"Coraline" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)IIIAl giorno dopo splendeva di nuovo il sole, e Coraline andò con sua madre nella cittadina più vicina, per comprare i vestiti per la scuola. Prima accompagnarono alla stazione il padre, che doveva andare a Londra per incontrare delle persone. Coraline lo salutò con la mano. Per comprare i vestiti andarono ai grandi magazzini. Coraline vide un paio di guanti d’un verde brillante che le piacquero moltissimo. Sua madre si rifiutò di comprarglieli e diede la precedenza a calzini bianchi, mutande blu marino, quattro camicette grigie e una gonna grigio scuro. — Ma mamma, a scuola La madre non le prestò la minima attenzione, perché stava decidendo con la commessa quale maglioncino prendere per Coraline, e le due donne si trovarono d’accordo sul fatto che fosse meglio comprarne uno vergognosamente largo e fuori misura, nella speranza che un giorno ci sarebbe cresciuta dentro. Coraline si allontanò e andò a guardare gli stivali di gomma, tutti a forma di rana, di anatra e di coniglio. Poi tornò da sua madre. — Coraline? Oh, eccoti qua. Dove diamine eri finita? — Mi avevano rapito gli extraterrestri — disse Coraline. — Sono arrivati dallo spazio con le pistole laser, ma io li ho imbrogliati mettendomi una parrucca e ridendo con accento straniero, poi sono fuggita. — Certo, cara. Credo che ti servirebbero degli altri fermagli per i capelli, non credi anche tu? — No. — Be’, diciamo una mezza dozzina, tanto per stare tranquille — disse sua madre. La bambina non disse una parola. In macchina, tornando a casa, Coraline disse: — Cosa c’è nell’appartamento vuoto? — Non lo so. Niente, immagino. Probabilmente assomiglierà al nostro prima che ci andassimo ad abitare. Stanze vuote. — Credi che ci si possa entrare dal nostro salotto? — No, a meno che tu non riesca a passare attraverso i mattoni, cara. — Oh. Arrivarono a casa che era quasi l’ora di pranzo. Nonostante facesse freddo, splendeva un bel sole. La madre di Coraline guardò nel frigo e ci trovò un misero pomodoro e un pezzo di formaggio con della roba verde sopra. Nel contenitore del pane c’era solo una crosta secca. — Forse farei meglio a fare una corsa al negozio e a prendere dei bastoncini di pesce o qualcos’altro — disse. — Vuoi venire con me? — No — rispose Coraline. — Fa’ come ti pare — disse sua madre. E uscì. Poi tornò indietro, perché aveva dimenticato il borsellino e le chiavi della macchina; quindi uscì di nuovo. Coraline si annoiava. Sfogliò il libro che stava leggendo sua madre e che parlava degli indigeni di un paese lontano; pareva che ogni giorno prendessero grandi pezze di seta bianca e ci facessero sopra dei disegni con la cera, poi immergevano la seta nella tintura, quindi ci disegnavano ancora sopra con la cera e la immergevano di nuovo nella tintura, poi toglievano la cera e mettevano tutto a cuocere nell’acqua bollente, e alla fine gettavano quelle pezze ormai bellissime su un falò, per ridurle in cenere. A Coraline sembrava assolutamente privo di senso, ma sperava almeno che quella gente ci si divertisse. La noia non era ancora passata, e sua madre non era ancora rientrata. Coraline prese una sedia e la spinse vicino alla porta della cucina. Ci salì sopra e si protese verso l’alto, inutilmente. Poi scese e andò a prendere una scopa nel ripostiglio. Quindi salì di nuovo sulla sedia, e protese verso l’alto il manico della scopa. Scese dalla sedia e raccolse le chiavi. Sorrise trionfante. Poi appoggiò la scopa alla parete e andò in salotto. La famiglia non usava mai quella stanza. Avevano ereditato i mobili dalla nonna di Coraline, insieme a un tavolinetto basso, una consolle, un pesante portacenere di vetro e il dipinto a olio di una fruttiera. Coraline non era mai riuscita a capire come mai ci fosse gente che aveva voglia di dipingere una fruttiera. Quanto al resto, la stanza era vuota: niente soprammobili sulla mensola del caminetto, niente statuine, né orologi; niente che rendesse quel luogo confortevole e vissuto. La vecchia chiave nera