi s'incontrarono un'altra volta. A lungo. Troppo a lungo. Johanson si ritrovò le dita tra i capelli di lei e li accarezzò lentamente. «Forse puoi farmi vedere che cosa vuol dire», sussurrò lei, chinandosi in avanti. Tra le loro labbra vibrava un sottile strato di aria calda. Lui le mise una mano dietro la nuca. I loro occhi erano chiusi. Nel cervello di Johanson, si rincorrevano migliaia di rumori e di pensieri, che poi si condensarono in un vortice, lacerando la sua concentrazione. Entrambi erano ancora immobili, ma carichi di tensione, come in attesa di un segnale, di un'autorizzazione: qui, prego, in duplice copia, una per lei e una per lei. Adesso può baciare la sposa. Ora può essere appassionato, veramente appassionato. Non è così male, ma ora, per favore, ci creda! Sia appassionato, uomo! Sentiva il calore del corpo di Tina, sentiva il suo profumo, ed era un profumo raffinato, fantastico, invitante. Però era come se fosse nel posto sbagliato. Quell'invito non era rivolto a lui. «Non funziona», disse Tina nello stesso istante. Per la durata di un respiro, ancora sospeso sul crinale tra capitolazione e orgogliosa resistenza, Johanson si sentì come se fosse caduto nell'acqua gelida. La tensione sparì. Si spense. Quello che restava delle braci della passione si volatilizzò nell'aria limpida del lago e lasciò spazio a un incredibile sollievo. «Hai ragione», disse. Si sciolsero lentamente l'uno dall'altra, contrariati, come se i loro corpi non avessero ancora compreso quello che le menti avevano già pattuito da tempo. Lui vide negli occhi della donna la stessa domanda che probabilmente Tina stava leggendo nei suoi: «Tutto okay?» le chiese. Tina non rispose. Johanson si mise seduto davanti a lei, con la schiena appoggiata al bordo della barca. Poi ricordò che teneva ancora in mano la bottiglia, e gliela porse. «Evidentemente la nostra amicizia è troppo forte per l'amore.» Sapeva che suonava banale e patetico, ma sortì l'effetto voluto. Lei si mise a ridacchiare, prima con nervosismo, poi evidentemente sollevata. Prese la bottiglia, bevve una lunga sorsata, e rise ancora di più. Si coprì il volto con una mano come se volesse cancellare quella risata troppo forte e del tutto fuori luogo, ma essa continuava a uscire, sebbene soffocata dalle dita. Poi anche Johanson scoppiò a ridere senza freni. «Puah!» fece lei. Rimasero in silenzio per un po'. «Sei arrabbiato?» gli chiese infine a bassa voce. «No, e tu?» «Io… no, non sono arrabbiata. Per niente. È solo che… È tutto così sconclusionato. Sulla Le prese di mano la bottiglia e bevve. «No», disse lui. «Siamo sinceri, sarebbe andata nello stesso modo. Proprio come stasera.» «Da che cosa dipende?» «Tu lo ami.» Tina strinse le braccia intorno alle ginocchia. «Parli di Kare?» «E chi se no?» Rimase a fissare il vuoto, per molto tempo, e Johanson bevve di nuovo. Non era compito suo fare chiarezza nei sentimenti di Tina Lund. «Credevo di potergli sfuggire, Sigur.» Pausa. Se Tina si aspettava una risposta, l'avrebbe aspettata a lungo, pensò lui. Avrebbe dovuto capirlo da sola. «Siamo sempre stati così distanti, tu e io», disse Tina dopo un po'. «Nessuno dei due voleva legarsi: una premessa ideale. Però non l'abbiamo mai verificata. Non c'è stato un solo momento in cui abbia pensato: ora deve assolutamente succedere. Io… non sono mai stata innamorata di te. Non ho mai «Questo è amore.» «A dire la verità, pensavo fosse altro. Come l'influenza. Non riuscivo più a concentrarmi sul lavoro, ero costantemente altrove con la testa, avevo la sensazione che mi mancasse la terra sotto i piedi, ed è una cosa che nella mia vita non ha senso.» «Così hai pensato che, prima di perdere definitivamente il controllo, era il caso di verificare l'opzione uno.» «Sei arrabbiato!» «No. Ti capisco. Neanch'io ero innamorato di te.» Rifletté. «Ti ho desiderato. Tra parentesi, proprio da quando sei insieme con Kare. Ma io sono un vecchio cacciatore. Pensavo fosse seccante che qualcuno mi contendesse la preda, non lo sopportavo e ciò ha offeso la mia vanità…» Sorrise. «Hai visto quello splendido film con Cher e Nicolas Cage, «Perché tutto ha a che fare con la paura. La paura di essere soli, la paura che accada qualcosa senza essere interpellati; ma la peggiore di tutte è la paura di scegliere e sbagliare… Tu e io non potremo avere altro che un rapporto, ma con Kare… Con Kare non posso avere altro che un legame. Non c'è voluto molto perché lo capissi. Si desidera qualcuno che non si conosce neppure, lo si vuole a ogni costo. Ma puoi ottenerlo solo se prendi anche tutta la sua vita. Da qui nasce una sorta d'incertezza che rende diffidenti.» «Perché potrebbe rivelarsi un errore.» Lei annuì. «Sei già stata con qualcuno?» chiese. «In questo modo, voglio dire.» «Una volta», rispose Tina. «Molto tempo fa.» «Il tuo primo amore?» «Mmm.» «Cos'è successo?» «Nulla di originale. Davvero. Io mi aspettavo qualcosa di travolgente, ma di fatto lui a un certo punto ha detto basta e a me è rimasto solo il dolore.» «E poi?» Appoggiò il mento sulle mani. Se ne stava lì, seduta nella luce della luna, con una piccola ruga verticale tra le sopracciglia: era splendida. Tuttavia Johanson non sentiva la minima traccia di rammarico. Né per quello che aveva cercato di fare, né per com'era andata. «Dopo sono sempre stata io a lasciare gli altri.» «L'angelo vendicatore.» «Sciocchezze. No, a volte quelli che conoscevo mi davano sui nervi. Troppo lenti, troppo carini, troppo duri di comprendonio. Altre volte sono scappata per mettermi al sicuro prima… Lo sai che sono veloce.» «Non costruiamoci una bella casa, perché potrebbe arrivare una tempesta e distruggerla.» Tina sollevò gli angoli della bocca. «Troppo elegiaco per me.» «Può essere. Ma è così.» «Sì, può essere.» Tina aggrottò la fronte. «C'è anche un'altra possibilità: costruisci la casa e, prima che qualcuno la possa distruggere, la distruggi tu stesso.» «Kare uguale casa.» Da qualche parte, un grillo iniziò a cantare. Lontano, un altro gli rispose. «Ci sei quasi riuscita», disse Johanson. «Se oggi avessimo fatto l'amore, avresti avuto motivi sufficienti per dare a Kare il benservito.» Lei