"Coraline" - читать интересную книгу автора (Gaiman Neil)

VI

Coraline venne svegliata dal sole di metà mattina, che le illuminava il viso.

Per un istante si sentì profondamente scombussolata. Non capiva dove si trovasse; non era nemmeno del tutto sicura di chi fosse. È sorprendente come ciò che siamo possa dipendere dal letto in cui ci risvegliamo al mattino, ed è sorprendente quanto tutto ciò possa rivelarsi fragile.

C’erano volte in cui Coraline dimenticava chi fosse, quando sognava a occhi aperti di esplorare l’Artico, o la foresta pluviale amazzonica, o l’Africa più ignota… e solo quando qualcuno le batteva la mano sulla spalla o la chiamava per nome, lei tornava con un sussulto da un milione di miglia di distanza, e in una sola frazione di secondo doveva ricordarsi chi era, e come si chiamava, e che si trovava proprio lì.

Adesso aveva il sole in faccia, ed era Coraline Jones. Sì. E a quel punto il rosa e il verde della stanza in cui si trovava, e il fruscio di una grande farfalla di carta dipinta che svolazzava verso il soffitto battendo le ali, le dissero che si era svegliata.

Scese dal letto. Giunse alla conclusione che non poteva indossare pigiama, vestaglia e pantofole durante il giorno, anche se sarebbe stata costretta a indossare i vestiti dell’altra Coraline. (Esisteva un’altra Coraline? No, decise che non esisteva. Esisteva lei e basta.) Nell’armadio, però, non c’erano dei veri vestiti, e comunque non del genere che le sarebbe piaciuto trovare nell’armadio di casa sua: uno sbrindellato costume da strega; un costume da spaventapasseri tutto toppe; un costume da guerriero del futuro ornato di piccole luci che scintillavano, accendendosi e spegnendosi a intermittenza; un attillato abito da sera pieno di piume e lustrini. Alla fine, in un cassetto, trovò un paio di jeans neri che sembravano fatti di notte vellutata, e un maglione grigio del colore del fumo denso, con delicate e minuscole stelle di tessuto luccicante.

Indossò jeans e maglione. Poi calzò un paio di stivali arancione brillante che trovò in fondo all’armadio.

Dalla tasca della vestaglia prese l’ultima mela e poi, sempre dalla stessa tasca, il sassolino con il buco.

Si mise il sassolino nella tasca dei jeans e si sentì la testa leggermente più libera. Come se fosse uscita da una specie di nebbia.

Andò in cucina, ma la trovò deserta.

Eppure aveva la certezza che nell’appartamento ci fosse qualcuno. Raggiunse lo studio in fondo al corridoio, e scoprì che era occupato.

— Dov’è l’altra madre? — domandò all’altro padre, che era seduto dietro una scrivania identica a quella del suo padre vero. Lui però non stava facendo assolutamente niente; non stava nemmeno leggendo i cataloghi di giardinaggio che leggeva suo padre quando faceva finta di lavorare.

— Fuori — le rispose lui. — A riparare le porte. Ci sono problemi con i parassiti. — Sembrava che gli facesse piacere avere qualcuno con cui scambiare una parola.

— I ratti, intendi dire?

— No, i ratti sono nostri amici. Si tratta di quell’altro, quel grosso coso nero con la coda dritta.

— Il gatto, vuoi dire?

— Esattamente — disse l’altro padre.

Oggi assomigliava meno al suo vero padre. Il viso era leggermente gonfio, come la pasta del pane che comincia a lievitare, spianando bozzi, crepe e buchi.

— A dire il vero, quando lei non c’è non dovrei parlare con te — disse. — Ma stai tranquilla. Non andrà via tanto spesso. Ti dimostrerò quanto siamo amorevolmente ospitali, così non ti verrà più in mente di andartene. — Chiuse la bocca e incrociò le braccia sul ventre.

— E allora, adesso che devo fare? — domandò Coraline.

L’altro padre si portò un dito alle labbra. Silenzio.

— Se non mi parli nemmeno — disse Coraline — esco a esplorare.

— Inutile — disse l’altro padre. — Non esiste altro luogo che questo. E l’ha creato lei: la casa, il prato e la gente nella casa. L’ha creato e si è messa ad aspettare. — Poi prese un’espressione imbarazzata e di nuovo si portò un dito alle labbra, come se avesse detto anche troppo.

