"La città proibita" - читать интересную книгу автора (Brackett Leigh)12.Le due del pomeriggio di una giornata calda e soffocante. Gli uomini stavano mettendo le tavole sui lati settentrionale e orientale del capannone, lavorando all’ombra. Refuge era calma, così calma che il suono dei martelli risuonava come le campane nel mattino del sabato. Quasi tutte le barche se ne erano andate dai moli, e le banchine erano deserte. Esaù disse: «Pensi che verranno?» «Non lo so». Len osservò i tetti lontani di Shadwell, dall’altra parte del fiume, e scrutò su e giù per l’ampia distesa delle acque. Neppure lui sapeva esattamente cosa cercasse: Hostetter, un volto conosciuto, qualcosa, qualsiasi cosa per spezzare quel senso di vuoto e di attesa. Per tutta la mattinata, dall’alba, carri pieni di donne e bambini avevano lasciato il paese, e c’erano stati anche degli uomini, sui carri, e molti fagotti che contenevano le proprietà delle famiglie. «Non faranno niente,» disse Esaù. «Non oseranno». La sua voce non era convinta. Len lo scrutò, e vide che aveva il volto teso e nervoso. Erano in piedi, sulla porta dell’ufficio, e non facevano niente, respiravano soltanto il calore soffocante e il silenzio. Dulinsky era andato in paese, e Len disse: «Vorrei che fosse già di ritorno». «Ci sono degli uomini sulle strade, di guardia. Se ci fossero delle notizie, saremmo i primi a saperle». «Sì,» disse Len. «Credo di sì». I martelli producevano un suono insistente, aspro, sul legno giallo e fresco. Ai margini del magazzino, tra gli alberi che circondavano il perimetro di costruzione, diversi uomini oziavano, e osservavano. Altri uomini erano sui moli, inquieti, nervosi, raccolti a gruppetti per parlare un poco, gruppetti che poi si scioglievano e si ricomponevano in un gioco continuo, gente che andava avanti e indietro senza sapere esattamente che fare. Tutti lanciavano delle occhiate furtive in direzione dell’ufficio, e soprattutto di Len e di Esaù che stavano in piedi sulla soglia, e tutti guardavano gli operai che lavoravano al magazzino, ma nessuno si avvicinava e tentava di conversare. Questo non piaceva affatto a Len. Gli dava l’impressione di essere molto solo e molto ingombrante, e lo preoccupava, poiché gli pareva di sentire il dubbio e l’incertezza e l’apprensione di quegli uomini, uomini che si erano posti contro qualcosa di nuovo e non sapevano che cosa fare. Di quando in quando delle borracce venivano passate di mano in mano, ma questo accadeva raramente, e solo uno o due uomini erano vistosamente ubriachi. Impulsivamente, Len salì sul molo, e gridò a un gruppo di uomini che stavano intorno a un albero a discutere: «Che notizie ci sono dal paese?» Uno di loro scosse il capo. «Ancora niente». Si trattava di uno di coloro che avevano gridato con maggiore vigore il nome di Dulinsky, durante il trionfo della notte, ma ora il suo volto non mostrava più alcun entusiasmo. Improvvisamente si curvò, e raccolse un sasso, e lo gettò contro un gruppetto di ragazzi che attendevano in disparte, evidentemente desiderosi di assistere a qualcosa di spettacolare. «Via!» gridò. «Non è un gioco per divertirvi, questo. Filate!» Se ne andarono, ma non troppo lontano. Len ritornò sulla porta dell’ufficio. Era un caldo soffocante, l’aria era immobile, pesante. Esaù si mosse, appoggiandosi allo stipite della porta. «Len». «Cosa vuoi?» «Cosa faremo, se vengono?» «Come faccio a saperlo? Dovremo combattere, suppongo. Vedremo quel che accadrà. Come faccio a saperlo?» «Be’, io so una cosa,» disse Esaù, con aria di sfida. «Non ho intenzione di rompermi il collo per Dulinsky. All’inferno anche lui». «Va bene, prova a escogitare qualcosa». C’era un senso di collera, ora, che pervadeva Len, una cosa ancora vaga e