non rispose. «Credi che saresti riuscita a ingannare te stessa?» «Mi sarei detta che, per il mio stile di vita, sarebbe stato decisamente meglio un rapporto con te, invece di stringere un legame. Andare a letto con te l'avrebbe in un certo senso… confermato.» «Ti saresti scopata la tua conferma, in un certo senso.» «No.» Lo fulminò con un'occhiata. «Che tu ci creda o no, ti volevo proprio.» «Va bene.» «Tu non sei semplicemente quello che mi serve per fuggire, se è questo che pensi. Non ti ho solo…» «Va bene, va bene!» Johanson sollevò le mani. «Sei innamorata.» «Sì», replicò lei in tono cupo. «E non dirlo in quel tono. Ripetilo» «Sì. Siiì!» «Va meglio», sorrise lui. «E ora, dopo averti rivoltata come un calzino e aver visto che sei una fifona, potremmo vuotare il resto della bottiglia alla salute di Kare.» «Non lo so», disse lei con un sorriso tirato. «Non sei ancora sicura?» «A volte sì. A volte no. Sono… confusa.» Johanson fece passare la bottiglia da una mano all'altra, poi disse: «Io ho già distrutto una casa, Tina. Tanti anni fa. Ed eravamo ancora dentro la casa quando l'ho distrutta. Abbiamo sofferto, ma ce la siamo cavata. O, meglio, uno dei due se l'è cavata. Ancora oggi non so se sia stato giusto». «Chi era l'altro abitante?» «Mia moglie.» Tina sollevò le sopracciglia. «Sei stato sposato?» «Sì.» «Non me l'avevi mai detto.» «Ci sono molte cose che non ti ho raccontato. Mi piace tenere i segreti.» «Cos'è successo?» «È successo e basta.» Sospirò. «Divorzio.» «Perché?» «Così. Senza un motivo particolare. Niente scenate, niente piatti che volano. Solo la sensazione che la mia vita fosse a un punto morto. E in verità, la paura che potesse rendermi… dipendente. Vedevo profilarsi all'orizzonte una famiglia, bambini e un botolo bavoso in giardino; mi vedevo assumermi la responsabilità dei bambini, del cane e, giorno dopo giorno, la responsabilità annientava l'amore… Allora, il divorzio mi era sembrata la cosa più saggia.» «E oggi?» «A volte penso che forse è stato l'unico errore della mia vita.» Guardò trasognato il lago. Poi si riprese la bottiglia e la sollevò. «In questo senso: arrivederci! Quello che vuoi fare, fallo.» «Io non so cosa fare», disse. «Non lasciarti prendere dalla paura. Hai ragione, tu sei veloce. Sii più veloce della paura». La guardò. «Quando ho deciso per il divorzio, la paura è stata più veloce di me. Qualunque cosa tu decida senza la spinta della paura, è la decisone giusta.» Tina sorrise. Poi si chinò verso di lui e prese la bottiglia. Con grande sorpresa di Johanson, rimasero al lago per tutto il fine settimana. La loro storia d'amore era andata a monte durante la notte, e lui pensava che, il giorno seguente, Tina gli avrebbe chiesto di tornare a Trondheim. Ma si sbagliava. La situazione si era chiarita. Erano venute meno le basi del loro eterno flirt. Avevano trascorso il tempo tra passeggiate, chiacchiere e risate; avevano scacciato dalla mente il resto del mondo — l'università, le piattaforme di perforazione, i vermi — e Johanson aveva cucinato i migliori spaghetti alla bolognese della sua vita. Era stato il più bel fine settimana al lago che riuscisse a ricordare. Rientrarono domenica sera. Johanson accompagnò Tina fino alla porta di casa. Per un attimo, poco dopo essere entrato in casa propria, Johanson avvertì di nuovo, dopo molti anni, la differenza tra stare solo ed essere solo. Ricacciò indietro quel pensiero perché rischiava di scatenare una serie di dubbi su se stesso e renderlo malinconico. Doveva fermarsi prima. Portò la valigia in camera da letto. Anche lì c'era un televisore, come in salotto. Johanson lo accese e fece zapping finché non trovò la trasmissione di un concerto alla Royal Albert Hall. Kiri Te Kanawa cantava arie della Dopo un po' la musica finì. Preso dalle difficoltà di piegare una camicia, non si era accorto che il concerto era terminato. Stava lottando con una manica riottosa e in sottofondo si sentiva il telegiornale. «… resa nota dal Cile. Per ora non è confermato che la scomparsa della famiglia norvegese sia in relazione con altri casi simili avvenuti contemporaneamente sulle coste del Perú e dell'Argentina. Anche lì, nelle scorse settimane, sono sparite molte barche di pescatori; alcune sono state avvistate col motore acceso, ma senza nessuno a bordo. Per il momento, non c'è traccia dei passeggeri. La famiglia composta da cinque persone era partita con un trawler per fare pesca d'altura. Le condizioni meteorologiche erano ottime e il mare calmo.» «Nel frattempo, il Costarica ha registrato un'invasione di meduse di dimensioni insolite. Migliaia di caravelle portoghesi sono comparse nei pressi della costa. Quattordici pèrsone venute in contatto con queste velenosissime meduse sono morte, molte altre sono rimaste ferite, tra queste due inglesi e un tedesco. Un numero ancora imprecisato di persone è disperso. L'ente del turismo del Costarica ha annunciato l'istituzione di un'unità di crisi, ma smentisce la notizia che le spiagge sarebbero state chiuse ai turisti. Al momento non c'è nessun pericolo immediato per la balneazione.» Johanson s'immobilizzò con la manica della camicia in mano. «Che bastardi», mormorò. «Quattordici morti. Avrebbero già dovuto chiudere tutto.» «Anche davanti alla costa australiana, banchi di meduse hanno creato preoccupazioni. Dovrebbe trattarsi delle vespe di mare, animali molto velenosi. Le autorità locali sconsigliano vivamente la balneazione. Negli ultimi cento anni, in Australia sono morte diciassette persone a causa del veleno delle vespe di mare, un numero superiore a quello delle vittime dovute agli attacchi degli squali. Si è inoltre saputo di gravi incidenti mortali anche nelle acque del Canada occidentale. Non si conoscono ancora le cause dell'affondamento di diverse imbarcazioni da turismo. Probabilmente sono entrate in collisione tra loro per un errore di navigazione.» Johanson si girò. L'annunciatrice del telegiornale stava voltando un foglio e intanto fissava la telecamera con un sorriso vuoto. «E ora le altre notizie del giorno.» Ricordava una donna a Bali che, scossa dai crampi, era accovacciata sulla spiaggia. Lui non era