Coraline uscì dallo studio. Entrò in salotto, si diresse verso la vecchia porta, la tirò, la strattonò, la scosse. Niente. Era ben chiusa, e la chiave ce l’aveva l’altra madre.

Lanciò un’occhiata intorno alla stanza. Era così familiare… e fu proprio questo a farla sentire tanto strana. Tutto era esattamente come se lo ricordava: i mobili di sua nonna con il loro strano odore, il dipinto con la fruttiera (un grappolo d’uva, due prugne, una pesca e una mela) appeso alla parete, il basso tavolinetto di legno con i piedi di leone, il caminetto vuoto che sembrava risucchiare il calore dalla stanza.

Ma c’era dell’altro, qualcosa che non ricordava di aver mai visto prima. Una sfera di cristallo, sopra la mensola del caminetto.

Si avvicinò in punta di piedi e la tirò giù. Era un globo con la neve, con due minuscole figure dentro. Coraline lo agitò e smosse la neve, neve immacolata che scintillava vorticando nell’acqua.

Rimise il globo al suo posto e riprese a cercare i suoi veri genitori e una via d’uscita.

Uscì dall’appartamento. Oltrepassò la porta con le luci, dietro la quale le altre Miss Spink e Miss Forcible portavano ininterrottamente avanti il loro spettacolo, e prese la strada del bosco.

Una volta tra gli alberi non si vedeva altro che il prato e il vecchio campo da tennis. Qui il bosco continuava e gli alberi diventavano più spogli; e più avanti si andava, meno sembravano alberi.

Ben presto ebbero un aspetto molto approssimativo, più simili a un’idea di albero che a una pianta vera: un tronco grigio-marrone, con sopra una macchia verdastra che rappresentava le foglie.

Coraline si domandò se l’altra madre non fosse interessata agli alberi, o se semplicemente non si fosse impegnata più di tanto nel creare questa parte del bosco, perché non si aspettava che qualcuno si prendesse la briga di spingersi fin là.

Continuò a camminare.

E poi si alzò la foschia.

Non era umida, come una normale nebbia. Non era né fredda né calda. A Coraline sembrava di camminare nel nulla.

Sono un’esploratrice, pensò. E devo trovare tutte le possibili vie di fuga. Così continuerò a camminare.

Il mondo che stava attraversando era un pallido nulla, come un foglio di carta bianco o un’enorme stanza bianca e vuota. Non c’era temperatura, né odore, né consistenza, né sapore.

Di certo non è foschia, pensò Coraline, pur non sapendo bene cosa fosse. Per un istante ebbe il dubbio di essere diventata cieca. Ma no, riusciva benissimo a vedere se stessa, chiara come il giorno. Sotto i suoi piedi non c’era la terra, solo un biancore latteo e brumoso.

— Che cosa credi di fare? — disse una sagoma al suo fianco.

I suoi occhi ci misero un po’ per metterla a fuoco. Al principio pensò che fosse una specie di leone, a una certa distanza da lei; poi pensò che fosse un topo, vicino a lei. E poi capì di cosa si trattava.

— Sto esplorando — disse Coraline al gatto.

Il gatto aveva i peli dritti e gli occhi sgranati, e teneva la coda bassa, tra le zampe. Non sembrava un gatto felice.

— Brutto posto — disse il gatto. — Sempre che ti sembri il caso di chiamarlo posto; a me no. Che ci fai tu qui?

— Sto esplorando.

— Qui non c’è niente da trovare — disse il gatto. — Questo è solo il fuori, la parte che lei non si è presa il disturbo di creare.

— Lei?

— Quella che dice di essere la tua altra madre — disse il gatto.

— Che cos’è lei? — domandò Coraline,

Il gatto non rispose, si limitò a procedere lentamente al fianco di Coraline nella pallida foschia.

Qualcosa cominciò a delinearsi davanti a loro, qualcosa di alto e nero.

— Ti sbagliavi! — disse Coraline al gatto. — Qualcosa c’è!

E nella foschia prese subito forma una casa scura, che si stagliava davanti ai loro occhi nell’informe biancore.

— Ma quella… — disse Coraline.