indistinta, priva di una direzione precisa, ma sufficiente a renderlo nervoso e impaziente. Forse era perché lui aveva paura, e la paura lo mandava in collera. Ma sapeva qual era il corso dei pensieri di Esaù, e non voleva che l’altro li esponesse a voce alta. «Ci puoi scommettere,» disse Esaù. «Sì, ci puoi scommettere. Il magazzino è suo, non mio. Che sia lui a combattere per difenderlo. Lui non rischierebbe certamente la pelle per difendere qualcosa di mio. Io…» «Zitto,» disse Len. «Guarda». Il giudice Taylor si stava avvicinando, lungo i moli. Esaù imprecò, nervosamente, e scivolò all’interno dell’ufficio, per non farsi vedere. Len aspettò, consapevole dello sguardo di tutti gli uomini fisso su di lui, come se quanto stava per accadere fosse stato di grande importanza. Taylor venne alla porta, e si fermò. «Di’ a Mike che voglio vederlo,» disse. Len rispose: «Non è qui». Il giudice lo studiò, cercando di capire se Len gli avesse detto o no la verità. Il suo volto era livido, e gli occhi erano stranamente duri e febbricitanti. «Sono venuto,» disse, «Per offrire a Mike l’ultima opportunità». «È in paese, da qualche parte,» disse Len. «Forse potrete trovarlo là». Taylor scosse il capo. «È la volontà del Signore,» disse, e si voltò, e se ne andò. Giunto all’angolo dell’ufficio, si fermò di nuovo, e disse, «Ti avevo avvertito, Len. Ma non esiste peggior cieco di colui che non vuole vedere». «Aspettate!» disse Len. In due passi raggiunse il giudice, e lo guardò negli occhi, e rabbrividì, «Voi sapete qualcosa. Di che si tratta?» «La volontà del Signore,» disse il giudice, «Ti verrà rivelata quando verrà il momento». Len si avvicinò ancora, e lo afferrò per il colletto del suo bellissimo abito, e lo scosse: «Parlate per voi, giudice!» disse, irato. «Il Signore deve essere nauseato di vedere che tutti si nascondono dietro di Lui! Non succede niente, in questo paese, senza che voi ci mettiate lo zampino. Cosa c’è, adesso?» Un po’ del fuoco ipocrita che aveva invaso gli occhi del giudice si spense. Egli abbassò lo sguardo, scandalizzato, incredulo che Len lo avesse preso per la giacca così rudemente. Len lo lasciò andare. «Mi dispiace,» disse. «Ma io voglio sapere». «Sì,» disse a bassa voce il giudice Taylor. «Sì, tu vuoi sapere. È stato sempre questo il tuo guaio. Non ti dissi io stesso di trovare il tuo limite, prima che fosse troppo tardi?» Il suo volto si addolcì, divenne gentile, pieno di autentico dispiacere. «È un peccato, Len. È un vero peccato. Avrei potuto volerti bene come a un figlio». «Che cosa avete fatto?» domandò Len, avvicinandosi ancora. E il giudice rispose: «Non ci saranno più città. Esiste una legge, e bisogna obbedire». «Voi avete paura,» disse Len, lentamente, in tono sinceramente sorpreso. «Ora lo capisco, voi avete paura. Voi pensate che se qui sorgesse una nuova città, le bombe ricomincerebbero a piovere dal cielo, e voi sareste indifeso sotto di esse. Avete detto ai contadini che non avreste fatto niente per fermarli?…» «Taci!» gridò il giudice, e sollevò la mano. Len si fermò, e si mise in ascolto. E così fecero gli uomini che si trovavano sotto gli alberi e sui moli. Esaù uscì dalla porta. E, al magazzino, gli operai posarono i loro martelli, uno dopo l’altro. C’era un suono che pareva un canto lontano. Era debole, ma questo era soltanto perché il suono veniva da molto, molto lontano. Era profondo, sonoro; un suono maschio, marziale e terrificante, che veniva con la solenne inevitabilità della tempesta che non si ferma né devia dalla sua strada. Len non riuscì a distinguere le parole, ma dopo avere ascoltato per qualche minuto, capì di che cosa si trattava. ’I miei occhi hanno visto la gloria della venuta del Signore.’ «Addio, Len,» disse il giudice, e se ne andò, camminando con la testa eretta e il volto pallido e inflessibile sotto il sole ardente di luglio. «Dobbiamo andare via,» bisbigliò Esaù. «Dobbiamo lasciare questo posto». Ritornò precipitosamente in ufficio, e Len sentì che i suoi piedi si muovevano velocissimi sulla scaletta di legno, per raggiungere la soffitta. Len esitò per un momento. Poi cominciò a correre, in direzione della città, verso l’inno lontano che si avvicinava sempre di più. Ho preparato un vangelo di fuoco scritto su file di acciaio brunito… Gloria! gloria! Alleluia, la Sua verità è in marcia. Un nodo di paura stringeva ora lo stomaco di Len, un nodo stretto e freddo, e l’aria soffocante si era trasformata in ghiaccio, una morsa di ghiaccio che serrava la sua pelle. La Sua mano ha mutato il fuoco in gelo, Alleluia! Anche gli uomini che si trovavano sui moli e sotto l’ombra degli alberi si muovevano, percorrendo altre strade, dapprima incerti, poi sempre più decisi, e poi anch’essi si misero a correre. Tutti erano usciti dalle loro case, tutti coloro che erano rimasti a Refuge. Donne, vecchi, bambini, che non avevano scelto la via delle campagne e il barcollare pesante dei carri, ascoltavano, si chiamavano a gran voce, chiamavano gli uomini che correvano per le strade, chiedendo cosa stesse accadendo, chi stesse arrivando. Gli eserciti del Signore sono in marcia, una spada infuocata ha bruciato la Terra, lode alla spada ardente del Signore, Alleluia, Alleluia! Len giunse precipitosamente nella piazza, e un carro passò davanti a lui, rotolando veloce sulle ruote, così vicino che la schiuma intorno al morso del cavallo lo spruzzò. C’era un’intera famiglia sul carro, l’uomo ritto a cassetta, con lo sguardo di un folle, con la mano alzata per far schioccare la frusta, con le donne che urlavano abbracciate, dietro, e i bambini stretti e piangenti. C’era della gente nella piazza, gruppetti divisi, alcuni si dirigevano verso la strada che portava a settentrione, altri correvano smarriti, senza mèta, donne che chiedevano se qualcuno avesse visto i loro mariti e i loro figli, chiedendo, sempre chiedendo, cosa succede, cosa sta accadendo? Len correva tra quella gente smarrita, verso la strada di settentrione, la grande arteria che portava a nord. Dulinsky era là, ai confini del paese, dove la grande strada polverosa solcava i campi di grano quasi maturo per la mietitura. C’erano circa duecento uomini con lui, armati di bastoni e di sbarre di ferro, con fucili e moschetti, con picconi e asce. Avevano l’aspetto risoluto e ansioso. Il volto di Dulinsky, arrossato dal sole, era rosso solo in superficie. Sotto l’abbronzatura era pallido. Continuava a strofinarsi le mani sui pantaloni, passando il pesante bastone da una mano all’altra. Len si fece avanti, si mise accanto a lui. Dulinsky gli lanciò un’occhiata, ma non disse niente. La sua attenzione era rivolta a nord, dove un compatto muro di polvere giallo-bruna avanzava, spandendosi attraverso la strada e sul grano. Il suono dell’inno giungeva da quella parete in marcia, con un ritmico calpestio di piedi, e attraverso i contorni si distinguevano dei bagliori, qua e là, come se lucenti superfici di metallo riflettessero il sole. «È il nostro paese,» disse Len. «Non hanno alcun diritto su di esso. Possiamo batterli». Dulinsky si asciugò il viso sulla manica della camicia. Grugnì. Avrebbe potuto essere una domanda, o una risata. Len si guardò intorno, osservò gli uomini di Refuge. «Combatteranno,» disse. «Davvero?» domandò Dulinsky. «Erano tutti con voi, stanotte». «Questo era stanotte. Ora è giorno». Il muro di polvere veniva avanti, ed era pieno di uomini. Si fermò, e la polvere venne soffiata via dal vento, o si posò sul terreno, ma gli uomini