entrato in contatto con quella «cosa». E neppure la donna aveva toccato la caravella. Durante una passeggiata sulla spiaggia, avevano pescato con un bastone una cosa nell'acqua bassa vicino a riva, qualcosa che era parso loro di una bellezza strana e singolare, una sorta di vela eterea galleggiante. Dato che lui era molto prudente, era rimasto a una certa distanza. Avevano girato la cosa da una parte e dall'altra alcune volte, finché, essendo ricoperta di sabbia, aveva perso ogni fascino, e poi lei aveva commesso quello stupido errore… Le caravelle portoghesi appartenevano ai sifonofori, una famiglia che presentava per gli scienziati ancora molti enigmi. In realtà, le caravelle non erano propriamente meduse, ma una colonia navigante, formata da un gran numero di singoli animali, centinaia o migliaia, con compiti diversificati. La loro vela di gelatina cangiante, blu o rossa, riempita d'aria s'innalzava sull'acqua e permetteva alla colonia di navigare col vento. Quello che c'era sotto la vela non si vedeva. Però, se ci si finiva in mezzo, si sentiva. Le caravelle portoghesi trascinavano dietro di sé una cortina di tentacoli che potevano raggiungere i cinquanta metri di lunghezza, ricoperti da centinaia di migliaia di minuscole cellule urticanti, dotate di sensori. La struttura e la funzione di quelle cellule rappresentavano un capolavoro dell'evoluzione, un efficientissimo arsenale. Ogni cellula custodiva una capsula, in cui si trovava una sorta di tubicino arrotolato, che terminava con una punta a forma di arpione e che veniva rovesciato all'esterno come il dito di un guanto. Bastava sfiorarlo per mettere in moto una dinamica impressionante nella sua precisione. Nel momento in cui il sensore registrava il contatto, il tubicino si srotolava con la stessa pressione di settanta pneumatici che scoppiavano. Migliaia di arpioni ricoperti di uncini penetravano nel corpo della vittima, come punture sottocutanee, e iniettavano una miscela di albumina e proteine, che attaccava contemporaneamente i globuli rossi e le cellule nervose. La conseguenza era un'immediata contrazione della muscolatura. Si avvertivano dolori come se del metallo fuso entrasse nel corpo, si entrava in uno stato di shock, la respirazione si bloccava e infine si aveva un collasso cardiaco. Se si aveva la fortuna di trovarsi nei pressi della riva e si veniva soccorsi subito, si poteva sopravvivere. I sommozzatori o i nuotatori che finivano nel groviglio dei tentacoli al largo non avevano speranze. Quella donna, a Bali, non aveva fatto altro che toccare con un dito del piede il bastone su cui era rimasto un po' di veleno. Una quantità piccola, ma sufficiente perché l'incontro diventasse indimenticabile. Tuttavia, in confronto alla Nel corso della storia dell'evoluzione, la natura era arrivata a creare impressionanti miscele di veleni. E, nel caso delle vespe di mare, aveva fatto un vero capolavoro. Il veleno di un unico animale era sufficiente a uccidere duecentocinquanta uomini. L'efficientissimo inibitore nervoso provocava un'immediata perdita di coscienza. La maggior parte delle vittime moriva per collasso cardiaco e annegamento nel giro di alcuni minuti, spesso addirittura di qualche secondo. Mentre fissava il televisore, Johanson ragionava su quei fatti. Stavano cercando di prendere per scemi i telespettatori. Era mai successo che su un'unica costa ci fossero quattordici morti contemporaneamente? E che tutte le vittime fossero state uccise dalla stessa specie di meduse? E che cosa voleva dire quell'altra storia, quella della scomparsa delle navi? Caravelle portoghesi nel Sudamerica, vespe di mare in Australia, invasione di policheti in Norvegia. Ripose gli ultimi capi d'abbigliamento, spense il televisore e andò in sala per ascoltare un CD o per leggere qualcosa. Ma Johanson non ascoltò un CD e non prese neppure un libro. Andò avanti e indietro, poi guardò dalla finestra la strada illuminata dai lampioni. Era così tranquillo, al lago. Era così tranquillo, lì. Ma, se era tutto troppo tranquillo, allora qualcosa non andava. Si versò una grappa, la sorseggiò e cercò di non pensare al telegiornale. Gli venne in mente qualcuno che avrebbe potuto chiamare per avere informazioni. Olsen rispose dopo il terzo squillo. «Stavi già dormendo?» chiese Johanson. «I bambini mi hanno tenuto sveglio», disse Olsen. «È il compleanno di Maria, ha cinque anni. Com'è andata al lago?» Olsen era un padre di famiglia sempre di ottimo umore. Conduceva una vita borghese, cioè una vita che faceva inorridire Johanson. Non si frequentavano al di fuori del lavoro, se non per la pausa di mezzogiorno. Ma Olsen era una brava persona ed era dotato di senso dell'umorismo. Doveva avere «Qualche volta dovresti venire con me», gli propose Johanson, senza pensarlo davvero. Con la medesima convinzione avrebbe potuto dirgli: «Dovresti far saltare per aria la tua macchina» oppure: «Dovresti vendere un paio dei tuoi bambini». «Certo, volentieri», rispose Olsen. «Hai visto il telegiornale?» Ci fu una breve pausa. «Vuoi dire per le meduse?» «Esatto! Pensavo che t'interessasse. Cos'è successo?» «E cosa vuoi che sia successo? Le invasioni ci sono sempre state. Rane, cavallette, meduse…» «Mi riferisco in particolare alle caravelle portoghesi e alle vespe di mare.» «Questo è insolito», disse Olsen. «Ne sei sicuro?» «È insolito che le due specie più pericolose di meduse turbino il mondo. E quello che hanno detto al telegiornale suona quantomeno bizzarro.» «Diciassette morti in cento anni», suggerì Johanson. «Stupidate.» Olsen sbuffò, sprezzante. «Meno?» «Di più! Molte di più, circa novanta, se conti anche il golfo del Bengala e le Filippine, per non parlare dei dati nascosti. Naturalmente l'Australia ha problemi con quella robaccia gelatinosa, specialmente con le vespe di mare, da tempo immemorabile. Le vespe di mare depongono le uova a nord di Rockhampton, alle foci dei fiumi. Quasi tutti gli incidenti accadono nelle acque basse. Nel giro di tre minuti sei morto.» «La stagione è giusta?» chiese Johanson. «Per l'Australia, sì. Da ottobre a maggio. In Europa, rompono le scatole quando sulle spiagge si muore