sembrava più fredda di tutte le altre. Coraline la infilò nella toppa. Girò senza fare capricci, con un soddisfacente rumore metallico. Coraline si fermò ad ascoltare. Sapeva che stava facendo qualcosa di proibito, così tese l’orecchio per sentire se sua madre stesse tornando, ma non sentì nulla. Poi mise la mano sulla maniglia e la girò: e finalmente la porta si aprì. Si aprì su un corridoio buio. I mattoni erano scomparsi, come se non ci fossero mai stati. Da quel corridoio veniva un agghiacciante odore di stantio: l’odore di qualcosa di molto vecchio e di molto lento. Coraline varcò la soglia. Si domandò che aspetto avesse l’altro appartamento, ammesso che quel corridoio portasse lì. Coraline percorse il corridoio con una certa inquietudine. La moquette su cui camminava era identica a quella di casa loro. La carta da parati era identica a quella che avevano loro. Il quadro appeso nell’ingresso era identico a quello appeso nell’ingresso di casa loro. Sapeva dov’era: a casa sua. Non l’aveva mai lasciata. Confusa, scosse la testa. Fissò il quadro appeso alla parete: no, non era esattamente lo stesso. Il quadro nell’ingresso di casa loro ritraeva un ragazzo con abiti all’antica che fissava delle bolle di sapone. Ma ora l’espressione del suo viso era diversa: osservava le bolle come se avesse in mente di fare qualcosa di veramente perfido. E c’era uno strano sguardo nei suoi occhi. Coraline lo fissò, cercando di capire esattamente cosa avesse di diverso. C’era quasi arrivata quando qualcuno disse: — Coraline? Sembrava la voce di sua madre. Coraline andò in cucina, perché la voce veniva da lì. In cucina trovò una donna che le dava le spalle. Assomigliava un po’ a sua madre. Solo che… Solo che aveva la pelle bianca come la carta. Solo che era più alta e più magra. Solo che aveva le dita troppo lunghe, che non stavano mai ferme, e le unghie, adunche e affilate, di un rosso scuro. — Coraline? — disse la donna. — Sei tu? Quindi si voltò a guardarla. Al posto degli occhi aveva due grossi bottoni neri. — È ora di pranzo, Coraline — disse la donna. — E tu chi sei? — domandò la bambina. — Sono l’altra tua madre — rispose la donna. — Va’ a dire all’altro tuo padre che il pranzo è pronto. — E aprì lo sportello del forno. All’improvviso, Coraline si rese conto di avere una fame da lupi. E che odorino meraviglioso! — Allora, che aspetti? Coraline arrivò in fondo al corridoio, dove si trovava lo studio di suo padre. Aprì la porta. All’interno c’era un uomo seduto alla tastiera del computer, che le dava le spalle. — Ciao — disse Coraline. — C-cioè, lei mi ha detto di dirti che è pronto il pranzo. L’uomo si voltò. Al posto degli occhi aveva due grossi bottoni neri e scintillanti. — Ciao, Coraline — disse. — Non ci vedo più dalla fame. Si alzò e andò con lei in cucina. Si sedettero intorno al tavolo e l’altra madre di Coraline servì il pranzo. Un enorme e dorato pollo arrosto, patate fritte, pisellini verdi. Coraline spazzolò il cibo che aveva nel piatto. Era buonissimo. — È da un pezzo che ti aspettiamo — disse l’altro padre di Coraline. — Me? — Sì — disse l’altra madre. — Senza di te, qui non era più la stessa cosa. Ma sapevamo che un giorno saresti arrivata, e che a quel punto saremmo diventati una vera famiglia. Ti va un altro po’ di pollo? Era il pollo più buono che Coraline avesse mai mangiato in vita sua. A volte lo faceva anche sua madre, il pollo, ma era sempre precotto o surgelato, veniva sempre troppo asciutto e non sapeva mai di niente. Quando cucinava suo padre, invece, comprava un pollo vero. Solo che poi gli faceva delle cose strane, come farlo stufare nel vino, o riempirlo di prugne, o farlo al forno avvolto nella pasta sfoglia, e Coraline si rifiutava di toccarlo per principio. Accettò ancora un po’ di pollo. — Non sapevo di avere un’altra madre — disse Coraline, guardinga. — Ma certo. Tutti ce l’hanno — disse l’altra madre, con quei bottoni neri che le brillavano al posto degli occhi. — Pensavo che dopo pranzo ti sarebbe piaciuto giocare un po’ in camera tua