rimasero, diritti, una grande macchia solida che sbarrava la strada polverosa, e traboccava ai lati, sul grano calpestato. I riflessi brillanti diventarono lunghe, ricurve lame di falci, e falcetti, e qua e là canne di fucile. «Qualcuno deve avere camminato tutta la notte,» disse Dulinsky. «Guardali. Ci sono tutti i maledetti contadini pidocchiosi di tre contee». Si asciugò di nuovo il viso, e parlò agli uomini che si trovavano dietro di lui. «State calmi, ragazzi. Non vi faranno niente». Fece qualche passo avanti, con espressione altezzosa e impassibile, con gli occhi che lanciavano rapidi sguardi saettanti di qua e di là. Un uomo dai capelli bianchi e dal severo volto abbronzato come cuoio antico si fece avanti per incontrarlo. Portava un fucile da caccia nell’incavo del braccio, e il suo passo era quello di un contadino, pesante e ondeggiante. Ma egli raddrizzò il capo, e gridò agli uomini di Refuge che attendevano sulla strada, e c’era qualcosa, nella sua voce aspra e stridente, che fece ricordare a Len il predicatore di quella notte. «Fatevi da parte!» gridò. «Non vogliamo uccidere, ma possiamo farlo, se vi saremo costretti, così fatevi da parte, in nome del Signore!» «Aspettate un minuto,» disse Dulinsky. «Solo un minuto, per favore. Questo è il nostro paese. Posso chiedervi quali interessi pensate di avere, qui?» L’uomo lo fissò duramente, e disse: «Non avremo città in mezzo a noi!» «Città,» disse Dulinsky. «Città!» Scoppiò a ridere. «Ora ascoltatemi, signore. Voi siete Noah Burdette, vero? Vi conosco bene, di vista e reputazione. Avete una grande fama di predicatore nella regione intorno ai Twin Lakes». Fece qualche altro passo avanti, parlando con tono gentile e calmo, come un uomo convinto di volgere a proprio favore la discussione. «Voi siete un uomo onesto e sincero, signor Burdette, e capisco che agite in base a informazioni che credete veritiere. Così sono sicuro che sarete contento di sapere che le vostre informazioni sono sbagliate, e non c’è alcun bisogno di ricorrere alla violenza. Io…». «La violenza!» lo interruppe Burdette. «Non è quella che io cerco, ma non indietreggio di fronte a essa, quando si tratta di combattere per una buona causa». Squadrò Dulinsky, lentamente, deliberatamente, con il volto duro come pietra. «Anch’io vi conosco, di nome e reputazione, e potete risparmiare il fiato. Volete tirarvi da parte?» «Ascoltate,» disse Dulinsky, e nella sua voce entrò una nota di disperazione. «Vi hanno detto che io tento di costruire una città, qui, ed è una pazzia! Io cerco solo di costruire un magazzino, e ne ho pieno diritto, come voi avete diritto di costruire un nuovo fienile. Non potete venire qui a darmi degli ordini, come io non ho il diritto di venire a farlo nella vostra fattoria!» «Io sono qui,» disse Burdette. Dulinsky si voltò, per un momento, guardando la strada alle sue spalle. Len si avvicinò a lui, come se avesse voluto dirgli che era al suo fianco. E poi il giudice Taylor si avvicinò, attraversando le fila disordinate e rade degli uomini di Refuge, dicendo: «Disperdetevi, tornate alle vostre case, e restateci. Non vi sarà fatto alcun male. Deponete le vostre armi, e tornate a casa». Tutti esitarono, guardandosi l’un l’altro, guardando Dulinsky e la solida massa dei contadini. E Dulinsky disse al giudice, in tono d’infinito disprezzo: «Voi, maledetta pecora vigliacca! Voi avete organizzato tutto questo». «Avete già fatto abbastanza danni, Mike,» disse il giudice, pallidissimo, ergendosi in tutta la sua statura. «Non c’è bisogno che tutti gli abitanti di Refuge ne soffrano. Fatevi da parte». Dulinsky guardò con ira prima lui, e poi Burdette. «Cosa intendete fare?» «Mondare il male,» disse lentamente Burdette, «Come il Libro ci dice