dal caldo. L'anno scorso eravamo a Minorca e quasi i bambini ci sono finiti in mezzo, perché c'erano tonnellate di «Cosa c'era?» « «E cosa ci sarebbe di singolare?» «Le vespe di mare si avvicinano alla spiaggia dov'è piatta», spiegò Olsen. «Al largo della costa è difficile trovarle. E non sono mai state viste prima nei pressi della Grande Barriera Corallina. Ma ho sentito che c'erano anche là. Per quanto riguarda le «Le spiagge non vengono protette con le reti?» domandò Johanson. Olsen rise a squarciagola. «Sì, e la gente s'illude che funzionino, ma non servono a niente. Le meduse rimangono impigliate nelle reti, ma i tentacoli si staccano e passano attraverso le maglie. E quelli non si vedono.» Fece una pausa. «Perché sei così ansioso di sapere tutte queste cose? È un argomento che conosci bene.» «Sì, ma non quanto te. M'interessa scoprire se abbiamo davvero a che fare con delle anomalie.» «Ci puoi scommettere», ringhiò Olsen. «Guarda che la comparsa delle meduse è sempre legata alle alte temperature dell'acqua e allo sviluppo del plancton. Sai bene che, se c'è un bel calduccio, il plancton si sviluppa alla grande, e le meduse mangiano il plancton. Così il cerchio si chiude. Ecco perché quegli animaletti compaiono nella tarda estate e spariscono qualche settimana dopo. Questo è il corso delle cose… Aspetta un attimo.» In sottofondo si sentiva urlare. Johanson si chiese quando andavano a letto i figli di Olsen e soprattutto se mai ci andassero. In passato, ogni volta che aveva telefonato a Olsen, le cose erano andate sempre nello stesso modo. Olsen gridò qualcosa per contenere la lite. Le urla si fecero ancora più alte, poi cessarono e lui fu di nuovo al telefono. «Scusa. Litigano per i regali. Allora, se vuoi sentire il mio parere, simili invasioni di meduse derivano dall'eccessiva fertilizzazione del mare. La colpa è nostra. La fertilizzazione provoca la crescita del plancton e così via. Quando i venti soffiano da ovest o da nordovest, ce le troviamo davanti alla porta di casa.» «Sì, ma quelle sono invasioni del tutto normali. Qui parliamo di…» cominciò Johanson. «Aspetta. Volevi sapere se siamo di fronte a un'anomalia. La risposta è sì. E verosimilmente si tratta di un'anomalia che non riconosciamo come tale. A casa hai delle piante?» «Che? Ah, sì.» «Una yucca?» «Sì. Due.» «Anomalie. Capisci? La yucca è importata, e pensa un po' da chi.» Johanson strabuzzò gli occhi. «Voglio sperare che non ti metterai a parlare di un'invasione di yucca. Le mie sono assolutamente pacifiche.» «Non voglio dire questo. Voglio dire semplicemente che non siamo più in grado di giudicare cos'è naturale e cosa no. Nel 2000 sono stato nel golfo del Messico per fare ricerche sulle invasioni di meduse. Giganteschi banchi di roba tremolante minacciavano la sopravvivenza dei pesci. Avevano invaso la Louisiana, il Mississippi e l'Alabama e divoravano le uova e le larve dei pesci, come pure il plancton. La maggior parte dei danni è stata fatta da una specie che in realtà non doveva essere là: era una medusa australiana, la medusa del Pacifico. Importata.» «Invasione biologica», disse Johanson. «Esatto. Distruggono la catena alimentare e pregiudicano la pesca. Una catastrofe. Qualche anno prima, si è sfiorato il disastro ecologico nel mar Nero, perché, negli anni '80, qualche nave da carico aveva importato con l'acqua di zavorra alcune meduse. Non erano originarie di quella zona. All'inizio la situazione è stata sgradevole, poi il mar Nero si è ritrovato nella merda. C'erano oltre ottomila meduse per metro quadrato… Sai cosa vuol dire?» Era infuriato. «E ora questa faccenda delle caravelle portoghesi. Sono comparse in Argentina, e non è la loro zona. Certo, l'America centrale, anche il Perú, forse il Cile. Ma così a sud? Quattordici morti in un colpo! Sembra un attacco. E poi le vespe di mare. Che ci fanno così vicine alla costa? È come se qualcuno le avesse stregate.» «Quello che mi dà da pensare è che si tratta proprio delle due specie più pericolose», disse Johanson. «Proprio così», confermò Olsen. «Ma aspetta un attimo; qui non siamo in America, e non mi lancerei a fare ipotesi di una cospirazione. Ci sono altre spiegazioni. Alcuni pensano che sia colpa del Niño, altri dicono che sia colpa del riscaldamento della Terra. A Malibu c'è stata un'invasione di meduse come non se ne vedeva da decenni; a Tel Aviv sono comparsi dei cosi giganteschi. Riscaldamento, importazione, si spiega tutto.» Johanson ormai lo ascoltava appena. Olsen aveva detto una cosa che continuava ad assillarlo: «… si accoppiano nelle acque basse», stava continuando Olsen. «E un'altra cosa: se parliamo di una nascita insolitamente elevata, non parliamo di migliaia, bensì di milioni. E questo vuol dire che la situazione non è sotto controllo. Non sono morte solo quattordici persone, ma molte di più, te lo garantisco io.» «Mmm…» «Mi stai ancora ascoltando?» «Certo. Ho l'impressione che sia Olsen rise. «Sciocchezze. Di certo si tratta di anomalie. Osservato in superficie, ha l'apparenza di un fenomeno ciclico, ma secondo me è qualcos'altro.» «Te lo dice la tua pancia?» chiese Johanson. «La mia pancia mi dice che stasera ho mangiato involtino di manzo. Non è in grado di dire altro. No, lo dice la mia testa.» «Bene. Grazie. Volevo solo sentire la tua opinione.» Rifletté. Doveva raccontare a Olsen dei vermi? Forse la Statoil non sarebbe stata particolarmente felice di dare in pasto all'opinione pubblica quell'argomento, e Olsen parlava un po' troppo. «Ci vediamo domani a pranzo?» chiese Olsen. «Sì, volentieri.» «Vedrò se riesco a raccogliere qualcos'altro sulla faccenda.» «Va bene. A domani», disse Johanson e riagganciò. Solo in quel momento rammentò che avrebbe voluto chiedere a Olsen anche della navi scomparse. Ma non voleva ritelefonargli. Il giorno dopo ne avrebbe saputo abbastanza. Si chiese se l'invasione delle meduse l'avrebbe elettrizzato allo stesso modo se non avesse saputo dei vermi. No. Probabilmente no. Non erano le meduse. Erano le connessioni. Ammesso che ce ne fossero davvero. Il mattino seguente, durante il tragitto verso l'NTNU, Johanson aveva ascoltato il notiziario, non