— La casa da cui sei appena uscita — le confermò il gatto. — Precisamente.

— Forse ho semplicemente girato in tondo nella foschia — disse Coraline.

Il gatto arricciò la punta della coda formando un punto interrogativo, e inclinò la testa di lato. — Forse tu - disse. — Di certo non io.

— Ma come puoi allontanarti da qualcosa e poi ritrovartici davanti?

— Facile — disse il gatto. — Pensa a qualcuno che gira intorno al mondo. Si comincia allontanandosi da un punto al quale poi si finisce col ritornare.

— Piccolo il mondo! — disse Coraline.

— Abbastanza grande per lei — disse il gatto. — Le ragnatele devono essere sufficientemente grandi per catturare le mosche.

Coraline rabbrividì.

— Lui ha detto che sta sistemando tutti i cancelli e le porte — disse al gatto — per tenerti fuori.

— Che ci provi - disse il gatto con indifferenza. — Oh, sì. Che ci provi. — Adesso si trovavano accanto alla casa, sotto un gruppetto di alberi che sembravano molto più verosimili. — Ci sono vie d’entrata e vie d’uscita di cui lei nemmeno immagina l’esistenza.

— Questo posto l’ha fatto lei, allora? — chiese Coraline.

— Fatto, trovato, che differenza fa? — le domandò il gatto. — In un caso o nell’altro, lo possiede da tantissimo tempo. Aspetta un attimo… — e il gatto venne percorso da un fremito, quindi fece un salto, e prima che Coraline battesse ciglio, era di nuovo seduto e con una zampa bloccava un grosso ratto nero. — I ratti non mi piacciono comunque — disse il gatto in tono colloquiale, come se nulla fosse successo — ma in questo posto sono tutte spie al suo servizio. Lei li usa come fossero le sue mani e i suoi occhi… — e detto ciò, il gatto liberò la sua preda.

Il ratto corse per circa un metro e poi il gatto, con un sol balzo, gli fu sopra e lo colpì con gli artigli di una zampa, mentre con l’altra lo teneva fermo. — Adoro questa parte della faccenda — disse con tono soddisfatto. — Vuoi che te la mostri di nuovo?

— No — disse Coraline. — Perché lo fai? Così lo torturi.

— Mmm — fece il gatto. Quindi lasciò libero il ratto.

Quello incespicò, stordito, poi si mise a correre. Con un colpo di zampa, il gatto lo fece volare in aria, afferrandolo con la bocca mentre cadeva.

— Smettila! — gridò Coraline.

Il gatto fece cadere a terra il ratto, fra le sue zampe anteriori. — C’è chi afferma — disse il gatto con un sospiro e in tono eccessivamente soave — che i gatti abbiano la spietata tendenza a giocare con la propria preda; però, in fin dei conti, ci sono gatti che ogni tanto permettono al loro occasionale e simpatico spuntino di scappare. Tu con quale frequenza ti lasci sfuggire la cena?

Quindi prese in bocca il ratto e lo portò nel bosco, dietro un albero.

Coraline rientrò in casa.

Tutto era silenzioso, vuoto e deserto. Persino i suoi passi sulla moquette sembravano far rumore. I granelli di polvere erano sospesi in uno spiraglio di luce solare.

In fondo al corridoio c’era lo specchio. Coraline poteva vedere se stessa camminare verso di esso, e il suo riflesso le sembrava un po’ più coraggioso di quanto lei non si sentisse. Nello specchio non c’era altro. Solo una bambina in corridoio.

Una mano le toccò la spalla, e lei alzò lo sguardo. L’altra madre guardò Coraline dall’alto, con i suoi grossi e neri occhi-bottone.

— Coraline, tesoro mio — disse. — Pensavo che forse avremmo potuto fare qualche gioco insieme, ora che sei tornata dalla tua passeggiata. Campana? Monopoli? Carte?

— Tu nello specchio non c’eri — disse Coraline.

L’altra madre sorrise. — Degli specchi — disse — non bisogna mai fidarsi. Allora, a che gioco giochiamo?

Coraline scosse la testa. — Con te non ci voglio giocare — disse. — Io voglio tornare a casa e stare insieme ai miei veri genitori. Voglio che tu li lasci liberi. Che ci lasci liberi tutti.