di fare, bruciandolo col fuoco». «Per dirla in parole povere,» fece Dulinsky, «Voi intendete bruciare i miei magazzini, e tutte le altre cose che avrete voglia di bruciare. E io vi dico che non lo farete, accidenti a voi». Si volse, e gridò agli uomini di Refuge. «Ascoltatemi, idioti, credete che abbiano intenzione di limitarsi al mio magazzino? Faranno bruciare tutto il paese. Non capite che questo è il momento cruciale, quello che deciderà come vivrete per i prossimi decenni? Volete essere degli uomini liberi, o dei maledetti schiavi striscianti?» La sua voce si alzò, diventò un ruggito. «Avanti, combattete per le vostre case e per il vostro paese, che Dio vi maledica, combattete!» Si voltò, e si lanciò contro Burdette, sollevando il bastone sopra la propria testa, pronto a colpire. Senza fretta e senza pietà, Burdette alzò il fucile e sparò. Lo sparo produsse un rumore fortissimo, nel silenzio. Dulinsky si arrestò di botto, come se avesse urtato una parete solida. Rimase in piedi per un secondo o due, e poi il bastone gli cadde dalle mani, e le braccia gli ricaddero sui fianchi, contraendosi intorno allo stomaco. Le ginocchia si piegarono, ed egli cadde lentamente in ginocchio nella polvere. Len si lanciò avanti a sua volta. Dulinsky si volse a fissarlo, con un’espressione di immensa, attonita sorpresa. La sua bocca si aprì. Apparentemente, tentò di dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscì soltanto uno spruzzo di sangue. E poi, d’un tratto, il suo volto diventò vacuo e remoto, come una finestra quando qualcuno spegne la candela nella stanza. Cadde in avanti, e giacque immobile. «Mike,» disse il giudice Taylor. «Mike?» Guardò Burdette, e i suoi occhi cominciarono a dilatarsi. «Che cosa avete fatto?» «Assassino,» disse Len, e la parola era diretta sia a Burdette che al giudice. La sua voce si spezzò, e poi diventò un grido aspro. «Maledetto vigliacco assassino!» Sollevò i pugni, e si avventò contro Burdette, ma la linea dei contadini aveva cominciato a muoversi, come se la morte di Dulinsky fosse stata il segnale atteso, e Len venne travolto come un uomo caduto nel fronte di un’onda impetuosa. Burdette se ne era andato, e ora di fronte a lui c’era un giovane contadino tarchiato, con un lungo collo e le spalle curve e la stessa bocca del giovane che aveva gridato la sua accusa contro Soames. Brandiva un palo in mano, un palo come quelli usati per le staccionate dei pascoli, e lo calò sulla testa di Len, ridendo, una risata chioccia e frettolosa e sgradevole, e i suoi occhi scintillavano di un’immensa eccitazione. Len cadde nella polvere. Pesanti stivali passarono sopra il suo corpo, lo scalciarono, si mossero intorno a lui, come un’onda inarrestabile, coprendolo di lividi e di dolore e di polvere, ed egli si rannicchiò, istintivamente, proteggendosi la testa e il collo con le braccia, per non essere schiacciato. Era tutto molto buio intorno a lui, ora, come se fosse improvvisamente calata la notte, e gli uomini di Refuge erano lontanissimi, dietro a un velo tenebroso e ondeggiante, ma riuscì a vederli, mentre se ne andavano in tutte le direzioni, confondendosi nell’aria afosa, fino a quando la strada non fu deserta davanti ai contadini, e nulla più si frappose tra loro e il paese. E così essi avanzarono su Refuge nel pomeriggio soffocante e torrido, sollevando di nuovo la polvere della loro marcia, e quando la polvere si posò di nuovo erano rimasti soltanto Len, e il cadavere di Dulinsky disteso nella polvere e calpestato, a pochi metri da lui, e il giudice Taylor, in piedi, in mezzo alla strada, nella stessa posizione di prima, il giudice Taylor che stava fermo là, immobile, e fissava Dulinsky. |
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