aveva scoperto niente di più di quanto già sapeva: c'erano barche e persone disperse in diverse parti del mondo. Si facevano speculazioni a non finire, ma nessuno forniva una vera spiegazione. La sua prima lezione era alle dieci; aveva quindi tempo sufficiente per leggere le e-mail e la posta. Fuori pioveva a dirotto e un cielo plumbeo incombeva su Trondheim. Quando Olsen infilò la testa nel suo ufficio, Johanson aveva appena acceso la lampada da tavolo e si era messo alla scrivania con una tazza di caffè, necessaria per svegliarsi completamente. «Folle, vero?» esclamò Olsen. «Non finisce.» «Che cosa non finisce?» «Una notizia funesta dopo l'altra. Non ascolti i notiziari?» Johanson si dovette concentrare. «Parli delle navi scomparse? Volevo proprio chiedere la tua opinione. Ieri, a furia di parlare di meduse, me ne sono dimenticato.» Olsen scosse la testa ed entrò. «Pensavo che mi volessi offrire un caffè», disse, guardandosi intorno con interesse. Tra le caratteristiche allo stesso tempo apprezzabili e snervanti di Olsen c'era anche la curiosità. «Nella stanza a fianco», spiegò Johanson. Olsen si appoggiò alla porta aperta che si apriva sull'ufficio contiguo e ordinò ad alta voce un caffè. Poi si sedette e lasciò vagare lo sguardo nella stanza. La segretaria entrò, posò sgarbatamente una tazza sulla scrivania e, prima di andarsene, indirizzò a Olsen uno dei suoi sguardi assassini. «Ma che cos'ha?» si meravigliò Olsen. «Il caffè io me lo faccio sempre da solo», disse Johanson. «La caffettiera è proprio lì di fianco con latte, zucchero e tazze.» «Permalosa la signora, eh? Mi dispiace. La prossima settimana porterò dei biscotti fatti in casa. Mia moglie fa dei biscotti fantastici.» Olsen bevve rumorosamente. «Non hai sentito le ultime notizie?» «Certo, in auto mentre venivo qui.» «Dieci minuti fa c'è stata una breaking news della CNN. Sai che in ufficio ho un piccolo televisore… È acceso tutto il giorno.» Olsen si chinò in avanti. La luce della lampada da tavolo si rifletteva nella sua calvizie incipiente. «In Giappone è esplosa una nave che trasportava gas. Quasi contemporaneamente, nello stretto di Malacca, sono entrate in collisione due portacontainer e una fregata. Per essere precisi, una delle navi portacontainer è affondata e l'altra, ormai ingovernabile e in fiamme, è finita contro la fregata militare. C'è stata un'esplosione.» «Mio Dio.» «Ed è ancora mattina presto.» Johanson si scaldò le mani con la tazza. «Per quanto riguarda lo stretto di Malacca non mi sorprende. È strano che non capiti più spesso…» «Sì, ma questa è una strana coincidenza, non credi?» C'erano tre stretti che concorrevano per il titolo di via d'acqua più trafficata del mondo: il canale della Manica, lo stretto di Gibilterra e lo stretto di Malacca, che si trovava sulla rotta dall'Europa verso l'Asia sudorientale e il Giappone. Il problema del commercio mondiale via mare gravitava intorno a quei tre stretti. Solo nello stretto di Malacca transitavano ogni giorno circa seicento tra superpetroliere e cargo e, talvolta, fino a duemila navi percorrevano le acque tra Malaysia e Sumatra, in un canale lungo quattrocento chilometri, ma largo solo ventisette nel punto più stretto. India e Malaysia insistevano affinché i capitani delle petroliere facessero rotta verso sud e attraversassero lo stretto di Lombok, ma era come parlare ai sordi. La deviazione riduceva il guadagno. Così circa il quindici per cento del commercio mondiale continuava a transitare per lo stretto di Malacca. «Si sa com'è successo?» chiese Johanson. «No. L'incidente è appena avvenuto.» «Terribile.» Johanson bevve un sorso. «Ma che razza di storia è, quella delle navi scomparse?» «Come? Non ne sai nulla neppure tu?» «Altrimenti non avrei chiesto», borbottò Johanson, un po' nervoso. Olsen si chinò in avanti e abbassò la voce. «Pare che nel Sudamerica, sulla costa del Pacifico, da tempo spariscano bagnanti e pescherecci. Sono fatti di cui si parla poco, specialmente in Europa. Il tutto è iniziato in Perú. Prima è sparito un pescatore: la sua barca è stata ritrovata qualche giorno dopo in mare aperto. Trattandosi di una piccola barca di giunchi, si è ipotizzato che l'uomo fosse stato trascinato in mare da un'onda, ma da settimane in quella zona il tempo era buono. Dopodiché cose simili si sono ripetute in continuazione. Infine è scomparso un piccolo trawler.» «Santo cielo, come mai non se n'è saputo nulla?» Olsen allargò le braccia. «Perché nessuno ama fare pubblicità a queste cose. Il turismo è troppo importante. Inoltre sono accadute in una zona lontanissima, dove vivono molti uomini con la pelle scura e i capelli lunghi che a noi sembrano tutti uguali.» «Però sulle meduse le informazioni le hanno date, benché le invasioni siano avvenute lontano da qui.» «C'è una bella differenza, no? Là sono morti veri turisti americani, un tedesco e chissà chi altro. In Cile è sparita una famiglia norvegese. Sono usciti in mare con un peschereccio per un'escursione gestita da un'azienda locale. Pesca d'altura. E, «Va bene, ho capito.» Johanson si appoggiò allo schienale. «E non ci sono stati contatti radio?» «No, mio caro Sherlock Holmes. È stato lanciato un SOS, ma nient'altro. Nella maggior parte delle navi scomparse, l'alta tecnologia si limitava al fuoribordo.» «Niente tempeste?» «Mio Dio, no! Nulla che potesse rovesciare le barche.» «E cos'è successo nel Canada occidentale?» «A quelle navi che pare siano entrate in collisione? Non ne ho idea. Qualcuno dice che si siano scontrate con balene di pessimo umore. Che ne so io? Il mondo è misterioso e terribile e anche tu sei un po' misterioso con tutte queste domande. Offrimi un altro caffè… No, aspetta, vado a prepararmelo da solo.» Olsen sembrava essersi installato definitivamente nell'ufficio di Johanson. Quando infine se ne andò — non prima di aver bevuto una notevole quantità di caffè -, Johanson guardò l'orologio. Gli rimanevano pochi minuti prima della lezione. Chiamò Tina Lund. «Skaugen ha preso contatto con altre società di esplorazione in tutto il mondo: vuole sapere se hanno avuto problemi analoghi», disse lei. «Coi vermi?» «Esatto. Presume