L’altra madre scosse la testa, molto lentamente. — Più pungente del dente di una serpe — disse — è l’ingratitudine di una figlia. Tuttavia, l’amore può piegare anche l’animo più orgoglioso. — E le sue lunghe e bianche dita si mossero, accarezzando l’aria.

— Io non ho in programma di volerti bene — disse Coraline. — Sia quel che sia. Non puoi mica costringermi a volerti bene.

— Parliamone — disse l’altra madre, voltandosi ed entrando nel salotto. Coraline le andò dietro.

L’altra madre si sedette sul grande sofà. Prese una borsetta marrone che era posata di lato al divano e ne estrasse un bianco, frusciante sacchetto di carta.

Quindi tese il sacchetto verso Coraline. — Ne vuoi uno? — le domandò in tono cortese.

Aspettandosi di trovarci dei bonbon, Coraline guardò nel sacchetto, pieno a metà. Dentro c’erano grossi e lucidi scarafaggi, che strisciavano uno sopra l’altro nel tentativo di uscire.

— No — disse Coraline. — Non ne voglio nessuno.

— Contenta tu! — disse l’altra madre. Con molta attenzione, scelse uno scarafaggio particolarmente grosso e nero, gli strappò le zampe (che fece cadere ordinatamente in un grosso portacenere di vetro posato sul tavolinetto basso), e se lo mise in bocca. Quindi lo sgranocchiò felice.

— Squisito — disse. E ne prese un altro.

— Tu sei matta — disse Coraline. — Matta, cattiva e strampalata.

— È così che ti rivolgi a tua madre? — le domandò l’altra madre con la bocca piena di scarafaggi.

— Tu non sei mia madre — ribatté Coraline.

L’altra madre ignorò questo commento. — Credo che tu ti sia un po’ sovreccitata, Coraline. Oggi pomeriggio potremmo ricamare un po’, oppure dipingere qualche acquerello. Poi ceneremo e dopo, se avrai fatto la brava, potrai giocare con i ratti prima di andare a letto. E io ti leggerò una storia e ti rimboccherò le coperte, e ti darò il bacio della buonanotte. — Le sue lunghe e bianche dita fluttuavano delicatamente, come una farfalla stanca, e Coraline rabbrividì.

— No — disse.

L’altra madre sedeva sul divano. La sua bocca disegnava una linea retta, interrotta da una smorfia. Si infilò tra le labbra un altro scarafaggio e poi un altro ancora, come se tenesse in mano un sacchetto di uva passa ricoperta di cioccolato. I suoi grossi e neri occhi-bottone guardavano dritto negli occhi nocciola di Coraline. I capelli neri e lucidi le svolazzavano sul collo e sulle spalle, come se stesse soffiando un vento che Coraline non poteva né sentire né percepire.

Si fissarono negli occhi per oltre un minuto. Poi, l’altra madre disse: — Educazione! — Richiuse il sacchetto di carta bianca con molta cura, in modo che nessuno scarafaggio potesse scappare, e lo rimise nella borsa. Quindi si tirò su, e su, e su: sembrava più alta di quanto Coraline ricordasse. Infilò una mano nella tasca del grembiule e ne estrasse la chiave nera, che guardò con aria aggrondata e poi gettò nella borsetta, quindi tirò fuori una minuscola chiave argentata e la sollevò con fare trionfante. — Ecco qua — disse. — Questa è per te, Coraline. Per il tuo stesso bene. Perché io ti voglio bene. Per insegnarti le buone maniere. È l’educazione che distingue l’uomo, in fin dei conti.

Ricondusse Coraline nel corridoio, avanzando verso lo specchio che era in fondo. Quindi infilò la minuscola chiave nell’intelaiatura dello specchio e girò.

Lo specchio si aprì come una porta, rivelando uno spazio buio. — Potrai uscire di qua solo quando avrai imparato un po’ di buone maniere — le disse l’altra madre. — E quando sarai pronta a diventare una figlia adorabile.

Tirò su Coraline e la spinse nell’oscuro spazio dietro lo specchio. Un frammento di scarafaggio pendeva dal labbro inferiore dell’altra madre, e i suoi neri occhi-bottone erano del tutto inespressivi.

Quindi richiuse la porta-specchio, lasciando Coraline al buio.