con i topi. — I topi? — Quelli del piano di sopra. Coraline non aveva mai visto un topo, se non alla televisione. Quasi quasi non vedeva l’ora. In fin dei conti, la giornata si stava rivelando piuttosto interessante. Dopo pranzo, i suoi altri genitori lavarono i piatti e Coraline andò in fondo al corridoio dove si trovava la sua altra stanza da letto. Era diversa da quella che aveva a casa. Tanto per cominciare era dipinta di una sgradevole tonalità di verde e rifinita in una singolare tonalità di rosa. Coraline decise che non avrebbe voluto dormirci, ma che la combinazione di colori era molto più interessante di quella della sua cameretta. C’erano anche un mucchio di cose straordinarie che non aveva mai visto prima: angeli con dentro un congegno a molla, che fluttuavano nella stanza come passerotti spaventati; libri con illustrazioni che si contorcevano, strisciavano e luccicavano; piccoli teschi di dinosauro che battevano i denti al suo passaggio. Una scatola piena di meravigliosi giocattoli. Una cosa nera attraversò velocissima il pavimento e scomparve sotto il letto. Coraline si mise ginocchioni e guardò. Cinquanta piccoli occhietti rossi le restituirono lo sguardo. — Salve — disse Coraline. — Siete voi i topi? Uscirono da sotto il letto battendo le palpebre per la troppa luce. Avevano il pelo corto e nero come la fuliggine, gli occhi piccoli e rossi, le zampette rosa che sembravano minuscole mani, la coda senza peli che assomigliava a un verme lungo e liscio. — Sapete parlare? — domandò. Il topo più grosso e più nero le rispose di no, scuotendo la testa. Il suo sorriso aveva un che di sgradevole, pensò Coraline. — Bene — domandò — allora, cos’è che I topi formarono un cerchio. Quindi cominciarono a salire uno sull’altro, con cautela ma con molta rapidità, finché non ebbero formato una piramide con in cima il topo più grosso. I topi cominciarono a cantare, con voci acute ma sussurrate: Non era una bella canzone. Coraline era quasi certa di averla già sentita da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove. Quindi la piramide crollò e i topi cominciarono a sgambettare rapidi e neri in direzione della porta. L’altro vecchio pazzo del piano di sopra era fermo sulla soglia, con un grande cappello nero fra le mani. I topi gli corsero rapidamente addosso, rintanandosi nelle sue tasche, nella camicia, su per le gambe dei pantaloni, giù per il collo. Il topo più grosso si arrampicò sulle spalle del vecchio, raggiunse i lunghi baffi grigi, quindi passò davanti a quei grossi bottoni neri che erano gli occhi, e arrivò in cima alla testa. Pochissimi secondi dopo, l’unica prova che i topi fossero mai stati lì era rappresentata dalle inquiete protuberanze sotto i vestiti dell’uomo, che continuavano a spostarsi da un punto all’altro del suo corpo; e c’era sempre il topo più grosso che da sopra la testa continuava a guardare giù verso Coraline, con i suoi occhietti di un rosso scintillante. Il vecchio si mise il cappello in testa, e così scomparve anche l’ultimo topo. — Salve, Coraline — disse l’altro vecchio del piano di sopra. — Ho sentito che eri qui. Per i topi è ora di cena. Ma se ti va, puoi salire con me e guardare mentre gli do da mangiare. Negli occhi-bottone del vecchio c’era qualcosa di famelico che metteva a disagio Coraline. — No, grazie — rispose. — Vado fuori a esplorare. Il vecchio annuì, molto lentamente. Coraline sentì che i topi bisbigliavano fra loro, ma non riuscì a capire cosa si stessero dicendo. E comunque non era tanto sicura di volerlo sapere. I suoi altri genitori erano fermi sulla soglia della cucina quando lei apparve nel corridoio, con gli stessi identici sorrisi di prima, e la salutarono lentamente con la mano. — Divertiti là fuori — le disse la sua altra madre. — Noi ti aspettiamo qui — le disse il suo altro padre. Quando Coraline arrivò alla porta di casa, si voltò a guardarli. La stavano ancora fissando, e la salutavano, e sorridevano. Coraline uscì di casa e scese le scale. |
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