che gli asiatici sappiano dell'esistenza di quelle bestiole.» «Perché?» «Sei stato tu a riferirci quello che aveva detto il tuo uomo di Kiel, cioè che in Asia stanno cercando di estrarre gli idrati di metano. Così Skaugen vuole tastare il polso alle società che se ne occupano.» «Credi che non dovrebbe dir loro nulla?» «Forse non sino in fondo. E non ora.» «Quale sarebbe l'alternativa?» «Già.» Johanson cercò le parole adatte. «Non voglio mettermi al vostro posto, ma supponiamo che a qualcuno venga in mente di forzare i tempi per la costruzione di una stazione sottomarina, benché laggiù strisci della robaccia sconosciuta…» «Noi non lo facciamo.» «È soltanto una tua ipotesi.» «Hai sentito anche tu che Skaugen ha seguito il tuo consiglio.» «Questo gli fa onore. Ma qui si tratta di denaro o sbaglio? Qualcuno potrebbe avere un'altra opinione e dire: 'Vermi? Non ne sappiamo nulla, non li abbiamo mai visti'.» «E costruire comunque?» «Non può succedere nulla. Voglio dire, si può essere arrestati per carenze tecniche, ma non per via di animali che mangiano il metano. Chi si prenderebbe mai la briga di dimostrare che nella zona di estrazione c'era una massa di vermi?» «La Statoil non nasconderebbe una cosa simile.» «Non sto parlando di voi. Per i giapponesi, un'efficiente estrazione di metano compenserebbe il boom petrolifero. Molto di più! Diventerebbero immensamente ricchi. Credi che in questa faccenda gli asiatici giochino a carte scoperte?» Tina esitò. «No.» «E voi?» «Al momento, queste supposizioni non ci portano da nessuna parte. Dobbiamo scoprire che cosa stanno facendo prima che siano loro a scoprire che cosa stiamo facendo noi. Abbiamo bisogno di osservatori indipendenti. Gente che non possa essere messa in relazione con la Statoil. Per esempio…» Tina sembrò fermarsi a riflettere. Poi disse: «Non potresti sentire un po' in giro?» «Io? Dovrei cercare all'interno delle società petrolifere?» «No, negli istituti, nelle università, presso gente come quelli di Kiel. Non si fanno ricerche in tutto il mondo sugli idrati di metano?» «Certo, ma…» «E rivolgersi ai biologi, ai biologi marini! Ai sommozzatori dilettanti! E chissà a chi altro!» urlò lei. «Forse… Forse potresti fare tutto tu. Potremmo darti un finanziamento. Sì, è la cosa migliore: chiamo Skaugen e gli chiedo di fissare un budget! Potremmo…» «Ehi, calma!» «Sarebbe un lavoro ben pagato, a prescindere dal fatto che non avresti molto da fare.» «Sarebbe un pasticcio. Voi potreste farlo altrettanto bene.» «Sarebbe meglio se lo facessi tu. Tu sei neutrale.» «Accidenti, Tina.» «Nel tempo di questa telefonata avresti potuto chiamare già tre volte lo Smithsonian Institute. Ti prego, Sigur, sarebbe semplicemente… Cerca di capire: se come gruppo industriale esponessimo i nostri interessi vitali, avremmo addosso migliaia di organizzazioni ambientaliste. Aspettano solo quello.» «Ah-ah! Allora avete interesse a nascondere tutto sotto il tappeto.» «Sei un bastardo.» «Talvolta.» Tina sospirò. «E allora, secondo te, cosa dovremmo fare? Non credi che tutto il mondo ci accuserebbe delle cose peggiori? Ti giuro che la Statoil non farà nulla sinché non avremo chiarito il ruolo di questi vermi. Ma, se andassimo ufficialmente a bussare a troppe porte, la voce correrebbe, finiremmo subito nel mirino e non potremmo più muovere un dito.» Johanson si stropicciò gli occhi, poi guardò l'orologio. Le dieci passate. La sua lezione. «Tina, devo lasciarti. Ti chiamo più tardi.» «Posso dire a Skaugen che ci stai?» «No.» Silenzio. «Okay», disse infine lei con voce fioca. Sembrava che la stessero portando al macello. Johanson respirò profondamente. «Posso almeno pensarci?» «Sì. Naturalmente. Sei un tesoro.» «Lo so. Il mio problema è proprio questo. Ti richiamo.» Prese i suoi appunti e si affrettò verso l'aula. Roanne, Francia Mentre, a Trondheim, Johanson stava iniziando la sua lezione, a duemila chilometri di distanza, Jean Jérôme esaminava con occhio critico dodici astici bretoni. Jérôme osservava sempre criticamente, lo faceva per principio. Il suo costante scetticismo era dovuto al luogo in cui lavorava: il Troisgros era l'unico ristorante in Francia a poter vantare trent'anni ininterrotti di tre stelle sulla La giornata degli intermediari commerciali cominciava molto prima della sua e cioè alle tre del mattino, a Rungis, un paese a quattordici chilometri dal centro di Parigi. Fino a pochi anni prima, Rungis era privo d'importanza, ma poi, quasi da un giorno all'altro, era diventato la mecca della cucina più raffinata. In un territorio di quattro chilometri quadrati, Rungis riforniva di alimenti le grandi città, i commercianti, i cuochi e tutti coloro che erano sufficientemente pazzi da trascorrere la loro vita in una cucina. A Rungis era rappresentata l'intera nazione. Latte, panna, burro e formaggi dalla Normandia, squisiti ortaggi bretoni, succosi frutti dal sud. Fornitori di ostriche Belon e Marenne e del Bassin d'Arcachon e pescatori di tonni da St-Jean-de-Luz arrivavano velocissimi, percorrendo le autostrade su camion scoppiettanti coi loro carichi. Camion frigoriferi coi crostacei si aprivano la strada tra furgoncini e auto private. Quello era il primo luogo di tutta la Francia in cui arrivavano le prelibatezze. La qualità era un fattore decisivo. Gli astici arrivavano ovviamente dalla Bretagna, ma bisognava fare attenzione, perché c'erano esemplari splendidi e altri meno attraenti. In breve, dovevano necessariamente avere alcune caratteristiche ben precise perché, al momento della consegna a Roanne, un cliente come Jean Jérôme, per esempio, fosse soddisfatto. Jérôme prendeva gli astici l'uno dopo l'altro, li girava e li rigirava, scrutandoli. Gli animali erano disposti in gruppi di sei in casse di polistirolo, rivestite con una specie di felce. Si muovevano appena, ma naturalmente erano vivi, come doveva essere. Le loro chele erano legate. «Bene», disse Jérôme. Era la miglior lode che potesse tributare. In effetti era molto soddisfatto di quegli astici. È vero che erano piccoli, ma per le loro dimensioni erano molto pesanti e avevano una splendente corazza blu scuro. Tranne gli ultimi due. «Troppo leggeri», disse. Il commerciante aggrottò la fronte, prese uno degli astici che aveva ricevuto l'approvazione di Jérôme e uno degli altri e li soppesò, uno per mano. «Ha ragione, Monsieur Jérôme», ammise, sbigottito. «Mi devo scusare.» Stava lì, come una statua della Giustizia del mercato del pesce, gli avambracci piegati ad angolo e le mani distese. «Ma non c'è molta differenza. Una piccolezza, vero?» «Sì, forse non è molto per una birreria che serve pesce», borbottò Jérôme. «Ma noi non siamo una birreria che serve pesce.» «Mi dispiace. Posso tornare indietro e…» «Non si preoccupi. Dovremo solo capire quale dei nostri clienti ha lo stomaco più piccolo.» Il commerciante si scusò ancora. Si scusò nell'uscire e verosimilmente aveva continuato a scusarsi anche durante il viaggio di ritorno, mentre Jérôme era già nella splendida cucina del Troisgros e si occupava del menù serale. Aveva messo gli astici in una vasca con acqua fresca, dove se ne stavano immobili, apatici. Passò un'ora e Jérôme decise di scottare gli animali. Aveva preparato un calderone d'acqua: era consigliabile lavorare in fretta gli astici vivi, dato che gli animali in cattività tendevano a deteriorarsi internamente. Scottarli non voleva dire cuocerli, bensì ucciderli con l'acqua bollente. Più tardi, poco prima di essere serviti, venivano cotti a fuoco lento. Jérôme attese finché l'acqua non raggiunse il bollore, prese gli astici dalla vasca e li infilò velocemente nell'acqua a testa in giù. L'aria usciva dai vuoti della corazza con uno stridio ben udibile. Li metteva l'uno dopo l'altro nel calderone e poi li tirava subito fuori. Il nono e il decimo morirono. La mano di Jérôme prese l'undicesimo — ah, è vero, era quello più leggero! — e lo mise nell'acqua bollente. Dieci secondi sarebbero bastati. Senza badarci troppo tirò fuori l'animale col grande mestolo… E gli sfuggì un'imprecazione. Che diavolo era successo? La corazza era letteralmente spezzata in due e una chela era rimasta nell'acqua. Inconcepibile. Jérôme sbuffò di rabbia. Appoggiò l'astice — o, meglio, quello che ne restava — sul tavolo da lavoro e lo girò sulla schiena. Anche la parte inferiore era frantumata e, nell'interno, dove doveva esserci la carne gustosa, c'era solo una patina gelatinosa e biancastra. Sbalordito, Jérôme guardò nel calderone. Nell'acqua ribollente galleggiavano pezzi e fili che solo con molta fantasia potevano essere scambiati per carne di astice. Be', pazienza… In realtà aveva bisogno soltanto di dieci astici. Jérôme non limitava mai gli acquisti al minimo, ma era noto per il suo equilibrio. Nell'interesse dell'economia, si doveva essere sempre ben consapevoli delle quantità da cucinare, ma sempre con la precauzione di avere una piccola riserva di sicurezza. In quel momento, i suoi princìpi si rivelarono quanto mai utili. La faccenda era comunque seccante. Si chiese se l'animale fosse malato. Guardò la vasca: c'era ancora un astice, il secondo dei due più piccoli. Be', ormai non poteva fare altro che metterlo nella pentola. Ah, no, là dentro nuotava ancora quella robaccia bianca. Improvvisamente gli venne un'idea. L'animale malato era più leggero, quello ancora vivo lo era altrettanto… Significava qualcosa? Forse gli animali si consumavano da soli, oppure erano divorati da un virus o da un parassita. Jérôme esitò, poi prese il dodicesimo astice dalla bacinella e lo posò sul piano di lavoro per osservarlo. Le lunghe antenne rivolte all'indietro si agitavano a scatti e le chele legate si muovevano debolmente. Non appena venivano tolti dal loro ambiente naturale, gli astici tendevano a una grande indolenza. Jérôme diede un colpetto all'animale e vi si chinò sopra. L'astice muoveva le zampe come se volesse scappare, ma restava fermo; dal punto in cui la coda segmentata entrava nella corazza colava qualcosa di trasparente. Che cos'era? Jérôme si piegò sulle ginocchia. Era vicinissimo all'animale, all'altezza degli occhi, per così dire. L'astice sollevò leggermente la parte superiore del corpo e, per un secondo, sembrò squadrare Jérôme coi suoi occhi neri. Poi esplose. L'apprendista cui Jérôme aveva dato l'incarico di squamare il pesce si trovava a soli due metri di distanza, tuttavia uno scaffale sottile e senza copertura, che ospitava arnesi da cucina e spezie, gli impediva di vedere il fornello. Sentì l'urlo straziante di Jérôme e, spaventato a morte, lasciò cadere il coltello. Vide Jérôme barcollare via dal fornello con le mani premute sul viso e balzò verso di lui. Insieme urtarono rumorosamente contro il piano di lavoro di fronte. Le stoviglie sferragliarono e qualcosa cadde a terra, rompendosi rumorosamente. «Cos'è successo?» gridava l'apprendista, nel panico. «Cos'è successo?» Arrivarono anche gli altri cuochi. La cucina era una fabbrica nel senso migliore del termine: ciascuno aveva un proprio compito. Uno si occupava solo della selvaggina, un altro solo delle salse, un terzo della farcia, un altro ancora delle insalate, uno della pasticceria e così via. In un attimo, intorno al fornello regnò la più grande confusione. Poi Jérôme si tolse le mani dal volto e, tremando, indicò il tavolo da lavoro. Sui suoi capelli c'era una sostanza appiccicosa e trasparente, che gli colava anche sul viso e sul collo. «È… esploso», ansimò. L'apprendista si avvicinò al piano di lavoro e fissò schifato l'astice in frantumi. Non aveva mai visto una cosa simile: solo le zampe erano intatte; le chele erano sul pavimento, la coda sembrava fosse stata sparata da una pressione altissima e la corazza del dorso si era spalancata. «Che cosa gli ha fatto?» sussurrò. «Fatto? Fatto?» urlò Jérôme con le mani sollevate e la faccia che era una smorfia di disgusto. «Non ho fatto proprio nulla! È esploso, è stato lui. È esploso!» Gli portarono dei tovaglioli per pulirsi, mentre l'apprendista toccava esitante quella robaccia sparsa ovunque. Quello che toccava era enormemente compatto, di una consistenza gommosa, ma si scioglieva in fretta e colava sul piano di lavoro. Seguendo un impulso, prese da una mensola un vasetto col tappo a vite e, usando un cucchiaio, lo riempì coi pezzi di gelatina, facendovi colare anche un po' di liquido. Poi chiuse bene il vasetto. Calmare Jérôme non era per nulla facile. Infine qualcuno gli portò un bicchiere di champagne e soltanto così lui riuscì a riprendersi un po'. «Portatelo via», ordinò con voce strozzata. «Per l'amor del cielo, portate via quella schifezza. Io vado a lavarmi.» Gli aiuto cuochi si misero immediatamente all'opera per rimettere in ordine la postazione di Jérôme, pulirono il fornello e il ripiano circostante, smaltirono i rifiuti, lavarono il calderone e naturalmente versarono nello scarico l'acqua in cui gli astici avevano vissuto i loro ultimi istanti. L'acqua iniziò il percorso degli scarichi nel sottosuolo, gorgogliò nelle tubature e lì si mischiò con tutto quello che la città lascia defluire per poi riciclarlo. L'apprendista prese il vasetto con la gelatina. Non sapeva ancora che cosa farci, quindi chiese disposizioni a Jérôme, che era appena riapparso in cucina coi capelli lavati e i vestiti puliti. «Forse hai fatto bene a conservare un po' di quella robaccia», disse Jérôme, cupo. «Lo sa il cielo che cos'è.» «Vuole vederla?» «Dio me ne guardi, no! Però bisogna farla esaminare. Mandiamola dove possono farlo. Ma, per favore, senza dire nulla delle circostanze, hai capito? Al Troisgros non succedono cose simili.» Infatti la storia non uscì dalla cucina del ristorante. E fu un bene, perché avrebbe messo in cattiva luce il Troisgros. Benché nessuno, nel ristorante, avesse la minima responsabilità nell'episodio, qualcuno avrebbe potuto mettere in circolazione la voce che al Troisgros gli astici saltavano in aria, spruzzando ovunque una disgustosa gelatina. E la cosa peggiore che può capitare a un ristorante di alto livello è che si diffondano dubbi sulla sua igiene. L'apprendista osservò attentamente la sostanza nel vasetto. Non appena aveva iniziato a decomporsi, vi aveva versato un po' d'acqua, perché pensava che potesse servire a conservarla. Quel tessuto gli ricordava — ammesso che potesse davvero ricordare qualcosa — le meduse e lui sapeva che le meduse resistevano solo in acqua, perché erano fatte quasi esclusivamente d'acqua. Evidentemente era stata una buona idea perché i frammenti si stabilizzarono. Il Troisgros fece una discretissima telefonata, in seguito alla quale il vasetto fu mandato alla vicina Università di Lione per farne esaminare il contenuto. E così esso arrivò sulla scrivania di Bernard Roche, docente di Biologia molecolare. Nel frattempo, nonostante l'acqua, il processo di decomposizione della gelatina era continuato e ormai nel vasetto galleggiava solo pochissima sostanza solida. Roche sottopose immediatamente quel poco che era rimasto a diversi test, tuttavia gli ultimi grumi si decomposero prima che lui potesse esaminarli accuratamente. Riuscì comunque a documentare alcuni legami molecolari che lo sbigottivano e irritavano allo stesso tempo. Tra l'altro, trovò una neurotossina di grande efficacia, anche se non poteva dire se provenisse dalla gelatina o dall'acqua nel vasetto. Una cosa era certa: quell'acqua era satura di materiale organico e di diverse sostanze. Visto che al momento non aveva il tempo di esaminarla, Roche decise di conservare il contenuto residuo del vasetto e di fare ricerche più accurate nei giorni seguenti. E l'acqua finì nel frigorifero. La sera stessa, Jérôme si ammalò. Cominciò col provare una leggera nausea, ma il ristorante era pieno e lui non ci fece caso, continuando come al solito a seguire le coreografie della cucina. I dieci astici che non erano esplosi erano di qualità eccezionale e non ne servirono altri. Nonostante lo sgradevole incidente del pomeriggio, tutto procedeva liscio, proprio com'era abitudine al Troisgros. Intorno alle dieci, la nausea di Jérôme aumentò e a essa si aggiunse un leggero mal di testa. Poco dopo, si accorse che aveva difficoltà a concentrarsi: dimenticò di terminare una portata e di dare alcune indicazioni. Il decorso perfetto ed elegante della serata subì un'impercettibile battuta d'arresto. Jean Jérôme era un professionista e sapeva quand'era il momento di gettare la spugna. Si sentiva davvero male, così affidò la responsabilità del seguito della serata alla sua vice, una cuoca di grande talento che aveva fatto l'apprendistato a Parigi nel rinomato Ducasse; le disse che voleva fare una breve passeggiata nel giardino del ristorante e uscì. Il giardino comunicava direttamente con la cucina. Era di una bellezza eccezionale, durante la bella stagione: era là che gli ospiti venivano ricevuti, prendevano l'aperitivo e gli hors d'oeuvres, per poi essere condotti nel ristorante attraverso la cucina, dove veniva offerta loro una breve dimostrazione. Adesso il giardino era deserto, discretamente illuminato. Jérôme passeggiò avanti e indietro per qualche minuto. Attraverso l'ampia vetrata poteva seguire la frenetica attività della cucina, ma si accorse che non riusciva a mettere a fuoco lo sguardo per più di qualche secondo. Nonostante l'aria fresca, respirava a fatica e sentiva un'enorme pressione sul petto. Gli sembrava di avere le gambe di gomma. Per precauzione si sedette a uno dei tavoli di legno e ripensò agli avvenimenti della mattina. Si era ritrovato il corpo dell'astice tra i capelli e sul viso, sicuramente aveva respirato qualcosa… Probabilmente gli era finito del liquido in bocca, oppure aveva inghiottito un frammento di quella sostanza. Che fosse il pensiero dell'animale esploso, o semplicemente la conseguenza della sua malattia, improvvisamente vomitò con violenza tra le piante ornamentali. Mentre era ancora lì, ansante e mezzo strozzato, pensò che quella robaccia era uscita. Bene. Avrebbe bevuto un sorso d'acqua e sarebbe stato subito meglio. Si risollevò, ma il mondo intorno a lui vorticava. Si sentiva bruciare, il suo campo visivo si era ristretto e gli sembrava di guardare in una spirale. Avanzò a fatica, strascicando i piedi, ma prese la direzione opposta. Dopo due passi, non ricordava più che voleva andare in cucina. Non sapeva più nulla e non vedeva più nulla. Crollò sotto gli alberi che circondavano il giardino. |
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